PER PREPARARE IL TEMA DEL 3 FEBBRAIO

  • Inchiesta pubblicata sul Corriere della sera del 25 gennaio (stralci)
2221b Baker Street. Gli appassionati di gialli sanno che questo indirizzo nel centro di Londra è la casa di Sherlock Holmes. L’ultimo proprietario conosciuto del palazzo si chiamava Rakhat Aliyev: un ex ambasciatore che aveva sposato Dariga, la prima figlia del primo – e per 29 anni unico – presidente del Kazakistan, Nursultan Nazarbayev. Caduto in disgrazia e scappato in Europa, Aliyev aveva fatto appena in tempo a denunciare pubblicamente quanto corrotto fosse il regime dell’ex suocero. Nel 2014 lo arrestarono in Austria, con l’accusa d’aver assassinato due funzionari kazaki. E otto mesi dopo, mentre attendeva il processo, lo trovarono impiccato nella sua cella a Vienna. Proprietario di banche e raffinerie, si scoprì che Aliyev era l’intestatario del museo di Sherlock Holmes e di tutte le case di Baker Street che vanno dal civico 215 al 237: valore 215 milioni di dollari. Ma il patrimonio immobiliare complessivo a Londra è di ben 450 milioni di dollari. Ed è solo una goccia, nell’immenso mare d’oro del clan Nazarbayev. 
In Kazakistan, il 2 gennaio, è scoppiata una rivolta contro il caro vita così furiosa da convincere Putin a inviare l’esercito, in appoggio del governo amico. La più ricca ed estesa delle vecchie repubbliche sovietiche nell’Asia Centrale – con meno di 20 milioni d’abitanti – è anche il più grande esportatore mondiale d’uranio e ha il secondo giacimento petrolifero al mondo. Eppure il reddito familiare medio dei kazaki non arriva a 600 dollari mensili e la metà delle ricchezze nazionali è nelle mani soltanto di 162 persone. L’81enne padre-padrone del Kazakistan ha lasciato la presidenza tre anni fa e, dopo la rivolta popolare, sembra non controllare più la macchina del potere, ma il suo clan, una cinquantina fra nipoti e parenti, possiede ancora tutto: 40 miliardi di dollari solo in liquidità. Certo, le proteste per il rincaro del gpl avrebbero causato una perdita di circa 3 miliardi di dollari alla secondogenita di Nazarbayev, Dinara, e al di lei marito Timur Kulibaev: uno dei mille uomini più ricchi del mondo, proprietario del fondo sovrano, di tutti gli idrocarburi e di un bel po’ di banche kazake.
Le banche, appunto. In Kazakistan, solo sei anni fa ce n’erano nove che controllavano il 78% del mercato: quattro sono sparite, le restanti sono finite nel portafoglio del clan. Jysan Bank è una delle più grandi, fa capo al genero di Nazarbayev, ed è considerata il suo bancomat personale, pur avendo in pancia un 44% di prestiti scaduti. C’è poi il caso di Tengri Bank, fondata dalla coppia più chiacchierata del clan, il finanziere Timur Kuanyshev e la moglie Alfiya: li chiamano «i ricchi in mutande» da quando furono ammanettati a Mosca con un milione di dollari non dichiarati e cuciti nella biancheria intima. Timur e Alfiya, amici del Principe Andrea, invitati di riguardo al matrimonio reale di William&Kate, in agosto hanno venduto ai cinesi le loro quote della Tengri: appena in tempo, prima che i dirigenti venissero arrestati per distrazione di fondi. Infine c’è l’Italian Connection: un ex ministro di Nazarbayev che ora da Parigi guida l’opposizione, Mukhtar Ablyazov, ha ricordato l’incredibile risiko bancario che portò anche il più grande istituto italiano, Unicredit, a strapagare 2,1 miliardi di dollari una banca (Atf) che apparteneva a Bulat Utemuratov, un affiliato di Nazarbayev. Sei anni dopo, nel 2013, la stessa Unicredit ha rivenduto l’Atf per 493 milioni a un nipote di Nazarbayev, Akhmetzhah Yessimov. Il quale a sua volta la girò al Jysan Bank, il bancomat di Nazarbayev. Un’operazione costata ad Unicredit la strabiliante cifra di 1,6 miliardi di dollari, che finì nelle tasche del dittatore. Perché la banca italiana accettò di perdere tanti soldi? In quei mesi il regime andava accusando l’Eni d’essere in ritardo con i contratti per lo sfruttamento dei pozzi di Kashagan e minacciava di farle pagare una maxi-penale. Dopo l’operazione Atf, miracolosamente, Nazarbayev tolse ogni pressione su Eni.
