MARTEDI' 1° GIUGNO - GIOVEDI' 3 GIUGNO GUIDA ALLA LETTURA (compendio e citazioni dei capitoli XXVIII, XIX, XXX)

Di seguito trovate un modello di compendio dei capitoli XXVIII, XXIX e XXX dei Promessi sposi. Leggete con attenzione e provate a realizzare, su questo modello, la sintesi del XXXI. Martedì, divisi in gruppi, realizzerete lo stesso lavoro sul XXXII (Andrea, Alberto),  XXXIII (Federico, Federico), XXXIV (Luisa, Lisa, Matteo), XXXV (Francesco, Francesca, Lorenzo), XXXVI (Jacopo, Filippo, Sara), XXXVII (Eleonora, Ettore, Sergio) e XXXVIII (Carlotta, Martina, Virginia)

Capitolo da XXVIII a XXVIII dei Promessi sposi
XXVIII
Manzoni spiega come, dopo i tumulti di San Martino in cui Renzo viene quasi  arrestato, si susseguano provvedimenti (gride di Ferrer) che dovrebbero produrre l'effetto di tenere sotto controllo la situazione, facendo in modo che non manchino le materie prime necessarie a produrre il pana e a sfamare la popolazione. A un certo punto si legge una sorta di bilancio, pervaso d'una certa amarezza, di quanto accaduto dopo la sommossa:  

Così, tornando a noi, due erano stati, alla fin de’ conti, i frutti principali della sommossa; guasto e perdita effettiva di viveri, nella sommossa medesima; consumo, fin che durò la tariffa, largo, spensierato, senza misura, a spese di quel poco grano, che pur doveva bastare fino alla nuova raccolta. A questi effetti generali s’aggiunga quattro disgraziati, impiccati come capi del tumulto: due davanti al forno delle grucce, due in cima della strada dov’era la casa del vicario di provvisione.


Il bilancio è, appunto, amaro, perché risulta come, una volta di più non sia per nulla stata fatta giustizia, come s'ama dire, ma sia solo stati individuati dei capri espiatori (quelli che Manzoni definisce quattro disgraziati) mentre la situazione drammatica della diffusa povertà collegata con la carestia (e col dissennato provvedimento, preso da Ferrer, di fissare un prezzo del pane troppo basso per essere sostenuto in una situazione di scarsità di grano come quella) continuava a mantenersi immutata o a peggiorare. 

Segue una descrizione articolata dello stato di deplorevole povertà in cui versano i territori in cui è ambientata la vicenda:

