SAGGIO INTRODUTTIVO OVIDIO IN SOSTITUZIONE PROVVISORIA DI SERMONTI
OVIDIO
LA
PAROLA: UN DONO E UN ERROR
L’8
d.C. è un anno cruciale nella vita di Ovidio, nato a Sulmona, nei pressi di
L’Aquila, nel 43 a. C. L’imperatore Ottaviano Augusto, il princeps che nell’arco d’un ventennio è riuscito a fare quello che
al padre adottivo, Cesare, era costato un bel po’ di pugnalate mortali
(trasformare la res publica in imperium Augusti), lo condanna
all’esilio perpetuo, a Tomi. Da questo paese sperduto, coincidente con
l’attuale Costanza, sul mar Nero, Ovidio lancia disperati appelli a personaggi
influenti di Roma affinché intercedano presso il sovrano e gli procurino, se
non la possibilità di tornare a Roma, almeno quella di avvicinarsi all’Italia.
La relegatio dura invece fino alla
morte, avvenuta nel 17 o 18 d. C., dato che nemmeno il successore di Ottaviano,
Tiberio che subentra in veste di Augusto alla morte di quest’ultimo nel 14,
concede il perdono al poeta. Impossibile determinare con certezza quale sia stata
la colpa, il crimen commesso da
Ovidio: egli stesso vi allude vagamente nei Tristia,
indicando come motivi un atto preciso e un carmen.
Il primo sarebbe stato (le ipotesi nel tempo si sono sprecate) la connivenza
con spregiudicate relazioni di Giulia minore, nipote di Ottaviano; il secondo
potrebbe essere la raccolta di elegie intitolata Ars Amatoria, pubblicata e ben nota da anni, quando il poeta viene
condannato.
Se fosse il carmen licenzioso e sfrenato ad aver determinato l’ira senza
appello di Ottaviano, il moralizzatore, nei confronti di Ovidio, sarebbe
tuttavia da registrare una specie di effetto ritardato nel prodursi della
censura. Meglio quindi fare astrazione da quella che sia stata la verità dei fatti e concentrarsi invece
su quel monumento dell’ingegno compositivo che sono Le metamorfosi, scritte in età matura, dopo la prova elegiaca dell’Ars amatoria. Vale comunque la pena
partire, per così dire, dal fondo della vita di Ovidio, nonché dal fondo della
sua parabola esistenziale, dato che si manifesta
in questo una sorta di inveramento di profezia contenuta nelle Metamorfosi, pubblicate poco prima
dell’esilio: vivam è l’ultima parola
dell’opera che l’Autore volle diventasse la sua unica, vera tomba. Una tomba
che è la negazione della morte, e l’affermazione del privilegio che, da tempo
immemore e oggi ancora, si assegna all’arte. Quello di rendere eterni gli
esseri umani che sanno praticarla. Vivam,
dunque, esclama il poeta Ovidio, in faccia e alla faccia del tiranno che
avrebbe voluto farlo sparire dal mondo anche prima di quando stabilito dal
fato.
L’antico nome di Costanza, o Tomi, era Tomis.
Colonia fondata dai Greci, etimologicamente imparentata con un verbo greco temno che significa taglio, si collega anche a una turpe e tragica vicenda mitica,
protagonista della quale è la terribile maga Medea, capace di vendetta atroce
nei confronti del marito fedifrago Giasone (uccide con le sue mani i figli avuti da lui), e già macchiatasi di delitto
analogamente contro natura durante la fuga con l’innamorato dalla terra del
padre: per far perdere le proprie tracce, non esita a uccidere e squartare il
fratellino, lasciandone pezzi in bella vista (sugli scogli di Tomi, appunto) perché
il padre freni la sua ricerca di lei. Nel VII libro delle Metamorfosi proprio alla sanguinaria maga Ovidio dedica un ritratto
di più di trecento versi, al contempo tetro e grandioso, ma non menziona la
circostanza dell’uccisione del fratello, che compare invece in altra opera, Heroides, sia pure solo fugacemente.
Il
personaggio di Medea attrae Ovidio per un motivo che racchiude, anche se non
compendia totalmente, il tipo di ispirazione elegiaca che gli è propria e che è
l’anima già dell’Ars amatoria: la maga è una pura incarnazione del desiderio, quello
che si muta in, o forse è originariamente, furor,
capace di conferire una forza trasgressiva a chi ne è invaso. E la trasgressione
si manifesta subito, nel caso di Medea, con una totale insubordinazione da
parte sua nei riguardi dell’autorità paterna. Uno straordinario dialogo fra sé
e sé, in cui Medea si manifesta schizofrenicamente, proprio all’inizio del VII
libro, la mostra preda di convulsi assalti di amore, ai quali per nulla riesce
a resistere la ragione: ella vede il meglio ma sceglie il peggio.
Vede che sarebbe preferibile rimanere nella Colchide accanto al padre, sceglie
invece di tradire lui e la sua gente, partendo con lo straniero appena
intravisto. Medea sceglie di deviare dalla via che i romani – Ovidio all’epoca
faceva parte del circolo di Mecenate, aurea tribuna, in parte, dell’imperatore
– chiamano del mos: rispetto, pietas, nei confronti della patria e
della familia, del pater familias in particolare. Medea si
abbandona, non senza che il poeta dia appunto voce al dissidio, all’imperio di
Cupido, al desiderio al quale inizialmente non si sa nemmeno che nome dare,
anche se gli effetti dei suoi assalti sono già evidenti e le ferite sanguinano.
Eppure Medea è una maga, ossia possiede un potere che la rende superiore agli
umani: non nella difesa dalle frecce d’amore, però, che colpiscono tutti
indistintamente. La relazione fra Medea e il padre può certo sembrare un calco
di quella fra Ovidio e Augusto, come pure una metafora di quanto il potere
rappresenti un permanente invito all’ordine (per i sudditi, è naturale) al
quale gli spiriti poetici, desideranti, innamorati e, pertinente in questo
caso, pratici di magia, sono refrattari. Il furor
non solo non può essere tenuto a freno, ma ha come conditio sine qua non per la sua esistenza l’opporsi alla
ragionevolezza e rifuggire un unico eccesso, quello di regole.
Possibile,
è una suggestiva ipotesi, che Ottaviano Augusto abbia colto, non solo nell’Ars amatoria, ma tanto più nelle Metamorfosi, lo spirito ostinatamente
oppositivo di Ovidio, tale nel profondo e non in manifestazioni esteriori. Per
questo ben più pericoloso per un potere che si stava solo allora iniziando a
consolidare. L’intelligente Augusto non poteva non cogliere come un nemico invisibile
e astratto sia ben più pericoloso di uno armato di pugnale che si deve comunque
nascondere nell’ombra per non essere visto. Quanto potere ha l’ars. Un potere metamorfico, sicuramente,
parente stretto di quello posseduto dai maghi. Medea può operare sulla materia proprio come sanno
fare i poeti, entrambi artefici
quindi, e bisognosi di autonomia nel poièin
che è loro prerogativa.
Seguo
quindi volentieri una via spesso proficua, nell’interpretazione di opere
d’arte, ossia quella di trovare nel testo uno (o più) personaggi che possano
essere considerati alter ego degli
autori. Come Dante nei confronti di Ulisse,
seguendo un intendimento di Borges, Medea è un alter ego di Ovidio, nel senso che ho appena indicato. Disobbedire
al padre ha un costo: oltre a Medea lo dimostra anche Fetonte, il figlio del
Sole, che nel II libro delle Metamorfosi
paga con la vita la sfida alla prerogativa paterna di guidare un carro fiammeggiante
per le vie del cosmo. Volgo quindi l’interpretazione in questa nuova direzione,
che accorpa il terzo personaggio: si tratta per tutti e tre di sfidare Apollo,
chi per esserne il figlio diretto (Fetonte), chi per via di un apparentamento
alla luce dell’auctoritas, il padre
di Medea e Ottaviano con Ovidio. I gesti arditi non di rado presuppongono una
sopravvalutazione delle proprie forze, ed è lì che si incunea la necessaria punizione, ovvero quella che
il potere stabilisce e rende senza appello: fulmini di Giove per Fetonte, relegatio per Ovidio, impossibilità di
vivere una vita familiare e d’amore per Medea. Nonostante questo, però, i veri
sfidanti non rinunciano a rivendicare il valore della loro scelta originaria:
nel finale delle Metamorfosi, al
quale ritorno, il poeta scrive
Iamque opus exegi, quod nec Iovis
ira nec ignis
nec poterit ferrum, nec edax
abolere vetustas.
Cum volet, illa dies, quae nil nisi
corporis huius
ius habet, incerti spatium mihi
finiat aevi;
parte tamen meliore mei super alta
perennis
astra ferar, nomenque erit
indelebile monstrum;
quaque patet domitis Romana
potentia terris
ore legar populi, perque omnia
saecula fama
(si quid habent veri vatum
praesagia) vivam.
Ecco
compiuta l’opera contro cui nulla potranno
l’ira
di Giove, il fuoco, il ferro e nemmeno il tempo divoratore.
Quell’ultimo
giorno, che vanta diritti solo sul mio corpo,
quando
vorrà porrà fine al mio tempo precario;
quanto
a me, la mia parte migliore salirà al di sopra degli astri,
il
mio nome diverrà incancellabile;
per
l’intera estensione del dominio romano
sarò
letto, nei secoli dei secoli, se i presagi dei poeti sono veri vaticini,
nella
fama io vivrò.
Se
la vita è incerta, scrive il poeta,
breve e effimera, fugace e transitoria, non così la fama conseguita con vera
arte. Potente come una magia, persino più di questa, sicuramente meno
ingannevole di questa, porta chi se la merita a distanze siderali, super alta astra, mentre l’ira di Giove,
il fuoco e il ferro restano armi pericolose, certo, alle quali tuttavia certi eletti riescono a sfuggire. Parole che
potrebbero suonare arroganti, non fosse per quegli ultimi anni di vita con cui
ho iniziato la presentazione: possiamo persino spingerci a immaginare che quei
versi trionfali, scritti alcuni anni prima di essere relagato a Tomi,
regalassero poi consolazioni all’animo affranto del poeta. Vivam, con la sua ambiguità modale (è un indicativo futuro o un congiuntivo
presente esortativo?), sembra proprio un’esclamazione impertinente e
irriverente, sulle labbra di uno che l’Augusto volle cancellare dalla memoria
con una sentenza irreversibile.
Sempre
a proposito di affinità e consonanze, non possiamo non avvertire cosa leghi questo finale alle terzine che Dante, il cui debito
artistico nei confronti di Ovidio è immenso, scrive nel XII canto del Paradiso, quando si fa pronosticare
dall’avo Cacciaguida un destino di gloria imperitura grazie ai versi della Divina Commedia (vv. 133-142):
Questo
tuo grido farà come vento,
che
le più alte cime più percuote;
e
ciò non fa d’onor poco argomento.
Però
ti son mostrate in queste rote,
nel
monte e ne la valle dolorosa
pur
l’anime che son di fama note,
che
l’animo di quel ch’ode, non posa
né
ferma fede per essempro ch’aia
la
sua radice incognita e ascosa,
né
per altro argomento che non paia».
Vivere
nel tempo, soffiare come una tempesta sulle cime più alte, questo augurano alle
proprie parole, e a se stessi, i due poeti. Ma ritorno a Ovidio e al filo
dell’esistenza conclusasi nell’oscurità
e nel dolore.
Al
poeta, Augusto assegna, ho più volte ricordato, una condanna senza appello. Che
implica un’aggiunta di pena, per uno che abbia fatto della parola una missione.
Lo condanna a non poter rispondere. Lo condanna al silenzio. Un silenzio certo
non totale, dato che il poeta nel periodo dell’esilio continua a scrivere, ma
in quella lontananza le sue parole diventano echi, non hanno la forza, la
consistenza vera che possiedono quando
fuoriescono dal pensiero e dalla penna di uno che vive a Roma, nel centro del
mondo. Dunque il secondo polo che attrae la mia attenzione, dopo il vivam, è rappresentato da un riferimento
che si replica varie volte nel tessuto delle metamorfosi continue. Quello alla voce, voce umana naturalmente, e
alla sorte che le tocca nei vari casi trattati, con sempre nuove variazioni,
come vedremo.
Intanto
perdono la voce tutte le creature che passano dalla condizione umana a quella
animale, vegetale o allo stato di costellazioni. La reversibilià è raramente
contemplata, e il recupero della voce quindi pressoché impossibile: tra le
poche a cui accade, ricordo Io, trasformata in giovenca da Giove (I libro), per
scampare alla gelosia morbosa e motivata della moglie Giunone. La giovane, scampata
ala sorveglianza di Argo grazie alle astuzie affabulatorie di Ermes, viene graziata da Zeus/Era e recupera la forma
umana. Ma si tratta appunto di un caso
più unico che raro. Ben più atrocemente irreversibile è una metamorfosi che rientra
nell’argomento appena impostato, della voce messa a tacere dal mutamento occorso:
si tratta del caso della ninfa Eco, prescelta nel III libro al fine di esprimere, come spesso accade nel
poema, un’eziologia, ossia l’origine di
un preciso fenomeno fisico attraverso un mito. Per avere troppo parlato, al
fine di distrarre Giunone e impedirle di
accorgersi dei ripetuti tradimenti di Giove con ninfe sue compagne, alla fine
scoperta dalla regina dei cieli, viene privata appunto della capacità di
parlare, se non ripetendo le ultime parole di altri. Ancora dotata di corpo,
però, le tocca un’ulteriore mutazione: innamoratasi di Narciso, e respinta da
lui al quale peraltro non riesce a rivolgere che parole risonanti delle sue, si
consuma fino a diventare pelle e ossa e infine solo eco, non più Eco, ma ciò
che ne rima sotto forma di risonanza vocale. Geniale variazione questa
metamorfosi in due tempi, con la ninfa che non perde subito la forma corporea,
ma la vede poi estinguersi come già si è estinta la voce: inedito fantasma,
evocato ogniqualvolta un suono s’imbatta in superficie adeguata a generare il
fenomeno. Ma Eco non è solo questo. Il suo valore metaforico si spinge oltre.
La ninfa che si consuma riducendosi a qualcosa di meno di un flatus vocis, rappresenta quello che può
accadere al desiderio: di consumarsi così tanto da non esserci più o quasi, di
ridursi a una parvenza, a un’ombra, all’impronta di quel ch’è stato e non sarà
mai più. Ma forse, peggio ancora, Eco rimasta eco non può esprimere niente di
suo, solo attendere che qualcuno emetta un suono o una parola che riesca a
essere colta e ripetuta, anche solo una, meglio di una lunga sequenza che l’eco
smemorata non riesce a recepire, se non nell’ultima emissione. In questo senso
l’eco è parente stretta del silenzio, più che della voce, e ben si addice a
esseri che hanno perso la loro umanità e con essa la facoltà che maggiormente
la contraddistingue. Che anche in questo
caso Ovidio avesse un presentimento relativamente al suo futuro di poeta silenziato dal potere, condannato a
estinguersi in lontananze quasi siderali per l’epoca? In ogni caso, i versi che
le dedica sono questi:
Ille fugit fugiensque «manus complexibus aufer!
ante»
ait «emoriar, quam sit tibi copia nostri».
