ESPOSIZIONI DA MARTEDI' 27 CON RELATIVI TESTI - DDI

 1) ANDREA

Giovanbattista Vico, filosofo e saggista dai molteplici interessi,  nasce a Napoli nel 1668 e muore, sempre a Napoli, nel 1744. Di modeste origini, autodidatta e precettore, nel 1699 insegnò eloquenza latina all’Università di Napoli, ma non ottenne la cattedra di diritto civile cui tanto ambiva. Nel 1732 fu nominato storico di corte. Morì dopo una vita trascorsa nelle ristrettezze e senza riconoscimenti adeguati al contributo che le sue ricerche in effetti forniranno alle epoche successive.

La sua fama è collegata  alla Scienza Nuova, stampata una prima volta nel 1725, riscritta poi nel 1730 e ripubblicata definitivamente nel 1744. Fu un grande ammiratore dei filosofi Bacone e Grozio. La natura secondo Vico, in quanto creata da Dio, è inaccessibile, mentre del tutto comprensibile all’uomo la cultura, che è un suo prodotto. Gli strumenti di cui si serve Vico per  pervenire alla comprensione della cultura umana sono la filosofia e a filologia, ovvero lo studio del pensiero e delle forme letterarie prodotte nelle varie stagioni della storia umana. Il suo saggio Scienza Nuova si esprime in merito, suddividendo la storia umana in fasi. La cultura umana è compresa da Vico come il passaggio dell’umanità, dallo stato ferino iniziale a una struttura patriarcale, degli eroi, organizzata secondo il modello di una società aristocratica, e infine degli uomini, nella quale si elaborano scienza e filosofia, si realizzano le istituzioni civili e si afferma la legge come condizione della convivenza. Nella storia Vico individua il passaggio delle nazioni e delle civiltà attraverso questi stadi. La “storia ideale eterna” così individuata rappresenta quindi lo schema essenziale di evoluzione cui lo svolgimento reale tende complessivamente, ma non necessariamente, ad adeguarsi. 

Fondamentale contributo di Vico fu l’importanza  ch'egli attribuì allo studio dei miti dei popoli primitivi, come analisi della cultura umana in senso antropologico, nella quale è decisiva la creazione poetica. Per Vico il linguaggio e la poesia sono espressione diretta dell’animo umano e delle sue forme mentali, in cui si manifestano la fantasia e il sentimento immediato del primitivo.

Già intorno all’VIII sec. a. C. nel mondo greco circolavano raccolte di canti, che venivano chiamati eroici perché celebravano le imprese degli eroi, come l'Iliade, che era il poema di Ilio, e  l'Odissea, il poema di Odisseo. Queste raccolte di canti inizialmente si pensava che fossero state create da un cantore cieco, Omero, sulla cui biografia gli antichi ci hanno tramandato molte notizie, in molti casi anche in contrasto fra loro. Oggi noi sappiamo che questo poeta di cui ci parla la tradizione, in realtà non è mai esistito; gli antichi invece non dubitavano della sua esistenza e, oltre a questi poemi, gli attribuivano altre opere, fra cui gli Inni e la Batracomiomachia che era la Battaglia delle rane e dei topi.

L’analisi di tutte le opere circolanti sotto il nome di Omero, ebbe inizio in epoca ellenistica. Fu allora che, per la prima volta, si cominciò a mettere in dubbio l’attribuzione a Omero delle cosiddette opere minori quindi gli venne riconosciuta la “paternità” solo dell’Iliade e dell’Odissea.

Alcuni, come i grammatici Zenone ed Ellanico, giunsero alla conclusione che solo l’Iliade fosse opera di Omero, in contrasto con l’idea di Aristarco di Samo, il quale considerava il poeta autore di entrambe le opere. Prevalse la tesi di Aristarco, e per secoli la paternità dei poemi non fu più messa in discussione, anche perché, durante il Medioevo, nell’Europa occidentale, si perse del tutto la conoscenza della lingua greca, e perciò Omero era noto solo grazie alle citazioni degli autori latini. Gli studiosi e i letterati europei ripresero ad occuparsi di Omero nel 1664, quando l’abate francese François Hédelin d’Aubignac scrisse un saggio in cui negava l’esistenza del poeta e sottolineava la mancanza di unità interna nei poemi; a suo giudizio, essi non si potevano considerare opere unitarie, ma un insieme eterogeneo di canti staccati. A conclusioni abbastanza simili giunse, quasi un secolo dopo, appunto Giambattista Vico. Anche lui, pur senza conoscere le tesi dell’Abate, pensava che Omero non fosse mai esistito: egli non sarebbe stato che una figura fittizia, un’invenzione, mentre il vero autore dei due poemi sarebbe stato il popolo che, che grazie alla sua fantasia creatrice, avrebbe dato vita ai personaggi e alle storie dell’epopea greca. Iliade e Odissea quindi sarebbero state, esempi di poesia popolare, e il nome di Omero un simbolo creato dal popolo greco stesso.

Attualmente, accertato in via definitiva che l’Iliade è anteriore all’Odissea, e che in ambedue i poemi coesistono parti più antiche e parti più recenti, gli studiosi sono d’accordo nel ritenere le due opere come il prodotto dell’elaborazione di un vasto materiale tramandato oralmente, condotta da almeno due diversi poeti. Essi, secondo alcuni, si sarebbero limitati a raccogliere, sistemare e trascrivere il materiale già esistente, mentre, secondo altri, avrebbero compiuto un lavoro ben più decisivo, trasformando la poesia epica giunta sino a loro in qualcosa di nuovo e profondamente diverso. Entrambe le ipotesi presentano elementi degni di interesse, e la questione omerica appare destinata a rimanere ancora un problema aperto, mancandoci la possibilità di confrontare i poemi nella loro forma attuale con i canti epici che li hanno sicuramente preceduti.


NOTA 

L'originalità di Vico consiste nell'aver precocemente, ovvero prima che se ne trovassero conferme anche a livello archeologico nel periodo otto-novecentesco, ipotizzato che determinati prodotti artistici, in questo caso i poemi Iliade Odissea, siano stati elaborati da una sorta di "mente collettiva", da un popolo unito dal punto di vista culturale, ovvero provvisto di una sensibilità e di una visione del mondo uniforme. Lasciando da parte il fatto che si tratti, appunto, di un'ipotesi comunque indimostrabile, se ne può cogliere la portata in termini di rappresentazione della storia umana: oltre a esistere la dimensione individuale, esiste anche quella collettiva, che può in certi casi perfino diventare universale. In questo risiede, una volta di più, il senso della produzione artistica, che riesce a farsi tramite di comunicazioni, dal passato in direzione del futuro, che riuniscono valori, sentimenti, memorie di atti e di parole, altrimenti distrutti dal tempo. Con la sua rappresentazione della storia umana come un calco di quella individuale (dall'infanzia alla maturità) Vico ha proposto all'attenzione degli studiosi contemporanei una prospettiva di studio dell'arte antica suggestiva e pregnante: ascoltarne i pensieri e la voce, come se fossero espressione di un popolo intero e non di un singolo. Una lezione che, nel momento he stiamo vivendo, può risultare di particolare importanza.  

CB


2) FRANCESCO

ELENA NEL MITO 

Nata da un uovo, in quanto frutto d’un connubio fra Zeus in veste di 

cigno, e di Leda, Elena nel mito è collegata alla vicenda sanguinosa della 

lunghissima guerra di Troia, che oppose su fronti opposti Achei e Troiani. 

In occasione della scelta del marito, Elena, ovviamente desiderata da tutti per la sua straordinaria bellezza, creò molti scompigli all’interno della società perché tutti i nobili Achei se la contendevano. Certamente tale bellezza, comparabile a quella di una dea,  è al centro di alcuni episodi tramandati come altrettanti miti: il rapimento della donna da parte di Teseo, che rende poi necessaria la sua liberazione da parte dei fratelli Polluce e Castore, sicuramente può essere considerato come uno di quelli maggiormente ripresi nella tradizione, ma quello più importante e conosciuto, in quanto direttamente connesso con l'Iliadeomerica, è la fuga con Paride. 

Paride, giunto in visita a Sparta in veste di ospite straniero, non appena vide la moglie di Menelao,  rimase incantato dalla sua bellezza. Un'irresistibile attrazione, ma soprattutto il destino che aveva iniziato a tessere la sua tela in occasione dell'altrettanto famosa contesa fra dee per ottenere la palma di più bella (il noto pomo della discordia), produssero la fuga dei due dalla corte di Menelao. Tale fuga si palesò  come un atto d'infrazione delle leggi dell' ospitalità e produsse anche l'ira delle divinità protettrici degli Achei, destinata a produrre effetti per tutta la durata degli eventi descritti nell'Iliade e anche oltre.

I principi achei si schierarono immediatamente al fianco di Menelao nella dichiarazione di  guerra a Troia, la città di Paride, figlio del re Priamo.  


ELENA NELL’ILIADE 

Omero nell’Iliade descrive Elena come una donna infelice, consapevole del fatto di essere la causa di tanti morti. Nell'episodio che culmina con la

teicoscopia,  nel libro III del poema, il personaggio di Elena si arricchisce di sfumature psicologiche: la donna si rammarica di essere fuggita con Paride, di aver abbandonato familiari e amici, nonché di essere diventata causa di tante stragi.   In tal modo Elena riesce a diventare una sorta di simbolo universale, sottraendosi a un appiattimento dell'intendimento che la vuole solo trasformata in una causa di guerra: rappresenta l'essere umano travolto da un destino che tesse le sue tele a dispetto di qualunque volontà individuale. Elena non è stata libera di scegliere ciò che, suo malgrado, è diventata: una donna fatale, ovvero uno strumento del destino. 

Nello stesso episodio, viene anche approfondito il carattere dell'anziano  re troiano, Priamo, il quale prova  compassione per la donna e trova persino parole di consolazione per lei, che accenna al proprio suicidio come a una decisione che, presa prima che succedesse tutto, avrebbe evitato il massacro. Pur nelle differenti posizioni, che teoricamente dovrebbero renderli reciprocamente ostili, Elena e Priamo sono disposti a parlarsi e a comprendersi, anche se poi il fato assegna loro ruoli che, nel seguito della vicenda, li porteranno a non incontrarsi mai più. 

