POST CON TUTTO IL MATERIALE RELATIVO A FEDRO E MODELLO DI COMPITO DEFINITIVO

 Presentazione dell'autore

Fedro è il primo favolista latino di cui ci sia giunta l'opera. Nato in Macedonia, verso la fine del I secolo a. C.,  fu presumibilmente portato a Roma come schiavo in giovanissima età. Una prima informazione in questo senso giunge dall'epiteto libertus Augusti, con cui è accompagnato il suo nome nel manoscritto che contiene le sue Fabulae. Liberato dal princeps, potè completare l'istruzione e dedicarsi a insegnare e a scrivere. Tra le poche notizie biografiche ricostruibili figura, per essere stata annotata da lui stesso, una sorta di persecuzione da parte del famigerato ministro di Tiberio di nome Seiano, che avrebbe sferrato un attacco personale nei confronti di Fedro, reo di aver larvatamente criticato il potere dell'epoca e la quasi permanente sopraffazione di deboli e umili da parte dei potenti. Analogamente ricostruibile da sue annotazioni, lo scarso successo goduto dalla sua opera presso i contemporanei: la fama di Fedro, infatti, nasce tardivamente, di sicuro dopo l'età umanistico-rinascimentale, anche in ragione dello sfruttamento  in ambito scolastico dei suoi componimenti, rappresentativi di una lingua semplice e chiara e di un contenuto morale edificante.  

L'opera di Fedro si è fissata nel tempo in cinque volumi di favole in versi, per un totale di cento componimenti. L'umanista Niccolò Perotti nel 1470 ha integrato il manoscritto con una scelta di 32 favole dell'Autore, nota come Appendix Perottina. Sebbene a Roma Fedro sia pioniere del genere favolistico, esso non ha in lui il suo primo praticante. Infatti fra il VII e il VI secolo a. C. in Grecia Esopo, anch'egli schiavo, scrive le prime favole note nel mondo occidentale, in forma prosastica. Da Esopo Fedro trae ispirazione secondo il principio di aemulatio, riprendendo quindi la forma dominante della sua opera, ovvero l'apologo animalesco, ma variandolo sostanzialmente dal punto di vista formale (adotta appunto i versi, in particolare i senari giambici in uso nella commedia) e contenutistico, inserendo anche personaggi umani. L'origine schiavile di entrambi i favolisti viene spesso utilizzata per spiegare il tipo di visione del mondo che, nell'insieme, si può ricavare dalle loro opere: sotto le apparenze animalesche, vizi e virtù si contrappongono sulla scena del mondo, e dal conflitto, nonché dai vincitori del medesimo, prevale l'impressione che i forti e gli arroganti siano destinati ad avere la meglio in quella sorta di lotta per la vita alla quale si è chiamati a partecipare dalla nascita alla morte. 

Presentazione della favola

La favola sotto riportata è antologizzata col titolo Il lupo magro e il cane grasso, anche se ben potrebbe addirle un titolo come Quanto vale la libertà. Protagonisti, come da prevalente impostazione delle favole esopiche e fedriane, sono due animali: un  cane, connotato secondo tradizione come deputato a tutelare, proteggere, favorire, in cambio del mantenimento, gli interessi materiali del padrone, e un lupo, anche lui canonicamente descritto come creatura libera e selvaggia, refrattaria a qualsiasi forma di addomesticamento. L'impostazione dialogica, spesso prescelta dal poeta, consente una caratterizzazione dei due animali fin dall'inizio precisa. Il lupo manifesta subito il suo stupore per l'aspetto florido del cane, in contrasto con la condizione di magrezza in cui versa lui, che pure è dalla natura ben più dotato in termini di forza predatoria. Il cane gli rivela immediatamente quale sia il segreto delle sue ottime condizioni di salute e gli suggerisce di abbandonare la vita raminga per affidarsi alle cure d'un padrone, in cambio di minimi servigi. Sedotto dalla prospettiva allettante di avere cibo in abbondanza e senza soverchia fatica, il lupo si predispone a seguire il suggerimento del cane, ma lungo la strada s'accorge di una dettaglio dal suo punto di vista non trascurabile: il collo del cane reca i segni di una catena, che gli viene rivelato essere una sorta di scotto da pagare in cambio del mantenimento in precedenza magnificato. La morale della favola, come da topos favolistico proposta alla fine, è affidata a un'orgogliosa proclamazione del lupo: nemmeno un regno accetterebbe, se in cambio dovesse cedere la sua libertà. 