Rettűlit
illa nihil nisi «sit tibi copia nostri».
Spreta
latet silvis pudibundaque frondibus ora
protęgit
et solis ex illo vivit in antris;
395
sed tamen haeret amor crescitque dolore repulsae;
et
tenuant vigiles corpus miserabile curae
adducitque
cutem macies et in aëra sucus
corporis
omnis abit; vox tantum atque ossa
supersunt:
vox manet; ossa ferunt lapidis traxisse figuram.
400
Inde latet silvis nulloque in monte videtur;
omnibus
audītur: sonus est, qui vivit in illa. (III, vv. 390-401)
Egli
[Narciso, che
non vuole saperne di Eco] fugge e nel fuggire grida “Toglimi le mani di
dosso! Morire, piuttosto di darmi a te!” E lei di rimando “Darmi a te”. Eco,
disprezzata così, si nasconde nelle foreste, copre il volto con fronde, in
preda alla vergogna, e vive in caverne solitarie; ma l’amore, attizzato dal
rifiuto, aumenta di giorno in giorno; l’insonnia e i pensieri ossessivi la
consumano, la pelle raggrinzisce, rimangono ossa e voce, poi le ossa son sassi,
si narra, e la voce resta ancora. Nascosta nei boschi, invisibile sui monti, la
si sente ovunque: è il suono a sopravvivere in lei.
Eco è suono che sopravvivive.
Anche in questo caso la metafora è magnificamente associabile alla poesia, se
non alla musica e all’arte. Nel mondo
tessuto nelle Metamorfosi ovunque si
posi lo sguardo si coglie il fremito della vita. Come ha scritto Calvino, è anche, certo non solo, così che Ovidio è
riuscito a rendere stile un contenuto
mitico esistente ma non ancora rielaborato in maniera univoca com’è riuscito a
fare lui. Poema della rapidità, secondo la definizione che sempre Calvino ne dà
in una delle sue Lezioni americane, le Metamorfosi
potrebbero essere rappresentate visivamente come una spirale in cui le
linee curve sono vicinissime ma non si uniscono mai. O, meglio ancora dell’immagine
geometrica, in un intrico di rami e foglie, da foresta pluviale dei primordi,
in cui le forme animali e vegetali (ma chissà, forse anche umane) si fondono e
confondono. Insetti che sembrano bastoncini e foglie sono ancora visibili ora,
il mimetismo animale produce esattamente questi effetti.
Allora, per iniziare a
rendere visibili, pregnanti alcune delle storie concepite
da Ovidio nelle Metamorfosi, seguento
questo primo filo introduttivo, ecco i libri intorno ai quali si tesse questo
primo discorso analitico: I, II, III, VII e XV.
ELENCO DEI MITI PER
LIBRO CITATO:
LIBER
I
Mito Versi
Caos primigenio -
Origine del mondo 5-75
Prometeo crea l'uomo 76-88
Le quattro "Età
dell'uomo" 89-150
Gigantomachia 151-162
Via Lattea 168-171
Giove e Licaone 196-239
Deucalione e Pirra 244-312;
313-415
Apollo e Pitone 416-451
Apollo e Dafne 452-567
Giove ed Io 568-667;
724-747
Mercurio e Argo 668-688;
713-723
Pan e Siringa 689-712
Fetonte 748-779
LIBER
II
Mito Versi
Fetonte 1-400
Cicno 367-380
Giove e Callisto 401-530
Apollo e Coronide 531-632
Minerva ed Erittonio 553-563
Cornacchia 569-588
Nittimene 589-595
Esculapio e Chirone 627-632
Ociroe 633-675
Batto e Mercurio 676-707
Mercurio, Agraulo e
Erse 708-832
Giove e Europa 833-875
LIBER
III
Mito Versi
Cadmo 1-137
Diana e Atteone 1 38-259
Giove e Semele -
nascita di Bacco 259-315
Tiresia 316-338
Narciso 339-510
Penteo 511-564;
692-734
Bacco e i marinai di
Acete 565-691
LIBER
VII
Mito
Giasone e gli Argonauti
Giasone e Medea
Medea e Esone
Pelia uccide il padre
Irie e Cicno
Mirmidoni
Cefalo e Aurora
Cefalo e Procri
LIBER
XV
Mito Versi
Ercole, Crotone e
Miscelo 11-59
Pitagora 60-507
Diana e Ippolito 497-546
Egeria 547-551
Tagete 552-558
Peste di Roma ed
Esculapio 619-728
Apoteosi di Cesare 729-842
Glorificazione di
Augusto 843-870
L'immortalità del poeta 871-879
TESTO da pdf HTTP://COPIONI.CORRIERESPETTCOLO.IT
(non sarà la nostra traduzione preferita. propongo solo i primi tre libri)
LIBRO PRIMO A narrare il mutare delle forme in corpi
nuovi mi spinge l'estro. O dei, se vostre sono queste metamorfosi, ispirate il
mio disegno, così che il canto dalle origini del mondo si snodi ininterrotto
sino ai miei giorni. Prima del mare, della terra e del cielo, che tutto copre,
unico era il volto della natura in tutto l'universo, quello che è detto Caos,
mole informe e confusa, non più che materia inerte, una congerie di germi differenti
di cose mal combinate fra loro. Non c'era Titano che donasse al mondo la luce,
né Febe che nuova crescendo unisse le sue corna; in mezzo all'aria, retta dalla
gravità, non si librava la terra, né lungo i margini dei continenti stendeva
Anfitrite le sue braccia. E per quanto lì ci fossero terra, mare ed aria,
malferma era la prima, non navigabile l'onda, l'aria priva di luce: niente
aveva forma stabile, ogni cosa s'opponeva all'altra, perché in un corpo solo il
freddo lottava col caldo, l'umido col secco, il molle col duro, il peso con
l'assenza di peso. Un dio, col favore di natura, sanò questi contrasti: dal
cielo separò la terra, dalla terra il mare e dall'aria densa distinse il cielo
limpido. E districati gli elementi fuori dall'ammasso informe, riunì quelli
dispersi nello spazio in concorde armonia. Il fuoco, imponderabile energia
della volta celeste, guizzò insediandosi negli strati più alti; poco più sotto
per la sua leggerezza si trova l'aria; la terra, resa densa dai massicci
elementi assorbiti, rimase oppressa dal peso; e le correnti del mare, occupati
gli ultimi luoghi, avvolsero la terraferma. Quando così ebbe spartito in ordine
quella congerie e organizzato in membra i frammenti, quel dio, chiunque fosse,
prima agglomerò la terra in un grande globo, perché fosse uniforme in ogni
parte; poi ordinò ai flutti, gonfiati dall'impeto dei venti, di espandersi a
cingere le coste lungo la terra. E aggiunse fonti, stagni immensi e laghi;
strinse tra le rive tortuose le correnti dei fiumi, che secondo il percorso
scompaiono sottoterra o arrivano al mare e, raccolti in quella più ampia
distesa, invece che sugli argini, s'infrangono sulle scogliere. E al suo
comando si stesero campi, s'incisero valli, fronde coprirono i boschi, sorsero
montagne rocciose. Così come il cielo è diviso in due zone a sinistra e
altrettante a destra, con una più torrida al centro, la divinità ne distinse la
materia interna in modo uguale e sulla terra sono impresse fasce identiche.
Quella mediana è inabitabile per la calura; due oppresse dalla neve; e
altrettante ne collocò in mezzo che rese temperate mescolando fuoco e gelo. Su
tutte incombe l'aria, che è più pesante del fuoco quanto più leggera è l'acqua
del suolo. Lì comandò che si raccogliessero nebbie e nuvole, e ancora i tuoni
che avrebbero poi turbato i nostri cuori, e i venti che con i fulmini scatenano
lampi. Ma neppure a questi lasciò in balia l'aria l'architetto del mondo:
ancora oggi, benché le sue raffiche ciascuno diriga in senso diverso, poco
manca che dilanino il mondo, tanta è la discordia tra fratelli. Verso aurora si
ritirò Euro, nel regno di Persiani e Nabatei, tra le montagne esposte ai raggi
del mattino; in occidente, sulle coste intiepidite dal sole della sera sta
Zefiro; l'agghiacciante Borea invase Scizia e settentrione; all'opposto le
terre sono sempre umide di nubi per le piogge dell'Austro. E su tutto
l'architetto pose l'etere limpido e leggero, che nulla ha della feccia terrena.
Le cose aveva così appena spartito in confini esatti, che le stelle, sepolte a
lungo in tenebre profonde, cominciarono a scintillare in tutto il cielo; e
perché non ci fosse luogo privo d'esseri animati, astri e forme divine invasero
le distese celesti, le onde ospitarono senza remore il guizzare dei pesci, la
terra accolse le belve, l'aria mutevole gli uccelli. Ma ancora mancava l'essere
più nobile che, dotato d'intelletto più alto, sapesse dominare sugli altri.
Nacque l'uomo, fatto con seme divino da quell'artefice del creato, principio di
un mondo migliore, o plasmato dal figlio di Giàpeto, a immagine di dei che
tutto reggono, impastando con acqua piovana la terra recente che, appena
separata dalle vette dell'etere, ancora del cielo serbava il seme nativo; e
mentre gli altri animali curvi guardano il suolo, all'uomo diede viso al vento
e ordinò che vedesse il cielo, che fissasse, eretto, il firmamento. Così quella
terra che sino allora era grezza e informe, mutò e assunse l'ignorata figura
dell'uomo. Per prima fiorì l'età dell'oro, che senza giustizieri o leggi,
spontaneamente onorava lealtà e rettitudine. Non v'era timore di pene, né
incise nel bronzo si leggevano minacce, o in ginocchio la gente temeva i
verdetti di un giudice, sicura e libera com'era. Reciso dai suoi monti,
nell'onda limpida il pino ancora non s'era immerso per scoprire terre straniere
e i mortali non conoscevano lidi se non i propri. Ancora non cingevano le città
fossati scoscesi, non v'erano trombe dritte, corni curvi di bronzo, né elmi o
spade: senza bisogno di eserciti, la gente viveva tranquilla in braccio
all'ozio. Libera, non toccata dal rastrello, non solcata dall'aratro, la terra
produceva ogni cosa da sé e gli uomini, appagati dei cibi nati spontaneamente,
raccoglievano corbezzoli, fragole di monte, corniole, more nascoste tra le
spine dei rovi e ghiande cadute dall'albero arioso di Giove. Era primavera
eterna: con soffi tiepidi gli Zefiri accarezzavano tranquilli i fiori nati
senza seme, e subito la terra non arata produceva frutti, i campi inesausti
biondeggiavano di spighe mature; e fiumi di latte, fiumi di nettare scorrevano,
mentre dai lecci verdi stillava il miele dorato. Quando Saturno fu cacciato
nelle tenebre del Tartaro e cadde sotto Giove il mondo, subentrò l'età
d'argento, peggiore dell'aurea, ma più preziosa di quella fulva del bronzo.
Giove ridusse l'antica durata della primavera e divise l'anno in quattro
stagioni: l'inverno, l'estate, un autunno variabile e una breve primavera.
Allora per la prima volta l'aria si fece di fuoco per l'arsura o si rapprese in
ghiaccio per i morsi del vento; per la prima volta servirono case, e furono
grotte, arbusti fitti, verghe legate insieme da fibre; allora in lunghi solchi
si seminarono i cereali e sotto il peso del giogo gemettero i giovenchi. Terza
a questa seguì l'età del bronzo: d'indole più crudele e più proclive all'orrore
delle armi, ma non scellerata. L'ultima fu quella ingrata del ferro. E subito,
in quest'epoca di natura peggiore, irruppe ogni empietà; si persero lealtà,
sincerità e pudore, e al posto loro prevalsero frodi e inganni, insidie,
violenza e smania infame di possedere. Senza conoscerli bene, il marinaio diede
le vele ai venti, e le carene, che un tempo stavano in cima ai monti, si misero
a battere flutti sconosciuti. Sulla terra, comune a tutti prima, come la luce
del sole o l'aria, il contadino tracciò con cura lunghi confini. E non si
pretese solo che questa, nella sua ricchezza, desse messi e alimenti, ma si
penetrò nelle sue viscere a scavare i tesori che nasconde vicino alle ombre
dello Stige e che sono stimolo ai delitti. Così fu estratto il ferro nocivo e
più nocivo ancora l'oro: e comparve la guerra, che si combatte con entrambi e
scaglia armi di schianto con mani insanguinate. Si vive di rapina: l'ospite è
alla mercé di chi l'ospita, il suocero del genero, e concordia tra fratelli è
rara. Trama l'uomo la morte della moglie e lei quella del coniuge; terribili
matrigne mestano veleni lividi; il figlio scruta anzitempo gli anni del padre.