A ogni passo, botteghe chiuse; le fabbriche in gran parte deserte; le strade, un indicibile spettacolo, un corso incessante di miserie, un soggiorno perpetuo di patimenti. Gli accattoni di mestiere, diventati ora il minor numero, confusi e perduti in una nuova moltitudine, ridotti a litigar l’elemosina con quelli talvolta da cui in altri giorni l’avevan ricevuta. Garzoni e giovani licenziati da padroni di bottega, che, scemato o mancato affatto il guadagno giornaliero, vivevano stentatamente degli avanzi e del capitale; de’ padroni stessi, per cui il cessar delle faccende era stato fallimento e rovina; operai, e anche maestri d’ogni manifattura e d’ogn’arte, delle più comuni come delle più raffinate, delle più necessarie come di quelle di lusso, vaganti di porta in porta, di strada in istrada, appoggiati alle cantonate, accovacciati sulle lastre, lungo le case e le chiese, chiedendo pietosamente l’elemosina, o esitanti tra il bisogno e una vergogna non ancor domata, smunti, spossati, rabbrividiti dal freddo e dalla fame ne’ panni 
logori e scarsi, ma che in molti serbavano ancora i segni d’un’antica agiatezza; come nell’inerzia e nell’avvilimento, compariva non so quale indizio d’abitudini operose e franche. Mescolati tra la deplorabile turba, e non piccola parte di essa, servitori licenziati da padroni caduti allora dalla mediocrità nella strettezza, o che quantunque facoltosissimi si trovavano inabili, in una tale annata, a mantenere quella solita pompa di seguito. E a tutti questi diversi indigenti s’aggiunga un numero d’altri, avvezzi in parte a vivere del guadagno di essi: bambini, donne, vecchi, aggruppati co’ loro antichi sostenitori, o dispersi in altre parti all’accatto. [...]  Ma forse il più brutto e insieme il più compassionevole spettacolo erano i contadini, scompagnati, a coppie, a famiglie intere; mariti,mogli, con bambini in collo, o attaccati dietro le spalle, con ragazzi per la mano, con vecchi dietro. Alcuni che, invase e spogliate le loro case dalla soldatesca, alloggiata lì o di passaggio, n’eran fuggiti disperatamente; e tra questi ce n’era di quelli che, per far più compassione, e come per distinzione di miseria, facevan vedere i lividi e le margini de’ colpi ricevuti nel difendere quelle loro poche ultime provvisioni, o scappando da una sfrenatezza cieca e brutale. Altri, andati esenti da quel flagello particolare, ma spinti da que’ due da cui nessun angolo era stato immune, la sterilità e le gravezze, più esorbitanti che mai per soddisfare a ciò che si chiamava i bisogni della guerra, eran venuti, venivano alla città, come a sede antica e ad ultimo asilo di ricchezza e di pia inguere gli arrivati di fresco, più ancora che all’andare incerto e all’aria nuova, a un fare maravigliato e indispettito di trovare una tal piena, una tale rivalità di miseria, al termine dove avevan creduto di comparire oggetti singolari di compassione, e d’attirare a sé gli sguardi e i soccorsi. Gli altri che da più o men tempo giravano e abitavano le strade della città, tenendosi ritti co’ sussidi ottenuti o toccati come in sorte, in una tanta sproporzione tra i mezzi e il bisogno, avevan dipinta ne’ volti e negli atti una più cupa e stanca costernazione. Vestiti diversamente, quelli che ancora si potevano dir vestiti; e diversi anche nell’aspetto: facce dilavate del basso paese, abbronzate del pian di mezzo e delle colline, sanguigne di montanari; ma tutte affilate e stravolte, tutte con occhi incavati, con isguardi fissi, tra il torvo e l’insensato; arruffati i capelli, lunghe e irsute le barbe: corpi cresciuti e indurati alla fatica, esausti ora dal disagio; raggrinzata la pelle sulle braccia aduste e sugli stinchi e sui petti scarniti, che si vedevan di mezzo ai cenci scomposti. E diversamente, ma non meno doloroso di questo aspetto di vigore abbattuto, l’aspetto d’una natura più presto vinta, d’un languore e d’uno sfinimento più abbandonato, nel sesso e nell’età più deboli. Qua e là per le strade, rasente ai muri delle case, qualche po’ di paglia pesta, trita e mista d’immondo ciarpume. E una tal porcheria era però un dono e uno studio della carità; eran covili apprestati a qualcheduno di que’ meschini, per posarci il capo la notte. Ogni tanto, ci si vedeva, anche di giorno, giacere o sdraiarsi taluno a cui la stanchezza o il digiuno aveva levate le forze e tronche le gambe: qualche volta quel tristo letto portava un cadavere: qualche volta si vedeva uno cader come un cencio all’improvviso, e rimaner cadavere sul selciato.
Manzoni ritorna a parlare, a questo punto, del Cardinale Federigo, che si prodiga per aiutare la popolazione di Milano, creando una sorta di squadra di soccorso, composta da preti, che si spartiscono le zone della città per recare il loro aiuto, fornendo di cibi,  abiti, qualche volta danaro, i sempre più numerosi poveri che la popolano. Si tratta di un'organizzazione capillare, che coinvolge anche i parroci, ai quali vengono fornite le liste di queste persone, perché non vengano lasciate a se stesse. Benché la carità di Federigo si manifesti così grandiosamente, la vastità del problema da risolvere è tale che risulta essere una goccia nel mare. Da qui scaturisce questa  articolata considerazione dell'Autore onnisciente: 
È cosa notabile che, in un tanto eccesso di stenti, in una tanta varietà di querele, non si vedesse mai un tentativo, non iscappasse mai un grido di sommossa: almeno non se ne trova il minimo cenno. Eppure, tra coloro che vivevano e morivano in quella maniera, c’era un buon numero d’uomini educati a tutt’altro che a tollerare; c’erano a centinaia, di que’ medesimi che, il giorno di san Martino, s’erano tanto fatti sentire. Nè si può pensare che l’esempio de’ quattro disgraziati che n’avevan portata la pena per tutti, fosse quello che ora li tenesse tutti a freno: qual forza poteva avere, non la presenza, ma la memoria de’ supplizi sugli animi d’una moltitudine vagabonda e riunita, che si vedeva come condannata a un lento supplizio, che già lo pativa? Ma noi uomini siam in generale fatti così: ci rivoltiamo sdegnati e furiosi contro i mali mezzani, e ci curviamo in silenzio sotto gli estremi; sopportiamo, non rassegnati ma stupidi, il colmo di ciò che da principio avevamo chiamato insopportabile
Dunque, è il commento di Manzoni, nell'estremo della sventura, nessuno più ha le energie per ribellarsi. Prosegue ancora un poco con immagini alterne di povertà estrema e di tentativi di alleviarla con gesti caritatevoli , per poi arrivare a introdurre quello che diverrà il tema dominante dei capitoli successivi: il contagio. Una situazione così estrema di povertà, il moltiplicarsi degli accattoni inizia a mettere in allerta le autorità pubbliche, che ricorrono una volta ancora a un provvedimento dissennato: istituire un lazzeretto in cui riunire appunto tutti i poveri. Manzoni precisa che il  tribunale della sanità è contrario, ritenendo (giustamente) che possa trasformarsi in un pericoloso focolaio di contagio. Si giunge quindi alla prima descrizione del lazzeretto
Il lazzeretto di Milano (se, per caso, questa storia capitasse nelle mani di qualcheduno che non lo conoscesse, nè di vista nè per descrizione) è un recinto quadrilatero e quasi quadrato, fuori della città, a sinistra della porta detta orientale, distante dalle mura lo spazio della fossa, d’una strada di circonvallazione, e d’una gora che gira il recinto medesimo. I due lati maggiori son lunghi a un di presso cinquecento passi; gli altri due, forse quindici meno; tutti, dalla parte esterna, son divisi in piccole stanze d’un piano solo; di dentro gira intorno a tre di essi un portico continuo a volta, sostenuto da piccole e magre colonne. Le stanzine eran dugent’ottantotto, o giù di lì: a’ nostri giorni, una grande apertura fatta nel mezzo, e una piccola, in un canto della facciata del lato che costeggia la strada maestra, ne hanno portate via non so quante. Al tempo della nostra storia, non c’eran che due entrature; una nel mezzo del lato che guarda le mura della città, l’altra di rimpetto, nell’opposto. Nel centro dello spazio interno, c’era, e c’è tutt’ora, una piccola chiesa ottangolare.

La prima destinazione di tutto l’edifizio, cominciato nell’anno 1489, co’ danari d’un lascito privato, continuato poi con quelli del pubblico e d’altri testatori e donatori, fu, come l’accenna il nome stesso, di ricoverarvi, all’occorrenza, gli ammalati di peste; la quale, già molto prima di quell’epoca, era solita, e lo fu per molto tempo dopo, a comparire quelle due, quattro, sei, otto volte per secolo, ora in questo, ora in quel paese d’Europa, prendendone talvolta una gran parte, o anche scorrendola tutta, per il lungo e per il largo. Nel momento di cui parliamo, il lazzeretto non serviva che per deposito delle mercanzie soggette a contumacia.

Ora, per metterlo in libertà, non si stette al rigor delle leggi sanitarie, e fatte in fretta in fretta le purghe e gli esperimenti prescritti, si rilasciaron tutte le mercanzie a un tratto. Si fece stender della paglia in tutte le stanze, si fecero provvisioni di viveri, della qualità e nella quantità che si potè; e s’invitarono, con pubblico editto, tutti gli accattoni a ricoverarsi lì.