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Cani perpasto macie confectus lupus
forte occurrit; dein, salutati invicem
ut restiterunt, "Unde sic, quaeso, nites?
Aut quo cibo fecisti tantum corporis?
Ego, qui sum longe fortior, pereo fame."
Canis simpliciter: "Eadem est condicio tibi,
praestare domino si par officium potes".
"Quod?" inquit ille. "Custos ut sis liminis,
a furibus tuearis et noctu domum.
Adfertur ultro panis; de mensa sua
dat ossa dominus; frusta iactat familia,
et quod fastidit quisque pulmentarium.
Sic sine labore venter impletur meus".
"Ego vero sum paratus: nunc patior nives
imbresque in silvis asperam vitam trahens.
Quanto est facilius mihi sub tecto vivere,
et otiosum largo satiari cibo!"
"Veni ergo mecum". Dum procedunt, aspicit
lupus a catena collum detritum cani.
"Unde hoc, amice?". "Nil est". "Dic, sodes[si audes], tamen".
"Quia videor acer, alligant me interdiu,
luce ut quiescam, et vigilem nox cum venerit:
crepusculo solutus quvisum est vagor".
"Age, abire si quo est animus, est licentia?"
"Non plane est" inquit. "Fruere quae laudas, canis;
regnare nolo, liber ut non sim mihi".

Casualmente un lupo dall’aspetto emaciato incontra un cane bello florido; salutatisi reciprocamente, si fermarono a discorrere: “Da dove ti viene questa splendida forma? Come hai fatto a procurarti un simile aspetto? Io, che sono ben più forte di te, muoio di fame.” Il cane, in poche parole, gli spiega: “Ti troveresti nella mia medesima condizione, se potessi rendere un servizio come quello che fornisco io al padrone”. “Quale servizio?” chiede il lupo. “Custode alla porta, in difesa dai ladri e della casa di notte. Si ottiene pane a volontà; il padrone lascia gli avanzi della mensa; i servi gettano i bocconi e gli scarti. Così mi riempio la pancia senza fatica.” “Eccomi pronto: ora patisco le intemperie, conducendo una vita difficile nei boschi. Quanto è più semplice vivere in una casa e saziarsi abbondantemente in totale agio!” “Vieni con me, allora”. Mentre procedono, il lupo s’accorge del collo del cane spelacchiato da una catena. “Da dove viene questo segno, amico mio?” “Non è nulla”. “Ma dimmelo comunque, per piacere”. “Poiché sembro vivace, qualche volta mi legano, perché di giorno io stia quieto e  sia bello sveglio quando sopraggiunga la notte: al crepuscolo, libero, vado in giro dove mi pare e piace”. “Ma se uno ne ha voglia, è libero di andarsene?” “No di certo” rispose. “Caro il mio cane, goditi pure ciò di cui fai vanto; da parte mia, non vorrei essere re, a scapito della mia libertà”.  CB

 Prologus

Aesopus auctor quam materiam repperit,
hanc ego polivi versibus senariis.
Duplex libelli dos est: quod risum movet,
et quod prudenti vitam consilio monet.
Calumniari si quis autem voluerit,
quod arbores loquantur, non tantum ferae,
fictis iocari nos meminerit fabulis.

Si tratta della favola con cui il libellus di Fedro ha inizio. Non a caso il titolo suona prologus. Il prologo è una parte di testo che compare anche nelle commedie. Se ne servono sempre  Plauto e Terenzio nelle loro commedie: per il primo si tratta di raccontare la trama della commedia per sommi capi, per il secondo di  giustificare alcune scelte autoriali. In qualche caso si possono rintracciare entrambe le funzioni contemporaneamente.  Il suo utilizzo al principio della raccolta di Fedro è riconducibile alla seconda funzione, dato che si tratta appunto di una raccolta, e una sintesi non le si addirebbe. Fedro quindi, prende la parola per spiegare il processo compositivo ovvero come abbia  esercitato l'attività riassunta nel verbo polire componendo versi senari (la forma metrica delle favole). Entra poi nel merito degli obiettivi comunicativi delle sue favole: risum movere e prudenti vitam consilio monere. Conclude poi con una sorta di giustificazione preventiva, volta a difendersi da eventuali calumniae che si appuntino sul fatto che nelle sue favole ferae e arbores siano dotati di parola. 

