SINTESI PER PUNTI ENEIDE
…purpureus veluti cum flos succisus aratro languescit moriens lassove papavera collo demisere caput, pluvia cum forte gravantur. …qual reciso dal vomero languisce purpureo fiore, o di rugiada pregno papavero ch'a terra il capo inchina. |
Le due anime dell’Eneide: la prima appaga le richieste della cultura ufficiale, del circolo di Mecenate, è il poema epico nazionale e patriottico, destinato ai Romani del tempo e accolto come il naturale successore degli Annales del padre della letteratura latina, Ennio.
· La seconda è l’anima universale, che propone un tema in grado di risonare in tutte le epoche e a tutte le latitudini: la sofferenza di vivere, la fatica di vivere compensate, entrambe, dalla volontà di vivere.
· Icona della sofferenza è il protagonista, il pius Enea. Tutta la pesantezza del vivere si racchiude in quell’aggettivo, gravido di mos e di limite, ma pure fonte di costante umanità.
· La pietas è reverenza, rispetto indirizzati verso dei, antenati e patria; è l’essenza del mos: suo custode nel poema è Enea, il pius per antonomasia e responsabile della sopravvivenza della civiltà e della cultura che, cacciate dai loro territori, devono trapiantarsi in un’altra terra.
· Viene raccontata anche la storia di una stirpe presuntuosa (quella Troiana) condannata dalla Storia a una fatale e distruttiva sconfitta eppure destinata rivivere, anima trasmigrante, nel “corpo” dei Romani.
· Il mito si trasferisce nella Storia, Enea trova l’antica madre, la terra in cui far rinascere lo spirito troiano sconfitto nel nuovo corpo della romanità destinata a splendidi trionfi: tutto avviene sotto l’egida della provvidenza.
· Questa è la pars costruens dell’Eneide, nonché la componente ufficiale, l’anima del poema nazionale e patriottico. Ma lo spirito virgiliano si era nutrito dell’Epicureismo migliore, dei suoi concetti di amicizia, solidarietà tramandati dai maestri Sirone e Filodemo, si era fatto conquistare dal pitagorismo e dalle concezioni platoniche, senza contare che era evidentemente abituato a riflettere sul significato della vita e della morte senza appagarsi delle risposte preconfezionate
· Uno così non poteva accontentarsi: non poteva non percepire una componente inspiegabile, irriducibile alla provvidenza ordinatrice, all’interno delle vicende umane, in particolare di quelle sacralizzate dal mito: il Fato.
· L’universo classico è un cerchio di ferro, all’interno del quale ogni tentativo di forzarne l’apertura si configura come hybris, violenza, disordine, anarchia. Ecco allora che la fantasia di Virgilio plasma il personaggio di Enea sotto l’impulso di queste riflessioni: fa di lui il pio uomo del destino, schiacciato dal peso di dover dare principio a Roma, come si legge già nel primo libro (v. 33) “tanto grave a fondare fu la gente di Roma” [tantae molis erat Romanam condere gentem]. Dunque noi leggeremo l’Eneide come un’epopea del dolore e della speranza umana contro il fato.
· A Enea manca quella che non chiameremmo propriamente la fede (esempi: II, 796: tutti hanno fiducia in lui e gli si affidano, pronti a seguirlo ovunque voglia portarli, mentre nella sua mente ha forma un unico pensiero, che siano dei poveri esuli, destinati a chissà cosa); è un capo riconosciuto, carismatico, ma non ha nessuna certezza, nessuna determinazione: la sua, per lui, è una fuga (segni confusi: in sogno Ettore, la madre Venere in visione, prodigi da parte di Giove per Anchise, l’ombra di Creusa), è ossessionato dai responsi oscuri, che lasciano intatto il suo dubbio.
· Il viaggio si sviluppa come una serie di tentativi infelici (ogni volta che Enea crede di aver raggiunto il luogo voluto, l’antica madre, e fonda una città, non senza i debiti auspici e i riti agli dei, prodigi terrificanti, improvvise sciagure lo costringono a strappare sé e i suoi dalla vana illusione.
· Uno dei momenti di maggior travaglio di Enea (che non a caso Leopardi considerò un “antieroe”, rilevando la sua costante necessità di subordinare desideri e progetti alle necessità altrui, diversamente da personaggi dell’epopea classica, omerica in primo luogo, come Achille, provvisto di personalità più elementare e quindi priva di conflittualità con l’esterno) è quello dell’abbandono di Didone (IV, 361: Italiam non sponte sequor, cerco l’Italia non spontaneamente; VI, 460: invitus, regina, tuo de litore secessi, riluttante mi staccai dalla tua costa).
· Le sue sofferenze sono intense, e poco importa che siano anche trovate della dea Giunone ostile a Troiani e Romani che lo perseguita: è sempre il compito immane (tantae molis) a essere richiamato a sottolineare la sproporzione che tanti, forse tutti, gli esseri umani avvertono fra le proprie forze e il peso degli eventi, il peso della storia, il peso della vita (anche per i Celesti, la questione non cambia).
· Il libro IV illumina in modo particolarmente intenso, dunque, quanto sia gravoso il fardello sotto il cui peso Enea rischia di soccombere, ma anche la discesa agli Inferi del VI libro è ammantata di dolore: fantasmi del passato, sensi di colpa, rimorso per non essere riuscito a salvare gli amici, e, angoscia anche maggiore, per averne causato la morte
· Un’unica luce: quando raggiunge l’Elisio e ascolta il padre spiegargli la natura della vita ultraterrena, i premi che attendono il virtuoso e la purificazione delle colpe. Poi, quando il padre Anchise fa sfilare di fronte al figlio gli eroi del futuro, ricorre la domanda evidentemente retorica, alla quale in effetti egli non risponde: esiterà ancora?
· Nella seconda parte del poema, negli ultimi sei libri, l’attenzione in effetti si sposta dall’animo di Enea per concentrarsi sugli eventi, sulla realizzazione pratica del disegno immortale e sull’opposizione fatta dalla violenza alla realizzazione della giustizia di cui Enea è portatore.
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