Molti vi concorsero volontariamente; tutti quelli che giacevano infermi per le strade e per le piazze, ci vennero trasportati; in pochi giorni, ce ne fu, tra gli uni e gli altri, più di tre mila. Ma molti più furon quelli che restaron fuori. O che ognun di loro aspettasse di veder gli altri andarsene, e di rimanere in pochi a goder l’elemosine della città, o fosse quella natural ripugnanza alla clausura, o quella diffidenza de’ poveri per tutto ciò che vien loro proposto da chi possiede le ricchezze e il potere (diffidenza sempre proporzionata all’ignoranza comune di chi la sente e di chi l’ispira, al numero de’ poveri, e al poco giudizio delle leggi), o il saper di fatto quale fosse in realtà il benefizio offerto, o fosse tutto questo insieme, o che altro, il fatto sta che la più parte, non facendo conto dell’invito, continuavano a strascicarsi stentando per le strade. Visto ciò, si credè bene di passar dall’invito alla forza. Si mandarono in ronda birri che cacciassero gli accattoni al lazzeretto, e vi menassero legati quelli che resistevano; per ognun de’ quali fu assegnato a coloro il premio di dieci soldi: ecco se, anche nelle maggiori strettezze, i danari del 
pubblico si trovan sempre, per impiegarli a sproposito. E quantunque, com’era stata congettura, anzi intento espresso della Provvisione, un certo numero d’accattoni sfrattasse dalla città, per andare a vivere o a morire altrove, in libertà almeno; pure la caccia fu tale che, in poco tempo, il numero de’ ricoverati, tra ospiti e prigionieri, s’accostò a dieci mila.Dormivano ammontati a venti a trenta per ognuna di quelle cellette, o accovacciati sotto i portici, sur un po’ di paglia putrida e fetente, o sulla nuda terra: perchè, s’era bensì ordinato che la paglia fosse fresca e a sufficienza, e cambiata spesso; ma in effetto era stata cattiva, scarsa, e non si cambiava. S’era ugualmente ordinato che il pane fosse di buona qualità: giacchè, quale amministratore ha mai detto che si faccia e si dispensi roba cattiva? ma ciò che non si sarebbe ottenuto nelle circostanze solite, anche per un più ristretto servizio, come ottenerlo in quel caso, e per quella moltitudine? Si disse allora, come troviamo nelle memorie, che il pane del lazzeretto fosse alterato con sostanze pesanti e non nutrienti: ed è pur troppo credibile che non fosse uno di que’ lamenti in aria. D’acqua perfino c’era scarsità; d’acqua, voglio dire, viva e salubre: il pozzo comune, doveva esser la gora che gira le mura del recinto, bassa, lenta, dove anche motosa, e divenuta poi quale poteva renderla l’uso e la vicinanza d’una tanta e tal moltitudine.

A tutte queste cagioni di mortalità, tanto più attive, che operavano sopra corpi ammalati o ammalazzati, s’aggiunga una gran perversità della stagione: piogge ostinate, seguite da una siccità ancor più ostinata, e con essa un caldo anticipato e violento. Ai mali s’aggiunga il sentimento de’ mali, la noia e la smania della prigionia, la rimembranza dell’antiche abitudini, il dolore di cari perduti, la memoria inquieta di cari assenti, il tormento e il ribrezzo vicendevole, tant’altre passioni d’abbattimento o di rabbia, portate o nate là dentro; l’apprensione poi e lo spettacolo continuo della morte resa frequente da tante cagioni, e divenuta essa medesima una nuova e potente cagione. E non farà stupore che la mortalità crescesse e regnasse in quel recinto a segno di prendere aspetto e, presso molti, nome di pestilenza: sia che la riunione e l’aumento di tutte quelle cause non facesse che aumentare l’attività d’un’influenza puramente epidemica; sia (come par che avvenga nelle carestie anche men gravi e men prolungate di quella) che vi avesse luogo un certo contagio, il quale ne’ corpi affetti e preparati dal disagio e dalla cattiva qualità degli alimenti, dall’intemperie, dal sudiciume, dal travaglio e dall’avvilimento trovi la tempera, per dir così, e la stagione sua propria, le condizioni necessarie in somma per nascere, nutrirsi e moltiplicare (se a un ignorante è lecito buttar là queste parole, dietro l’ipotesi proposta da alcuni fisici e riproposta da ultimo, con molte ragioni e con molta riserva, da uno, diligente quanto ingegnoso3): sia poi che il contagio scoppiasse da principio nel lazzeretto medesimo, come, da un’oscura e inesatta relazione, par che pensassero i medici della Sanità; sia che vivesse e andasse covando prima d’allora (ciò che par forse più verisimile, chi pensi come il disagio era già antico e generale, e la mortalità già frequente), e che portato in quella folla permanente, vi si propagasse con nuova e terribile rapidità. Qualunque di queste congetture sia la vera, il numero giornaliero de’ morti nel lazzeretto oltrepassò in poco tempo il centinaio.

Mentre in quel luogo tutto il resto era languore, angoscia, spavento, rammarichìo, fremito, nella Provvisione era vergogna, stordimento, incertezza. Si discusse, si sentì il parere della Sanità; non si trovò altro che di disfare ciò che s’era fatto con tanto apparato, con tanta spesa, con tante vessazioni. S’aprì il lazzeretto, si licenziaron tutti i poveri non ammalati che ci rimanevano, e che scapparon fuori con una gioia furibonda. La città tornò a risonare dell’antico lamento, ma più debole e interrotto; rivide quella turba più rada e più compassionevole, dice il Ripamonti, per il pensiero del come fosse di tanto scemata. Gl’infermi furon trasportati a Santa Maria della Stella, allora ospizio di poveri; dove la più parte perirono.

Intanto però cominciavano que’ benedetti campi a imbiondire. Gli accattoni venuti dal contado se n’andarono, ognuno dalla sua parte, a quella tanto sospirata segatura. Il buon Federigo gli accomiatò con un ultimo sforzo, e con un nuovo ritrovato di carità: a ogni contadino che si presentasse all’arcivescovado, fece dare un giulio, e una falce da mietere.Con la messe finalmente cessò la carestia: la mortalità, epidemica o contagiosa, scemando di giorno in giorno, si prolungò però fin nell’autunno. Era sul finire, quand’ecco un nuovo flagello.

Il nuovo flagello è la peste, portata dall'esercito dei Lanzichenecchi, che Manzoni descrive con dovizia di dettagli, come un esercito di briganti, efferati e distruttivi, usi al saccheggio e alla violenza, incontenibili e refrattari a qualsiasi disciplina. Impiegati in una locale guerra  di  successione, diventano appunto la piaga di questi territori anche per quanto riguarda la diffusione della peste.