3) ETTORE

IL DOLORE DEL RITORNO: UN LUNGO VIAGGIO PER PLACARE LA NOSTALGIA

 

1. ETIMOLOGIA DI NOSTALGIA 

Il termine “nostalgia” è composto da due parole greche: nòstos, ritorno e àlgos, dolore. La nostalgia è quindi il dolore causato dall’impossibilità o dalla difficoltà di tornare nella propria terra, che poi si complica ulteriormente trasformandosi in impossibilità di tornare al passato. SI tratta insomma di un sentimento profondo, che è in stretta relazione con la memoria. 

 2.LA NOSTALGIA IN UNA PROSPETTIVA LETTERARIA E ESISTENZIALE

Nell epica greca la nostalgia è soprattutto il desiderio che i combattenti hanno di tornare a  casa  dopo laguerra per eccellenza, ovvero quella che oppone Achei e Troiani. A essere protagonisti dinostoi sono dunque per cominciare gli Achei, che si sono dovuti imbarcare per la Troade. Ilnostos più celebre è quello di Ulisse, naturalmente, e l'interaOdissea si può considerare un articolatonostos. Desiderare di tornare a casa implica tante cose: voler rivedere una persona, un luogo, una situazione, che però non potrà mai essere lo stesso  che si ricordava. Il tempo trascorso è il principale responsabile di questa trasformazione che accresce le distanze: le cose cambiano, le persone cambiano e il mondo va avanti. Si è nostalgici di un ricordo che riguarda il passato, il quale, ovviamente, non si può ripetere.  

La nostalgia è anche un sentimento collegato con la distensione, col riposo dello spirito: ci si mette in uno stato di quiete e si riportano alla mente luoghi e situazioni del passato nei quali si è provato benessere o addirittura si è stati felici.  Possiamo quindi dedurre che la nostalgia è anche associata alla speranza, che tale stato di quiete alimenta, di poter riprodurre un momento della vita passata o recente che, appunto, ci ha consentito di stare bene, rendendolo di nuovo presente. Invece, la “traslazione del passato” nel presente è impossibile da realizzare, ed è per questo che la nostalgia, alla fine, non può che provocare delusioni. 

In alcuni casi, addirittura, il ritorno nel luogo atteso, non coincide col riconoscimento del medesimo, perché appare troppo cambiato, non sembra più lo stesso di prima, non  sembra il nostro, ovvero l'atteso e desiderato, quello in cui si sperava di tornare.  

Sorge dunque un sentimento persino conturbante, che confonde lo spirito, alimentando tristezza e ira, ma soprattutto un senso di impotenza. Non sarà mai possibile riavere quello al quale si è teso con ogni sforzo, perché non esiste più, se non nella memoria.  

 3LA NOSTALGIA NELL’ODISSEA 

Il primo nostalgico nella storia della letteratura è stato Ulisse: mentre viaggiava attraverso i mari vivendo le avventure che sono narrate nell’Odissea, egli non poteva fare a meno di rivolgere il proprio pensiero a Itaca, la sua patria 

Alla fine del viaggio di ritorno, quasi arrivato a Itaca, Ulisse, imbarcato sulla nave dei Feaci donatagli dal re Alcinoo, cade in un sonno profondo, simile alla morte, che gli permette di dimenticare tutti i dolori, le ansie, i dieci anni di stanchezza e di disperazione. Non fa sogni, non gli appare nessuna immagine, nessuna voce che gli dica cosa accadrà a lui e ai suoi compagni. Sperimenta che il Sonno è fratello della Morte: questi, sono due dèi dolcissimi ma anche terribili. 

La nave arriva a Itaca prima dell’alba: c’è un nuovo porto e moltissime cose sembrano cambiate. I Feaci ripartono perché forse devono raggiungere Scheria prima che si faccia  giorno. Ulisse ancora dormiente viene sollevato e lasciato  sulla riva, nella sabbia. Quando finalmente  si sveglia, si guarda intorno ma non riconosce la patria. Ulisse viene poi  accolto sulla spiaggia da Atena, che sembrerebbe aver ripreso ad accompagnarlo e a proteggerlo. Atena fa sì che Itaca sia ricoperta da una fitta nebbia affinché Ulisse non riconosca la sua amata Itaca, esattamente come, da lì a poco, lui stesso non sarà riconosciuto da nessuno, ad eccezione del famoso cane Argo. A parte il significato narrativo di questo, l'importante da segnalare per l'indagine sulla nostalgia, è che tutto deve sembrargli estraneo, opposto a ciò che possa essere ritenuto noto e atteso. Atena, pertanto,  con un atto magico trasforma la realtà: questo può alludere al fatto che  Ulisse potrà tornare davvero  a Itaca,  solo dopo averla considerata straniera. Quando avrà perso ogni speranza di poter tornare in patria, solo allora ritroverà Itaca e non potrà perderla mai più. Quello che per la dea è una specie di espediente funzionale all'operazione complessa di riappropriarsi del potere, usurpato dai Proci,  riempie Ulisse di dolore.  SI tratta tuttavia di una breve parentesi:  Atena, con un gesto magico, dissolve la nebbia e Itaca che sembrava perduta viene ritrovata,  per la felicità di  Ulisse che, come tutti i reduci da lunghe lontananze,  bacia la terra natìa per la  felicità. 

Questa immagine correda suggestivamente l'indagine sulla nostalgia proposta poco fa: per quanto il sentimento nostalgico sia stato a lungo coltivato (anni e anni, nel caso di Ulisse), al  ritorno nel luogo desiderato si può essere invasi da una sensazione inattesa, quella di non essere mai stati lì. Ulisse certo  non riconosce Itaca a causa della fitta nebbia evocata da  Atena, ma essa  potrebbe ben  rappresentare metaforicamente il tempo trascorso, il vero ostacolo che impedisce a Ulisse di riconoscere la sua patria. Al dissolversi della nebbia, come un'immagine obliata che sorga dall'inconscio, l'isola amata viene riconosciuta e solo allora la nostalgia si placa.   

 4. LA NOSTALGIA NELL’ILIADE 

Nell’Iliade,un esempio in cui compare il sentimento di nostalgia, si trova nell'episodio del III libro in cui Elena, durante il duello tra i due eroi greci Paride, figlio del re di Troia Priamo, e suo rapitore,  e Menelao, l'ex marito,  nonché fratello minore del re di Sparta Agamennone. 

Il duello si svolge al di sotto delle mura di Troia e, dall’alto delle stesse mura, a osservare il campo sono gli anziani della citta, insieme a Priamo e, a un certo punto, a  Elena, da lui invitata ad assistere. La dea Iride appare nelle sembianze di Laodice, una figlia di Priamo e trova Elena mentre tesse una tela. La invita a vedere “lo spettacolo” dalle mura di Troia, ovvero lo scontro tra Paride, il nuovo marito, e Menelao, il vecchio, che si contendono la giovane Elena come ricompenso per la vittoria. Iride infonde nell’animo di Elena una nostalgia insopportabile, e lei, l'icona della bellezza del mondo greco,  piange, silenziosamente.  

Elena raggiunge le mura dove vi sono gli anziani e Priamo. La fanciulla, vedendo l’ex marito Menelao, rimpiange la sua vecchia vita: aver lasciato sua figlia le spezza il cuore e vorrebbe tornare dai suoi genitori e nella sua città d’origine, Sparta. Gli anziani sulle mura, vedendo Elena rimangono stupiti dalla sua straordinaria bellezza e capiscono perché teucri e achei combattano per lei. Dopo l'iniziale espressione di ammirazione, gli anziani convengono che Elena dovrebbe tornare da dove è venuta con le navi dei nemici, così da concludere questa guerra che sta causando troppe vittime. Priamo, però, nient'affatto superficiale rispetto a questi personaggi di contorno, accoglie Elena come una figlia e la invita a sedere proprio al suo fianco, su un trono probabilmente regale. Il re mostra di aver ben inteso che la responsabilità della strage non sia di Elena, bensì del fato, del destino alla quale è stata sottoposta dagli dei. Priamo si dimostra in questa riflessione, un uomo saggio.  

Elena, percependo l'affetto di Priamo verso di lei, manifesta un forte pentimento di non essersi tolta la vita prima di partire con Paride: la guerra non ci sarebbe stata e migliaia di persone non sarebbero morte a causa sua. Elena suppone che se si fosse suicidata, la decisione sarebbe stata sua e non dal fato, però se il fato l’avesse voluto, lei l’avrebbe fatto, mentre invece ciò non accadde. Anche questa volta si rende conto di essere solo vittima del fato. Tutte le sue decisioni sono state prese dagli dei, che hanno segnato il suo destino per sempre. Elena si rende conto di provare sentimenti reali solo nel momento in cui piange e capisce di preferire il possente e valoroso combattente Menelao, anziché il pavido Paride. 

Nel momento in cui Elena assiste al duello tra i due, ritorna in sé, e torna ad essere in balia del destino, preferendo nuovamente Paride a Menelao. 

Dunque la nostalgia di Elena consiste nel voler riprodurre  la sua vita precedente nel presente e riprendere a vivere assieme a Menelao. Quella di Elena è insomma una doppia prigionia, a opera del destino ma anche del tempo, che non consente a nessuno di tornare indietro. 

4) ALBERTO

UN RE SAGGIO, GIUSTO E SEGNATO DAL FATO

Il re Priamo, sovrano di Troia,  compare, con un certo rilievo, nella mitologia greca nell’Iliade di Omero, dove è uno dei protagonisti della guerra di Troia. Viene descritto dal poeta come un uomo molto saggio, buono e giusto. Da fonti differenti dall’Iliade di Omero, apprendiamo che Priamo ebbe un’infanzia molto complicata: molti suoi fratelli e suo padre morirono in battaglia contro Eracle, il famoso e potente semidio greco. Dopo tale sconfitta, che causò innumerevoli morti, Priamo divenne il successore al trono. Il nome Priamo, che significa “il riscattato”, gli venne attribuito dopo essere stato riscattato da un compagno di Ercole come schiavo per poi venire liberato. Dopo essere salito al potere di Troia partecipò in veste di valoroso guerriero a diverse battaglie. Però, durante la guerra di Troia, come racconta Omero, Priamo era già molto anziano e non potè aiutare in battaglia i suoi figli e il proprio popolo. Durante il periodo della guerra, uscì solo due volte dalle mura della città per atti fondamentali per il racconto omerico, come sancire lo scontro tra Paride e Menelao e chiedere a Achille la restituzione del corpo del figlio Ettore. Quest’ultimo evento è raccontato con molti dettagli descrittivi da Omero: narra che Priamo si reca alla tenda di Achille, su consiglio di Giove,  per incontrare l’invincibile guerriero acheo. Il re troiano si inginocchia e gli rivolge un discorso saggio e commovente, che culmina con la richiesta di restituzione del corpo di suo figlio, al quale Achille aveva fatto subire l’oltraggio di essere a lungo trascinato da un carro nella polvere. Gli chiede pietà e di pensare a cosa sarebbe successo a parti invertite, ovvero quale sarebbe potuto essere il dolore di suo padre  nel caso in cui a morire fosse stato lui invece di Ettore. A questo punto Achille aiuta Priamo a rialzarsi e si dispone a restituirgli il corpo. Dopo aver ottenuto il cadavere di suo figlio Ettore, Priamo patteggia anche una tregua della guerra per celebrarne il funerale. Infine, assieme a Ideo, un anziano araldo che lo ha accompagnato in questa pericolosa missione presso l’iracondo Achille, seguendo il consiglio di Ermes, si allontanano furtivamente dal campo acheo, per evitare il rischio di incontrare Agamennone, il quale avrebbe potuto catturarlo e richiedere un elevato riscatto ai Troiani per la sua restituzione. All’alba del giorno seguente, arrivano dunque su un carro a Troia, pronti per i funerali. 