È naturalmente il petrolio a dare profumo ai soldi di Nazarbayev. Questo figlio d’umili pastori, ex operaio siderurgico e capataz comunista, fu l’ultimo leader d’una repubblica sovietica a dichiarare l’indipendenza dall’Urss e il più lesto a fiutarne le opportunità. «Veniva a Mosca a chiedermi di spiegargli i segreti del business» ricorda l’ex ambasciatore americano Robert Strauss. Nel 1993, da poco diventato presidente, Nazarbayev già offriva in saldo all’Occidente centinaia di missili sovieticiIl Dipartimento americano della Giustizia ha indagato spesso l’ex presidente kazako per corruzione, mentre il suo amico banchiere James Giffen, lobbista a Washington, è stato anche arrestato per 78 milioni di tangenti incassate da grandi compagnie petrolifere. Famosa la mazzetta da un miliardo di dollari offerta da Nazarbayev in persona a James Baker, nel mezzo d’un incontro ufficiale col segretario di Stato americano, perché favorisse una pipeline. O la proposta a Bush jr, tre mesi dopo l’11 settembre, d’aderire alla lotta al terrorismo in cambio d’un aiutino per i guai giudiziari negli Stati Uniti. In una colazione al Rockfeller Center, Nazarbayev chiese alle compagnie petrolifere, in cambio di contratti, di versare l’obolo per un suo investimento immobiliare a New York. Un nipote di Nursutan, Aisultan, 29enne figlio ribelle di Dariga con problemi di droga, un giorno fuggì a Londra e rivelò tra le altre cose una tangente da 1,5 miliardi versata al nonno dai russi di Gazprom, su un conto a Singapore. «Sono la pecora nera, mi daranno del tossico e mi uccideranno» predisse il ragazzo pochi mesi prima di morire all’improvviso, e non è mai stato chiarito come.
In trent’anni, dai conti del clan Nazarbayev in Svizzera e alle Isole Vergini sono usciti soldi un po’ per tuttiTrenta milioni finirono alla fondazione di Bill Clinton, che nel 2005 in visita nella capitale kazaka ne aveva tessuto pubbliche lodi. Altri nove a Tony Blair, assunto come advisor internazionale del regime. Nella lista dei consiglieri politici stavano anche Romano Prodi, l’ex cancelliere tedesco Schröder, quello austriaco Gusenbauer. Nell’elenco degli amici italiani c’era, soprattutto, Silvio Berlusconi. Il presidente Scalfaro conferì al dittatore l’onorificenza di Gran Croce. Del resto l’Italia è da anni il secondo partner d’affari europeo del Kazakistan. WikiLeaks nel 2012 rivela: le imprese italiane per lavorare sono obbligate a pagare il dittatore.
La figlia Dariga controlla i media e il partito unico. E assieme al figlio Nurali, al suocero Aisultan, alle sorelle Dinara e Aliya, ai cognati Timur e Bolat, gestisce lo sterminato patrimonio immobiliare di famiglia. Un elenco difficile da aggiornare: il castello di Bellerive e la villa coloniale a tre piani ad Anières, sul lago di Ginevra (valutati in 190 milioni di dollari); la quota al Plaza Hotel che domina Central Park a New York (20 milioni); le case a Wall Street, nel New Jersey e in Florida (30 milioni); le proprietà inglesi a Chelsea, ad Ascot e nel Surrey (165 milioni); «La Tropicale» di Cannes (34 milioni); e poi la tenuta spagnola di Lloret de Mar, gli alberghi termali in Repubblica Ceca, altri 140 milioni sparsi in proprietà che la National Crime Agency britannica ritiene «acquistati con denaro di fonte illecita».
Dopo settimane d’assenza, finita la rivolta, Nazarbayev è comparso in pubblico per rassicurare che «non c’è lotta per il potere» e che il padrone è ancora lui. Forse no, ma certamente resta padrone di tutto quello che ha arraffato, mentre il Kazakistan che lascia in eredità fa fatica a pagare la bolletta del gas ed è al 113esimo posto (su 180) nella classifica di Transparency International dei Paesi più corrotti. Al 157esimo in quella della libertà di stampa. Ha pochi eguali per inquinamento da scorie nucleari e sostanze tossiche. I kazaki considerano il pane, «nan», un alimento sacro e finito il pranzo, secondo tradizione, sulla tavola non ne deve mai avanzare. Il Leader della Nazione è stato il più bravo di tutti a non lasciare neanche una briciola.
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Nei primi due anni di pandemia i 10 uomini più ricchi del mondo hanno più che raddoppiato i loro patrimoni, passati da 700 a 1.500 miliardi di dollari, al ritmo di 15.000 dollari al secondo, 1,3 miliardi di dollari al giorno. Nello stesso periodo 163 milioni di persone sono cadute in povertà a causa della pandemia. E’ quanto emerge rapporto di Oxfam ’La pandemia della disuguaglianza’ pubblicato oggi lunedì 17 gennaio. Parliamo di una  elitè composta di oltre 2.600 super-ricchi, le cui fortune (ricchezza netta aggregata) sono aumentate dall’inizio dell’emergenza Covid19, di oltre a 5.000 miliardi di dollari in termini reali. Tutti i numeri del rapporto sono relativi ai primi 21 mesi di pandemia. Qui ne scegliamo cinque, quelli che ci hanno colpito di più