La milizia, a que’ tempi, era ancor composta in gran parte di soldati di ventura arrolati da condottieri di mestiere, per commissione di questo o di quel principe, qualche volta anche per loro proprio conto, e per vendersi poi insieme con essi. Più che dalle paghe, erano gli uomini attirati a quel mestiere dalle speranze del saccheggio e da tutti gli allettamenti della licenza. Disciplina stabile e generale non ce n’era; nè avrebbe potuto accordarsi così facilmente con l’autorità in parte indipendente de’ vari condottieri. Questi poi in particolare, nè erano molto raffinatori in fatto di disciplina, nè, anche volendo, si vede come avrebbero potuto riuscire a stabilirla e a mantenerla; chè soldati di quella razza, o si sarebbero rivoltati contro un condottiere novatore [che si fosse messo in testa d’abolire il saccheggio; o per lo meno, l’avrebbero lasciato solo a guardar le bandiere. Oltre di ciò, siccome i principi, nel prendere, per dir così, ad affitto quelle bande, guardavan più ad aver gente in quantità, per assicurar l’imprese, che a proporzionare il numero alla loro facoltà di pagare, per il solito molto scarsa; così le paghe venivano per lo più tarde, a conto, a spizzico; e le spoglie de’ paesi a cui la toccava, ne divenivano come un supplimento tacitamente convenuto. È celebre, poco meno del nome di Wallenstein, quella sua sentenza: esser più facile mantenere un esercito di cento mila uomini, che uno di dodici mila. E questo di cui parliamo era in gran parte composto della gente che, sotto il suo comando, aveva desolata la Germania, in quella guerra celebre tra le guerre, e per sè e per i suoi effetti, che ricevette poi il nome da’ trent’anni della sua durata: e allora ne correva l’undecimo. C’era anzi, condotto da un suo luogotenente, il suo proprio reggimento; degli altri condottieri, la più parte avevan comandato sotto di lui, e ci si trovava più d’uno di quelli che, quattr’anni dopo, dovevano aiutare a fargli far quella cattiva fine che ognun sa.

Eran vent’otto mila fanti, e sette mila cavalli; e, scendendo dalla Valtellina per portarsi nel mantovano, dovevan seguire tutto il corso che fa l’Adda per due rami di lago, e poi di nuovo come fiume fino al suo sbocco in Po, e dopo avevano un buon tratto di questo da costeggiare: in tutto otto giornate nel ducato di Milano.

Una gran parte degli abitanti si rifugiavano su per i monti, portandovi quel che avevan di meglio, e cacciandosi innanzi le bestie; altri rimanevano, o per non abbandonar qualche ammalato, o per preservar la casa dall’incendio, o per tener d’occhio cose preziose nascoste, sotterrate; altri perchè non avevan nulla da perdere, o anche facevan conto d’acquistare. Quando la prima squadra arrivava al paese della fermata, si spandeva subito per quello e per i circonvicini, e li metteva a sacco addirittura: ciò che c’era da godere o da portar via, spariva; il rimanente, lo distruggevano o lo rovinavano; i mobili diventavan legna, le case, stalle: senza parlar delle busse, delle ferite, degli stupri. Tutti i ritrovati, tutte l’astuzie per salvar la roba, riuscivano per lo più inutili, qualche volta portavano danni maggiori. I soldati, gente ben più pratica degli stratagemmi anche di questa guerra, frugavano per tutti i buchi delle case, smuravano, diroccavano; conoscevan facilmente negli orti la terra smossa di fresco; andarono fino su 
per i monti a rubare il bestiame; andarono nelle grotte, guidati da qualche birbante del paese, in cerca di qualche ricco che vi si fosse rimpiattato; lo strascinavano alla sua casa, e con tortura di minacce e di percosse, lo costringevano a indicare il tesoro nascosto.

Finalmente se n’andavano; erano andati; si sentiva da lontano morire il suono de’ tamburi o delle trombe; succedevano alcune ore d’una quiete spaventata; e poi un nuovo maledetto batter di cassa, un nuovo maledetto suon di trombe, annunziava un’altra squadra. Questi, non trovando più da far preda, con tanto più furore facevano sperpero del resto, bruciavan le botti vòtate da quelli, gli usci delle stanze dove non c’era più nulla, davan fuoco anche alle case; e con tanta più rabbia, s’intende, maltrattavan le persone; e così di peggio in peggio, per venti giorni: ché in tante squadre era diviso l’esercito.

Colico fu la prima terra del ducato, che invasero que’ demòni; si gettarono poi sopra Bellano; di là entrarono e si sparsero nella Valsassina, da dove sboccarono nel territorio di Lecco.

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XXIX

Nel capitolo XXIX si ritrova don Abbondio, in trambusto per la piega che gli eventi stanno prendendo. Come già in altre occasioni dedicate a descriverlo, anche in questa Manzoni sembra divertirsi: 

Vengono; son trenta, son quaranta, son cinquanta mila; son diavoli, sono ariani, sono anticristi; hanno saccheggiato Cortenuova; han dato fuoco a Primaluna: devastano Introbbio, Pasturo, Barsio; sono arrivati a Balabbio; domani son qui: tali eran le voci che passavan di bocca in bocca; e insieme un correre, un fermarsi a vicenda, un 
consultare tumultuoso, un’esitazione tra il fuggire e il restare, un radunarsi di donne, un metter le mani ne’ capelli. Don Abbondio, risoluto di fuggire, risoluto prima di tutti e più di tutti, vedeva però, in ogni strada da prendere, in ogni luogo da ricoverarsi, ostacoli insuperabili, e pericoli spaventosi.

Finalmente, a quanto pare, don Abbondio può aver liberamente e sfrenatamente paura, una paura per così dire ragionevole, dato che il pericolo è sul serio imponente e grave. 