Vinta giace la pietà, e la vergine Astrea, ultima degli dei, lascia la terra
madida di sangue. Né più sicuro della terra sarebbe stato l'etere al vertice:
si narra che i Giganti, aspirando al regno celeste, ammassassero i monti gli
uni sugli altri fino alle stelle. Scagliando i suoi fulmini allora squarciò il
padre onnipotente l'Olimpo e giù dall'Ossa rovesciò il Pelio. Quando quei corpi
orrendi giacquero travolti dal loro edificio, dicono che la Terra s'inzuppasse
del fiume di sangue sparso dai figli e che ancora caldo lo rianimasse; poi,
perché non sparisse ogni traccia della sua stirpe, a quello diede aspetto
umano. Ma anche questa prole fu spregiatrice dei numi, assetata con furia di
stragi e violenta: nata dal sangue, questo avresti detto. Quando dall'alto vide
questo, il figlio di Saturno mandò un gemito e ripensando al mostruoso
banchetto di Licàone, ancora sconosciuto perché troppo recente, arse in cuore
d'ira senza fine e in tutto degna di Giove, e convocò un concilio: all'invito
non fu frapposto indugio. C'è in alto nel cielo una via, che si vede quand'è
sereno: Lattea ha nome ed è nota proprio per il suo candore. Questa è la strada
dei numi per la dimora di Giove tonante, per la sua reggia. A destra e a
sinistra, con gli stipiti aperti, sono gli atri affollati dalla nobiltà divina;
gli dei inferiori abitano sparsi altrove, quelli più illustri e potenti hanno
invece qui, sul davanti, dimora. Se audacia è permessa alle mie parole, oserei
dire che questo luogo è il Palatino del cielo infinito. Quando infine gli dei
si furono assisi fra i marmi dell'interno, Giove, eccelso su tutti,
appoggiandosi allo scettro d'avorio, più volte scosse con gesto terrificante la
sua chioma e fece tremare la terra, il mare e le stelle; poi schiuse le labbra
indignate con queste parole: «Mai più in ansia fui per il dominio del mondo,
neppure quando il mostro dai piedi di serpe s'apprestava a scagliare le sue
cento braccia per conquistare il cielo. Per quanto feroce fosse il nemico,
allora all'origine di quella guerra era un gruppo solo. Ma ora sulla terra,
dove tutt'intorno risuona il mare, devo distruggere la razza umana. Sui fiumi
infernali, che scorrono sotterra nei boschi dello Stige, lo giuro: tutto è
stato tentato, ma questa piaga incurabile dev'essere recisa a spada, perché non
guasti la parte sana. Abbiamo semidei, divinità campestri, Ninfe, Fauni, Satiri
e Silvani dei monti: visto che ancora degni non ci sembrano degli onori del
cielo, concediamogli almeno di abitare la terra a loro assegnata. Ma voi, numi,
credete che possano vivere sicuri, dopo le insidie che quel sanguinario Licàone
ha tramato contro di me, che voi e il fulmine tengo in potere?». Un fremito li
colse e ardendo di sdegno tutti pretesero che si punisse il temerario. Così
quando un'empia schiera infierì per estinguere il nome di Roma nel sangue di
Cesare, il genere umano sbigottì di fronte al terrore incontrollabile
dell'improvvisa sciagura e inorridì il mondo intero: e la devozione dei tuoi,
Augusto, non ti fu meno gradita di quella degli dei a Giove, che con la voce e
col gesto sedò il tumulto, imponendo a tutti il silenzio. Poi, quando con
autorità ebbe allontanato e represso il clamore, ruppe il silenzio e riprese a
parlare: «Egli per verità ne ha pagato il fio, non temete; comunque vi dirò che
ha fatto e quale sia il castigo. Mi era giunta all'orecchio l'infamia di questo
tempo; sperando che non fosse vero, scendo dalla cima dell'Olimpo e sotto
spoglie umane io Giove percorro la terra. Lungo sarebbe elencare tutti i
misfatti che trovai disseminati: nulla il sospetto in confronto al vero.
Passato il Mènalo spaventoso per i covi delle sue belve, il Cillene e le pinete
del gelido Liceo, arrivo, quando il crepuscolo annuncia ormai la notte, dove ha
sede l'inospitale dimora del tiranno di Arcadia. Feci intendere che era giunto
un dio, e il popolo si mise a pregare: Licàone prima si fa beffe dei devoti,
poi dice: "Voglio accertare, con prova lampante, che questo dio non sia un
mortale; e il vero sarà indubitabile". Di notte, immerso nel sonno, m'avrebbe
ucciso a tradimento: questa era la prova della verità che intendeva. Non
contento, sgozza col pugnale un ostaggio inviatogli dalla gente di Molossia, e
quelle membra ancora palpitanti nell'acqua bollente parte le lessa e parte le
arrostisce al fuoco. Non ha il tempo d'imbandirmele, che con la fiamma
vendicatrice su sé stessa io faccio crollare quella casa degna del padrone. Atterrito
fugge e raggiunta la campagna silenziosa lancia ululati, tentando di parlare.
La rabbia gli sale al volto dal profondo e assetato come sempre di sangue si
rivolge contro le greggi e tuttora gode del sangue. Le vesti si trasformano in
pelo, le braccia in zampe: ed è lupo, ma della forma antica serba tracce. La
canizie è la stessa, uguale la furia del volto, uguale il lampo degli occhi e
l'espressione feroce. Una casa è crollata, ma non solo una meritava la
distruzione: dovunque è terra, selvaggia v'impera l'Erinni. Una congiura del
crimine, la diresti; e allora ognuno paghi all'istante la pena che merita: così
è deciso!». A viva voce una parte approva le parole di Giove, aizzando la sua
ira; un'altra si limita ad assentire. Ma la distruzione del genere umano
addolora tutti, e tutti si chiedono che aspetto avrà in futuro la terra senza i
mortali, chi offrirà incenso agli altari, e se lui pensi di lasciare il mondo
in balia delle fiere. Questo chiedono, ma il loro sovrano li convince a non
temere (penserà lui a tutto), promettendo una stirpe diversa dalla precedente e
di origine miracolosa. Già al punto di scagliare i suoi fulmini su tutta la
terra, il timore lo colse che l'etere sacro potesse incendiarsi con tutto quel
fuoco, e che bruciasse il lungo asse del mondo. Memore che il destino prediceva
un tempo in cui sarebbe arso il mare, arsa la terra, travolgendo la reggia del
cielo, e l'edificio complesso del mondo avrebbe vacillato, si deposero le armi
fabbricate dalle mani dei Ciclopi e si decise una pena diversa: annientare il
genere umano nei flutti, rovesciando un diluvio da tutto il cielo. Senza
indugio chiude negli antri di Eolo l'Aquilone e ogni vento che possa disperdere
gli ammassi di nubi; libera invece Noto, e questo si libra sulle sue ali
madide, col volto terrificante avvolto di caligine nera: la barba è gravida di
gocce, grondano acqua i bianchi capelli, sulla fronte calano nebbie, gocciolano
penne e vesti; e a un tratto con tutta la mano preme le nubi sospese: scoppia
un fragore, e fitta dal cielo scroscia la pioggia. Ammantata di vari colori,
Iride, messaggera di Giunone, attinge acqua e le nuvole alimenta: travolte le
messi, il contadino piange le sue speranze rase al suolo e la frustrante fatica
di tutto un anno svanita. Ma l'ira di Giove non si limita al suo cielo:
Nettuno, l'azzurro suo fratello, gli porta aiuto coi flutti. Convoca i fiumi ai
suoi ordini e quando questi si presentano alla sua reggia: «Non è tempo di
perdersi in lunghe esortazioni», dice. «Scatenate le vostre forze: questo è il
compito assegnato. Spalancate le chiuse e, rimossi gli ostacoli, lanciate le
vostre correnti a briglia sciolta». Così ordina e quelli, al ritorno, sciolgono
le sorgenti, che a corsa sfrenata rovinano giù verso il mare. Lui, Nettuno, col
suo tridente percuote la terra: quella trema, e le scosse aprono la via
all'acqua. Straripando i fiumi erompono in aperta campagna e travolgono
seminati, piante, greggi, uomini, tetti e con le immagini sacre i santuari.
Anche se qualche casa rimane, reggendo a tanta furia senza crollare, l'acqua
superandola ne sommerge la cima e le torri spariscono strette nella morsa dei
gorghi. Ormai non c'è più divario tra mare e terra: tutto è mare, un mare privo
d'approdi. Uno conquista un colle, l'altro sul banco di un guscio a becco rema
sui luoghi dove prima arava; quello naviga sui seminati o sul tetto di una
villa sommersa, questo afferra un pesce in cima a un olmo. A caso l'àncora si
pianta nel verde dei prati oppure la carena sfiora la vigna subito sotto, e
dove prima le snelle caprette brucavano l'erba, ora col loro corpo informe
giacciono le foche. Con stupore guardano le Nereidi sott'acqua boschi, città e
case, e in mezzo a selve, urtando rami altissimi, squassando querce a furia di
colpi, s'aggirano i delfini. Nuota tra pecore il lupo, trascina la corrente
leoni e tigri, e a nulla serve la forza fulminea ai cinghiali, l'agilità delle
zampe ai cervi travolti, e dopo aver cercato a lungo una terra su cui posarsi,
con le ali stremate, smarriti gli uccelli precipitano in mare. La furia
sfrenata del mare ormai ha coperto le alture, e i flutti, cosa mai vista, si
frangono contro i picchi dei monti. Il più degli uomini è travolto dai marosi e
quelli risparmiati sono vinti, per mancanza di cibo, dal lungo digiuno. Dalla
regione dell'Eta la Focide separa gli Aoni: terra fertile, finché vi fu terra,
ma in quel tempo tratto di mare, vasta distesa di acque inattese. Lì un monte
si leva in alto con due cime verso le stelle: di nome Parnaso, le sue vette
sovrastano le nuvole. Fu in questo luogo (l'unico non sommerso) che Deucalione
approdò, portato da una piccola barca, con la sua compagna, e subito invocarono
le ninfe coricie, gli dèi dei monti e Temi, che predice il destino e che allora
lì teneva oracoli. Mai ci fu uomo migliore di lui e più amante di giustizia,
mai ci fu donna più timorata di lei. E Giove, quando vide il creato ridotto a
un mare d'acque stagnanti e di tante migliaia d'uomini un solo superstite, di
tante migliaia di donne una sola superstite, due esseri innocenti, due esseri
devoti agli dei, squarciò le nubi e, dispersi col vento gli uragani, mostrò di
nuovo al cielo la terra e alla terra il cielo. Cessò la furia del mare e,
deposto il suo tridente, il dio degli oceani rabbonì le acque, chiamò l'azzurro
Tritone, che sporge fuori dai gorghi con le spalle incrostate di conchiglie, e
gli ordinò di soffiare nel suo corno sonoro, perché a quel segnale rientrassero
flutti e fiumi. E quello prese la sua bùccina cava e ritorta, che dalla punta
si allarga a spirale, la bùccina che, se le si dà fiato in mezzo al mare,
riempie con la sua voce le coste da levante a ponente. Anche allora, quando tra
la barba madida la portò alla bocca gocciolante e, soffiando a comando, sonò la
ritirata, l'udirono tutte le acque del mare e della terraferma, e tutte,
udendola, ripresero i loro confini. Calano i fiumi e rispuntare si vedono i
colli, il mare riacquista un lido e gli alvei raccolgono i torrenti in piena;
emerge la terra, ricresce il suolo col decrescere delle acque, e dopo giorni e
giorni mostrano le loro cime spoglie i boschi, coi rami ancora avvinti da
residui di fango. Restituita era la terra; ma come la vide deserta e desolata
dal cupo silenzio che incombeva, Deucalione si volse a Pirra trafitto di
pianto. Disse: «O sorella, o sposa, unica donna rimasta, che dividi con me la
stirpe e l'origine di famiglia, il giaciglio delle nozze e qui gli stessi
timori, noi due soli siamo tutti gli esseri della terra che vede l'aurora e il
tramonto: il resto è sommerso dal mare. Né, certo, questa nostra vita puoi dire
sicura, se ancora e sempre quelle nuvole ci opprimono la mente. Quale sarebbe
ora l'animo tuo, se fossi sfuggita alla morte senza di me? Come potresti
sopportare la paura qui da sola? come consolare il dolore? E io pure t'avrei
seguito, o sposa, se il mare t'avesse inghiottito, credimi, anche me lo stesso
mare avrebbe inghiottito. Oh se con l'arte paterna potessi ricreare gli uomini
e plasmando la creta infondervi respiro! Ora in noi soli vive la qualità dei
mortali, questo il volere degli dei, restiamo unici esempi». Disse, e
piangevano. Decisero di invocare la volontà dei celesti e di chiedere aiuto
agli oracoli. Senza indugio si accostarono insieme alla corrente del Cefiso,
che, pur non ancora limpida, già fluiva nel suo letto. Attinta un po' d'acqua,
la spruzzarono sulle vesti e sul capo; quindi volsero i passi verso il
santuario della dea, scolorito e deturpato sino in cima dal muschio e privo di
qualsiasi fuoco sugli altari. Giunti ai gradini del tempio, si prostrarono
fianco a fianco sino a terra, baciarono intimoriti la pietra gelida e: «Se a
preghiere devote», dissero, «le divinità si rabboniscono, se l'ira degli dei si
placa, rivelaci, o Temi, come si possa rimediare alla rovina della nostra
stirpe e soccorri, tu così mite, il mondo sommerso». Commossa la dea sentenziò:
«Andando via dal tempio velatevi il capo, slacciatevi le vesti e alle spalle
gettate le ossa della grande madre». Lungo fu il loro smarrimento, poi Pirra
ruppe il silenzio per prima, rifiutandosi di obbedire a quegli ordini e per sé
invocava, con voce tremante, il perdono divino al timore di offendere l'ombra
di sua madre, disperdendone le ossa. E continuano a ripetersi dentro le parole
oscure, impenetrabili del responso e a girarvi intorno. Ma a un tratto il
figlio di Promèteo rasserena la sua sposa con queste parole pacate: «O io
m'inganno o giusto è l'oracolo e non c'induce in sacrilegio. La grande madre è
la terra; per ossa credo intenda le pietre del suo corpo: queste dobbiamo noi
gettarci alle spalle». La figlia del Titano è scossa dall'intuito del marito,
anche se dubbia è la speranza, tanto incredibile sembra a loro il consiglio
divino. Ma che male s'aveva a tentare? S'incamminano, velandosi il capo,
sciogliendo le vesti, e ubbidendo, lanciano pietre alle spalle sui loro passi.
E i sassi (chi lo crederebbe se non l'attestasse il tempo antico?) cominciarono
a perdere la loro rigida durezza, ad ammorbidirsi a poco a poco e, ammorbiditi,
a prendere forma. Poi, quando crebbero e più duttile si fece la natura loro, fu
possibile in questi intravedere forme umane, ancora imprecise, come se fossero
abbozzate nel marmo, in tutto simili a statue appena iniziate. E se in loro
v'era una parte umida di qualche umore o di terriccio, fu usata a formare il
corpo; ciò che era solido e rigido fu mutato in ossa; quelle che erano vene,
rimasero con lo stesso nome. E in breve tempo, per volere degli dei, i sassi
scagliati dalla mano dell'uomo assunsero l'aspetto di uomini, mentre dai lanci
della donna la donna rinacque. Per questo siamo una razza dura, allenata alle
fatiche, e diamo testimonianza di che origine siamo. Gli altri animali li
generò spontaneamente la terra nelle forme più varie, quando la vampa del sole
prosciugò gli umori residui. Alla calura si gonfiarono il fango e la melma dei
pantani; crebbero, nutriti dall'energia del suolo come nel grembo di una madre,
i germi fecondi delle cose e col tempo assunsero l'aspetto loro. Così, quando
il Nilo nelle sue sette foci si ritira dai campi allagati e riporta le correnti
nel letto d'origine, e quando il limo ancora fresco si secca ai raggi del sole,
i contadini rivoltando le zolle trovano gli animali più diversi e fra questi ne
sorprendono alcuni proprio sul nascere appena abbozzati, e altri imperfetti o
privi di proporzioni, e a volte in uno stesso corpo una parte che vive, mentre
un'altra è terra grezza. Questo perché l'umidità e il calore, se fra loro si
combinano, destano vita e dalla loro unione nascono tutte le cose. E se l'acqua
e il fuoco stanno agli antipodi, il vapore umido crea tutto: l'armonia dei
contrasti è impulso a generare. Quando dunque il suolo, fangoso per il recente
diluvio, si riasciugò al calore benefico dell'astro celeste, partorì
un'infinità di specie, in parte riproducendo forme note, in parte creando
mostri sconosciuti. E pur non volendolo, generò anche te, Pitone smisurato,
serpente mai visto prima, terrore delle nuove genti, tanto era lo spazio su cui
ti distendevi giù dal monte. Febo, il dio con l'arco, ma che fino ad allora di
quell'arma s'era servito solo contro camosci e caprioli in fuga, lo seppellì di
frecce e svuotò quasi la faretra per ucciderlo, facendogli sprizzare veleno
dalle nere ferite. E perché il tempo non potesse annullare la fama
dell'impresa, istituì la celebrazione solenne delle gare chiamate Pìtiche, dal
nome del serpente vinto. Qui i giovani, che vincevano ai pugni, nella corsa o
col cocchio, venivano incoronati con ghirlande di quercia: l'alloro non c'era
ancora e Febo si cingeva le tempie, incorniciate da lunghi capelli, con fronde
qualsiasi. Il primo amore di Febo fu Dafne, figlia di Peneo, e non fu dovuto al
caso, ma all'ira implacabile di Cupido. Ancora insuperbito per aver vinto il
serpente, il dio di Delo, vedendolo che piegava l'arco per tendere la corda:
«Che vuoi fare, fanciullo arrogante, con armi così impegnative?» gli disse.