26 ore

Ogni quanto nasce un nuovo miliardario? Dall’inizio dell’emergenza Covid-19, ogni 26 ore un nuovo miliardario si è unito ad una élite composta da oltre 2.600 super-ricchi le cui fortune sono aumentate di ben 5 mila miliardi di dollari, in termini reali, tra marzo 2020 e novembre 2021.

3,1 mld

I più poveri nel mondo. Ad oggi questi 10 super-ricchi possiedono una ricchezza 6 volte maggiore dei 3,1 miliardi di persone più povere del mondo, ossia il 40% della popolazione mondiale. E se anche il valore delle loro fortune calasse del 99,993%, resterebbero comunque più ricchi di qualunque cittadino collocato tra il 99% più povero della popolazione mondiale.

+81,5 mld

Solo per Jeff Bezos, il numero uno di Amazon.  Il fatturato di Amazon è decollato con il COvid-19, Oxfam calcola un “surplus patrimoniale” nei primi 21 mesi di pandemia di 81,5 miliardi di dollari, l’equivalente del costo stimato della vaccinazione (due dosi e booster) per l’intera popolazione mondiale.

-800 mld

I redditi persi dalle donne. La pandemia, poi, ha colpito più duramente le donne, che hanno perso 800 miliardi di dollari di redditi nel 2020. Tuttora, mentre l’occupazione maschile dà segnali di ripresa, si stimano per il 2021 13 milioni di donne occupate in meno rispetto al 2019.

414 anni

Quanto tempo per diventare poveri? Per spendere le proprie fortune al ritmo di 1 milione di dollari al giorno ciascuno, questi 10 ultra-miliardari necessiterebbero di 414 anni, scrivono gli analisti di Oxfam

Secondo Oxfam, i monopoli detenuti da Pfizer, BioNTech e Moderna hanno permesso di realizzare utili “per 1.000 dollari al secondo e creare cinque nuovi miliardari”. Al contempo “meno dell’1% dei loro vaccini ha raggiunto le persone nei Paesi a basso reddito”. La percentuale di persone con COVID-19 che muore a causa del virus nei Paesi in via di sviluppo – denuncia la Ong – è circa il doppio di quella dei Paesi ricchi, mentre ad oggi nei Paesi a basso reddito è stata vaccinata appena il 4,81% della popolazione.