Il ritratto di Priamo si arricchisce, grazie a questo incontro con Achille, di nuovi dettagli. Gia nel III libro, durante lo scambio di parole con Elena sulle mura di Troia, egli aveva mostrato di possedere un animo comprensivo e generoso, dal momento che non aveva rivolto a Elena parole di rimprovero, tese a farla sentire colpevole del massacro, ma viceversa, le aveva comunicato la sua comprensione. La saggezza di Priamo deriva anche dal fatto di aver sopportato con grande forza d’animo l’innumerevole serie di lutti familiari. Tale forza lo sorregge poi fino alla fine, quando, in prossimità della distruzione totale della città, assiste alla feroce uccisione del giovane figlio Polito, e va incontro alla morte per mano del crudele e violento figlio di Achille in un ultimo, estremo e del tutto simbolico, tentativo di vendicare la propria progenie. 

Ratta, come del turbine le penne, 
Partì la Diva messaggiera, e a Príamo 
Giunta, il trovò tra pianti e grida. I figli 
Dintorno al padre doloroso accolti 
Inondavan di lagrime le vesti. 
Stavasi in mezzo il venerando veglio 
Tutto chiuso nel manto, ed insozzato 
Il capo e il collo dell’immonda polve 
Di che bruttato di sua mano ei s’era 
Sul terren voltolandosi. La turba 
Delle misere figlie e delle nuore 
Empiea la reggia d’ululati, e quale 
Ricordava il fratel, quale il marito, 
Chè valorosi e molti eran caduti 
Sotto le lance degli Achei. Comparve 

Improvvisa davanti al re canuto 
La ministra di Giove, e a lui che tutto 
Al vederla tremò, dicea sommesso: 
   Príamo, fa core, nè timor ti prenda. 
Nunzia di mali non vengh’io, ma tutta 
Del tuo meglio bramosa. A te mi manda 
L’Olimpio Giove che lontano ancora 
Su te veglia pietoso. Ei ti comanda 
Di redimere il figlio, e recar molti 
Doni ad Achille per placarlo. A lui 
Vanne adunque, ma solo, e che nessuno 
T’accompagni de’ Troi, salvo un araldo 
D’età provetta, reggitor del plaustro 
Che il corpo trasportar del figlio ucciso 
Ti dee qua dentro: nè temer di morte 
O d’altra offesa. Condottiero avrai 
L’Argicida che te fino al cospetto 
D’Achille scorterà. Lungi l’eroe 
Dal trucidarti, terrà gli altri a freno. 
Ei non è stolto nè villan nè iniquo, 
E benigno farassi a chi lo prega. 

 

Veloce come un turbinio d’ali 

Partì la Dea messaggera e arrivò da Priamo. 

Una volta arrivata trovò pianti e urla. 

I figli stavano attorno al padre dolorante,  piangendo fino a bagnare gli abiti. 

In mezzo a loro si trovava il vecchio amato 

Avvolto nel suo mantello, sporco tra il capo e il collo 

Di polvere e terra dopo essersi rotolato 

Il dolore delle figlie e delle nuore riempiva la dimora di urla e grida 

Le quali ricordavano ai fratelli e ai mariti le urla dei tanti Troiani valorosi che caddero nella battaglia contro gli Achei. 

Davanti al vecchio re comparve la messaggera di Giove e disse a lui che al vederla tremò: 

“Priamo non spaventarti  

Poiché non vengo ad annunziarti nulla di male 

Ma desiderosa che tutto vada per il meglio 

Mi manda da te Giove, che ancora da lontano ti protegge 

E ti ordina di chiedere indietro il corpo di tuo figlio dando una degna ricompensa ad Achille 

Quindi vai da lui, da solo, senza che nessun troiano ti accompagni se non un araldo di età avanzata che sappia condurre un carro per trasportare il corpo di tuo figlio. Non devi avere paura della morte o di altri pericoli. 

Verrai accompagnato da Ermes che ti scorterà fino ad incontrare Achille 

L’eroe non vorrà ucciderti e terrà a bada gli altri 

Lui non è stupido, villano o ingiusto e diventerà clemente verso chi lo prega. 

 

 5) JACOPO

Alessandro Paride 

Paride, detto anche Alessandro, è una figura della mitologia greca, figlio secondogenito di Priamo, re di Troia, e di Ecuba. Secondo la tradizione più accettata, Priamo, re di Troia, all'indomani della sua salita al trono, aveva cinquanta figli, la maggior parte dei quali illegittimi. Come afferma egli stesso nell’Iliade, diciannove di essi erano però frutto di una sola donna,  la regina Ecuba. La nascita di Paride da Priamo e Ecuba è poi confermata anche in altri poemi, successivi all'Iliade.Un'altra vicenda che lo coinvolge, ed è ampiamente confermata dalle tradizioni, è il duello con Menelao, nel corso del quale a salvargli la vita è l'intervento di Afrodite; analogamente, trova conferma in vari luoghi narrativi il racconto dell'uccisione di Achille, avvenuta per mano sua, ma con l'aiuto determinante di Apollo.

La predizione di Ecuba, l'abbandono e il riconoscimento di Cassandra 

Una notte, poco prima della sua nascita, Ecuba sognò di partorire una fascina di legna ricolma di serpenti striscianti, e una fiaccola ardente che divampava appiccando fuoco alla città e ai boschi del monte Ida. Priamo consultò Esaco, suo primogenito, il quale profetizzò che il bambino prossimamente partorito da Ecuba avrebbe provocato la rovina della città, e consigliò di abbandonarlo appena nato. Sul seguito della vicenda le tradizioni mitiche divergono: secondo alcune,il neonato sarebbe stato abbandonato sui monti e per miracolo salvato da un pastore, di nome Agelao

La tradizione mitica rappresenta Paride come un giovane di notevole bellezza e forza, il cui svago prediletto da ragazzo consisteva nel far lottare i tori di Agelao l'uno contro l'altro. Quando cominciò a verificare che uno di questi tori vinceva più frequentemente, propose una sfida ai tori delle mandrie dei dintorni, vincendo contro tutti. Paride allora promise di coronare d'oro il toro che riuscisse a vincere contro il suo, finché Ares accettò la sfida e, in sembianze di toro, vinse. Allora Paride lo ricompensò con la corona promessa, conquistando con questo gesto il favore degli dei. 

Qualche tempo dopo, Priamo mandò alcuni suoi uomini a procurarsi un toro nella mandria di Agelao. Quando la loro scelta ricadde sul toro campione, Paride fu colto dall'irresistibile desiderio di gareggiare ai giochi. Agelao e Paride decisero di recarsi a Troia, dove Paride decise di misurarsi in uno scontro e conseguì la corona più per merito del suo coraggio che della sua bravura. Vinse anche la gara di corsa, procurando lo sdegno dei figli di Priamo. Imbarazzati per la pubblica umiliazione che il ragazzo aveva loro inflitto, i principi complottarono di ucciderlo. Paride si rifugiò allora nel tempio di Zeus, e  Agelao rivelò  a Priamo che il ragazzo era il figlio che credeva perduto. Priamo consultò pertanto Ecuba, la quale riconobbe Paride, che venne accolto a palazzo. Tuttavia quando i sacerdoti di Apollo appresero delle manifestazioni di entusiasmo del re, protestarono, annunciando che se nessuno avesse inflitto al ragazzo una condanna a morte, Troia sarebbe stata distrutta. Ma Priamo non si curò di quello che suonava come un funesto vaticinio, proclamando: «Perisca pure Troia, ma non il mio bel figliolo». 

 Il giudizio di Paride: un antefatto della guerra di Troia 

Un giorno Paride, mentre pascolava le sue mandrie, vide avvicinarsi a lui tre bellissime donne (Era, Atena, Afrodite) scortate dal dio Ermes, il quale ripose nelle sue mani la mela d'oro destinata a quella che fosse stata giudicata la più bella delle tre, riportandogli l'ordine di Zeus di pronunciare un giudizio in merito. Il giovane considerò le promesse delle dee: Era gli assicurò che sarebbe diventato l'uomo più potente del mondo, se avesse dato a lei la vittoria; la stessa cosa fece Atena, promettendogli invece di diventare l'uomo più sapiente del mondo; infine Afrodite gli garantì il possesso della donna più bella che mai si fosse vista. La scelta di Paride ricadde, in virtù di questa allettante promessa, su Afrodite. 

 Per realizzare la promessa di Afrodite, dal momento che la donna più bella del mondo era all'epoca Elena, moglie di Menelao re di Sparta, Paride architettò un piano. Sfruttò per questo un'occasione offertagli dalle circostanze: si sarebbe recato a Sparta per patteggiare la restituzione di  Esione, sorella del re Priamo e avrebbe rapito Elena.  Con la complicità di Afrodite e di Eros suo figlio,  e per quanto ben due personaggi profetici, ovvero Cassandra e Eleno, predicessero l'evenienza di una sanguinosa  guerra se Paride fosse partito per Sparta, Priamo non volle ascoltare, e mandò il figlio a condurre le trattative.  