Il pover’uomo correva, stralunato e mezzo fuor di sé, per la casa; andava dietro a Perpetua, per concertare una risoluzione con lei; ma Perpetua, affaccendata a raccogliere il meglio di casa, e a nasconderlo in soffitta, o per i bugigattoli, passava di corsa, affannata, preoccupata, con le mani e con le braccia piene, e rispondeva: “or ora finisco di metter questa roba al sicuro, e poi faremo anche noi come fanno gli altri.” Don Abbondio voleva trattenerla, e discuter con lei i vari partiti; ma lei, tra il da fare, e la fretta, e lo spavento che aveva anch’essa in corpo, e la rabbia che le faceva quello del padrone, era, in tal congiuntura, meno trattabile di quel che fosse stata mai. “S’ingegnano gli altri; c’ingegneremo anche noi. Mi scusi, ma non è capace che d’impedire. Crede lei che anche gli altri non abbiano una pelle da salvare? Che vengono per far la guerra a lei i soldati? Potrebbe anche dare una mano, in questi momenti, in vece di venir tra’ piedi a piangere e a impicciare.” Con queste e simili risposte 
si sbrigava da lui, avendo già stabilito, finita che fosse alla meglio quella tumultuaria operazione, di prenderlo per un braccio, come un ragazzo, e di strascinarlo su per una montagna. Lasciato così solo, s’affacciava alla finestra, guardava, tendeva gli orecchi; e vedendo passar qualcheduno, gridava con una voce mezza di pianto e mezza di rimprovero: “fate questa carità al vostro povero curato di cercargli qualche cavallo, qualche mulo, qualche asino. Possibile che nessuno mi voglia aiutare! Oh che gente! Aspettatemi almeno, che possa venire anch’io con voi; aspettate d’esser quindici o venti, da condurmi via insieme, ch’io non sia abbandonato. Volete lasciarmi in man de’ cani? Non sapete che sono luterani la più parte, che ammazzare un sacerdote l’hanno per opera meritoria? Volete lasciarmi qui a ricevere il martirio? Oh che gente! Oh che gente!”

Fa sorridere questo quadro di vita familiare concitata e stravolta, ma non proprio del tutto, dalla tempesta di eventi; non del tutto perché i caratteri restano quelli che conosciamo: Perpetua la donna pratica e avveduta, che pensa a nascondere tutto il possibile e vede comunque un po' più in là del suo naso, Abbondio il solito egoista che è pure d'impaccio nella circostanza, dato che non sa far altro che correre qua e là, fuori di sé, per la casa, vanamente parlando. Tanto vanamente, che Perpetua lo redarguisce, ricordandogli che non è solo lui a trovarsi in quella situazione. Ma tant'è, se uno non nasce cuor di leone, la sua condanna è quella di aver sempre paura. Manzoni indugia sui due personaggi anche per introdurre un altro dettaglio: il famoso tesoretto di don Abbondio (danari che gli servono, come sappiamo dall'inizio  della narrazione, per fornire prestiti a pegno ai suoi parrocchiani) viene sotterrato, per iniziativa dell'intraprendente Perpetua, nell'orto, sotto un albero. Sopraggiunge poi anche Agnese (che si è cucita nel busto i soldi ricevuti come sorta di risarcimento dall'innominato) con la proposta di farsi ospitare nel famoso castello, ricordandosi come l'uomo le abbia promesso di far sempre conto sul suo aiuto.  Dopo qualche esitazione (di don Abbondio, ovviamente) intraprendono il cammino, che diventa di nuovo occasione di comiche annotazioni sul conto di don Abbondio. 

Dopo aver sospirato e risospirato, e poi lasciato scappar qualche interiezione, don Abbondio cominciò a brontolare più di seguito. Se la prendeva col duca di Nevers, che avrebbe potuto stare in Francia a godersela, a fare il principe, e voleva esser duca di Mantova a dispetto del mondo; con l’imperatore, che avrebbe dovuto aver giudizio per gli altri, lasciar correr l’acqua all’ingiù, non istar su tutti i puntigli: ché finalmente, lui sarebbe sempre stato l’imperatore, fosse duca di Mantova Tizio o Sempronio. L’aveva principalmente col governatore, a cui sarebbe toccato a far di tutto, per tener lontani i flagelli dal paese, ed era lui che ce gli attirava: tutto per il gusto di far la guerra. “Bisognerebbe,” diceva, “che fossero qui que’ signori a vedere, a provare, che gusto è. Hanno da rendere un bel conto! Ma intanto, ne va di mezzo chi non ci ha colpa.”

Durante il cammino hanno anche occasione di passare a casa del sarto e della moglie, fermandosi a salutarli per desiderio di Agnese. Si parla di Lucia, al sicuro a Milano (sta meglio di noi, il commento di don Abbondio) e poi dell'innominato e del suo castello, meta dei tre viandanti: 

“Gran bella conversione!” riprese don Abbondio: “e si mantiene, n’è vero? si mantiene.”

Il sarto si mise a parlare alla distesa della santa vita dell’innominato, e come, dall’essere il flagello de’ contorni, n’era divenuto l’esempio e il benefattore.

“E quella gente che teneva con sé?... tutta quella servitù?...” riprese don Abbondio, il quale n’aveva più d’una volta sentito dir qualcosa, ma non era mai quieto abbastanza.

Il tono  è sempre quello tra l'umoristico e il comico che accompagna il personaggio di don Abbondio, che evidentemente non crede nei miracoli...

La parte successiva, però, contenente la descrizione di come l'innominato si sia trasformato, ridiventa seria, se non decisamente didascalica: 