Lupus et Agnus, I, 2

Ad rivum eundem lupus et agnus venerant, siti compulsi.
Superior stabat
 lupus, longeque inferior agnus.
Tunc  fauce improba  latro incitatus  iurgii causam intulit:
"Cur - inquit - turbulentam fecisti  mihi  aquam bibenti?"
Laniger contra timens:
"Qui possum - quaeso - facere quod quereris, lupe? A te decurrit ad meos haustus liquor."
Repulsus ille veritatis viribus:
"Ante hos sex menses male - ait - dixisti mihi".
Respondit agnus:
"Equidem natus non eram!"
"Pater, hercle, tuus - ille inquit - male dixit mihi!"
Atque ita correptum lacerat  iniusta nece.
Haec propter illos scripta est  homines fabula qui  fictis causis  innocentes opprimunt.
Un lupo e un agnello si erano recati al medesimo ruscello, spinti dalla sete. Il lupo stava più in alto, molto più in basso l'agnello. Allora il predatore, stimolato da malevola insaziabilità, cercò il pretesto di un litigio: "Perché" domandò "hai intorbidato l'acqua che bevevo?". In risposta, tutto timoroso, l'agnello "Ma ti prego, come potrei, lupo, fare quello  che lamenti? L'acqua scorre dalla tua direzione verso di me." Respinto dalla forza della verità, incalza: "Hai parlato male di me sei mesi or sono". Replica l'agnello: "Non ero ancora nato!". E quello insistette: "Per Ercole, è stato tuo padre a parlar male di me". E così lo ammazza del tutto senza motivo.  Questa favola è  scritta per colpire quegli uomini che con falsi pretesti calpestano gli incolpevoli. C. B.

Ranae regem petunt I, 3

Athenae cum florerent aequis legibus,
procax libertas civitatem miscuit,
frenumque solvit pristinum licentia.
Hic conspiratis factionum partibus
arcem tyrannus occupat Pisistratus.
Cum tristem servitutem flerent  Attici,
(non quia crudelis ille, sed quoniam grave
omne insuetis onus), et coepissent queri, 
Aesopus talem tum fabellam rettulit.
'Ranae, vagantes liberis paludibus,
clamore magno regem petiere a Iove,
qui dissolutos mores vi compesceret.
Pater deorum risit atque illis dedit
parvum tigillum, missum quod subito vadi
motu sonoque terruit pavidum genus.
Hoc mersum limo cum iaceret diutius,
forte una tacite profert e stagno caput,
et explorato rege cunctas evocat.
Illae timore posito certatim adnatant,
lignumque supra turba petulans insilit.
Quod cum inquinassent omni contumelia,
alium rogantes regem misere ad Iovem,
inutilis quoniam esset qui fuerat datus.
Tum misit illis hydrum, qui dente aspero
corripere  coepit singulas. Frustra necem
fugitant inertes; vocem praecludit metus.
Furtim igitur dant Mercurio mandata ad Iovem,
adflictis ut succurrat. Tunc contra deus
"Quia noluistis vestrum ferre" inquit "bonum,
malum perferte". Vos quoque, o cives, ait,
hoc sustinete, maius ne veniat, malum.
Nel tempo in cui ad Atene prosperavano buone leggi, la libertà produsse degli eccessi, confondendo la popolazione, e l'arbitrio sostituì l'antica moderazione. Dopo un accordo fra fazioni, conquistò il potere, in veste di tiranno,  Pisistrato. Dato che gli abitanti dell'Attica deploravano lo stato di asservimento, non perché egli fosse crudele, ma perché a chi non sia abituato ogni carico pare grave, e iniziavano a lamentarsi, ecco cosa concepì allora Esopo. 
Le rane, libere e vagabonde negli stagni, a gran voce reclamarono da Giove un re, che tenesse a freno i loro costumi dissoluti. Il padre degli dei rise e gettò loro un bastoncino, che appena piombato inatteso in acqua terrorizzò quelle pavide creature con il tonfo rumoroso. Restando piuttosto a lungo  immerso nel fango, in totale immobilità, a un certo punto una rana zitta zitta tira su il capo dal fango e, esplorato il re, le chiama tutte a raccolta. Loro, messa da parte la paura, vanno a gara per raggiungerlo, ci saltano sopra, petulanti. Dopo averlo ricoperto d'ingiurie, mandarono a chiedere a Giove un altro re, dato che quello assegnato era risultato inutile. Allora egli mandò loro un'idra, che iniziò a divorarle con le sue fauci una a una, mentre esse, impotenti, tentano invano di sfuggirle. Lo spavento toglie loro la voce. Così, di nascosto incaricano Mercurio di chiedere soccorso per loro così travagliate a Giove. Ma di rimando il dio del tuono dice: "Dal momento che non avete  voluto sopportare il vostro bene, ora tenetevi il male". Anche voi, concittadini, sopportate questo momento, perché non ne arrivi uno peggiore. CB