Fra i Troiani che tentarono di distogliere Paride dal rapimento di Elena figura, nei racconti mitici, anche Enea. Il fato, però, non ammetteva indugi e Paride, innamoratosi della donna al primo sguardo, la rapì e condusse a Troia. 


6) LISA

Vico e Scienza Nuova

Giambattista Vico è un filosofo nato a Napoli nel 1668. Dopo anni di studio travagliati, si laurea in giurisprudenza, per poi passare a insegnare eloquenza latina all’Università;sensibile alle nuove correnti della cultura europea, che si avviano in direzione illuminista a partire dall’inizio del secolo, nel 1719 abbozza una delle sue opere più importanti: Scienza Nuova. Ne pubblicherà tre versioni, ovvero Scienza nuova prima, seconda e terza rispettivamente negli anni 1725, 1750 e 1744. Per questa sua importante creazione però non riceverà i riconoscimenti adeguati fino all’età romantica. Tra gli estimatori di Vico in tale periodo, si annovera il poeta romantico Leopardi.

Da parte sua Vico è un ammiratore di Grozio, il quale ritiene che il diritto sia fondato sulla ragione e sia autonomo rispetto al volere divino. Vico esprime inoltre la sua avversione alla filosofia del matematico e filosofo Cartesio: secondo lui non può esistere una scienza che ritenga la natura soggetta a leggi, dal momento che questa, in quanto creazione di Dio, è impercepibile e inaccessibile al genere umano. Non è possibile comprendere la natura, né tantomeno interpretarla o attribuirle principi o schemi. Al contrario però, la cultura è attingibile dal pensiero umano, poiché suo prodotto.

Vico rifiuta dunque il razionalismo cartesiano, ed elabora la Scienza Nuova, nella quale elabora una sua teoria riguardo alla definizione di storia: questa, secondo il filosofo, non è altro se non la documentazione del percorso evolutivo della ragione dell’essere umano.

A tale proposito egli suddivide una storia ideale dell’umanità principalmente in tre fasi, corrispondenti anche ai periodi determinanti della vita di una persona.

La prima fase coincide con quella della percezione dell’ambiente circostante di un bambino, ed è quella primitiva, durante la quale la ragione è minimamente sviluppata e l’individuo è irrazionale e governato da un istinto primordiale. In questa fase l’uomo si riconosce collocato all’interno di un patriarcato, attribuisce agli interventi di una forza superiore tuto quello che gli risulta incomprensibile. Infatti, durante questo primo periodo della storia, gli uomini tendono a credere alle divinità che, con la loro onniscienza,

riescono a incarnare e giustificare ciò che è sconosciuto ad un essere primitivo.

La seconda fase è riconducibile alla fanciullezza, allorché la fantasia si fa spazio nelle menti degli uomini, che iniziano ad immaginare degli eroi, non più trascendenti, ma comunque con doti sovrumane. Ciò rispecchia perfettamente una società aristocratica composta anche da comuni soggetti, ma guidata da uomini con maggiore potere, desiderato, stimato e inaccessibile alla maggior parte degli individui. In questo periodo, spinte dall’immaginazione, iniziano a manifestarsi anche le produzioni poetiche. Infatti i poemi sono il perfetto esempio di queste ultime a contatto con una società che crede negli eroi.

Durante l’ultima fase, l’intelletto dell’essere umano ha finalmente modo di esprimersi totalmente, perciò il pensiero diventa molto più razionale. Si tende a non credere più in divinità o eroi, bensì nell’esistenza di semplici uomini, che per quanto forti, coraggiosi o stimati hanno la loro umanità come limite, e commettono errori. Durante questo periodo la civiltà è bene organizzata, ci sono istituzioni e i cittadini convivono con consapevolezza di essere circondati da propri pari. Nascono scienza e filosofia da un desiderio dell’uomo di spigare ciò che accade intorno a lui.

Vico elabora la Scienza Nuova spinto dallo studio dei miti antichi, che esprimono perfettamente l’animo umano. Così ha individuato i tre stadi dell’evoluzione dell’uomo, esplicitando tuttavia il fatto che durante la storia generalmente l’essere umano ci si è adeguato, ma queste fasi non sono rettilinee, spesso si verificano delle retrocessioni della ragione umana da cui il ciclo dell’evoluzione può ripartire.

7)  Luisa

 Elena e Paride

Elena e Paride sono due personaggi  della mitologia greca, presenti nel poema epico  dell’Iliade. Elena era figlia di Zeus e Leda, promessa sposa di Menelao, principe di Sparta. Dall’altra parte invece abbiamo Paride: secondogenito di Priamo, re di Troia.

L’Iliade inizia con l’organizzazione di un banchetto da parte del dio Zeus il quale però si scorda di invitare la dea della Discordia. La dimenticanza gli costa l’ira della dea che, per vendicarsi,  decide di lasciare sulla tavolata del banchetto il pomo della bellezza, una mela destinata alla più bella dea dell’Olimpio. La provocazione della dea della Discordia fa sì che si propongano per il ruolo di più bella dell’Olimpo ben tre dee: Afrodite, Era e Atena.  Zeus, al fine dei non inimicarsi nessuna delle tre, affida il compito di scegliere al giovane Paride, noto per la sua bellezza. Il principe di Troia sceglie, fra le contendenti,    Afrodite, in ragione del premio promesso:  la donna  più bella del mondo, che altri non è che Elena, moglie di Menelao.  

In seguito a questo antefatto,  Elena è costretta a lasciare la sua famiglia e diventare  moglie  del principe troiano.  Suo padre e  il fratello Ettore dichiarano Elena completamente asservita al fato e alla volontà degli dei, di conseguenza degna di rispetto, mentre  Menelao,  legittimo marito di Elena, nonché re di Sparta, è immediatamente indotto a muoversi contro Troia per vendicare il torto subito e riavere la moglie. Da qui la sanguinosa guerra fra Troia e Sparta ,  durata dieci anni.

Elena diviene così moglie del troiano Paride. Non percepisce la violenza del destino finché agisce sul suo animo la forza dell’amore nei confronti del bellissimo Paride. A un certo punto però, documentato nel III libro dell’Iliade, la dea Era, con lo scopo di far riavvicinare Elena e Menelao, le  trasmette il sentimento nostalgico di tornare dal marito, dalla famiglia e  nella sua città, Sparta. La nostalgia che Era insinua nell’animo di Elena la porta a una disperazione tale da farle rimpiangere di non essersi suicidata prima di fuggire con Paride.  Elena deve continuare a essere una vittima del destino, dato che la sua sorte è legata a quella della città di Troia, la cui fine è già stata decisa. Dalla lettura dell’Iliade si ricava l’idea che Elena non sia  certo responsabile volontaria della devastante guerra di Troia, che è piuttosto un evento necessario perché la storia tessuta dal fato si realizzi.

8) FEDERICO M. 

IL RUOLO DI PRIAMO, PARIDE E ELENA NELL’ILIADE 

 

Priamo, nella vicenda, è ormai anziano ed è il re di Troia, per questo motivo durante la guerra non combatte, ma si limita ad osservare. Paride, detto anche Alessandro Paride, è il figlio secondogenito di Priamo. Elena è considerata la donna più bella del mondo ed è la moglie di Menelao, re di Sparta. La donna è  figlia di Leda e Zeus. Infatti il dio si era innamorato della moglie di Tindaro, che era il re di Sparta, e siccome Leda cercava di opporsi al connubio,  si trasformò in un cigno per vincere le sue opposizioni e sedurla. Divenuta adulta, data la sua bellezza, erano in molti a chiedere la sua mano, e alla fine ella scelse Menelao che le aveva offerto molti doni.

In uno dei tanti miti che rappresentano varianti del tema del pomo della discordia¸si narra che, mentre si stava svolgendo un banchetto in occasione del matrimonio tra Peleo e Teti, tre dee (Era, Afrodite e Atena) iniziarono a discutere su chi delle tre fosse la più bella. Incapaci di pervenire a una soluzione del dilemma, decisero di interpellare in merito un uomo a sua volta bellissimo, ossia Paride,  che da questo momento assume un ruolo molto importante nella vicenda. Ognuna delle tre dee, per farsi scegliere, promise qualcosa: Atena  che non avrebbe più perso nessuna battaglia, Erache gli avrebbe conferito grandissimi poteri e Afrodite  l’amore della donna più bella al mondo. Paride scelse il terzo dono e da questo si originarono, nellordine, il rapimento di Elena a Sparta e la guerra tra questultima e Troia, dove Paride condusse Elena.

Elena, nonostante abbia avuto quattro figli da Paride, lo disprezza per la sua pavidità, mentre apprezza Ettore, alla morte del quale, infatti, ella prova un grande dolore. La morte di questo eroe dà origine a un episodio molto utile per tratteggiare il profilo del re Priamo, che si reca all’accampamento greco e prega Achille di restituirgli il corpo del figlio, per potergli tributare le esequie che merita.

Elena ha un ruolo importante soprattutto nella teicoscopia, lepisodio dell’osservazione dalle mura degli eroi achei. Paride e Menelao combattono per lei, e questo atto nel libro è inizialmente  introdotto dallallusione alla tela che Elena sta tessendo. L’atto di tessere una tela da parte delle protagoniste divine o umane ha la funzione di inserire un racconto nel racconto. In questo caso la tela che tesse Elena, nel momento in cui si presenta Iride con le sembianze della cognata Laodice, rappresenta le imprese di Troiani domatori di cavalli, Achei in tuniche di rame e i travagli che entrambi pativano per lei sotto le mani di Ares. Questa tela raccoglieva il senso di tutta la sua vita in quel singolo momento, che per il destino era diventata quasi come un corrispettivo del pomo della discordia: come se la potenza della dea Discordia continuasse ad agire, anche al di fuori dellepisodio originario.

Nellepisodio ha una precisa funzione la messaggera Iride, incaricata di far venire alla donna il desiderio di tornare da Menelao, dalla famiglia, nella sua città. Dunque in Elena inizia a crescere molta nostalgia verso tutto quello che ha perso nel momento in cui è stata rapita. Dentro di lei la nostalgia continua a crescere fino al punto di farla piangere. Però Elena quando si reca alle mura di Troia per assistere al duello, recupera tutta la sua regalità e viene vista da tutti come una dea.  Proprio vicino alle mura della città avviene l’incontro tra la donna e l’ormai anziano re troiano Priamo. Il re, in quanto anziano, non aveva partecipato alla guerra di Troia, ma era rimansto sulle mura con i suoi fratelli ad osservare ciò che accadeva nella battaglia. A questo punto, Priamo mostra compassione e si mostra rispettoso verso Elena, che come tutti non aveva potuto fare niente contro il suo destino. Infatti tutti incolpavano lei per lo scoppio della guerra, tutti tranne il re di Troia che sosteneva che la colpa sia solo di se stesso e che la donna non aveva non aveva fatto niente di male. Nel momento in cui Elena percepisce il sentimento di Priamo, inizia a crescere in lei il rincrescimento di non essersi uccisa quando ne aveva avuto l’opportunità, prima di abbandonare i fratelli,  il letto maritale e la sua figlia piccola.