«Questo è peso che s'addice alle mie spalle, a me che so assestare colpi
infallibili alle fiere e ai nemici, a me che con un nugolo di frecce ho appena
abbattuto Pitone, infossato col suo ventre gonfio e pestifero per tante miglia.
Tu accontèntati di fomentare con la tua fiaccola, non so, qualche amore e non
arrogarti le mie lodi». E il figlio di Venere: «Il tuo arco, Febo, tutto
trafiggerà, ma il mio trafigge te, e quanto tutti i viventi a un dio sono
inferiori, tanto minore è la tua gloria alla mia». Disse, e come un lampo solcò
l'aria ad ali battenti, fermandosi nell'ombra sulla cima del Parnaso, e dalla
faretra estrasse due frecce d'opposto potere: l'una scaccia, l'altra suscita
amore. La seconda è dorata e la sua punta aguzza sfolgora, la prima è spuntata
e il suo stelo ha l'anima di piombo. Con questa il dio trafisse la ninfa penea,
con l'altra colpì Apollo trapassandogli le ossa sino al midollo. Subito lui
s'innamora, mentre lei nemmeno il nome d'amore vuol sentire e, come la vergine
Diana, gode nella penombra dei boschi per le spoglie della selvaggina
catturata: solo una benda raccoglie i suoi capelli scomposti. Molti la
chiedono, ma lei respinge i pretendenti e, decisa a non subire un marito, vaga
nel folto dei boschi indifferente a cosa siano nozze, amore e amplessi. Il
padre le ripete: «Figliola, mi devi un genero»; le ripete: «Bambina mia, mi
devi dei nipoti»; ma lei, odiando come una colpa la fiaccola nuziale, il bel
volto soffuso da un rossore di vergogna, con tenerezza si aggrappa al collo del
padre: «Concedimi, genitore carissimo, ch'io goda», dice, «di verginità
perpetua: a Diana suo padre l'ha concesso». E in verità lui acconsentirebbe; ma
la tua bellezza vieta che tu rimanga come vorresti, al voto s'oppone il tuo
aspetto. E Febo l'ama; ha visto Dafne e vuole unirsi a lei, e in ciò che vuole
spera, ma i suoi presagi l'ingannano. Come, mietute le spighe, bruciano in un
soffio le stoppie, come s'incendiano le siepi se per ventura un viandante
accosta troppo una torcia o la getta quando si fa luce, così il dio prende
fuoco, così in tutto il petto divampa, e con la speranza nutre un impossibile
amore. Contempla i capelli che le scendono scomposti sul collo, pensa: 'Se poi
li pettinasse?'; guarda gli occhi che sfavillano come stelle; guarda le labbra
e mai si stanca di guardarle; decanta le dita, le mani, le braccia e la loro
pelle in gran parte nuda; e ciò che è nascosto, l'immagina migliore. Ma lei fugge
più rapida d'un alito di vento e non s'arresta al suo richiamo: «Ninfa penea,
férmati, ti prego: non t'insegue un nemico; férmati! Così davanti al lupo
l'agnella, al leone la cerva, all'aquila le colombe fuggono in un turbinio
d'ali, così tutte davanti al nemico; ma io t'inseguo per amore! Ahimè, che tu
non cada distesa, che i rovi non ti graffino le gambe indifese, ch'io non sia
causa del tuo male! Impervi sono i luoghi dove voli: corri più piano, ti prego,
rallenta la tua fuga e anch'io t'inseguirò più piano. Ma sappi a chi piaci. Non
sono un montanaro, non sono un pastore, io; non faccio la guardia a mandrie e
greggi come uno zotico. Non sai, impudente, non sai chi fuggi, e per questo
fuggi. Io regno sulla terra di Delfi, di Claro e Tènedo, sulla regale Pàtara.
Giove è mio padre. Io sono colui che rivela futuro, passato e presente, colui
che accorda il canto al suono della cetra. Infallibile è la mia freccia, ma più
infallibile della mia è stata quella che m'ha ferito il cuore indifeso. La
medicina l'ho inventata io, e in tutto il mondo guaritore mi chiamano, perché
in mano mia è il potere delle erbe. Ma, ahimè, non c'è erba che guarisca
l'amore, e l'arte che giova a tutti non giova al suo signore!». Di più avrebbe
detto, ma lei continuò a fuggire impaurita, lasciandolo a metà del discorso. E
sempre bella era: il vento le scopriva il corpo, spirandole contro gonfiava
intorno la sua veste e con la sua brezza sottile le scompigliava i capelli
rendendola in fuga più leggiadra. Ma il giovane divino non ha più pazienza di
perdersi in lusinghe e, come amore lo sprona, l'incalza inseguendola di passo
in passo. Come quando un cane di Gallia scorge in campo aperto una lepre, e
scattano l'uno per ghermire, l'altra per salvarsi; questo, sul punto
d'afferrarla e ormai convinto d'averla presa, che la stringe col muso proteso,
quella che, nell'incertezza d'essere presa, sfugge ai morsi evitando la bocca
che la sfiora: così il dio e la fanciulla, un fulmine lui per la voglia, lei
per il timore. Ma lui che l'insegue, con le ali d'amore in aiuto, corre di più,
non dà tregua e incombe alle spalle della fuggitiva, ansimandole sul collo fra
i capelli al vento. Senza più forze, vinta dalla fatica di quella corsa allo
spasimo, si rivolge alle correnti del Peneo e: «Aiutami, padre», dice. «Se voi
fiumi avete qualche potere, dissolvi, mutandole, queste mie fattezze per cui
troppo piacqui». Ancora prega, che un torpore profondo pervade le sue membra,
il petto morbido si fascia di fibre sottili, i capelli si allungano in fronde,
le braccia in rami; i piedi, così veloci un tempo, s'inchiodano in pigre
radici, il volto svanisce in una chioma: solo il suo splendore conserva. Anche
così Febo l'ama e, poggiata la mano sul tronco, sente ancora trepidare il petto
sotto quella nuova corteccia e, stringendo fra le braccia i suoi rami come un
corpo, ne bacia il legno, ma quello ai suoi baci ancora si sottrae. E allora il
dio: «Se non puoi essere la sposa mia, sarai almeno la mia pianta. E di te
sempre si orneranno, o alloro, i miei capelli, la mia cetra, la faretra; e il
capo dei condottieri latini, quando una voce esultante intonerà il trionfo e il
Campidoglio vedrà fluire i cortei. Fedelissimo custode della porta d'Augusto,
starai appeso ai suoi battenti per difendere la quercia in mezzo. E come il mio
capo si mantiene giovane con la chioma intonsa, anche tu porterai il vanto
perpetuo delle fronde!». Qui Febo tacque; e l'alloro annuì con i suoi rami
appena spuntati e agitò la cima, quasi assentisse col capo. C'è un bosco
nell'Emonia, chiuso tutto intorno da gole scoscese: Tempe è detto; e in mezzo
il Peneo, che sgorga alle falde del Pindo, scorre tumultuoso tra la spuma delle
sue onde e, precipitando a valle, solleva nebbie in vortici di pulviscolo
leggero, che come pioggia irrora la cima degli alberi, e con gli scrosci
assorda all'infinito. Questa è la dimora, la sede, il sacrario del grande
fiume; qui, assiso in un antro scavato nella roccia, governa le sue acque e le
ninfe che in quelle vivono. Ed ecco che, incerti se congratularsi con lui o
consolare un padre, qui si riuniscono per primi i fiumi della regione: lo
Sperchìo lussureggiante di pioppi, l'Enìpeo irrequieto, il vecchio Apìdano, il
mite Anfriso e l'Eante; e poi gli altri fiumi che, dove il loro impeto li
spinge, portano sino al mare le correnti stanche di tanto vagare. Soltanto
l'Ínaco mancava: nascosto in fondo al suo antro ingrossava le sue acque col
pianto, affliggendosi disperato per la scomparsa della figlia Io: non sa se
viva ancora o sia fra le ombre, ma non trovandola in nessun luogo pensa che non
sia più e in cuor suo teme il peggio. Mentre tornava dal fiume paterno, l'aveva
intravista Giove, che le disse: «O vergine degna di Giove e che beato farai lo
sconosciuto che ti sposerà, ritìrati nell'ombra di quei boschi profondi» (e
l'ombra di quei boschi le indicava), «ora che fa così caldo e più alto è il
sole in mezzo al cielo. E non temere di addentrarti sola fra covi di belve,
cammina tranquilla nel cuore del bosco: un dio ti protegge, e non un dio
qualunque, ma io, io che con mano potente reggo lo scettro del cielo e scaglio
fulmini in ogni luogo. No, non fuggirmi!». Ma lei fuggiva; e già i pascoli di
Lerna, le piantagioni del Lirceo s'era ormai lasciata alle spalle, quando il
dio, nascosto un lungo tratto di terra con una distesa di nebbia, fermò la sua
fuga e le rapì l'onore. Gettò in quel punto Giunone lo sguardo al centro
dell'Argòlide e, stupita che sotto un cielo terso folate di nebbia avessero
fatto notte, capì che non erano nebbie di fiume o nate dall'umidità del suolo;
e, ben conoscendo le infedeltà del marito, sorpreso tante volte in flagrante,
si volse intorno a guardare dove fosse. Poiché non lo trovò in cielo: «O
m'inganno o io sono tradita», disse e, precipitandosi giù dall'etere, si posò
sulla terra ordinando alle nebbie di dissolversi. Ma Giove, prevedendo l'arrivo
della moglie, aveva mutato la figlia di Ínaco nelle forme terse d'una giovenca.
E anche così è bella. La figlia di Saturno, sia pure a stento, ne ammira
l'aspetto e, fingendo d'esserne all'oscuro, chiede di chi sia, da dove venga e
a quale armento appartenga. Giove favoleggia che è nata dalla terra, perché
smetta d'indagarne l'origine, e lei gliela chiede in dono. Che fare? Cedere l'amata
sarebbe stato crudele, non farlo sospetto; da un lato il panico lo sprona,
dall'altro lo trattiene amore. E quasi avrebbe vinto questo, se negare a lei,
moglie e sorella, il dono banale di una vacca, non avesse rischiato di farle
capire che vacca non era. Ma anche avuta in dono la rivale, la dea non smise di
temere e, diffidando di Giove, paventò che gliela rubasse, finché non l'ebbe
data in custodia ad Argo, il figlio di Arèstore. Cento occhi aveva Argo
tutt'intorno al suo capo: due alla volta riposavano a turno, mentre gli altri
stavano svegli, montando la guardia. In qualunque modo si sistemasse,
sorvegliava Io; anche di spalle l'aveva davanti agli occhi. Di giorno lascia
che pascoli; quando il sole scende sottoterra, la rinchiude, cingendole a disdoro
il collo con una catena. Di fronde d'alberi e di erba amara si nutre
l'infelice, e invece che in un letto si corica sulla terra priva a volte anche
d'una coltre erbosa, e s'abbevera in fiumi fangosi. E se voleva tendere le
braccia ad Argo per supplicarlo, braccia non possedeva da tendergli; se tentava
di lamentarsi dalla bocca uscivano muggiti e a quel suono rabbrividiva
atterrita dalla sua stessa voce. Giunse anche alle rive dell'Ínaco, dove un
tempo giocava, e come vide nell'acqua il suo muso e quelle strane corna, fu
presa da un brivido e si ritrasse sbigottita. Le Naiadi e Ínaco stesso ignorano
chi sia; e lei segue il padre, segue le sue sorelle, permette che la tocchino,
si offre al loro stupore. Il vecchio Ínaco, colta dell'erba, gliela porge: lei
gli lecca le mani, ne bacia le palme, e non trattiene le lacrime: se potesse
articolare verbo avrebbe invocato aiuto, rivelato il nome e le sue disgrazie.
Ma in luogo di parole, furono i segni, tracciati nella sabbia col piede, a
chiarire la triste causa della metamorfosi. «Ahimè infelice» esclama Ínaco,
stringendo corna e collo di quella giovenca bianca come neve che si lamenta.
«Ahimè infelice» ripete. «Tu, la mia figliola, tu, che ho cercato in ogni
angolo della terra? Minor dolore m'avresti dato se non t'avessi ritrovata!