Il sarto aveva detto la verità a don Abbondio, intorno all’innominato. Questo, dal giorno che l’abbiam lasciato, aveva sempre continuato a far ciò che allora s’era proposto, compensar danni, chieder pace, soccorrer poveri, sempre del bene in somma, secondo l’occasione. Quel coraggio che altre volte aveva mostrato nell’offendere e nel difendersi, ora lo mostrava nel non fare né l’una cosa né l’altra. Andava sempre solo e senz’armi, disposto a tutto quello che gli potesse accadere dopo tante violenze commesse, e persuaso che sarebbe commetterne una nuova l’usar la forza in difesa di chi era debitore di tanto e a tanti; persuaso che ogni male che gli venisse fatto, sarebbe un’ingiuria riguardo a Dio, ma riguardo a lui una giusta retribuzione; e che dell’ingiuria, lui meno d’ogni altro, aveva diritto di farsi punitore. Con tutto ciò, era rimasto non meno inviolato di quando teneva armate, per la sua sicurezza, tante braccia e il suo. La rimembranza dell’antica ferocia, e la vista della mansuetudine presente, una, che doveva aver lasciati tanti desidèri di vendetta, l’altra, che la rendeva tanto agevole, cospiravano in vece a procacciargli e a mantenergli un’ammirazione, che gli serviva principalmente di salvaguardia. Era quell’uomo che nessuno aveva potuto umiliare, e che s’era umiliato da sé. I rancori, irritati altre volte dal suo disprezzo e dalla paura degli altri, si dileguavano ora davanti a quella nuova umiltà: gli offesi avevano ottenuta, contro ogni aspettativa, e senza pericolo, una soddisfazione che non avrebbero potuta promettersi dalla più fortunata vendetta, la soddisfazione di vedere un tal uomo pentito de’ suoi torti, e partecipe, per dir così, della loro indegnazione. Molti, il cui dispiacere più amaro e più intenso era stato per molt’anni, di non veder probabilità di trovarsi in nessun caso più forti di colui, per ricattarsi di qualche gran torto; incontrandolo poi solo, disarmato, e in atto di chi non farebbe resistenza, non s’eran sentiti altro impulso che di fargli dimostrazioni d’onore. In quell’abbassamento volontario, la sua presenza e il suo contegno avevano acquistato, senza che lui lo sapesse, un non so che di più alto e di più nobile; perché ci si vedeva, ancor meglio di prima, la noncuranza d’ogni pericolo. Gli odi, anche i più rozzi e rabbiosi, si sentivano come legati e tenuti in rispetto dalla venerazione pubblica per l’uomo penitente e benefico. Questa era tale, che spesso quell’uomo si trovava impicciato a schermirsi dalle dimostrazioni che gliene venivan fatte, e doveva star attento a non lasciar troppo trasparire nel volto e negli atti il sentimento interno di compunzione, a non abbassarsi troppo, per non esser troppo esaltato. S’era scelto nella chiesa l’ultimo luogo; e non c’era pericolo che nessuno glielo prendesse: sarebbe stato come usurpare un posto d’onore. Offender poi quell’uomo, o anche trattarlo con poco riguardo, poteva parere non tanto un’insolenza e una viltà, quanto un sacrilegio: e quelli stessi a cui questo sentimento degli altri poteva servir di ritegno, ne partecipavano anche loro, più o meno.

Queste medesime ed altre cagioni, allontanavano pure da lui le vendette della forza pubblica, e gli procuravano, anche da questa parte, la sicurezza della quale non si dava pensiero. Il grado e le parentele, che in ogni tempo gli erano state di qualche difesa, tanto più valevano per lui, ora che a quel nome già illustre e infame, andava aggiunta la lode d’una condotta esemplare, la gloria della conversione. I magistrati e i grandi s’eran rallegrati di questa, pubblicamente come il popolo; e sarebbe parso strano l’infierire contro chi era stato soggetto di tante congratulazioni. Oltre di ciò, un potere occupato in una guerra perpetua, e spesso infelice, contro ribellioni vive e rinascenti, poteva trovarsi abbastanza contento d’esser liberato dalla più indomabile e molesta, per non andare a cercar altro: tanto più, che quella conversione produceva riparazioni che non era avvezzo ad ottenere, e nemmeno a richiedere. Tormentare un santo, non pareva un buon mezzo di cancellar la vergogna di non aver saputo fare stare a dovere un facinoroso: e l’esempio che si fosse dato col punirlo, non avrebbe potuto aver altro effetto, che di stornare i suoi simili dal divenire inoffensivi. Probabilmente anche la parte che il cardinal Federigo aveva avuta nella conversione, e il suo nome associato a quello del convertito, servivano a questo come d’uno scudo sacro. E in quello stato di cose e d’idee, in quelle singolari relazioni dell’autorità spirituale e del poter civile, ch’eran così spesso alle prese tra loro, senza mirar mai a distruggersi, anzi mischiando sempre alle ostilità atti di riconoscimento e proteste di deferenza, e che, spesso pure, andavan di conserva a un fine comune, senza far mai pace, poté parere, in certa maniera, che la riconciliazione della prima portasse con sé l’oblivione, se non l’assoluzione del secondo, quando quella s’era sola adoprata a produrre un effetto voluto da tutt’e due.

Così quell’uomo sul quale, se fosse caduto, sarebbero corsi a gara grandi e piccoli a calpestarlo; messosi volontariamente a terra, veniva risparmiato da tutti, e inchinato da molti.

È vero ch’eran anche molti a cui quella strepitosa mutazione dovette far tutt’altro che piacere: tanti esecutori stipendiati di delitti, tanti compagni nel delitto, che perdevano una così gran forza sulla quale erano avvezzi a fare assegnamento, che anche si trovavano a un tratto rotti i fili di trame ordite da un pezzo, nel momento forse che aspettavano la nuova dell’esecuzione. Ma già abbiam veduto quali diversi sentimenti quella conversione facesse nascere negli sgherri che si trovavano allora con lui, e che la sentirono annunziare dalla sua bocca: stupore, dolore, abbattimento, stizza; un po’ di tutto, fuorché disprezzo né odio. Lo stesso accadde agli altri che teneva sparsi in diversi posti, lo stesso a’ complici di più alto affare, quando riseppero la terribile nuova, e a tutti per le cagioni medesime. Molt’odio, come trovo nel luogo, altrove citato, del Ripamonti, ne venne piuttosto al cardinal Federigo. Riguardavan questo come uno che s’era mischiato ne’ loro affari, per guastarli; l’innominato aveva voluto salvar l’anima sua: nessuno aveva ragion di lagnarsene.

Di mano in mano poi, la più parte degli sgherri di casa, non potendo accomodarsi alla nuova disciplina, né vedendo probabilità che [s’avesse a mutare, se n’erano andati. Chi avrà cercato altro padrone, e fors’anche tra gli antichi amici di quello che lasciava; chi si sarà arrolato in qualche terzo, come allora dicevano, di Spagna o di Mantova, o di qualche altra parte belligerante; chi si sarà messo alla strada, per far la guerra a minuto, e per conto suo; chi si sarà anche contentato d’andar birboneggiando in libertà. E il simile avranno fatto quegli altri che stavano prima a’ suoi ordini, in diversi paesi. Di quelli poi che s’eran potuti avvezzare al nuovo tenor di vita, o che lo avevano abbracciato volentieri, i più, nativi della valle, eran tornati ai campi, o ai mestieri imparati nella prima età, e poi abbandonati; i forestieri eran rimasti nel castello, come servitori: gli uni e gli altri, quasi ribenedetti nello stesso tempo che il loro padrone, se la passavano, al par di lui, senza fare né ricever torti, inermi e rispettati.