  • Le cinque domande inerenti a Céline
1) Niente è gratuito in questo basso mondo si legge all'inizio della narrazione: quali sono le implicazioni, che Céline esplicita chiaramente e preliminarmente, di questa affermazione?

2) Il racconto è preceduto da una sorta di brevissima introduzione storica. Quale ne è il senso comunicativo?

3) Il racconto, in modo esplicito, tratta il tema del destino e della libertà degli esseri umani: identifica un passo attinente a questo tema, da commentare. 

4) Ricostruisci i primi tasselli oggettivi della scoperta di Semmelweis.

5) A p. 51 (edizione Adelphi) si legge di un provvedimento assunto per diminuire i decessi delle puerpere che sortisce un fuorviante successo. Di che cosa si tratta e perché fuorviante?

  • Dal mio commento al racconto di Melville riporto uno stralcio:
Bartleby incarna allora, per via di questo passaggio accelerato attraverso la narrazione, l'inane  opposizione ai meccanismi della produzione seriale, di cui allora un osservatorio come Wall Street poteva offrire una già estesa e variegata espressione. In questo tipo di ambiente risultano possibili e sensati solo due atteggiamenti: l'obbedienza e la contraffazione. Chi invece palesi una contraddizione viene considerato abnorme, nel senso letterale di fuori dalla norma e contrario a essa in un modo che genera al contempo paura e confusione. Basti pensare alla reazione di quelli che non riescono a liberarsi di Bartleby e devono ricorrere alla forza. Una forza immotivata, sproporzionata, come l'arresto perpetrato nei suoi riguardi, insostenibile nelle sue motivazioni se non ricorrendo al sotterfugio del comportamento contrario alla ragionevolezza, con tutta la genericità e approssimazione contenute in una simile espressione. Con tutta l'ipocrisia, anche, per riprendere un elemento introdotto in precedenza.
  • Articolo da Il Manifesto del 26/04/2018 di Giancarlo Visitilli*, Il bullismo rileva un fallimento educativo, culturale e politico.

È in atto una crisi culturale, un problema non solo italiano ma che riguarda la specie. È in corso, da decenni, una crisi pedagogica, di grande consistenza, che genera, ormai quotidianamente, atti di bullismo, da Lucca, Milano a Bari, passando per Velletri. Si tratta di una toponomastica che rileva un fallimento educativo, culturale, politico. Abbiamo fallito tutti, perché ognuno, in qualche misura è educatore. E se fallisce la famiglia, avviene quel processo, quasi naturale, dello scarica barile, che si ripercuote sulla scuola. Questa, che dovrebbe essere l’agenzia principe in cui imparare, piuttosto che «cose» (competenze) comportamenti, sapere e processi che derivano dalla poesia, dalla letteratura, dalla storia, dalle leggi fisiche e matematiche, quelle che ancora reggono in un loro sistema, invece, è stata depauperata e resa sterile.

TUTTO SEMBRA essere regolato dalle stesse leggi che Marchionne insegue per incrementare i suoi profitti. Siamo in un sistema scolastico funzionale, in cui anche io, docente, non sono altro che un perno che regge un sistema rotatorio con una sua funzione, utile a riprodurre un tot numero di diplomati, prodotti in serie. La scuola ha una sua funzione e di essa ci si serve sempre più per far funzionare il sistema, specie quando l’immissione in ruolo di migliaia di insegnanti ci si illude che possa servire ad oliare la macchina. Come fosse la mancanza di insegnanti il vero problema della scuola italiana.

NELLA SCUOLA pubblica non crede più nessuno, tantomeno chi sale sullo scranno e, a seconda del titolo di studio, posseduto o meno, si inventa delle (non) riforme, utili a rendere la scuola industria con padroni, controllori e controllati, numeri, che a loro volta devono rispondere a test cifrati. E se prima, almeno, la scuola era il luogo della conoscenza (gli ultimi dati rilevano una consistente ignoranza degli studenti italiani in diverse discipline, dal Nord al Sud), figurarsi se si può parlare ancora della scuola come il luogo dell’educazione alla sapienza, quella per cui avvertire quel senso di stupore e di meraviglia, che solo a scuola si può insegnare. E i bambini non spalancano più le loro bocche, perché non gli si insegna più storie utili a provocargli quel senso di bellezza e meraviglia. Gli adolescenti si annoiano e gli universitari abbandonano.