Muta, non rispondi nulla a ciò che dico, solo sospiri profondi esali dal tuo
petto e alle mie parole muggisci, è l'unica cosa che puoi. Ed io che ignaro ti
preparavo talamo e fiaccole nuziali, con la speranza di avere prima un genero e
poi nipoti: ora dal gregge avrai il compagno, dal gregge tuo figlio. Né posso
troncare con la morte questo immenso dolore: essere un dio è la condanna,
quella porta mi è preclusa e così senza fine continuerà in eterno il mio
strazio!» Mentre così si lamenta, Argo costellato d'occhi lo scaccia e,
strappata la figlia al padre, verso pascoli isolati la sospinge; poi, salito in
vetta a un monte che domina lontano, di lassù scruta seduto in ogni luogo
possibile. Ma il re degli dei non può più tollerare che la sorella di Foroneo
soffra tanto, e chiama il figlio che gli fu partorito dalla Pleiade luminosa,
ordinandogli di uccidere Argo. Un attimo e quello ha già le ali ai piedi,
stretta in mano la verga magica che infonde il sonno e sui capelli il
copricapo; così bardato il figlio di Giove balza dalla rocca paterna giù sulla
terra. Lì si toglie il copricapo e depone le ali, solo la verga conserva, e con
questa, come un pastore, spinge per campagne fuori mano caprette rubate passando
e sulle canne intona una canzone. Argo, il custode di Giunone, affascinato da
quei suoni insoliti: «Chiunque tu sia,» dice, «potresti sedere con me su questa
roccia: in nessun altro luogo c'è per le tue bestie più abbondanza d'erbe e,
come vedi, anche l'ombra ideale per un pastore». Il nipote di Atlante si siede
e, chiacchierando continuamente, lo intrattiene lungo il giorno e, suonando
canzoni sulla zampogna, cerca di assopire quegli occhi sempre all'erta. Ma
quello si sforza di resistere al languore del sonno e, per quanto il sopore
avvolga una parte degli occhi, l'altra continua a vegliare; ed anzi, visto che
la zampogna era invenzione recente, chiede come ciò sia avvenuto. E allora
Mercurio: «Sui monti gelidi dell'Arcadia,» risponde, «tra le amadriadi di
Nonacre, c'era famosissima una Naiade, che le compagne chiamavano Siringa. Non
una volta sola aveva eluso le insidie dei Satiri e di tutti gli altri dei che
vivono nell'ombra dei boschi o nel rigoglio dei campi: venerava la dea di
Ortigia votandosi alla castità. E appunto come Diana si vestiva, tanto da
trarre in inganno e scambiarla per la figlia di Latona, se questa non avesse
avuto un arco d'oro e lei di corno. Malgrado ciò traeva in inganno. Pan che,
mentre tornava dal colle Liceo, la vide, col capo cinto d'aculei di pino, le
disse queste parole...». E non restava che riferirle: come la ninfa, sorda alle
preghiere, fuggisse per luoghi impervi, finché non giunse alle correnti
tranquille del sabbioso Ladone; come qui, impedendole il fiume di correre oltre,
invocasse le sorelle dell'acqua di mutarle forma; come Pan, quando credeva
d'aver ghermito ormai Siringa, stringesse, in luogo del suo corpo, un ciuffo di
canne palustri e si sciogliesse in sospiri: allora il vento, vibrando nelle
canne, produsse un suono delicato, simile a un lamento e il dio incantato dalla
dolcezza tutta nuova di quella musica: «Così, così continuerò a parlarti»,
disse e, saldate fra loro con la cera alcune canne diseguali, mantenne allo
strumento il nome della sua fanciulla. Questo stava dicendo il dio di Cillene,
quando s'accorse che tutti gli occhi, lo sguardo velato di sonno, s'erano
chiusi. Subito tronca il racconto e, accarezzando con la sua verga magica le
palpebre illanguidite, ne assicura il sopore; poi di furia, mentre vacilla, lo
colpisce con la spada a falce dove il capo s'unisce al collo e in un lago di
sangue, che imbratta i dirupi del monte, lo sbalza giù dal macigno. O Argo, tu
giaci: quella luce che possedevi in tante pupille, è spenta; una tenebra sola
grava sui tuoi cento occhi. Li raccoglie la dea Saturnia e li fissa alle penne
dell'uccello che le è sacro, costellandogli la coda di gemme. Poi, prendendo
fuoco, scatena la sua ira facendo apparire allo sguardo e alla mente della rivale
argolica l'orribile Erinni, ficcandole in petto un pungolo occulto e facendola
fuggire per tutta la terra in preda al terrore. E non restavi che tu, Nilo, a
quella corsa senza fine: non appena vi giunse, protendendo indietro il collo,
si buttò in ginocchio sul margine di quella riva e levando, come solo poteva,
lo sguardo alle stelle, con gemiti, lacrime e muggiti angosciosi parve dolersi
con Giove e supplicare la fine dei suoi mali. Giove allora getta le braccia al
collo della moglie e la prega di por termine al castigo. «In futuro, non
temere,» le dice, «mai più ti darà motivo di dolore» e chiama a testimone la
palude dello Stige. Come la dea si placa, Io riprende l'aspetto di un tempo e
torna com'era prima: spariscono le setole dal corpo, rientrano le corna, si
restringono le orbite degli occhi, s'accorcia il muso, riappaiono braccia e
mani, e nel disfarsi lo zoccolo si apre in cinque dita. Nulla sopravvive in lei
della giovenca, tranne il candore; felice d'usarne due soli, la ninfa si leva
in piedi ed esita a parlare per timore di muggire come prima e con cautela
ritenta l'idioma perduto. Ora è una dea famosa, venerata da folle avvolte di
lino. Da lei si crede che, fecondata dal grande Giove, sia nato Èpafo, che in
diverse città ha santuari insieme alla madre. Pari a lui per fierezza ed anni
era Fetonte, il figlio del Sole; e un giorno che questi, orgoglioso d'avere
Febo come padre, si vantava d'essergli superiore, il nipote d'Inaco non lo
tollerò: «Sciocco,» gli disse, «in tutto tu credi a tua madre e vai superbo di
un padre immaginario». Avvampò Fetonte, e pieno di vergogna represse l'ira,
riferendo alla madre, Clìmene, quella calunnia; disse: «E a tuo maggior dolore,
madre mia, io che sono così impulsivo, così fiero, m'imposi di tacere: non
sopporto che qualcuno abbia potuto insultarmi così, senza che potessi
ribattere! Ma tu, se è vero che discendo da stirpe celeste, dammi prova di
questi natali illustri e rivendicami al cielo». Disse e intorno al collo della
madre cinse le braccia, scongiurandola, per il suo e il capo di Mèrope, per le
nozze delle sorelle, di dargli testimonianza del suo vero padre. Non si sa se
spinta dalle preghiere di Fetonte o più dall'ira per l'accusa rivoltale,
Clìmene levò al cielo entrambe le braccia e fissando la luce del Sole: «Per
questo fulgore splendido di raggi abbaglianti,» disse, «che ci vede e ci
ascolta, io ti giuro, figliolo, che tu sei nato da questo Sole che contempli e
che regola la vita in terra. Se ciò che dico è menzogna, mai più mi consenta di
guardarlo e sia questa luce l'ultima per i miei occhi! Del resto non ti sarà
fatica trovare la casa paterna: la terra in cui risiede confina con la nostra,
là dove sorge. Se questo hai in animo, va' e chiedi a lui stesso». Balza lieto
Fetonte alle parole della madre e, tutto preso dall'idea del cielo, lascia la
terra dei suoi Etiopi, attraversa l'India che si stende sotto la vampa del
sole, e di slancio arriva dove sorge il padre. LIBRO SECONDO Alta si ergeva la
reggia del Sole su immense colonne, tutta bagliori d'oro e fiammate di rame;
lucido avorio rivestiva la cuspide del frontone e i battenti della porta
emanavano riflessi argentei. E qui l'arte eclissava la materia, perché il dio
del fuoco vi aveva cesellato i mari che circondano la terra, l'universo intero
e il cielo che lo sovrasta. Tra i flutti emergono gli dei del mare, Tritone che
suona, l'ambiguo Pròteo, Egèone che con le sue braccia imbriglia dorsi enormi
di balene, e Dòride con le sue figlie, alcune mentre nuotano, altre sedute su
scogli ad asciugarsi i verdi capelli, qualcuna in groppa a un pesce: non hanno
tutte lo stesso viso, ma nemmeno diverso, come s'addice a sorelle. Sulla terra
vi sono uomini, città, boschi e animali, fiumi, ninfe e le altre divinità della
campagna. Sopra è raffigurato il cielo che brilla di luci: sei costellazioni
sul battente destro, sei sul sinistro. Quando per un erto sentiero qui giunse
il figlio di Clìmene, appena entrato nella dimora del padre putativo, subito si
diresse al suo cospetto, ma fermandosi a una certa distanza: più vicino non ne
avrebbe sostenuto il fulgore. Avvolto in un manto purpureo, Febo sedeva su un
trono tutto sfolgorante di smeraldi luminosi: ai suoi lati stavano il Giorno,
il Mese e l'Anno, i Secoli e le Ore disposte a uguale distanza fra loro; e
stava la Primavera incoronata di fiori, stava l'Estate, nuda, che portava
ghirlande di spighe, stava l'Autunno imbrattato di mosto e l'Inverno gelido con
i bianchi capelli increspati. Al centro, con quegli occhi che scorgono tutto, il
Sole vide il giovane sbigottito dalla meraviglia e: «Perché sei venuto?» gli
disse. «Cosa cerchi in questa rocca, Fetonte, figliolo mio che mai potrei
rinnegare?». E quello: «O luce, che a tutto l'universo appartieni, Febo, padre
mio, se mi concedi d'usare questo nome e se Clìmene non cela una colpa sotto
falsa effigie, dammi testimonianza, genitore, che mi rassicuri d'essere tuo
figlio, e strappami questa incertezza dal cuore». A queste parole il genitore
depose i raggi che gli sfolgoravano intorno al capo, l'invitò ad avvicinarsi e
abbracciandolo gli disse: «Non c'è ragione per negare che tu sia mio e che il
vero riferì Clìmene sulla tua nascita. E perché tu non abbia dubbi, chiedimi
quello che vuoi: da me, da me l'avrai; e alla mia promessa sia testimone quella
palude misteriosa su cui giurano gli dei». Non appena tacque, il figlio gli
chiese il cocchio, col permesso di guidare per tutto un giorno i cavalli dai
piedi alati. Si pentì il padre suo di aver giurato, e scuotendo più volte il
capo luminoso, esclamò: «Folle fu la mia proposta, se questo hai in mente. Oh,
fosse lecito eludere le promesse! Credi, figliolo, questa è l'unica cosa che
vorrei rifiutarti. Ma dissuadere è permesso: colma di rischi è la tua
richiesta. Un'enormità chiedi, Fetonte, un dono che non s'addice né alle tue
forze né ai tuoi anni in fiore. Il tuo destino è d'essere mortale, e non da
mortale è ciò che desideri. Senza saperlo pretendi più di quanto sia lecito
concedere ai celesti. Presuma ognuno ciò che gli piace, ma nessuno, tranne me,
saprebbe reggersi su quel carro di fuoco. Neppure il signore dell'immenso
Olimpo, che con mano tremenda scaglia micidiali folgori, saprebbe guidare quel
cocchio. E chi c'è più grande di Giove? Ripida all'inizio è la via, tanto che a
fatica s'inerpicano i cavalli freschi al mattino; a metà altissima è nel cielo
e molte volte io stesso mi spavento a guardare di lassù il mare e la terra, col
cuore che batte di paura e sgomento; l'ultimo tratto è una china a strapiombo,
che richiede mano ferma: allora perfino Teti, che mi accoglie in fondo alle
onde, teme sempre ch'io possa a picco giù precipitare. Aggiungi poi che senza
sosta il cielo ruota vorticosamente, trascinando con sé, strette in orbite
veloci, le stelle. Io lo fronteggio, senza che il suo impeto, come in genere
accade, mi travolga, e corro in senso contrario alla corrente del suo moto.