Ma quando, al calar delle bande alemanne, alcuni fuggiaschi di paesi invasi o minacciati capitarono su al castello a chieder ricovero, l’innominato, tutto contento che quelle sue mura fossero cercate come asilo da’ deboli, che per tanto tempo le avevan guardate da lontano come un enorme spauracchio, accolse quegli sbandati, con espressioni piuttosto di riconoscenza che di cortesia; fece sparger la voce, che la sua casa sarebbe aperta a chiunque ci si volesse rifugiare, e pensò subito a mettere, non solo questa, ma anche la valle, in istato di difesa, se mai lanzichenecchi o cappelletti volessero provarsi di venirci a far delle loro. Radunò i servitori che gli eran rimasti, pochi e valenti, come i versi di Torti; fece loro una parlata sulla buona occasione che Dio dava loro e a lui, d’impiegarsi una volta in aiuto del prossimo, che avevan tanto oppresso e spaventato; e, con quel tono naturale di comando, ch’esprimeva la certezza dell’ubbidienza, annunziò loro in generale ciò che intendeva che facessero, e soprattutto prescrisse come dovessero contenersi, perché la gente che veniva a ricoverarsi lassù, non vedesse in loro che amici e difensori. Fece poi portar giù da una stanza a tetto l’armi da fuoco, da taglio, in asta, che da un pezzo stavan lì ammucchiate, e gliele distribuì; fece dire a’ suoi contadini e affittuari della valle, che chiunque si sentiva, venisse con armi al castello; a chi non n’aveva, ne diede; scelse alcuni, che fossero come ufiziali, e avessero altri sotto il loro comando; assegnò i posti all’entrature e in altri luoghi della valle, sulla salita, alle porte del castello; stabilì l’ore e i modi di dar la muta, come in un campo, o come già s’era costumato in quel castello medesimo, ne’ tempi della sua vita disperata.

In un canto di quella stanza a tetto, c’erano in disparte l’armi che lui solo aveva portate; quella sua famosa carabina, moschetti, spade, spadoni, pistole, coltellacci, pugnali, per terra, o appoggiati al muro.

Nessuno de’ servitori le toccò; ma concertarono di domandare al padrone quali voleva che gli fossero portate. “Nessuna,” rispose; e, fosse voto, fosse proposito, restò sempre disarmato, alla testa di quella specie di guarnigione.

Disarmato e autorevole, da armato e autoritario che era, l'innominato ha così compiuto la sua trasformazione definitiva, appaiata a quella del suo castello, divenuto ricovero per quelli che, fino a poco tempo prima, lo vedevano con il terrore di esservi condotti come prigionieri. Nelle righe conclusive del capitolo, si capisce che all'innominato Manzoni accosti idealmente la persona del cardinale, dato che descrive come coloro che s'imbattono in lui dopo la conversione, già memori di benevolenze e aiuti ricevuti o anche solo per notizie ricevutene da altri, lo ammirano e lo considerano un personaggio dalle doti eccezionali, volte al bene di tutti: 

 e tutti, o lo avessero già visto, o lo vedessero per la prima volta, lo guardavano estatici, dimenticando un momento i guai e i timori che gli avevano spinti lassù; e si voltavano ancora a guardarlo, quando, staccatosi da loro, seguitava la sua strada.

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XXX

Il capitolo inizia con l'arrivo al castello e continua il filo conduttore della paura incontenibile di don Abbondio e della sua inettitudine a comprendere quello che a tutti appare evidente, ossia quanto e come l'innominato sia cambiato. Lo si può evincere chiaramente da questo passaggio del dialogo fra  il curato e colui che si prestò al rapimento di Lucia: 

“Bene, si faccia coraggio,” riprese l’innominato: “ché ora è in sicuro. Quassù non verranno; e se si volessero provare, siam pronti a riceverli.”

“Speriamo che non vengano,” disse don Abbondio. “E sento,” soggiunse, accennando col dito i monti che chiudevano la valle di rimpetto, “sento che, anche da quella parte, giri un’altra masnada di gente, ma... ma...”

“E vero,” rispose l’innominato: “ma non dubiti, che siam pronti anche per loro.”

— Tra due fuochi, — diceva tra sé don Abbondio: — proprio tra due fuochi. Dove mi son lasciato tirare! e da due pettegole! E costui par proprio che ci sguazzi dentro! Oh che gente c’è a questo mondo! —

Una volta di più traspare l'attitudine di don Abbondio a leggere ogni evento e ogni persona alla luce del suo modo di stare al e di vedere il mondo, senza mai riuscire a compiere operazioni di immedesimazione negli altri. L'idea che l'innominato possa essere diventato sul serio una persona onesta e benintenzionata sfugge totalmente alle sue capacità di comprensione. 

Ventitre o ventiquattro giorni stettero i nostri fuggitivi nel castello, in mezzo a un movimento continuo, in una gran compagnia, e che ne’ primi tempi, andò sempre crescendo; ma senza che accadesse nulla 
di straordinario. Non passò forse giorno, che non si desse all’armi. Vengon lanzichenecchi di qua; si son veduti cappelletti di là. A ogni avviso, l’innominato mandava uomini a esplorare; e, se faceva bisogno, prendeva con sé della gente che teneva sempre pronta a ciò, e andava con essa fuor della valle, dalla parte dov’era indicato il pericolo. Ed era cosa singolare, vedere una schiera d’uomini armati da capo a piedi, e schierati come una truppa, condotti da un uomo senz’armi. Le più volte non erano che foraggieri e saccheggiatori sbandati, che se n’andavano prima d’esser sorpresi. Ma una volta, cacciando alcuni di costoro, per insegnar loro a non venir più da quelle parti, l’innominato ricevette avviso che un paesetto vicino era invaso e messo a sacco. Erano lanzichenecchi di vari corpi che, rimasti indietro per rubare, s’eran riuniti, e andavano a gettarsi all’improvviso sulle terre vicine a quelle dove alloggiava l’esercito; spogliavano gli abitanti, e gliene facevan di tutte le sorte. L’innominato fece un breve discorso a’ suoi uomini, e li condusse al paesetto.

Arrivarono inaspettati. I ribaldi che avevan creduto di non andar che alla preda, vedendosi venire addosso gente schierata e pronta a combattere, lasciarono il saccheggio a mezzo, e se n’andarono in fretta, senz’aspettarsi l’uno con l’altro, dalla parte dond’eran venuti. L’innominato gl’inseguì per un pezzo di strada; poi, fatto far alto, stette qualche tempo aspettando, se vedesse qualche novità; e finalmente se ne ritornò. E ripassando nel paesetto salvato, non si potrebbe dire con quali applausi e benedizioni fosse accompagnato il drappello liberatore e il condottiero.