 MARTINA

​IL CANTO INCANTATORE DELLE SIRENE

Le Sirene sono figure mitologiche prodotte dall'immaginario greco, che nel tempo sono state rappresentate in modi molto differenti tra loro. Nelle tradizioni più antiche, esse erano raffigurate con l'aspetto di una donna nella parte superiore del corpo e di un uccello in quella inferiore, mentre successivamente si tramutarono gradualmente in fanciulle bellissime con la coda di pesce al posto delle gambe, entrando poi, in questa forma, nella letteratura europea. La caratteristica più inquietante, che le rende ideali protagoniste di fiabe, è che di là dall'aspetto seducente, sono delle ammaliatrici, e in questa loro espressione possono anche diventare  portatrici di morte.

Risalendo alle più antiche rappresentazioni, nell’Odisseadi Omero, l’aspetto fisico non è   nemmeno particolarmente approfondito, mentre il poeta indugia sulle caratteristiche della loro voce, chiara e limpida, la quale emette una melodia che affascina e inganna i marinai che incautamente sbarcano sull’isola del “prato fiorito”. Circe le descrive a Ulisse come lemuse del mare, che con il loro dono,ipnotizzano e fanno cadere i marinai in un sonno profondo che li allontana dalla moglie e dai figli, non li fa tornare a casa, e in seguito, li fa morire.

La prova delle Sirene è la terzultima che Odisseo affronta con i suoi compagni. Egli ha combattuto con il ciclope Polifemo vincendolo con l’astuzia; si è scontrato con il potere sovrannaturale di Circe scampando grazie all’aiuto divino ; e si trova ora a confronto con un genere di prova diverso da tutte le altre: non il canto delle Sirene in sé, ma il confronto con sé stesso.

Il libro XII, dell’Odissea, racconta di quando Ulisse lasciò l’isola di Circe e, con i suoi compagni, navigò attraverso i mari fino ad arrivare al “prato fiorito” dell’isola delle sirene. Improvvisamente parve che la natura si fermasse: il vento non soffiava più, il mare era diventato calmo. L'impressione prodotta era quella anche di una paralisi temporale.  A mezzogiorno, sull’isola calò una quiete completa, poiché le sirene, come anche gli dei, si rivelavano soprattutto a quest’ora del giorno. Nel silenzio sovrannaturale, si sentiva solo la loro limpida voce.

Dai racconti mitici risulta che davanti all’isola delle sirene si fosse  fermata anche la nave degli Argonauti, che riuscì a superare indenne il pericolo grazie a Orfeo il quale, comprendendo quel che stava succedendo,  con  la cetra  intonò un canto vivace, in modo che nelle orecchie dei suoi compagni risuonasse la sua voce e non quella delle incantatrici.

Su altra rotta si muove la nave di Ulisse, approdando però a quegli stessi lidi: da Circe era stato messo in guardia sulle insidie del viaggio, e  la maga gli aveva anche suggerito il modo di difendersi dal canto delle sirene. L’eroe omerico, prima di giungere in prossimità dell’isola abitata dalle pericolose creature, per poterne ascoltare il canto, tappò dunque le orecchie dei compagni con la cera e si fece legare all’albero maestro della nave. Sentendo la voce delle sirene, Ulisse cominciò a dimenarsi furiosamente e a gridare, supplicando i compagni di liberarlo, ma questi ultimi, che avevano la cera nelle orecchie, non riuscivano a sentirlo. Spentosi lentamente il canto, egli tornò in sé e, vedendo, insieme ai compagni, i resti delle ossa dei marinai che non avevano resistito all’incantesimo sparsi sulle coste dell’isola, si rese conto del terribile pericolo scampato. Così ripresero il loro viaggio verso Scilla e Cariddi. Odisseo uscì quindi vittorioso da questa prova, nonostante fosse  stato fortemente tentato dalle incantatrici, le quali,  conoscendo l'irresistibile attrazione per lui del desiderio di sapere, gli avrebbero proprio promesso la conoscenza.

Come nel caso di  Polifemo e del   cavallo di Troia, Ulisse, per neutralizzare le Sirene, utilizza l’astuzia e l’inganno. Quando ode il canto di quelle che possono anche essere definite "muse marine", non pretende di affrontare  senza difese il fascino mortale della loro poesia: sfiora la morte, la evita grazie ai consigli della maga, e ottiene la sua ricompensa. Ascolta, lui solo, la rivelazione che aveva condotto tanti alla morte. L'arte di vivere propria di Ulisse si manifesta così: egli  affronta il rischio e all’ultimo  esce indenne dalla prova.

9 ) ELEONORA

                                                  

Le Sirene nell’antichità sono sempre state rappresentate in tantissimi modi diversi, con forme non umane, suonatrici di lira e flauto e persino come demoni dell’oltre tomba.

Omero, invece, non si concentra sul loro aspetto, riguardo al quale non fornisce praticamente informazioni, ma dà importanza al loro canto ammaliatore e agli effetti che ne conseguono, anche se il contenuto preciso di tale canto non viene esplicitato nell’Odissea, trattandosi di uno di quei non detti di cui talora si alimenta la poesia.

Sia le Sirene sia  le Muse sono a conoscenza di tutti gli eventi che sono accaduti e che accadono:  sono infatti le uniche che riconoscono Ulisse appena giunge. Entrambe le figure sono legate alla poesia e alla morte: le Muse attraverso la poesia tramandano la memoria, mentre il canto delle Sirene è mortale, ovvero ha come conseguenza una cancellazione definitiva della memoria. Le Sirene, in effetti, nel mito antico, risultano anche legate a Persefone, la regina dell’oltretomba, con la quale danzavano il giorno in cui Ade la rapì, e proprio per questo vennero punite da Demetra, madre di Persefone, che le rese di orribile aspetto poiché non  avevano ostacolato  il rapimento dell’amata figlia.

La voce delle Sirene è incantatrice, il loro canto è un insieme di fascinazione, inganno, magia e seduzione, al quale è impossibile resistere. Chiunque lo ascolti si dimentica della vita passata, si perde nell’ oblio e non tornerà mai più a casa. La morte giungerà sicuramente per gli ascoltatori del loro canto, ma si tratterà non una morte cruenta; piuttosto, i naviganti sentiranno solo il suono della loro voce, si dimenticheranno di sé stessi e di tutto il resto, immobili sulla nave smetteranno di mangiare e di bere finché diventeranno un mucchio di ossa. Una morte lenta, terribile, per consunzione.

Nell’ Odissea le sirene compaiono qualche ora dopo che Ulisse lascia l’isola di Circe e arriva vicino al ‘’prato fiorito’’ dell’isola delle Sirene, nella tradizione collocata a sud di Sorrento. Il vento cessa all’ improvviso, il tempo si ferma e una calma completa avvolge la nave dell’eroe, quasi una sospensione del tempo. Ulisse, cosciente del pericolo, poiché informato da Circe, scioglie un disco di cera e tappa le orecchie dei compagni, impedendo così loro l’ascolto del canto delle Sirene, mentre egli si fa legare fortemente all’albero della nave con le orecchie libere.

Ulisse, contrariamente ad altri eroi, non cerca lo scontro diretto, non tenta la lotta a faccia scoperta, ma ricorre sempre all’inganno. Sfiora il rischio e la morte, ma li vince con l’astuzia. In tale situazione sta per perdersi, non fosse per i compagni che stringono più forte le corde con cui è legato, fuggendo anche questa volta dalla morte.

Un altro mito riguarda la fine delle Sirene, le quali, secondo un’antica profezia, avrebbero dovuto suicidarsi se una nave fosse riuscita ad attraversare indenne il loro territorio: riuscirono in effetti nell’ impresa la nave di Giasone, poiché Orfeo neutralizzò il loro canto con la sua cetra, e la nave di Ulisse. Le Sirene allora si gettarono in mare e morirono, dando così luogo all’avveramento della  profezia. Il corpo di Partenope, una di loro, fu portato dalla corrente nel golfo di Napoli e lì fu sepolto: si tratta di una leggenda eziologica, che rende nota l’origine del nome Partenope, con cui nel mondo antico si indicava appunto Napoli.

10) FILIPPO

SIRENE E MUSE

Una Sirena è una creatura leggendaria che vive nell’acqua con l'aspetto di bella ragazza nella parte superiore del corpo e di pesce in quella inferiore, che appare principalmente nell’immaginario europeo, ma che trova comunque rappresentazioni molto simili in altre culture molto distanti dal vecchio continente.

Bisogna considerare che questo tipo di Sirena, che deriva dal Medioevo, non coincide con le sirene di origine divina della mitologia e della religione greca, rappresentate con l'aspetto di donna nella parte superiore del corpo e di uccello in quella inferiore, con un carattere aggressivo e dotate di artigli. Questo tipo di Sirena, a partire dal Medioevo, si tramuta gradualmente appunto  in una fanciulla bellissima con la coda di pesce al posto delle gambe, per poi entrare successivamente nella letteratura europea con queste sembianze.

Le Sirene presenti nella mitologia greca, dunque, sono esseri mostruosi di discendenza divina, e sotto questo profilo sono certo associabili alle Muse. Esse rappresentano, precisamente,  il pericolo al quale pone rimedio la poesia: la dimenticanza, la perdita di memoria. Questa dimenticanza fa scordare quello che è successo, ossia appunto la memoria, resa immortale grazie alla poesia. In misura maggiore rispetto alle Muse, le sirene possiedono il dono descritto dal verbo greco  thélgein. Esso rappresenta la fascinazione, l’inganno, la magia, la seduzione erotica, il sonno, tutti mescolati in una sola voce “di miele”, alla quale non si può resistere. Il dono di thélgein,  traducibile approssimativamente come sedurre,  viene usato anche da altri svariati personaggi nell’Odissea:  per esempio da Calipso, da Circe, da Afrodite, da Ermes e anche a volte dallo stesso Odisseo, a sua volte notevole affabulatore.