Immagina di avere il cocchio: che farai? saprai opporti al rotare dei poli,
senza che il flusso del cielo ti sommerga? Pensi forse che lì ci siano boschi
sacri, città di dei o sacrari ricchi di offerte? Attraverso insidie e visioni
di mostri avviene il tuo viaggio, e per quanto tu segua la via giusta senza mai
sbagliare, dovrai pure avventurarti tra le corna del Toro che hai di fronte,
contro l'arciere di Emonia, tra le fauci violente del Leone, contro lo
Scorpione che inarca in un gran cerchio le sue chele velenose e il Cancro che
in altra direzione le richiude. Facile non ti sarà reggere cavalli così focosi
per le fiamme che hanno in petto e spirano da bocca e froge: a stento
obbediscono a me, quando esplode il loro istinto e il collo si ribella alle
briglie. Attento dunque, che non sia io, figliolo, il colpevole di un dono così
funesto e, finché siamo in tempo, muta il tuo proposito. Chiedi una prova certa
che ti convinca d'essere nato dal mio sangue? Io te la do col mio timore: lo
sgomento di un padre attesta che lo sono. Guarda, guarda il mio volto: potessi
figgermi gli occhi nel cuore e cogliervi tutta l'ansia che solo un padre ha in
petto! Forza, guarda intorno di quante cose è ricco l'universo, e di tanti e
così grandi beni di cielo, terra e mare chiedi ciò che vuoi: nulla, nulla ti
rifiuterò! Da questo solo ti svio, che in verità ha nome castigo, non tributo
d'affetto: un castigo, Fetonte mio, mi chiedi in dono. Perché, insensato, mi
getti le braccia al collo per blandirmi? Non dubitare, avrai (l'ho giurato
sulla palude stigia) qualunque cosa desideri, ma esprimi un desiderio più
saggio». Il monito era concluso, ma quello non vuol sentire ragioni e insiste
nel suo proposito, smaniando per la voglia del carro. E allora il genitore,
dopo avere indugiato tutto il possibile, conduce il giovane al cocchio, sublime
dono di Vulcano. D'oro era l'asse, d'oro il timone, d'oro il cerchione delle
ruote e d'argento la serie dei raggi; lungo i gioghi, topazi e gemme poste in
fila per il riflesso del Sole emanavano sfavillanti bagliori. E mentre l'audace
Fetonte ammira in tutti i suoi particolari quell'opera, ecco che all'erta dal
lucore di levante l'Aurora spalanca le sue porte purpuree e l'atrio colmo di
rose: fuggono le stelle, che Lucifero raduna in schiere, lasciando per ultimo
il campo celeste. Come il Titano lo vide avviarsi verso terra e il mondo tingersi
di rosso, la falce nebulosa della luna quasi svanire, ordinò alle Ore in attesa
di aggiogare i cavalli. Rapide le dee eseguono l'ordine e dal fondo delle
stalle traggono i destrieri sazi di succo d'ambrosia, che spirano fuoco, e
adattano loro i morsi tintinnanti. Allora il padre unse il viso del figlio con
un unguento magico rendendolo immune dall'aggressione delle fiamme, gli pose
fra i capelli i raggi e, rinnovando i suoi sospiri presaghi di sventura, col
cuore inquieto gli disse: «Se almeno riesci a seguire i consigli di tuo padre,
evita la frusta, figliolo, e serviti piuttosto delle briglie. Già tendono a
correre: il difficile è frenare la loro foga. E non scegliere la via che
incrocia tutte le cinque zone: c'è una pista che con ampia curva si snoda obliquamente
nello spazio limitato di tre zone, senza toccare né il polo australe, né l'Orsa
legata agli Aquiloni; seguila: vedrai con chiarezza i solchi delle ruote. E
perché il cielo e la terra ricevano il giusto calore, in basso non spingere il
cocchio e non lanciarlo oltre misura nell'etere: spostandoti troppo in alto
bruceresti le dimore celesti, in basso la terra: a mezza via puoi andartene
senza alcun rischio. Bada poi che sterzando troppo a destra le ruote non ti
conducano nelle spire del Serpente o a sinistra nei recessi dell'Altare: tienti
fra loro. Per tutto il resto m'affido alla Fortuna, che ti aiuti e pensi a te,
spero, meglio di quanto tu sappia fare. Mentre ti parlo, la notte umida ha
raggiunto la meta posta sulle coste di Esperia. Non ci sono concessi indugi:
siamo attesi; disperse le tenebre, l'Aurora risplende. Afferra le briglie! Ma
se puoi mutare intenzione, serviti dei miei consigli, non del mio cocchio,
finché lo puoi e ancora qui sei su terreno solido, finché alla cieca sul carro
che purtroppo hai scelto non hai posto piede. Lascia che sia io a illuminare la
terra e tu osserva al sicuro!». Balza il figlio col suo giovane corpo sul
cocchio volante, ritto in piedi, felice di stringere finalmente nelle mani le
briglie, e di lassù ringrazia il genitore contrariato. Intanto gli alati
cavalli del Sole, Eòo, Pirois, Èton e Flègon, l'ultimo, riempiono l'aria di
nitriti e di fiamme, scalpitando di fronte alla barriera. Non appena Teti, che
non sa quale destino attenda il nipote, l'apre, schiudendo a loro gli spazi del
cielo immenso, quelli si lanciano fuori, scalciando le zampe nell'aria squarciano
la cortina di nebbie e sollevandosi sulle ali superano gli Euri che nascono
nelle stesse regioni. Ma leggero è il carico, non quello che i cavalli del Sole
conoscono, e il giogo manca del piglio solito; così, come la chiglia delle navi
senza la giusta zavorra ondeggia e per eccessiva leggerezza sbanda sul mare, il
cocchio, privo del peso consueto, sobbalza nell'aria con scossoni immani, quasi
fosse vuoto del tutto. Appena se ne accorgono, i quattro destrieri si
scatenano, lasciano la pista battuta e più non corrono ordinati. Lui si
spaventa e non sa da che parte tirare le briglie in mano, non sa dov'è la
strada e, se anche lo sapesse, come imporsi a loro. Per la prima volta allora
ai raggi solari arse l'Orsa gelida, che invano, perché interdetto, tentò
d'immergersi nel mare; e il Serpente, sospeso in prossimità dei ghiacci polari,
che prima intorpidito dal freddo non spaventava alcuno, s'infiammò e a quel
fuoco fu preso da una furia mai vista. E anche tu, Boote, raccontano che
fuggisti sconvolto, benché fossi lento e impacciato dal tuo carro. Quando poi
dalla vetta del cielo l'infelice Fetonte si volse a guardare in basso la terra
lontana, così lontana, impallidì, di fulmineo sgomento gli tremarono i ginocchi
e pur fra tanta luce un velo di tenebra gli calò sugli occhi. Ora mai vorrebbe
aver toccato i cavalli di suo padre, ora si pente d'avere appreso i natali e
vinto con le suppliche; ora figlio di Mèrope vorrebbe che lo dicessero e
intanto è trascinato via, come dalle raffiche di Borea una nave, che il pilota
rinunci a governare rimettendosi agli dei. Che fare? Alle spalle s'è lasciato
buona parte del cielo, ma più ve n'è davanti. Nella mente misura i due tratti:
ora scruta l'occidente che il destino gli vieta di raggiungere, ora si volta a
guardare l'oriente. Incapace a decidere, resta di pietra, non lascia le redini
e non ha la forza di tirarle, i nomi stessi ignora dei cavalli. In più,
dispersi nel cielo screziato, in ogni luogo vede prodigi e, inorridito,
fantasmi di animali mostruosi. V'è un punto dove lo Scorpione incurva le sue
chele in due archi e dalla coda alle branche, strette a fòrcipe, stende le sue
membra nello spazio di due costellazioni. Quando il ragazzo lo vede che,
asperso tutto di nero veleno, minaccia di colpirlo con la punta dell'aculeo,
sconvolto dal gelo del terrore lascia andare le briglie; e appena queste,
allentandosi, sfiorano la loro groppa, i cavalli smarriscono la strada e senza
freno alcuno vagano per l'aria di regioni ignote e, dove li spinge la foga, lì
in disordine rovinano, cozzano contro le stelle infisse nella volta del cielo,
trascinando il carro in zone inesplorate. Ora balzano in alto, ora si gettano
giù a capofitto per sentieri scoscesi in spazi troppo vicini alla terra. Con
stupore la Luna guarda i cavalli del fratello passare sotto i suoi e le nuvole
che fumano combuste. Nei punti più alti la terra è ghermita dal fuoco, si
screpola in fenditure e, seccandosi gli umori, inaridisce; si sbiancano i
pascoli, con tutte le fronde bruciano le piante e le messi riarse danno esca
alla propria rovina. Di inezie mi dolgo: con le loro mura crollano città
immense e gli incendi riducono in cenere coi loro abitanti regioni intere.
Bruciano coi monti i boschi, bruciano l'Ato, il Tauro di Cilicia, il Tmolo,
l'Eta e l'Ida, un tempo zampillante di sorgenti e ora inaridito, l'Elicona
delle Muse e l'Emo, prima che vi regnasse Eagro; bruciano l'Etna, fuoco su
fuoco, in un rogo immenso, i due gioghi del Parnaso, l'Èrice, il Cinto, l'Otri
e il Ròdope, finalmente sgombro di neve, il Dìndimo, il Mimante, il Mìcale e il
Citerone, destinato ai riti sacri. Nemmeno i suoi ghiacci salvano la Scizia: il
Caucaso brucia con l'Ossa, il Pindo e l'Olimpo che entrambi li sovrasta, le
Alpi che si confondono col cielo e l'Appennino con le nubi. E così, dovunque
guardi, Fetonte vede la terra in fiamme e più non resiste a quell'immenso calore:
respira folate infuocate, che sembrano uscire dalla gola d'una fornace ed
avverte il suo cocchio farsi incandescente. Non riesce più a sopportare le
ceneri e le faville che si sprigionano, un fumo afoso tutto l'avvolge e,
immerso in quella caligine di pece, non sa più dove sia o dove vada, trascinato
com'è in balia dei cavalli alati. Fu allora, così dicono, che il popolo degli
Etiopi divenne, per l'afflusso del sangue a fior di pelle, nero di colore; fu
allora che la Libia, privata d'ogni umore, divenne un deserto; fu allora che le
ninfe, i capelli al vento, rimpiansero fonti e laghi: invano la Beozia cerca la
fonte Dirce, Argo Amìmone, Èfire la vena di Pirene. Neppure i fiumi che hanno
avuto in sorte sponde distanti fra loro si salvano: il Tànai fuma persino al
centro della sua corrente, e così il vecchio Peneo, il Caìco di Teutrante, il
rapido Ismeno, l'Erimanto di re Fegeo e lo Xanto, destinato a nuove fiamme, il
biondo Licorma, il Meandro che gioca a rendere tortuose le sue acque, il Mela
di Migdonia e l'Eurota di Tènaro. Arde anche l'Eufrate di Babilonia, arde
l'Oronte, il vorticoso Termodonte, il Gange, il Fasi e l'Istro. Ribolle l'Alfeo
e dello Sperchìo bruciano le rive; l'oro che il Tago trascina col suo flusso
scorre fuso dal fuoco, mentre gli uccelli acquatici, che riempiono di canti le
sponde di Meonia, avvampano in mezzo al Caìstro. Fugge atterrito il Nilo ai
margini del mondo e nasconde il capo dove ancora è celato; in polvere si
spengono le sue sette foci: sette alvei senza una goccia d'acqua. Uguale sorte
in Tracia prosciuga l'Ebro e lo Strìmone, e in Occidente i fiumi Po, Rodano,
Reno e il Tevere a cui fu promesso il dominio del mondo. In ogni luogo il suolo
si spacca e attraverso gli squarci la luce penetra nel Tartaro, atterrendo con
Proserpina il re degli Inferi. Il mare si contrae e dove c'era l'acqua, ora vi
sono distese d'arida sabbia; e i monti, dissimulati nei fondali, ora affiorano
moltiplicando l'arcipelago delle Cicladi. Negli abissi si rifugiano i pesci, e
i delfini, che per natura s'inarcano nell'aria, non s'azzardano più a balzare
sull'acqua; corpi esanimi di foche galleggiano riversi a livello del mare; e si
dice che persino Dòride e Nèreo con le figlie cercassero rifugio nel tepore
delle grotte; tre volte Nettuno, torvo in volto, cercò di sollevare dall'acqua
le braccia e tre volte non resse al fuoco dell'aria. Alla fine la madre Terra,
circondata com'era dal mare, fra quelle onde e le fonti consunte, che dov'era
luogo cercavano di rintanarsi nelle sue viscere oscure, riarsa sollevò a fatica
il volto sino al collo, si portò una mano alla fronte e con un gran sussulto, che
fece tremare ogni cosa, si assestò un poco più in basso di dove è solita stare,
e con voce roca disse: «Se questo è deciso e l'ho meritato, o sommo fra gli
dei, perché ritardano i tuoi fulmini? Se di fuoco devo perire, del fuoco tuo
possa perire: più lieve sarà la mia sventura. Posso appena aprire la bocca per
articolare verbo» (la soffocava il fumo). «Guarda, guarda i miei capelli in
fiamme e quanta cenere negli occhi, quanta sul mio viso! Questo il mio premio?
così ricompensi la fertilità e i miei servigi, dopo che sopporto le ferite
infertemi da aratri e rastrelli e per tutto l'anno m'affatico? dopo che al
bestiame procuro fronde, al genere umano alimenti e frutti teneri, e a voi
persino l'incenso? Ma ammesso ch'io meriti questa fine, che colpa hanno le
acque, che colpa tuo fratello? perché il mare, che gli fu affidato in sorte,
sempre più si contrae e sempre più dal cielo si discosta? E se non ti commuovi
per tuo fratello o per me, abbi almeno pietà del cielo che è tuo! Guàrdati
intorno: fumano entrambi i poli; e se il fuoco li intaccherà, le vostre regge
crolleranno. Atlante stesso s'affatica al limite per sostenere sulle spalle
l'asse celeste ormai incandescente. Se scompare il mare, la terra e la reggia
del cielo, nel caos antico ci annulleremo. Salvalo dalle fiamme quel poco che
ancora resta: abbi a cuore l'universo!». Questo disse la Terra; né più avrebbe
potuto resistere al calore o dire altro: su sé stessa si ripiegò, negli antri
più vicini al regno delle ombre. Allora il padre onnipotente, chiamati a
testimoni gli dei (e per primo chi ha concesso il carro) che se non fosse
intervenuto, tutto si sarebbe fatalmente estinto, salì in cima alla rocca da
cui suole stendere le nubi sulla crosta terrestre, da cui fa rimbombare i tuoni
e scaglia in un guizzo le folgori. Ma in quel momento non gli servirono nubi
per coprire la terra, né pioggia che cadesse dal cielo: tuonò, e librato un
fulmine alto sulla destra, lo lanciò contro l'auriga, sbalzandolo dal cocchio e
dalla vita, e con la furia del fuoco il fuoco represse. Atterriti s'impennano i
cavalli e con un balzo sciolgono il collo dal giogo, spezzano i finimenti e
fuggono. Qui cadono i morsi, più in là l'asse divelto del timone, da questa
parte i raggi delle ruote fracassate e ciò che resta del cocchio in frantumi è
disseminato in ogni luogo. Fetonte, con le fiamme che gli divorano i capelli di
fuoco, precipita vorticosamente su sé stesso e lascia nell'aria una lunga scia,
come a volte una stella che sembra cadere, anche se in verità non cade, dal
cielo sereno. Lontano dalla patria, in un'altra parte del mondo, l'accoglie
l'immenso Erìdano, che gli deterge il viso fumante. Le Naiadi d'Occidente
seppelliscono il corpo incenerito dal fulmine a tre punte e sulla lapide
incidono questi versi: «Qui giace Fetonte, auriga del cocchio di suo padre; e
se non seppe guidarlo, pure egli cadde in una grande impresa». Affranto, il
padre aveva intanto nascosto il volto contratto dal dolore e, se dobbiamo
crederlo, dicono che tutto un giorno trascorse senza sole: luce offrivano i
bagliori degli incendi e almeno a questo servì quella catastrofe. Clìmene
invece, dopo aver maledetto tutto ciò che è possibile in così grande disgrazia,
impazzita di dolore, straziandosi il petto, vagò per tutto l'universo cercando
all'inizio il corpo senza vita, poi le ossa, e solo queste ritrovò, sepolte in
un lido straniero: si accasciò sul tumulo e inondò di lacrime il nome che lesse
sul marmo, scaldandolo col seno ignudo. Non minore è il lutto delle Eliadi: pur
se vano come tributo, offrono lacrime alla morte, battendosi il petto con le
palme, e prosternate sul sepolcro, notte e giorno invocano Fetonte, che d'udire
quei tristi lamenti non è certo in grado. Quattro volte, riunendo le corna,
piena era tornata la luna e quelle, per rito ormai sancito dal tempo,
s'abbandonavano al pianto, quando fra loro Faetusa, la sorella maggiore, volendo
prostrarsi a terra, lamentò che le si fossero irrigiditi i piedi; premurosa
Lampezie cercò di avvicinarla, ma una radice imprevista la trattenne; un'altra
sul punto di strapparsi i capelli con le mani divelse delle foglie. Questa si
duole che un ceppo le serri le gambe, quella che le braccia si protendano in
rami. E mentre allibiscono, una corteccia avvolge gli inguini e a poco a poco
fascia il ventre, il petto, le spalle e le mani: solo la bocca che invoca la
madre resta viva in loro. E che può fare la madre, se non correre qua e là,
dove la trascina l'angoscia, a dispensare baci finché può? Non basta: tenta di
svellere dai tronchi quei corpi, ma con le mani spezza i rami appena spuntati e
da questi stillano gocce di sangue, come da una ferita. «Férmati, madre, ti
prego,» gridano quelle per la sofferenza, «férmati, ti prego! Nell'albero si
strazia il nostro corpo. Addio, è la fine...», e la corteccia soffoca le ultime
parole. Ne colano lacrime, ambra che stilla dai nuovi rami e che, rassodata al
sole, dal fiume limpido è raccolta per essere offerta come ornamento alle donne
in fiore del Lazio. A questo prodigio assistette il figlio di Stènelo, Cicno,
che legato a te, Fetonte, per sangue materno, ancor più lo era per vincoli
d'affetto. Abbandonato il potere (governava il popolo dei Liguri e le loro
grandi città), stava riempiendo di lamenti le correnti dell'Erìdano, le sue
verdi sponde e le sue selve infittite da quelle sorelle, quando la voce gli si
affievolì, sotto candide piume scomparvero i capelli, sporgendo dal petto si
protese il collo, una membrana congiunse le dita rossicce, due ali vestirono i
fianchi e un becco smussato sostituì la sua bocca. E Cicno diventa un insolito
uccello che, memore dei fulmini scagliati con crudeltà da Giove, diffida di lui
e del cielo: cerca gli stagni, i laghi aperti e, detestando il fuoco, sceglie
come dimora i fiumi, che sono l'opposto delle fiamme. Frattanto il padre di
Fetonte, desolato e privo del suo stesso splendore, come avviene quando lui si
eclissa, ha in odio la luce, sé stesso e il chiarore del giorno, si abbandona
al dolore e a questo aggiunge l'ira, negando l'ufficio suo al mondo. «Fin dal
tempo dei tempi», dice, «il mio destino è stato senza requie. Basta. Sono
stanco di affannarmi senza fine, senza nessuna ricompensa. Che sia qualcun
altro a guidare il carro che porta la luce! E se non v'è nessuno o fra gli dei
chi ammetta di saperlo fare, lo guidi lui: così almeno, mentre combatte con le
mie redini, lascerà stare i fulmini che i genitori privano dei figli! Allora,
provata la furia dei cavalli dai piedi di fuoco, capirà che non meritava la
morte chi non seppe guidarli.» Così dice il Sole, e tutti gli dei gli si
stringono intorno, pregandolo con voce supplichevole di non immergere il mondo
nelle tenebre. Anche Giove si scusa d'aver scagliato il fulmine e come un
despota alle preghiere aggiunge le minacce. Febo raduna i cavalli infuriati e
ancora folli di terrore, e pieno di dolore li sprona inferocito a colpi di
sferza e inferocito li accusa d'aver causato la morte del figlio. Allora il
padre onnipotente fece il giro delle grandi mura del cielo, controllando che,
minata dalla violenza del fuoco, nessuna parte rischiasse di crollare. Visto
che erano salde e robuste come si doveva, scrutò la terra e le fatiche degli
uomini. Ma ciò che più gli sta a cuore è l'Arcadia, la sua Arcadia: le rese le
fonti e i fiumi ancora incerti se scorrere, ridonò l'erba alla terra, le fronde
agli alberi e impose alle foreste devastate di rinverdire. E mentre va e viene
di continuo, è colpito da una vergine di Nonacre e la passione che concepisce
gli divampa in petto. Ma lei non ambiva cardare e render soffice la lana o
acconciarsi in mille modi i capelli: quando una fibbia la veste o una benda
bianca aveva raccolto i suoi capelli al vento, quando in mano stringeva una
lancia leggera, oppure un arco, un soldato di Febe, questo era, e più cara a
Trivia nessuna aveva sfiorato il Mènalo. Ma non c'è dote che duri a lungo. Alto
era il sole, ormai giunto oltre la metà del suo cammino, quando lei entrò in un
bosco inviolato dal tempo dei tempi: qui dalla sua spalla depone la faretra,
allenta la tensione dell'arco, e si sdraia sul tappeto erboso del suolo,
appoggiando il capo reclinato sulla sua faretra dipinta. Come Giove la vide
così stanca e indifesa, si disse: «Di questa tresca certo mia moglie non saprà
nulla, e anche se venisse a saperla, vale, vale bene una diatriba!». Subito
assume l'aspetto e il portamento di Diana, dicendo: «O vergine, che compagna mi
sei fra le compagne, su quali monti hai cacciato?». Dal prato balza la
fanciulla e: «Benvenuta, dea,» risponde, «che, se anche mi sente, per me sei
più grande di Giove!». Sorride lui, divertito nel sentirsi preferito a sé
stesso, e la bacia con impeto sulla bocca, con troppo impeto, come non s'addice
a una vergine. E mentre lei si accinge a raccontare in quale bosco ha cacciato,
la cinge in un amplesso e nel violarla si rivela. Lei si ribella, sì, per
quanto almeno può fare una donna (o se tu l'avessi vista, Saturnia, saresti più
comprensiva!); si ribella, sì, ma quale fanciulla o chi altro mai potrebbe
vincere il sommo Giove? In cielo ritorna vincitore Giove, mentre lei ora odia
quei boschi e quegli alberi che sanno; e fuggendo di lì quasi si scorda di raccogliere
la faretra con le sue frecce e l'arco appeso a un ramo. Ed ecco che mentre,
fiera della selvaggina uccisa, s'inoltra col suo séguito fra i gioghi del
Mènalo, la dea di Ditte la scorge e, riconoscendola, la chiama. Quella al suo
nome fugge, temendo sul momento che in lei si nasconda Giove; ma poi, quando
vede che al suo fianco compaiono le ninfe, si rende conto che non c'è inganno e
si unisce a loro. Ahimè, com'è difficile non tradire la colpa con lo sguardo!