La vera riforma dovrebbe attuarsi cambiando i programmi, i contenuti, ponendo al centro dell’interesse più che come insegno, cosa offro. E non sono le Lim, le tante innovazioni tecnologiche, che hanno generato solo la «scuola dei senza…», a garantire il buon rendimento della scuola, altrimenti non avremmo un atto di bullismo ogni quattro giorni. Se tornassimo ad insegnare ai nostri figli, sin dall’età più piccola, lo stupore, eviteremmo di insegnare anche a loro, dalla scuola elementare, a rispondere a dei test con le crocette, deprivati di colore, privi di qualsiasi forma e di immaginazione. Numeri. E così fino all’Università, dove si devono superare test, piuttosto che esami in cui confrontarsi con altre teste. Tutto questo genera un clima di ostilità, di diffidenza e di sfiducia, sia in chi avrebbe la pretesa di educare, ma soprattutto nei bambini, nelle bambine e negli adolescenti.

I BULLI SONO lo specchio di un’educazione che evidentemente genera solo frustrazioni e disistima, che hanno sfogo nella violenza. se si lascia erodere la scuola, discreditandola, sia quando i nostri figli sono a casa ma soprattutto dando il cattivo esempio che proviene da qualsiasi politica in atto nel nostro paese, perché meravigliarsi del bullo di Lucca che minaccia il suo professore, intimandogli di mettere un sei sul registro? Dove sta l’arcano se un padre, in una scuola di Bari, prende a pugni l’insegnante di sua figlia per averle detto di rimanere al suo posto? Tutto ciò è normalità. fa parte dei comportamenti che i nostri figli guardano in tv, e non solo quando si tratta di uomini e donne fatti accomodare su troni per gente adirata, «per amore».

SI LITIGA A CASA, si fa a botte in strada e ci si ammazza per niente. La somma di questi comportamenti avviene con consuetudine anche nel nostro parlamento. Il nostro paese è diventato bullo. E se mancano le regole a casa, se si è impossibilitati ad insegnarle a scuola, non si usano più nella prassi politica di un Paese, dove andare a recuperare il senso di un vivere civile e democratico se non a scuola (starei per coniare un hashtag, #senonascuoladove)? Affrontare in tal modo la questione è come «quando cerchiamo di arrivare a discutere delle questioni fondamentali, prima o poi ci ritroviamo seduti intorno al letticciuolo di Socrate, nella prigione di Atene», come sosteneva un uomo, maestro, che nella scuola pubblica italiana ci credeva, Tullio De Mauro.

* Presidente e fondatore coop. soc. «i bambini di Truffaut»

  • Le nuvole di Aristofane rappresentano anche, ma non solo, un conflitto generazionale. Cosa intendiamo con conflitto generazionale? Come si configura nella commedia e come lo troviamo trasposto eventualmente oggi? 
  • RICERCA EURISPES 2017 IL POTERE IN ITALIA, UNA GERONTOCRAZIA PER SOLI UOMINI 

Gli uomini - dice la ricerca - rappresentano ben l'85% della classe dirigente, a fronte di un contenuto 15% di donne. Sebbene il numero delle donne potenti sia raddoppiato in vent'anni (erano il 7,8% del totale nel 1992 a fronte del 92,2% degli uomini), la presenza femminile nelle posizioni di potere continua a rappresentare un'eccezione. Allo stesso tempo, le élite al potere hanno le caratteristiche di una vera e propria gerontocrazia, che offre pochi margini al ricambio generazionale, nella quale a contare sono in 8 casi su 10 (79,5%) gli over50. Infatti il potere si concentra soprattutto nelle mani di quanti hanno un'età compresa tra i 51 e i 65 anni (40,2%) e tra quanti hanno più di 65 anni (39,3%). Solo il 17,5% dei personaggi potenti e celebri ha tra i 36 ed i 50 anni, mentre i giovani (fino a 35 anni) costituiscono uno sparuto  3%. 

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