Per comprendere l’associazione delle muse alle sirene, occorre soffermarsi anche sulle prime. Le Muse, secondo la tradizione, erano le sette figlie di Zeus e di Mnemosine (la "Memoria"), da  cui hanno ereditato la loro conoscenza assoluta. Le Sirene erano invece le figlie di una Musa, Melpomosine o Tersicore e del dio marino Forco e, visto che anche esse hanno la stessa conoscenza assoluta del Muse, si pensa che anche loro l’abbiano ereditata dai genitori.

Le Sirene sono dedite a cantare dalla loro isola agli sventurati navigatori che vi passano vicino. Chiunque ascolti il loro canto, rimanendone estremamente affascinato, cerca disperatamente di avvicinarsi all’isola per sentirlo meglio; si dimentica così della sua vita, del suo scopo e finisce per essere divorato dalle sirene o morire di fame e di stenti; infatti, l’isola dove esse si trovano biancheggia per le ossa spolpate delle vittime del loro ammaliante canto.

Le leggende sono discordanti riguardo il loro numero: c’è chi dice che sono 2, 3, 4, 8 o più e ognuna di esse ha un nome: Aglaofeme, Telsiepia, Pisinoe, Ligia, Partenope, Leocosia, Telsiope, Telsione, Molpe, Aglaofono. Erano le compagne di Persefone (moglie di Ade, il dio dei morti, e figlia di Demetra, la dea delle stagioni e della fertilità) e rivali di Orfeo (l’artista greco per eccellenza).

Le Sirene erano le fanciulle che accompagnavano Persefone nella pianura di Enna quando Ade se ne innamorò e la rapì. Demetra, infuriata e disperata, trasformò le belle fanciulle in orribili creature, come punizione per non aver cercato di fermare il dio dei morti.

Secondo un’antica profezia, infine,  se qualcuno fosse passato illeso vicino alla loro isola, le Sirene si sarebbero suicidate buttandosi in mare. Orfeo, che si trovava su una nave degli Argonauti diretta dall’eroe  Giasone, partito alla ricerca del vello d’oro, durante tale sperizione riuscì a salvare i suoi compagni grazie alla musica della sua cetra, che impedì di udire il fatale canto delle Sirene. In questo caso, quindi, la poesia, dono delle Muse, sconfigge l’oblìo, indotto dal canto delle Sirene, palesaldo il suo essere l’opposto della prima.

In questa occasione, però, le Sirene erano però state solo momentaneamente neutralizzate, dato che la loro sconfitta doveva essere decretata dal passaggio di Ulisse che, grazie alla sua astuzia, riuscì a salvare sé stesso e il suo equipaggio. Esse allora si suicidarono gettandosi in mare e realizzarono la profezia.

Sempre una leggenda vuole che il cadavere di una delle Sirene, Partenope, sia arrivata nella colonia greca di Neà polis (l’odierna Napoli) dove fu sepolta. Da questo leggendario evento nacque l’aggettivo “partenopeo”, usato per indicare qualcosa o qualcuno di Napoli, nonché forse il nome originario della medesima città.

Nei miti successivi all’Iliade e a all’Odissea le Sirene vennero identificate come divinità legate all’Aldilà: con il loro canto dilettavano gli abitanti delle Isole dei Fortunati (isole probabilmente identificabili come le Canarie, dove ad alcuni eroi era concesso dagli dei  di trascorrere un’eterna vita felice) e per questo sono scolpite su molti sarcofagi.

 

Nel Liber Monstrorum, un bestiario medievale dell'VIII secolo d. C.,  si trova  la prima attestazione letteraria in cui  la Sirena è descritta come un ibrido tra una donna e un pesce:

«Le sirene sono fanciulle marine che ingannano i navigatori con il loro bellissimo aspetto ed allettandoli col canto; dal capo fino all'ombelico hanno il corpo di fanciulla e sono in tutto simili alla specie umana; ma hanno squamose code di pesce che celano sempre nei gorghi»

Nel XVI secolo, le Sirene venivano comunemente raffigurate mentre tenevano in mano uno specchio e un pettine. Questo poiché, secondo le credenze dell'epoca, lo specchio era considerato un oggetto magico: era collegato con le donne impure e serviva a contemplare il volto della morte o ad adorare il diavolo.

11) SARA

 LE SIRENE 

Le Sirene, nelle molteplici tradizioni mitiche in cui compaiono,  vengono variamente  descritte come donne con corpi e artigli da uccello, personificazioni di anime di defunti, esseri vampireschi e inquietanti, demoni dell’oltre tomba che rallegrano le anime dell’Ade. In certe tradizioni mitiche suonano  strumenti musicali come la lira, il flauto, la zampogna, la siringa o l’aulos o sono provviste di straordinarie doti canore.  

A Ulisse, che nell’Odissea le incontra ben conscio della loro pericolosità (ne è stato avvertito da Circe), però, non interessa che cosa effettivamente siano le Sirene: al centro della sua attenzione, o meglio della sua curiosità, è il loro canto. Le Sirene raffigurate nell’Odissea sembrano possedere per cominciare alcune caratteristiche in comune con le Muse:  ad esempio la voce chiara e limpida, la conoscenza assoluta di ciò che è accaduto, accade e la loro onnipresenza agli eventi. Il loro fascino nei confronti di Ulisse risale forse a questo: le Sirene, proprio come Ulisse, sono cultrici della parola, una parola che può rivelare qualcosa di importante, di definitivo, magari inerente alla vita e alla morte, soprattutto al senso della prima.   

Ragionando ancora sulle Sirene, seguendo la traccia di un critico letterario nostro contemporaneo, Pietro Citati, autore di un saggio dedicato a Ulisse intitolato La mente colorata, le Sirene rappresentate in maniera criptica da Omero  sono onniscienti, dato che per esempio riconoscono Ulisse appena giunge. Ulisse, definito secondo Omero in quanto è a sua volta un narratore interno della vicenda,  non dice da cosa derivi la loro conoscenza e non è certo probabile che loro e le Muse la ricevano dalla stessa fonte. Inoltre, egli esprime, attraverso le loro figure, il pericolo insito nella poesia poiché, se le Muse portano alla dimenticanza e nella loro cetra si nasconde la morte, le Sirene hanno il potere di portare all’apice entrambe:  esse infatti posseggono il thélgein, il dono della fascinazione, dell’inganno, della magia, della seduzione erotica e del sonno a cui non si può resistere. Come dire che le Muse alludono a dimenticanza e morte, le Sirene producono entrambe in chi si abbandona con tutto se stesso a loro.  

Nell’Odissea il canto delle Sirene raccoglie in sé tutto il potere dell’oblio, a cui anche gli uomini sposati e con figli non riescono a opporsi, finendo ossessionati e  perduti. Essi dimenticano sé stessi e qualsiasi altra cosa al mondo, subendo la paralisi completa della mente e del corpo, concentrandosi unicamente, per tutta la vita che rimane loro,  su quel suono. Le Sirene non uccidono con violenza coloro che le ascoltano, ma li consumano e li tormentano fino a farli putrefare.  

Le Sirene, quindi, raggiungono un effetto opposto a quello conseguito dalle Muse, poiché tolgono la memoria invece di amplificarla e eternarla. Circe però dice che ciò accade soltanto a chi non possiede la conoscenza, mentre coloro che la posseggono non solo possono evitare qualsiasi pericolo, ma riescono anche a trarre gioia e sapienza dal loro canto, tante quante ne concedono anche Muse e poeti. 

Una mattina Ulisse lascia l’isola di Circe e, poco prima di mezzogiorno, la nave giunge al “prato fiorito” dell’isola delle Sirene. La denominazione gentile è negata da quanto ospita tale prato fiorito, ovvero le ossa dei marinai che non si sono più potuti sottrarre al loro canto funesto. Quando la nave di Ulisse giunge, iI venti cessano all’improvviso, anch’essi incantati dalle Sirene. Questa calma rappresenta un’anticipazione, un presagio della morte dei marinai. Poi le Sirene, come tutti gli dei della morte, si rivelano soprattutto a mezzogiorno, quando ogni movimento si arresta, poiché in quel silenzio il loro canto viene sentito meglio. Un'altra nave, prima di loro, si era fermata davanti all’isola delle Sirene, quella degli Argonauti. Mentre questi ultimi stavano per arrendersi, Orfeo impugnò la cetra e intonò molto velocemente un canto vivace che riuscì a superare la loro voce. La poesia delle Muse, quindi, in questo caso ha la meglio sul canto oblioso delle Sirene.  

In questo caso, però, non vi è nessun Orfeo sulla nave di Ulisse ed egli deve fare da sé. Taglia e fa a pezzi un disco di cera che, una volta sciolto ai raggi del sole, inserisce nelle orecchie dei compagni, in modo tale che non possano sentire la voce delle Sirene. 

Senza Circe, Ulisse sarebbe perduto, poiché ella gli insegna a trasformare il pericolo dell’oblio e della morte nella sapienza della poesia. Ulisse, quindi, affidandosi ai suggerimenti divini, si ispira a Circe e ordina ai suoi compagni di legargli mani e piedi all’albero della nave, in modo tale da non poterli sciogliere, inoltre chiede loro che, nel caso li scongiurasse di liberarlo, stringanonancora di più le funi. Le corde che lo stringono sono la prova che egli deve affrontare poiché, anche se legato all’albero, ha le orecchie e gli occhi liberi di ascoltare e vedere le Sirene.  

In questa scena, c’è chi ha voluto intendere (Maurice Blanchot, critico letterario nel Novecento che ha studiato, tra l’altro, l’episodio delle Sirene in Omero)  che Ulisse sia  una specie di  greco della decadenza, non più eroe del tempo antico,  ma uno che vuole  godere senza rischi e conseguenze lo spettacolo delle Sirene, restandosene in una posizione di sicurezza (legato all’albero della nave). Citati replica a questa interpretazione di Blanchot, mostrando come  Ulisse, però, non sia un eroe romantico e non cerchi ad ogni costo la tragedia. Egli è soltanto devoto agli dei, perciò segue i consigli di Circe anche quando gli impone di compiere un atto che non è nella sua natura.  