Graculus superbus et pavo, I, 4

Ne gloriari libeat alienis bonis,
suoque potius habitu vitam degere,
Aesopus nobis hoc exemplum prodidit.
Tumens inani graculus superbia
pinnas, pavoni quae deciderant, sustulit,
seque exornavit. Deinde, contemnens suos,
immiscet se ut pavonum formoso gregi; 
illi impudenti pinnas eripiunt avi,
fugantque rostris. Male mulcatus graculus
redire maerens coepit ad proprium genus,
a quo repulsus tristem sustinuit notam.
Tum quidam ex illis quos prius despexerat
'Contentus nostris si fuisses sedibus
et quod Natura dederat voluisses pati,
nec illam expertus esses contumeliam
nec hanc repulsam tua sentiret calamitas'.


Si capisce bene da cosa sia dettata la morale proposta da Fedro in questa favola: è in armonia con lo spirito di qualcuno che, nella situazione sociale contingente si trovava da una parte ad assistere a incredibili ascese sociali, accrescimenti di ricchezze a danno di altri, dall'altra a subire forme di condizionamento anche pesanti, persino in termini di attività artistica. Fedro insiste, è indubbio, sulla vanità della cornacchia, che non potrà mai essere convincente nel suo bardarsi da pavone, ma mette di fronte il lettore a una punizione persino eccessiva nei suoi riguardi, rimarcata dal moralista che nella parte conclusiva della favola prende la parola per cacciare per sempre dal gruppo colei che aveva commesso questo errore. Si tratta, per la morale qui espressa, di accettarsi come si è, d'accordo, ma a volte accade che anche la natura ponga dei limiti che può essere importante, funzionale a sé e alla collettività, cercare di superare.

Lupus et gruis, I, 9
Qui pretium meriti ab improbis desiderat,
bis peccat: primum quoniam indignos adiuvat,
impune abire deinde quia iam non potest.
Os devoratum fauce cum haereret lupi,
magno dolore victus coepit singulos
inlicere pretio ut illud extraherent malum.
Tandem persuasa est iureiurando gruis,
gulae quae credens colli longitudinem
periculosam fecit medicinam lupo.
Pro quo cum pactum flagitaret praemium,
'Ingrata es' inquit 'ore quae nostro caput
incolume abstuleris et mercedem postules'.
Sbaglia due volte chi s'aspetta ricompense dai malvagi: perché aiuta chi non se lo merita e poi perché rischia di perderci un bel po'. Un lupo soffriva molto per un osso incastratosi nelle sue fauci, e prometteva a chiunque gran ricompense se lo avesse liberato dal male. Alla fine lo spergiuro persuade una gru, che infilando il lungo  collo, compie la pericolosa operazione. E per tutta ricompensa, a lei che la esige, il lupo dice: "Bella ingrata! Hai sfilato dalle mie fauci il collo senza che ti facessi niente e adesso chiedi una ricompensa!" CB

Canis per fluvium carnem ferens , I, 5

Amittit merito proprium qui alienum adpetit.
Canis, per flumen carnem dum ferret, natans
lympharum in speculo vidit simulacrum suum,
aliamque praedam ab altero ferri putans
eripere voluit; verum decepta aviditas
et quem tenebat ore dimisit cibum,
nec quem petebat potuit adeo adtingere.