Leva appena gli occhi da terra; non si pone come un tempo al fianco della dea;
non è più la prima davanti a tutte; ma tace e arrossendo rivela l'infamia
subita. Se non fosse stata vergine, da mille segni avrebbe potuto intuirne
Diana la colpa; l'intuirono le ninfe, pare. Per il nono mese rinasceva in cielo
la falce della luna, quando a caccia la dea, spossata dalla vampa del fratello,
trovò un bosco freschissimo, dal quale mormorando, fra granelli di sabbia
impazziti, zampillava a valle un ruscello. Il posto le piacque, e con la punta
del piede saggiò l'acqua; anche questa le piacque e allora disse: «Qui non ci
vede nessuno: immergiamoci nude in queste limpidi correnti». La fanciulla di
Parrasia arrossì. Tutte si tolgono le vesti: lei sola prende tempo, ma mentre
indugia viene spogliata e, quando è nuda, il suo corpo mette in luce la colpa.
Smarrita lei si affanna a nascondere il ventre con le mani: «Via di qui!» le
grida Cinzia; «non profanare questa fonte sacra!» e le impone di abbandonare il
suo séguito. Da tempo la moglie del gran Tonante era al corrente della cosa, ma
aveva rimandato di trarne vendetta alla giusta occasione. Ormai non c'era più
motivo d'attendere: alla rivale (altro colpo inferto a Giunone) è già nato un
bambino: Arcade. Appena a ciò volse, puntando gli occhi, il cuore esasperato:
«Mancava solo questo, svergognata,» si sfogò, «che tu restassi incinta, che
partorendo rendessi nota a tutti l'offesa e testimoniassi l'indegna azione del
mio Giove! Non potrai sfuggirmi: ti toglierò questa figura di cui ti compiaci,
sfacciata, e per la quale piaci a mio marito!». Disse e, affrontandola,
l'afferrò davanti per i capelli e la gettò bocconi a terra. Lei tendeva le
braccia implorando: ma ecco che pian piano le braccia si coprono di peli neri;
le mani si curvano e, crescendo in artigli adunchi, fungono da piedi; il viso,
che aveva un tempo incantato Giove, si deforma in fauci mostruose. E perché non
piegasse nessuno con suppliche e preghiere, le è tolto l'uso della parola:
dalla sua gola rauca esce solo un ringhio di rabbia minacciosa, che incute
paura. Anche se mutata in orso, conserva l'anima di un tempo e, manifestando
con gemiti incessanti il suo dolore, leva al cielo, alle stelle le mani, o
quello che sono, e, costretta a tacere, avverte in sé l'ingratitudine di Giove.
Ah, quante volte, temendo di sostare nel recesso dei boschi, torna a vagare
davanti alla casa e nei campi ch'erano suoi! Ah, quante volte, inseguita tra le
rocce dal latrato dei cani, fugge atterrita, lei, la cacciatrice, per fobia dei
cacciatori! Se vede una belva, spesso si nasconde scordandosi chi era, e pur
essendo un'orsa, si spaventa se scorge un orso sui monti, ha terrore dei lupi,
sebbene un lupo fosse suo padre. Ed ecco apparire, sul punto di compiere
quindici anni, Arcade, nipote di Licàone, che nulla sapeva della madre. Mentre
insegue la selvaggina, sceglie gli anfratti più adatti e circonda con maglie di
rete i boschi dell'Erimanto, s'imbatte in sua madre. Quando lo vede, lei
s'arresta come se lo riconoscesse; ma Arcade, all'oscuro di tutto, di fronte a
quegli occhi che immobili lo fissavano senza sosta, s'impaurisce e arretra;
quando poi lei accenna ad avvicinarsi, è lì per trafiggerle il petto con un
dardo micidiale. Ma l'Onnipotente l'impedì: rimovendoli entrambi, rimosse il delitto,
e sollevatili in aria con un turbine di vento, li pose nel cielo facendone due
costellazioni contigue. Scoppiò d'ira Giunone, quando la rivale sfavillò nel
firmamento, e discesa nel mare, s'accostò all'argentea Teti e al vecchio
Oceano, che incutevano rispetto a tutti gli dei, e quando le chiesero ragione
della visita: «Vi domandate perché io, regina degli dei,» sbottò, «dalle sedi
celesti qui venga? Un'altra sta in cielo al posto mio! Che io menta, se voi,
quando la notte avrà oscurato il mondo, non vedrete, a mia offesa, stelle
appena assunte agli onori del cielo, nel punto più alto, là, dove l'ultimo
cerchio, il più breve, circonda l'estremità dell'asse celeste. E chi vi sarà
mai che si trattenga dall'offendere Giunone e tremi d'averla offesa, se premio,
io sola, chi vorrei punire? Oh che gran cosa ho fatto! Che straordinaria
autorità è la mia! Non la volevo più donna: è diventata una dea! Così io
infliggo ai colpevoli le pene, così immenso è il potere mio! Che le ridoni
l'aspetto di un tempo, cancellandole quel muso di belva, come già fece con Io,
la sorella di Foroneo! E perché mai non ripudia Giunone e non la sposa,
mettendola in camera mia e prendendosi Licàone come suocero? Ma voi, se
avvertite l'affronto subito da chi avete allevato, respingete dai vostri gorghi
azzurri le sette stelle dell'Orsa, bandite una costellazione accolta in cielo a
prezzo di uno stupro, così che un'adultera non s'immerga in acque pure!». Gli
dei del mare acconsentirono. E Giunone risalì nel cielo limpido sull'agile
carro trainato da pavoni screziati, screziati solo di recente, da quando era
morto Argo, come di recente tu, che prima eri candido, corvo loquace, ti sei
visto tutt'a un tratto mutare le ali in nere. E in verità questo uccello un
tempo era d'argento con penne di neve, tanto da competere con le colombe
immacolate, da non sfigurare di fronte alle oche, che avrebbero salvato dando
l'allarme il Campidoglio, o ai cigni che adorano i fiumi. La lingua fu la sua
rovina: per colpa della lingua loquace, il suo colore, da bianco qual era, ora
è il suo contrario. Più bella di Corònide di Larissa in tutta l'Emonia non
v'era nessuna; e tu ne fosti innamorato, nume di Delfi, finché fu casta o
almeno non sospettata. Ma l'uccello di Febo scoprì l'adulterio e, per
denunciare quella colpa segreta, già filava spedito, inesorabile delatore, alla
volta del suo padrone. Con un battito d'ali gli è dietro, per sapere tutto, la
cornacchia chiacchierona e, sentito il perché di quella corsa: «Viaggio pericoloso
è il tuo,» gli dice; « dai retta alle predizioni che ti faccio. Guarda me
cos'ero e cosa sono e chiediti la ragione: scoprirai che a rovinarmi è stata la
fedeltà. Tempo fa infatti Minerva rinchiuse Erictonio, fanciullo creato senza
madre, dentro una cesta intessuta di vimini dell'Attica, che affidò alle tre
vergini nate da Cècrope, quel mostro, con l'ordine che non cercassero di
scoprirne il segreto. Da un olmo fitto, nascosta tra il fremito delle foglie,
io spiavo cosa stavano facendo: due, Pàndroso ed Erse, mantengono fede
all'impegno, ma la terza, Aglàuro, accusa le sorelle d'essere troppo paurose e
con le mani scioglie i nodi: dentro vi scorgono il bambino e disteso accanto un
serpente. Riferisco l'accaduto alla dea, e cosa ne ottengo in compenso?