L'Autore indugia poi sulla descrizione di come s'organizzi la vita nel castello, dove sono ospitate così tante persone. Agnese e Perpetua trovano il modo di impegnarsi utilmente, ma anche di intrattenere relazioni amichevoli. Don Abbondio dal canto suo  non s'annoia, annota Manzoni, perché a tenergli compagnia è la paura: s'ingegna a identificare vie di fuga nel caso in cui capiti qualche serra serra e si spaventa non poco a sentir raccontare, a tavola, cosa stia succedendo in quei giorni. Poi, trascorse appunto diverse settimane, Agnese, Perpetua e don Abbondio si congedano. 

Credo che i nostri tre fossero gli ultimi ad andarsene; e ciò per volere di don Abbondio, il quale temeva, se si tornasse subito a casa, di trovare ancora in giro lanzichenecchi rimasti indietro sbrancati, in coda all’esercito. Perpetua ebbe un bel dire che, quanto più s’indugiava, tanto più si dava agio ai birboni del paese d’entrare in casa a portar via il resto; quando si trattava d’assicurar la pelle, era sempre don Abbondio che la vinceva; meno che l’imminenza del pericolo non gli avesse fatto perdere affatto la testa.

Il giorno fissato per la partenza, l’innominato fece trovar pronta alla Malanotte una carrozza, nella quale aveva già fatto mettere un corredo di biancheria per Agnese. E tiratala in disparte, le fece anche accettare un gruppetto di scudi, per riparare al guasto che troverebbe in casa; quantunque, battendo la mano sul petto, essa andasse ripetendo che ne aveva lì ancora de’ vecchi.

“ Quando vedrete quella vostra buona, povera Lucia... ” le disse in ultimo: “ già son certo che prega per me, poichè le ho fatto 
tanto male: ditele adunque ch’io la ringrazio, e confido in Dio, che la sua preghiera tornerà anche in tanta benedizione per lei.

Volle poi accompagnar tutti e tre gli ospiti, fino alla carrozza. I ringraziamenti umili e sviscerati di don Abbondio e i complimenti di Perpetua, se gl’immagini il lettore. Partirono; fecero, secondo il fissato, una fermatina, ma senza neppur mettersi a sedere, nella casa del sarto, dove sentirono raccontar cento cose del passaggio: la solita storia di ruberie, di percosse, di sperpero, di sporchizie: ma lì, per buona sorte, non s’eran visti lanzichenecchi.

Il viaggio di ritorno è condensato in poche righe di descrizione della desolazione che si è ulteriormente accresciuta lungo la strada. Ma ad attenderli con un impatto anche maggiore, è la devastazione del villaggio natìo.

Don Abbondio e Perpetua entrano in casa, senza aiuto di chiavi; ogni passo che fanno nell’andito, senton crescere un tanfo, un veleno, una peste, che li respinge indietro; con la mano al naso, vanno all’uscio di cucina; entrano in punta di piedi, studiando dove metterli, per iscansar più che possono la porcheria che copre il pavimento; e dànno un’occhiata in giro. Non c’era nulla d’intero; ma avanzi e frammenti di quel che c’era stato, lì e altrove, se ne vedeva in ogni canto: piume e penne delle galline di Perpetua, pezzi di biancheria, fogli de’ calendari di don Abbondio, cocci di pentole e di piatti; tutto insieme o sparpagliato. Solo nel focolare si potevan vedere i segni d’un vasto saccheggio accozzati insieme, come molte idee sottintese, in un periodo steso da un uomo di garbo. C’era, dico, un rimasuglio di tizzi e tizzoni spenti, i quali mostravano d’essere stati, un bracciolo di seggiola, un piede di tavola, uno sportello d’armadio, una panca di letto, una doga della botticina, dove ci stava il vino che rimetteva lo stomaco a don Abbondio. Il resto era cenere e carboni; e con que’ carboni stessi, i guastatori, per ristoro, avevano scarabocchiati i muri di figuracce, ingegnandosi, con certe berrettine o con certe cheriche, e con certe larghe facciole, di farne de’ preti, e mettendo studio a farli orribili e ridicoli: intento che, per verità, non poteva andar fallito a tali artisti.

“ Ah porci! ” esclamò Perpetua. “Ah baroni! ” esclamò don Abbondio; e, come scappando, andaron fuori, per un altr’uscio che metteva nell’orto. Respirarono; andaron diviato al fico; ma già prima d’arrivarci, videro la terra smossa, e misero un grido tutt’e due insieme; arrivati, trovarono effettivamente, in vece del morto, la buca aperta. Qui nacquero de’ guai: don Abbondio cominciò a prendersela con Perpetua, che non avesse nascosto bene: pensate se questa rimase zitta: dopo ch’ebbero ben gridato, tutt’e due col braccio teso,e con l’indice appuntato verso la buca, se ne tornarono insieme, brontolando. E fate conto che per tutto trovarono a un di presso la medesima cosa. Penarono non so quanto, a far ripulire e smorbare la casa, tanto più che, in que’ giorni, era difficile trovar aiuto; enon so quanto dovettero stare come accampati, accomodandosi alla meglio, o alla peggio, e rifacendo a poco a poco usci, mobili, utensili, con danari prestati da Agnese.

Per giunta poi, quel disastro fu una semenza d’altre questioni molto noiose; perchè Perpetua, a forza di chiedere e domandare, di spiare e fiutare, venne a saper di certo che alcune masserizie del suo padrone, credute preda o strazio de’ soldati, erano in vece sane e salve in casa di gente del paese; e tempestava il padrone che si facesse sentire, e richiedesse il suo. Tasto più odioso non si poteva toccare per don Abbondio; giacchè la sua roba era in mano di birboni, cioè di quella specie di persone con cui gli premeva più di stare in pace.

“ Ma se non ne voglio saper nulla di queste cose, ” diceva. “ Quante volte ve lo devo ripetere, che quel che è andato è andato? Ho da esser messo anche in croce, perchè m’è stata spogliata la casa?”

Il capitolo si conclude così, con un don Abbondio affranto e depredato, ben convinto di non volersi però riappropriare dei beni dispersi in case altrui, per non dover aver a che fare con quella genìa che più gl'incute, da sempre, paura, ovvero quelli che chiama genericamente i birboni. 



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