Quant'è vero che si merita di perdere quello che ha, chi desidera le cose altrui. Un cane nuotava nel fiume con un pezzo di carne in bocca, quando scorse il proprio riflesso in acqua e, credendo che un altro cane trasportasse un altro boccone, glielo volle sottrarre; ma l'avidità lo tradì e non solo non poté avere quel che bramava, ma perse anche ciò che teneva prima. CB

Vacca et capella, ovis et leo,  I, 6

Numquam est fidelis cum potente societas.
Testatur haec fabella propositum meum.
Vacca et capella et patiens ovis iniuriae
socii fuere cum leone in saltibus.
Hi cum cepissent cervum vasti corporis,
sic est locutus partibus factis leo:
"Ego primam tollo nominor quoniam leo;
secundam, quia sum fortis, tribuetis mihi;
tum, quia plus valeo, me sequetur tertia;
malo adficietur si quis quartam tetigerit'.
Sic totam praedam sola improbitas abstulit

Mai fidarsi di alleanze con dei potenti: lo dimostra bene questa favoletta. Una mucca, una capretta e una pecora avvezza a esser mite, si allearono con un leone nei boschi. Dopo aver catturato un grosso cervo, nel fare le parti il leone si espresse così: "Prendo la prima in virtù del mio nome, la seconda me la darete perché sono forte; poi, dato che valgo di più, la terza mi spetta; guai a chi toccasse la quarta." Così l'intera preda se la conquistò il malvagio. CB

Vulpis ad personam tragicam , I, 8

Personam tragicam forte vulpes viderat;
quam postquam huc illuc semel atque iterum verterat,
'O quanta species' inquit 'cerebrum non habet!'
Hoc illis dictum est quibus honorem et gloriam
Fortuna tribuit, sensum communem abstulit.

Una volpe aveva visto una volta una maschera tragica, l'aveva rivoltata un po' di volte e poi parlato così: "Tutta questa vistosità e poi il vuoto." Ciò vale per chi ha avuto dalla sorte onore e gloria, ma nessun buon senso. CB

Canis fidelis, I, 24

Repente liberalis stultis gratus est,
verum peritis inritos tendit dolos.
Nocturnus cum fur panem misisset cani,
obiecto temptans an cibo posset capi,
'Heus', inquit 'linguam vis meam praecludere,
ne latrem pro re domini? Multum falleris.
Namque ista subita me iubet benignitas
vigilare, facias ne mea culpa lucrum'.
Piace agli stolti chi all'improvviso si mostra generoso, ma a chi se ne intende non sfuggono le insidie. Un ladro, di notte, lanciava una pagnotta a un cane, per tentarlo con l'allettamento di un cibo, ma quello disse: "Ehi, mi vuoi tappare la bocca perché non abbai per proteggere la proprietà? Quanto ti sbagli. Codesta tua improvvisa generosità mi induce a stare in guardia, perché tu non ci guadagni, dal mio errore". 

FEDRO, III, 59 Cicada et noctua

Humanitati qui se non accommodat
plerumque poenas oppetit superbiae.
Cicada acerbum noctuae convicium
faciebat, solitae victum in tenebris quaerere
cavoque ramo capere somnum interdiu.
Rogata est ut taceret. Multo validius
clamare occepit. Rursus admota prece
accensa magis est. Noctua, ut vidit sibi
nullum esse auxilium et verba contemni sua,
hac est adgressa garrulam fallacia:
"Dormire quia me non sinunt cantus tui,
sonare citharam quos putes Apollinis,
potare est animus nectar, quod Pallas mihi
nuper donavit; si non fastidis, veni;
una bibamus." Illa, quae arebat siti,
simul gaudebat vocem laudari suam,
cupide advolavit. Noctua, obsepto cavo,
trepidantem consectata est et leto dedit.
Sic, viva quod negarat, tribuit mortua.

La noctua, descritta nella XLIX  favola del III libro della raccolta di Fedro, è un animale notturno, solito durante il giorno capere somnum nella cavità di un albero (cavo ramo). Nella favola si rivolge dapprima cortesemente (il verbo usato è rogare) alla sua antagonista (la cicada), al fine di ottenere che la lasci riposare, ma di fronte alla protervia di costei, che inizia a cantare ancora più forte (multo validius clamare) decide di tenderle un trabocchetto (fallacia), grazie al quale la uccide (dedit leto). La civetta, dunque, viene descritta dapprima come benintenzionata e provvista di umanità  (a rilevarlo è la morale espressa ai primi versi, compare la parola humanitati), ma poi, a fronte del disprezzo  della sua interlocutrice, vidit [...] verba contemni sua, diventa implacabile e si procura la tranquillità richiesta con la violenza. 