Questo Ulisse che si fa legare per poter ascoltare senza correre il rischio di morire il canto che potrebbe rivelargli qualcosa di importante, oltre a fare la cosa che più gli riesce bene, ovvero ingannare, riesce a godere della pienezza assoluta di un’esperienza intensa e pericolosa, a differenza dei suoi compagni, che vengono resi sordiperché non reggerebbero la rivelazione. 

Questo Ulisse omerico corre insomma un grave pericolo poiché se si dispone a  essere l’incarnazione della memoria, con le Sirene corre il rischio dell’oblìo,  se vuole conoscere, sperimenta il terribile peso di sapere tutto. Infine, se ama la vita, è costretto a prendere atto di quanto desiderio di  morte si celi in essa e, pericolosamente, anche nel suo cuore. Voler ascoltare il canto delle Sirene equivale infatti, ambiguamente, anche a un desiderio di morte da parte sua, con cui egli lotta, per esempio, chiedendo ai compagni di legarlo ancora più stretto qualora egli (come in effetti avviene) durante il passaggio nei pressi dell’isola chiedesse di essere slegato. 

Superata la prova, la nave s’allontana dall’isola. Ancora per poco Ulisse riesce ad intendere le Sirene, vivendo nel regno della magia, della dimenticanza, dell’inganno e della morte. 

Il “secondo Omero”, questo narratore interno che è lo stesso protagonista del poema, non dice con esattezza quale sia la voce delle Sirene, sebbene suggerisca che essa fonde la poesia epica con la fascinazione, e non dice neanche quale ebbrezza ed estasi abbia provato. Egli esce da questa prova vittorioso poiché, grazie alle istruzioni di Circe, ha vinto la malia delle Sirene. Odisseo riesce quindi a conservare la libertà dello sguardo, dell’udito e ad arricchirsi di una nuova conoscenza.  

Secondo un’antica profezia le sirene avrebbero dovuto suicidarsi se una nave fosse riuscita ad oltrepassare indenne la loro isola. Quando Odisseo, grazie a Circe, riuscì a vincere il canto delle Sirene, esse si tuffarono tra le ondemorirono e il corpo di una di esse, Partenope, fu trovato e sepolto nel Golfo di Napoli. 


 12) LORENZO

                       Priamo, Paride ed Elena nell’Iliade 

L’Iliade è popolata da una grande quantità di personaggi e ad ognuno risale un preciso ruolo nello svolgimento della vicenda. In questo breve saggio tratteremo le figure di Priamo, di Elena e di Paride. 

Priamo è l’ultimo grande re di Troia, marito di Ecuba e padre di oltre 50 figli fra cui Ettore e Paride. Risulta descritto nel poema, in svariati episodi, come un uomo buono, giusto e molto coraggioso.  

Paride Alessandro, nato da Priamo ed Ecuba è stato abbandonato da piccolo in seguito a una visione della madre, secondo la quale sarebbe stato causa della fine di Troia. Quando è chiamato a scegliere la più bella fra le dee, decide di assegnare il premio ad Afrodite, pensando alla ricompensa che avrebbe ricevuto in cambio: l’amore della donna più bella del mondo, che risulta poi essere Elena. Rapisce così la bella moglie di Menelao e non rispetta le leggi sull’ospitalità, sottraendo la compagna al suo ospite.  

Elena, moglie di Menelao e originaria di Sparta, è presentata come la causa scatenante della lunga guerra che ha portato alla morte di moltissimi soldati in entrambi gli schieramenti. È sempre presente in controluce, anche quando il racconto non tratta direttamente di lei, perché le sue apparizioni si verificano i concomitanza con quelle dell’ombra oscura del fato. La sua nascita è avvolta nell’aura di in un mito che la vede nascere da un uovo, frutto della relazione fra Zeus, sotto forma di cigno, e Leda. In tutto il racconto è descritta come un’icona di bellezza facilmente confondibile con una divinità, ma vede questa sua dote come un difetto, fonte solo di infelicità. 

Elena, però, ha natura umana e in vari episodi dimostra di essere capace di provare dei sentimenti, non condizionabili dal fato. È ritratta innanzitutto nell’atto di tessere una tela, attività pratica che all’epoca era riservata particolarmente alla figura femminile e trasmette un senso di familiarità. La tela, oltre a introdurre racconti nel racconto, può essere ricondotta all’immagine di una tela di ragno che intrappola gli altri animali. La sua valenza metaforica è quindi multipla. Elena è intrappolata in questa vita organizzata dal destino che, come la tessitura, si protrae fino alla morte, quando il filo verrà reciso dalle forbici.  

Quando Iride riempie il suo animo con un profondo senso di nostalgia verso la sua vecchia vita, dimora e famiglia, Elena piange. Il pianto, estraneo alla dimensione divina, contribuisce a rendere il personaggio di Elena più umano e interessante agli occhi del lettore. 

All’inizio del terzo libro gli eserciti sono in procinto di combattere quando Paride rivolge un gesto di sfida a Menelao che balza impetuosamente giù da un carro mettendo in fuga il troiano. Ettore, allora, si rivolge a tutti i soldati riportando in modo più formale la proposta di Paride: stipulare la pace fra i due schieramenti in favore di un duello che lo veda contrapporsi con Menelao. Il vincitore avrebbe così ottenuto Elena, trattata ancora una volta come una ricompensa, e la guerra si sarebbe conclusa.  

Comincia così la scena della teicoscopia, ovvero l’osservazione dalle mura di Troia del duello decisivo. Elena viene gentilmente accolta dal saggio Priamo con il quale ha una relazione affettuosa. Gli altri anziani con cui si trovano esprimono grande ammirazione per la bellezza di Elena, ma sperano che faccia presto ritorno al suo paese originario così da portare al termine la guerra e mettere fine alla morte di tanti giovani troiani. Il re di Troia, invece, la compatisce, essendo lei vittima dell’inesorabile avverarsi del fato e priva di scelta di fronte a esso. Non la giudica, ma la comprende e dimostra di aver già sperimentato su se stesso simili evenienze, senza diventare la vittima. Elena rimpiange di non essersi uccisa prima di cadere vittima dell’effetto domino che si è scatenato su di lei, ma, da disperata e nostalgica, riacquista tutta la sua regalità grazie alle frasi di Priamo, che la definisce degna del massimo rispetto e pietà. 

Al termine del duello, Afrodite porta in salvo Paride avvolgendolo in una nuvola di nebbia prima che Menelao metta fine alla sua vita, e si reca da Elena nella reggia. La figlia di Leda è infastidita dall’arrivo della dea, che l’aveva portata a vivere tante disavventure trattandola come un premio, e le chiede se sia arrivata per indurla a seguire altri uomini in città lontane e portare nuovi inganni.  La reazione di Elena è profondamente sdegnata nei confronti di Paride che definisce un pavido, a differenza del suo precedente marito, forte e gagliardo. Menelao è un vero guerriero, che combatte sempre in prima fila, e la debolezza di Paride è motivo di vergogna per Elena verso le altre donne troiane. Essa chiede persino ad Afrodite come mai non sia lei ad andare con quel vile che si ostina a proteggere. Per la prima volta Elena prova a imporsi e rifiuta di seguire Paride nel talamo nuziale, ma la dea ristabilisce subito l’ordine mettendola a tacere con la minaccia di una persecuzione atroce culminante in destino di morte ineluttabile.   

Successivamente alla morte di Ettore, Priamo si reca solitario nell’accampamento dei Greci dando prova di possedere grande coraggio. Il suo obiettivo è giungere alla tenda di Achille in modo da riscattare il corpo di suo figlio. Il re di Troia bacia le mani dell’uomo che aveva ucciso gran parte della sua prole e lo implora di accettare la sua richiesta in cambio di ingenti ricompense. Priamo riesce a trasmettere una forte sensazione di tristezza ad Achille facendolo pensare a suo padre, che ogni giorno lo aspetta sperando che sopravviva alle battaglie.  

Priamo assume un comportamento che irrita il guerriero greco chiedendo che la sua richiesta venga accettata senza ulteriori perdite di tempo e porta Achille a rispondere bruscamente, dicendo che accetterà solo perché è il volere degli dei. 

La vicenda procede e dopo due lunghi anni di guerra, una volta morto Paride, Elena fa ritorno alla corte di Menelao dove appare essersi reintegrata, anche se, per come viene definita la nostalgia, quel posto che le era tanto mancato non sarà mai più come prima ai suoi occhi. 

13) VIRGINIA

ELENA

Elena, personaggio dell'Iliade, viene considerata la principale causa della guerra tra gli achei e i troiani. Secondo il mito era la figlia di Leda e Zeus. Il re degli dei, per sedurre la moglie di Tindaro, si era trasformato in cigno, così in seguito Elena era nata da un uovo, insieme al gemello di Polluce, Castore. Cresciuta alla corte di Tindaro, re di Sparta, quando fu in età da matrimonio venne data in sposa a Menelao, che aveva promesso grandissimi doni.  

Elena era considerata la donna più bella del tempo, praticamente una dea a causa della sua bellezza ultraterrena, poi rivelatasi in grado di sconvolgere gli equilibri tra due popolazioni, tanto da arrivare a una guerra. Infatti, proprio per la sua bellezza, venne "sfruttata" da Afrodite come ricompensa per Paride, che aveva assegnato alla dea il primato della bellezza a danno di Era e Atena.  

Elena quindi viene rapita da Paride, figlio di Priamo, in visita a Sparta. I due avevano ignorato ogni legge (in particolare quella dell’ospitalità, dato che Paride era ospite di Menelao) ed erano fuggiti insieme a Troia, portando con loro una parte delle ricchezze di Menelao. Giunti a conoscenza della notizia, i principi che avevano giurato a Tindaro che avrebbero difeso la vita e i diritti del marito della bella Elena, si schierarono con Menelao nella guerra contro Troia.  

Elena viene rappresentata bella come una dea, ma le si attribuisce una sensibilità tutta umana. Infatti il suo personaggio è caratterizzato da una nota nostalgica.  

Omero tratta di Elena principalmente nel terzo libro: viene introdotta nell'atto di tessere una tela che rappresenta lo scontro tra i troiani e gli achei che a causa sua patiscono sotto le mani di Ares. La tela in realtà racchiude il senso della sua vita in quel momento, diventata per destino un pomo della discordia. Nell'atto di tessere la tela le si accosta Iride, messaggera di Era, nelle sembianze della cognata. Iride ha il compito di trasemtterle nostalgia nei confronti di ciò che si è lasciata alle spalle, cosicchè il desiderio di tornare nella sua terra diventi insopportabile.  