IV, 81

Plus esse in uno saepe quam in turba boni

Spesso, uno vale più di molti

Plus esse in uno saepe quam in turba boni
narratione posteris tradam brevi.


Quidam decedens tres reliquit filias,
unam formosam et oculis venantem viros,
at alteram lanificam et frugi rusticam,
devotam vino tertiam et turpissimam.
Harum autem matrem fecit heredem senex
sub condicione, totam ut fortunam tribus
aequaliter distribuat, sed tali modo:
"Ni data possideant aut fruantur"; tum "simul
habere res desierint quas acceperint,
centena matri conferant sestertia."
Athenas rumor implet, mater sedula
iuris peritos consulit; nemo expedit
quo pacto ni possideant quod fuerit datum,
fructumve capiant; deinde quae tulerint nihil
quanam ratione conferant pecuniam.
Postquam consumpta est temporis longi mora,
nec testamenti potuit sensus colligi,
fidem advocavit iure neglecto parens.
Seponit moechae vestem, mundum muliebrem,
lavationem argenteam, eunuchos glabros;
lanificae agellos, pecora, villam, operarios,
boves, iumenta et instrumentum rusticum;
potrici plenam antiquis apothecam cadis,
domum politam et delicatos hortulos.
Sic destinata dare cum vellet singulis
et adprobaret populus, qui illas noverat,
Aesopus media subito in turba constitit:
"O si maneret condito sensus patri,
quam graviter ferret quod voluntatem suam
interpretari non potuissent Attici!"
Rogatus deinde solvit errorem omnium:
"Domum et ornamenta cum venustis hortulis
et vina vetera date lanificae rusticae;
vestem, uniones, pedisequos et cetera
illi adsignate vitam quae luxu trahit;
agros et villam et pecora cum pastoribus

donate moechae. Nulla poterit perpeti
ut moribus quid teneat alienum suis.
Deformis cultum vendet ut vinum paret;
agros abiciet moecha ut ornatum paret;
at illa gaudens pecore et lanae dedita
quacumque summa tradet luxuriam domus.
Sic nulla possidebit quod fuerit datum,
et dictam matri conferent pecuniam
ex pretio rerum quas vendiderint singulae."
Ita quod multorum fugit inprudentiam
unius hominis repperit sollertia.



Voglio lasciare memoria di  come spesso uno solo valga più di tanti.

Un padre, morendo, lasciò tre figlie, una attraente e civetta, una abile nella filatura e rozza, una terza ripugnante, sempre attaccata alla bottiglia. Il vecchio assegnò l’eredità destinata a costoro alla madre, imponendo la condizione che suddividesse equamente l’intera fortuna fra loro tre in tal modo, ossia “Di non renderle né proprietarie né usufruttuarie” e poi “di assegnare sesterzi in quantità centuplicata alla madre sia in caso di rinuncia sia in caso di accettazione dell’eredità.” Ad Atene le chiacchiere abbondano, la madre in tutta fretta consulta esperti avvocati; nessuno capisce come possano ricavare una rendita da un possesso inesistente; e poi, come possano dare soldi se non hanno preso nulla. Dopo aver trascorso molto tempo senza essere riusciti  ad assegnare un significato al testamento, la madre, messo da parte il diritto, s’appellò alla sua coscienza. Alla civetta assegnò vestiti e belletti, suppellettili eleganti, eunuchi; all’industriosa filatrice campi, pecore, fattoria, braccianti, buoi giumente e attrezzi rustici; alla beona  la cantina piena di orci, la casa elegante e i bei giardini. Mentre così si apprestava alla distribuzione e il popolo approvava, data la conoscenza che aveva di loro tre, all’improvviso ecco Esopo tra la folla che dice: “Se il povero padre dalla tomba potesse sentirvi, come sopporterebbe di mala grazia la totale incomprensione della sua volontà da parte degli abitanti dell’Attica!”