Elena nel terzo libro dell'Iliade piange, ma quando arriva il momento di osservare il duello dalle mura si ricompone. I presenti, nella loro contemplazione, prima ancora di vederla come una donna, la associano al piano divino, definendola bella e terribile come una dea. La sua immagine viene paragonata a quella delle sirene, il cui canto è incantatore e mortifero.  

In questo libro l'incontro con Priamo contribuisce a rivestire la donna di un'aura di rispetto, dato che il re troiano prova nei suoi confronti compassionepoichè anche lei è vittima del destino, dal quale non può fuggire. Elena, percependo questo sentimento da parte di Priamo, rimpiange di non essersi uccisa prima di lasciare Menelao.  

Questo ci permette di capire che Elena non era totalmente responsabile delle sue scelte, ma in balia del fato e degli dei, che decidono a chi affidare il bene e a chi il male.  

Alla fine del terzo libro Elena incontra Afrodite, che dopo aver protetto Paride durante lo scontro con Menelao, invita Elena a raggiungerlo nel talamo nuziale. A questo punto la donna inveisce contro di lei, proponendole anche di prendere il suo posto accanto all'uomo che si ostina a proteggere. La dea però ristabilisce prontamente gli equilibri, dicendo a Elena che lei è obbligata a raggiungere Paride, perchè così vuole il destino.  

Elena quindi è schiava due volte, prima di Eros che la fa cadere in tentazione permettendole di abbandonare Menelao e poi del destino che la lega a una vita che non desidera più.  

14) CARLOTTA

Paride, Priamo ed Elena sono tre personaggi fondamentali nel poema dell’Iliade, che racconta la lunga guerra di Troia. Infatti i rapporti che corrono tra di loro e gli eventi che si susseguono all’interno della storia che li vedono protagonisti, sono parte integrante del poema omerico. Priamo è il re della città achea. Paride, suo figlio, è un principe troiano che è in parte la causa dell’inizio della guerra, insieme alla bellissima Elena.  

 

RUOLO DI ELENA, PARIDE E PRIAMO NELL’ILIADE   

 

Elena è un personaggio non sempre presente in primo piano nel racconto di Omero, ma è comunque di fondamentale importanza. Compare infatti per la prima volta nel terzo libro, quando piange a causa del desiderio nostalgico di tornare alla propria vita precedente, che Iride, la messaggera di Era, avvicinandosi a lei sotto le sembianze della cognata Laodice, le trasmette. Secondo il mito, Elena viene generata da Zeus, in un parto multiplo da un uovo che il dio dell'Olimpo concepisce insieme a Leda.  Essendo considerata la più bella donna al mondo, viene scelta come premio per Paride (incaricato di consegnare la mela d’oro alla più bella durante il banchetto di nozze di Teti e Peleo) dalla dea Afrodite, che aveva promesso al principe troiano l’amore della donna più bella del mondo, se egli avesse consegnato a lei il pomo della bellezza, lasciato dalla dea Discordia per seminare appunto conflitti fra le divinità. Ma Afrodite non si era minimamente curata, per ovvie ragioni, nell’intento di raggiungere il suo obiettivo, di un particolare: Elena era sposata con Menelao, re di Sparta, e con lui aveva anche un figlio. Perciò Paride avrebbe dovuto rapire la donna dalla città greca e dai suoi familiari e portarla con sé. Questo gesto, compiuto da parte di Paride, scatenò la prevedibile ira del marito di Elena, che partì subito con il suo esercito verso Troia, con l’intento di riportare a casa sua moglie. Perciò Elena è considerata la causa della guerra dal punto di vista mitologico, mentre storicamente non si può che dubitare del fatto che una donna possa essere la sola e unica causa di una delle più lunghe e sanguinose guerre del mondo antico.  Altri episodi che vedono Paride come protagonista sono il duello con Menelao e l'uccisione di Achille. In entrambi i casi egli è tutt'altro che eroico, ma totalmente orientato dagli dei.  

Diverso è invece il trattamento riservato a Priamo: il re troiano durante la sua vita ha avuto molti figli ma sono quasi tutti precocemente morti. Per questo egli si definisce infelice del tutto. Priamo, essendo anziano è molto saggio, e quando chiede ad Achille di restituirgli il corpo del figlio Ettore (ucciso da Achille), trovano un punto d’incontro perché entrambi provano dolore (anche se sono dolori differenti). Achille prova pena per Priamo e alla fine gli restituisce il corpo defunto del figlio Ettore. 

NOTA FINALE

Le vite intrecciate di questi personaggi rendono in maniera eloquente la complessità delle relazioni umane e il modo in cui può accadere di essere determinanti, gli uni per gli altri, in certi momenti della vita. Se si prescinde, per un attimo, dalla questione del destino che nel mondo greco rappresenta una forza possente, superiore perfino agli dei, si può considerare anche in che modo i singoli esseri umani possano influenzare volontariamente i propri simili, ovvero obbedendo a un moto interiore. Nella parti di poema da noi lette, un momento in cui questo tipo di influenza si manifesta è quello in cui Elena e Priamo si parlano dall’alto delle mura di Troia. In quell’occasione Elena è solo una donna triste per aver dovuto abbandonare la sua famiglia, nonché per essersi trasformata in un motivo di scontro permanente per due popoli, ai quali appartiene egualmente, in quanto compagna sia di Menelao sia di Paride. Priamo è solo un anziano re che sta vedendo morire uno dopo l’altro i suoi figli in una guerra che ha dovuto affrontare nella stagione della vita in cui, se tutto va bene, si raccolgono i frutti di ciò che si è in precedenza seminato. Fra loro due c’è comprensione e anche affetto. Sono sentimenti ai quali il testo epico dà spazio, prima di  riprendere col fragore della battaglia e le voci potenti e imperiose degli dei.  

 Francesca

LA BELLEZZA: DONO O MALEDIZIONE?

 

Nell’Iliade, Elena viene presentata come la causa della Guerra di Troia. Ella nacque in circostanze piuttosto stravaganti: concepita dall’unione di Leda e Zeus sotto forma di cigno, venne alla luce da un uovo insieme al fratello Polluce. Il fratello Castore e la sorella Clitennestra nacquero invece da Leda e dal legittimo marito Tindareo.

Dopo essere  stata introdotta nella mitologia attraverso molti episodi, tra cui il suo rapimento da parte dell’eroe Teseo, comparve nel noto mito del Pomo della Discordia. In esso Elena è proposta dalla dea Afrodite come un premio: il destino della donna sarà perciò già segnato per gli anni a venire. Infatti, dopo aver consegnato il pomo d’oro ad Afrodite, Paride riscattò Elena quale sua ricompensa, infrangendo le leggi di ospitalità del tempo e rapendola al marito Menelao, re di Sparta. 

Iniziò così la successione di eventi che porterà all’assedio della città di Troia, guerra sanguinosa che durerà un decennio, e del cui inizio Elena è considerata responsabile.

Sposa felice di Menelao, Elena si ritrovò in realtà all’improvviso catapultata in una vita che non aveva scelto, e che era stata invece decisa per lei dal fato, trattata come un oggetto solo a causa della sua bellezza.

Nonostante la sua figura non sia stata particolarmente approfondita nel poema, ma sia invece sempre stata di sfondo, il suo personaggio è stato più volte interpretato nel tempo: in particolare, la poetessa Saffo riteneva che ad avere un ruolo dominante nel determinare il suo destino fosse stata l'incombente presenza di Eros.

Il destino ed Eros, infatti, gettano la loro ombra su tutto il poema e determinano lo svolgimento di ogni evento: nessuno dei due può essere contrastato, e gli dei sono garanti del compimento del fato.

Gli eventi che vedono Elena protagonista nel poema, anche se pochi, sono significativi poiché ricchi di sfumature che illuminano sulle emozioni dei personaggi: tra questi troviamo la teicoscopia, ossia l’osservazione dalle mura e del duello tra Paride e Menelao da parte di Elena, Priamo e i nobili anziani.

Durante questo episodio Elena piange poiché in preda alla nostalgia e ai rammarichi. Le mancano la sua vecchia vita a Sparta con Menelao, gli amici, la famiglia; rimpiange la fuga con Paride che ha inevitabilmente portato alla guerra e alla sofferenza di molte persone, e crede di essere l’unica causa di ciò.

La sola cosa che Elena vorrebbe poter fare sarebbe mettere in pausa la sua vita e tornare indietro nel tempo, prima che essa fosse completamente stravolta dagli eventi. I sensi di colpa la porteranno addirittura a rimpiangere di non essersi suicidata prima dell’incontro con Paride, in quanto così facendo avrebbe evitato la strage di molte persone.

Priamo, re saggio e gentile oltre che padre di Paride ed Ettore, la consola dimostrando grande compassione ed affetto verso Elena: egli ha infatti esperienza in merito al destino, e rassicura la donna dicendole che anche se avesse voluto cambiare il suo fato, non avrebbe potuto.

Nel frattempo, Paride viene tratto in salvo da Afrodite, che interrompe il suo duello con Menelao e lo dirige verso il talamo in attesa di Elena.

La dea dell’amore deve infatti fare in modo che il destino della donna venga portato a compimento e le chiede di raggiungere Paride sul talamo nuziale; ella però disprezza Afrodite e l’idea stessa di rivedere Paride. Quello della dea è però un ordine, e non una richiesta: Elena deve portare a compimento il destino che è stato scelto per lei, e non può combatterlo. Cedendo alle parole di Afrodite, acconsente a vedere Paride, ma non prima di aver suggerito in modo sprezzante alla dea di prendere il suo posto, in quanto protettrice dell’uomo.

Una volta faccia a faccia con Paride, Elena esprime tutto l’odio che prova per lui, accusandolo di essere pavido e inferiore a Menelao per fascino e valore, e lo invita sarcasticamente a riprendere il duello, suggerendogli allo stesso tempo di non farlo per non perdere la vita. L’uomo sostiene però che anche l’avversario avesse goduto di aiuti divini, e alla fine la persuade a dividere il talamo con lui.

Alla luce di una delle tante interpretazioni del suo personaggio, Elena può essere considerata due volte schiava: di Eros e di un fato che non ha mai desdierato sul serio. Allo stesso modo, la sua bellezza può essere considerata come un dono o una maledizione, poiché causa dell’inizio di tutti i mali.

 


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