Richiesto quindi di rimediare all’errore collettivo: “Date casa e suppellettili, giardino e vino d’annata alla filatrice; abiti, perle, schiavi alla dissipatrice; campi e fattoria, pecore e pastori alla beona. Nessuna riuscirà a tenere qualcosa di così estraneo ai propri costumi. Quella brutta venderà  per procurarsi vino, la civetta svenderà campi per procurarsi abiti; quella dedita alla filatura  e a cui piacciono le pecore darà via a qualsiasi prezzo la casa lussuosa. Così nessuna possiederà ciò che le è stato dato e dal prezzo della vendita ricaveranno il denaro dovuto alla madre.” Fu così che l’avvedutezza  di uno solo sopperì alla mancanza di senno di molti.

CB

 Calvus et musca V, 3

Calvi momordit musca nudatum caput;
quam opprimere captans alapam sibi duxit gravem.
Tunc illa irridens: "Punctum volucris parvulae
voluisti morte ulcisci; quid facies tibi,
iniuriae qui addideris contumeliam?"
Respondit: "Mecum facile redeo in gratiam,
quia non fuisse mentem laedendi scio.
Sed te, contempti generis animal improbum,
quae delectaris bibere humanum sanguinem,
optem necare vel maiore incommodo".
Hoc argumentum veniam ei dari docet
qui casu peccat. Nam qui consilio est nocens,
illum esse quamvis dignum poena iudico.

Una mosca si dà da fare a mordere una testa pelata; il malcapitato, nel tentativo di schiacciarla, si diede un colpo secco sulla testa. L'animale allora prese a deriderlo: "Volevi proprio vendicarti a morte del morso di un povero insettino; cosa farai a te stesso, per aver sommato sfregio a sfregio?" E lui allora: "Con me stesso mi riconcilio in fretta, perché so di non aver avuto intenzione di farmi del male. Ma quando si tratta di te, spregevole animale dedito a succhiarci il sangue, certo che desidero ammazzarti, anche a un prezzo maggiore per me." Qui si suggerisce di perdonare chi fa male per caso. Invece, nessuna indulgenza per chi nuoce in maniera deliberata. CB
-----------------------------------------------------------------------------------------------------------MODELLO DEL COMPITO
I PARTE: materiali noti
  • Utilizzando le favole III, 59 (Cicada et noctua) e I, 8 (Vulpis ad personam tragicam) concepisci un focus sulla natura umana attraverso due favole di Fedro, all'interno del quale devi dimostrare di saper utilizzare la tecnica delle citazioni (almeno tre per favola) in latino, da riportare in latino e in traduzione, e adeguatamente commentare per ricondurle al tema del focus. Nel compito ovviamente riporterò le due (o tre) favole di cui servirsi senza traduzione, solo in latino. 
II PARTE: materiale ignoto
  • Asinus ad lyram, Appendix Perottina, 113

    Asinus iacentem vidit in prato lyram. 
    Accessit et temptavit chordas ungula;
    sonuere tactae. "Bella res, sed, mehercules,
    male cessit" inquit "artis quia sum nescius.
    Si repperisset aliquis hanc prudentior,
    divinis aures oblectasset cantibus."
    Sic saepe ingenia calamitate intercidunt.
RIORDINO: Un asino vide in un prato una lira che giaceva. Si avvicinò e provò le corde con lo zoccolo;(appena) toccate, risuonarono. "Che cosa graziosa, ma, per Ercole, è finita malamente, disse, perché (io) sono ignorante dell'arte. Se l'avesse trovata qualcuno più esperto, avrebbe dilettato le orecchie con divine melodie." Così spesso gli ingegni per sventura vanno in rovina. 
LABOR LIMAE
Un asino, in un prato, vede a disposizione una lira. Si avvicina e sfiora le corde con lo zoccolo; risuonano al tocco. "Mirabile cosa, ma, per Ercole, è capitata male" disse "giacché io sono inetto all'arte. Se l'avesse trovata uno più esperto, avrebbe prodotto divine melodie." Così spesso hanno cattiva sorte gli ingegni. 

Riordino e labor limae con l'aiuto della mia libera traduzione.
Un asino trova in un prato una lira. S'avvicina, tasta le corde con lo zoccolo e, dato che risuonano al tocco, dice: "Per Giove, che bello! Arte sprecata, con me che non sono capace. Se fosse qui al mio posto uno più esperto, ci sarebbe da rifarsi le orecchie con le melodie!" Capita spesso che gli ingegni non siano fortunati. 

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