d'essere esclusa dalle grazie di Minerva e posposta all'uccello della notte! Di
monito il mio castigo dovrebbe servire agli uccelli, perché non cerchino guai
sparlando. Ma, dico, m'aveva cercato lei o no, senza che io le chiedessi
niente, proprio niente? Puoi domandarlo a Pallade, a lei stessa: anche se è in
collera, non potrà certo per la collera negarlo. Nella terra di Focide mi
generò l'illustre Coroneo (son cose fin troppo note): una principessa, questo
ero, e richiesta (non ridere di me) da ricchi pretendenti. La bellezza fu la
mia rovina. Mentre a passi lenti vagavo, come al solito, sulla lingua di sabbia
lungo la riva, il dio del mare mi vide e s'infiammò, e dopo che a pregarmi con
parole di miele ebbe sprecato senza successo il suo tempo, pronto a farmi
violenza m'inseguì. Io fuggo, m'allontano dalla riva compatta e arranco invano
dove affondo nella sabbia. Invoco allora dei e uomini, ma la mia voce non
giunge ad alcun mortale: solo una vergine per una vergine si commosse dandomi
aiuto. Al cielo tendevo le braccia: e queste si facevano man mano nere di penne
leggere; tentavo di strapparmi la veste dalle spalle: ma quella un manto di
piume ormai era, che affondava radici nella pelle; cercavo di battermi con le
mani il petto ignudo: ma ormai non avevo più mani, non avevo un petto nudo;
correvo, e la sabbia non tratteneva più i miei piedi, come prima, ma mi libravo
raso terra. Poi alta mi levo nel cielo e illibata, come compagna, vengo
assegnata a Minerva. Ma cosa conta ormai questo, se mutata in uccello per un
crimine orrendo, Nictìmene mi succede in questo onore? Non hai mai sentito dire
(la cosa è risaputa in ogni luogo di Lesbo) che Nictìmene ha profanato il letto
di suo padre? Anche lei ora è un uccello, ma consapevole della sua colpa, fugge
sguardi e luce, celandosi fra le tenebre per la vergogna, e in tutto il cielo
da tutti è scacciata». A tali chiacchiere: «Che un accidente ti prenda, te e le
tue prediche!» sbottò il corvo. «Di presagi campati in aria me ne rido»; e
proseguì nel cammino per riferire al suo padrone di aver visto Corònide stesa
in braccio a un giovane dell'Emonia. Appreso il tradimento, al dio che l'ama
cadde l'alloro dal capo, sbiancando in volto dalle mani gli sfuggì la cetra e
col cuore in fiamme che traboccava d'ira afferrò al fianco le sue armi e,
tendendo l'arco al limite estremo, con una freccia infallibile le trafisse il
petto, quel petto che un'infinità di volte aveva stretto al suo. Colpita lei
emise un gemito, strappò dal corpo il ferro, inondando di sangue purpureo le
sue candide membra, e disse: «Prima di scontare la mia pena, Febo, potevo
almeno partorire. Ora due in una moriremo!». Fu tutto, e col sangue si dileguò
la vita: un gelo mortale invase quel corpo inanimato. Troppo tardi, ahimè, di
quel crudele castigo si pente l'amante e si odia per avere ascoltato, per
essersi così infuriato; odia l'uccello che l'ha costretto a scoprire il
tradimento, causando il suo dolore, e odia l'arco, la sua mano e con la mano le
frecce, quelle armi scagliate all'impazzata. Cerca di rianimarne il corpo
esanime e di vincere la morte con rimedi estremi, ma all'arte medica ricorre
invano. Dopo questi tentativi infruttuosi, quando vede che s'appronta il rogo e
che quel corpo sta per essere cremato dalle fiamme, allora, sì, cavati dal
fondo del cuore, prorompe in lamenti (non è concesso che il volto degli dei si
bagni di lacrime), come la giovenca che davanti agli occhi vede il martello,
librato all'altezza dell'orecchio destro, ridurre in pezzi con un colpo netto
la tempia cava al vitello di latte. Ma dopo averle cosparso il seno di profumi
per lei superflui, dopo averla abbracciata e averle reso gli onori per
l'ingiustizia, Febo non si rassegnò che anche il suo seme si riducesse in
cenere, e allora dal grembo della madre strappò il figlio alle fiamme e lo
portò nell'antro di Chirone, l'ibrido centauro. HTTP://COPIONI.CORRIERESPTTACOLO.IT
Quanto al corvo, che si attendeva un premio per la sua franchezza, lo escluse
dal novero degli uccelli bianchi. Raggiante era il centauro di quel suo pupillo
di stirpe divina e gioiva dell'onore legato al suo compito; quand'ecco che, con
le spalle ammantate di capelli rossi, giunge la figlia di Chirone, che sulla
riva di un fiume in piena gli aveva partorito la ninfa Cariclo, e per questo
chiamata Ocìroe: non contenta d'avere appreso le arti del padre, vaticinava i
segreti del destino. Così, quando vide il fanciullo, ispirata dal furore
profetico e infiammata dal dio che aveva chiuso in petto: «Cresci, fanciullo,
che all'universo intero darai salute!» disse. «Non poche volte i corpi dei
mortali ti dovranno la vita; a te sarà permesso rendere l'anima a chi l'ha
persa: ma dopo averlo osato una volta, destando l'ira degli dei, la folgore del
tuo avo t'impedirà di farlo ancora, e da dio quale sei diverrai corpo esangue,
per tornare ad essere da quel corpo dio, mutando due volte il tuo destino. E
anche tu, padre mio, che ora, creato in virtù della nascita per sopravvivere
nei secoli dei secoli, sei immortale, ambirai di poter morire quando, penetrato
nel tuo corpo da una ferita, ti strazierà il veleno di un serpente maligno, e
allora gli dei, da eterno che sei, ti renderanno alla mercé della morte,
lasciando che le Parche ti recidano la vita». Altro restava da predire: sospirò
dal profondo del cuore, lacrime le spuntarono a rigarle il volto e così disse:
«Il destino mi previene: precludendomi l'uso della voce, mi vieta di parlare
ancora. Non valeva tanto un'arte che attira su di me l'ira di un nume: meglio,
sì, se avessi ignorato il futuro. Già sento che l'aspetto umano mi viene
sottratto, già godo a cibarmi d'erba, già di correre lungo i campi provo
l'impulso: in cavalla mi trasformo, in un corpo familiare. Ma perché tutta
intera? Solo a metà lo è mio padre». Mentre così parlava, l'ultima parte del
suo lamento divenne poco comprensibile e le parole confuse. Poi non furono più
parole, ma nemmeno il verso di un cavallo, un'imitazione piuttosto; e in breve
tempo emise nitriti veri, agitando nell'erba le sue braccia. Si fusero allora
le dita e con una fascia di corno uno zoccolo leggero saldò le cinque unghie;
crebbero in lunghezza faccia e collo, gran parte del fluente abito divenne
coda, e i capelli, che le cadevano sciolti sul collo, si partirono da un lato
in criniera; insieme voce e aspetto mutarono; e quel prodigio acquistò persino
un nuovo nome. Piangeva l'eroe, figlio di Fìlira, e invano, o dio di Delfo,
invocava il tuo aiuto. Invano, perché non avresti potuto infrangere il volere
del grande Giove e anche se avessi potuto, tu allora non c'eri: per l'Elide e i
campi di Messenia vagavi. Era il tempo in cui andavi coperto di una pelle da
pastore e reggevi nella sinistra un bastone strappato al bosco, nell'altra mano
una zampogna a sette canne digradanti. E mentre, confortato dalla tua zampogna,
t'assillava amore, si racconta che le tue giovenche incustodite passassero
nella campagna di Pilo, dove il figlio di Maia le vide e con l'abilità del
ladro le nascose in una selva. Del furto nessuno s'era accorto, se non un
vecchio che sul posto tutti conoscevano e che i vicini chiamavano Batto: come
guardiano sorvegliava i boschi, i verdi pascoli e le mandrie delle cavalle di
razza del ricco Nèleo. Diffidando di lui, il dio lo trasse con gentilezza in
disparte e: «Chiunque tu sia, straniero, se capita che qualcuno cerchi questo
armento, non l'hai visto, e perché di ciò tu non rimanga senza mercede,
prenditi in premio una vacca bella lustra». E gliela diede. Accettandola,
quello gli rispose: «Stai tranquillo, amico: del tuo furto parlerà prima una
pietra, questa»; e ne indicò una. Il figlio di Giove finse di andar via, ma di
lì a poco tornò e con diverso aspetto e voce: «Ehi, contadino,» gli disse, «se
qui intorno hai visto passare delle giovenche, dammi aiuto e squarcia il
silenzio su questo furto. Avrai in un colpo solo una femmina col suo toro». Il
vecchio, visto che il premio raddoppiava: «Saranno sotto a quei monti»,
rispose; e sotto a quei monti erano. Rise il nipote di Atlante: «Perfido,
tradisci me a me stesso? me a me stesso tradisci?», e mutò quello spergiuro in
una dura pietra, che ancor oggi è chiamata 'la spia': da allora, senza sua
colpa, l'antica infamia bolla quella pietra. Di lì ad ali tese s'era alzato il
dio con la verga magica e in volo dall'alto guardava la campagna di Munichia,
la terra cara a Minerva e le piantagioni del Liceo. Per caso in quel giorno,
com'è costume, un corteo di fanciulle portava sul capo, in canestri
inghirlandati, i sacri oggetti del culto alla rocca di Pallade parata a festa. Il
dio alato le scorge sulla via del ritorno e, invece di proseguire spedito, si
mette a volare in cerchio. Come il nibbio, fulmineo uccello, quando avvista
vittime, finché c'è folla di sacerdoti intorno all'altare, timoroso volteggia
in cielo, senza avere la forza d'allontanarsi, e battendo le ali vola avido
intorno al suo miraggio; così il dio di Cillene piega rapido il suo volo sulla
rocca dell'Attica e solca in tondo sempre lo stesso spazio. Quanto più luminoso
di tutte le stelle brilla Lucifero e più di Lucifero la luna d'oro, di tanto
più bella di tutte le altre vergini incedeva Erse, gemma fra le compagne di
tutto il corteo. Abbagliato da tanta bellezza Mercurio, sospeso nell'aria,
prese fuoco come il piombo scagliato da una fionda delle Baleari, che vola e
nel suo volo si fa incandescente, trovando sotto le nuvole quel fuoco che prima
non aveva. E cambia rotta, lascia il cielo per calare sulla terra senza nemmeno
travestirsi, tanta fiducia ripone in sé. Giustificata certo, ma qualche aiuto
non guasta: si liscia i capelli, sistema il mantello in modo che cada come si
deve e mostri per intero il bordo col suo fregio d'oro, bada che la verga, con
cui infonde e scaccia il sonno, gli luccichi in mano e che i sandali
risplendano sui piedi tersi. Nella parte più interna della casa c'erano tre
camere decorate d'avorio e tartaruga: a destra la tua, Pàndroso, a sinistra
quella di Aglàuro e in mezzo la stanza assegnata ad Erse. La prima a notare
l'arrivo di Mercurio fu dalla sua camera a sinistra Aglàuro, che ebbe l'ardire
di chiedergli il nome e il motivo della visita. Le rispose: «Nipote di Atlante
e di Plèione io sono, che per l'etere porto i messaggi del padre, e mio padre è
Giove in persona. Non adduco pretesti: m'auguro solo che devota tu sia a tua
sorella e che ti piaccia esser chiamata zia della mia prole. Per Erse sono
venuto: asseconda, ti prego, chi è innamorato». Con gli stessi occhi, con cui
non molto prima aveva di nascosto frugato nei segreti della bionda Minerva, lo
scrutò Aglàuro, e per i suoi servigi gli chiese in compenso una gran quantità
d'oro; ma intanto lo costrinse ad uscire di casa. Squadrandola con occhio
torvo, la dea della guerra trasse allora dal profondo del cuore un sospiro così
violento da scuoterle insieme il petto e l'egida che quel forte petto
difendeva. E le tornò a mente che con mano empia aveva violato lei il suo
segreto, quando, malgrado il divieto, sorprese il fanciullo generato senza
madre dal dio di Lemno; e che insieme alla riconoscenza di Mercurio e della
sorella, con l'oro per avidità preteso ricchezze avrebbe ottenuto. Subito si
reca alla dimora di Invidia, funerea di peste e squallore. È una casa nascosta
in fondo a una valle, una casa priva di sole, senza un alito di vento, tetra,
tutta intorpidita dal gelo, dove sempre manca il fuoco e sempre dilagano le
nebbie. Quando vi giunge, la temibile vergine della guerra si ferma sulla
soglia, non essendole permesso di varcarla, e bussa alla porta con la punta
della lancia. Ai colpi si spalancano i battenti: all'interno intravede Invidia,
che mangia carne di vipera per alimentare i suoi vizi, e a quella vista
distoglie gli occhi. L'altra invece si alza pigramente da terra, lasciandosi
alle spalle brandelli di serpenti mezzo rosicchiati, e avanza con passo
incerto: quando scorge la dea lucente d'armi in tutto il suo fulgore, manda un
gemito, contraendo il volto nel conato dei sospiri. Il pallore le segna il
viso, la magrezza tutto il corpo; mai dritto lo sguardo, ha denti lividi e
guasti, il cuore verde di bile, la lingua tinta di veleno. Senza un'ombra di
sorriso, se non mosso dalla sventura altrui, non gode del sonno, agitata com'è
dall'assillo dei suoi crucci; con astio apprende i successi degli uomini e
quando li apprende si strugge; strazia ed è straziata al tempo stesso: questo
il suo tormento. Pur detestandola, Minerva, la dea di Tritone, si rivolge a lei
con queste brevi parole: «Infetta col tuo veleno una figlia di Cècrope, quella.
È scritto. Aglàuro è il suo nome». E senza una parola di più, facendo leva con
la lancia, si stacca da terra e vola via. Mentre con occhio bieco guarda
Minerva che fugge, Invidia, amareggiata di doverla accontentare, brontola un
attimo fra sé, poi prende il suo bastone, tutto avvolto da una fascia di spine.
Nascosta da una nuvola nera, ovunque passa, calpesta i fiori dei campi, brucia
l'erba, strappa la cima delle piante, e col suo fiato appesta popoli, case e
città. Giunge alla fine in vista della rocca consacrata a Pallade, fiorente di
ingegni, di benessere e di pace festosa: a stento trattiene le lacrime, non
scorgendo nulla che strappasse il pianto. Entra comunque nella stanza della
figlia di Cècrope e l'ordine esegue: con la sua mano livida le tocca il petto e
le colma il cuore di rovi e spine, le inietta un virus tossico e lungo le ossa,
dentro i polmoni, nero come la pece, le sparge e diffonde il suo veleno. E
perché i motivi del male non andassero dispersi, davanti agli occhi le pone
l'immagine della sorella felicemente sposata a quel nume affascinante, portando
il tutto alle stelle. Irritata, la figlia di Cècrope è morsa da un dolore
occulto e in ansia geme la notte, in ansia il giorno; tormentata da quel lento
stillicidio si strugge, come ghiaccio sfiorato appena dal sole; la sorte felice
di Erse la brucia a poco a poco, come se metti un fuoco sotto a sterpi freschi,
che non divampano, ma si consumano al lento calore. Per non vedere quella gioia
a volte vorrebbe morire, a volte denunciarla al padre intransigente come illecita;
si siede infine sulla soglia per impedire al dio, quando fosse tornato, di
varcarla; e a lui che la blandisce con le sue preghiere e le parole più
gentili: «Smettila,» gli grida, «io non mi muoverò di qui se prima non t'avrò
cacciato». «Starò al tuo patto», le risponde in un lampo il dio di Cillene, e
con la verga spalanca la porta cesellata. Lei fa per alzarsi, ma le membra, che
pieghiamo all'atto di sederci, appesantite da uno strano languore, rifiutano di
muoversi. Si sforza in ogni modo di drizzarsi in piedi, ma le ginocchia
sembrano di marmo, un gelo si propaga sino alle dita, esangui impallidiscono le
vene; e come il cancro, quel male incurabile che si diffonde ovunque,
aggredisce dopo quelle intaccate le cellule sane, così quel gelo mortale le penetra
a poco a poco nel petto e del respiro le occlude le vie che donano la vita. Lei
non tenta nemmeno di parlare, ma se anche tentasse, non avrebbe sfogo la voce:
di sasso ormai era il collo, impietrito il volto, una statua immobile, esangue.
E bianca non è la pietra: la mente sua l'ha imputridita. Dopo aver così punito
le parole di quella mente scellerata, il nipote di Atlante lascia le terre che
hanno nome da Pallade e con un battito d'ali s'addentra nel cielo. Lo chiama
qui suo padre, senza rivelargli che lo spinge amore, e: «Fedele esecutore dei
miei ordini,» gli dice, «figlio mio, lascia ogni indugio, scendi giù con la
velocità che ti distingue e in quella terra, che i nativi chiamano Sidone,
dalla quale in alto a sinistra si vede tua madre, in quella vai; vedrai un
armento del re che pascola lontano fra l'erba dei monti: spingilo verso la
spiaggia». Questo dice, e già i giovenchi cacciati giù dal monte si dirigono,
come ordinato, alla spiaggia, dove la figlia di quel re potente, accompagnata
dalle fanciulle di Tiro, è solita giocare. Maestà e amore non vanno molto
d'accordo, non possono convivere: lasciato lo scettro solenne, il padre e
signore degli dei, quello che ha la destra armata di fulmini a tre punte, lui
che con un cenno fa tremare il mondo, assume l'aspetto di un toro e mescolato
alle giovenche muggisce, aggirandosi aitante sull'erba tenera. Il suo colore è
come quello della neve non calcata da passo pesante o sciolta dalle piogge
dell'Austro; gonfio di muscoli è il suo collo, dalle spalle pende la giogaia;
piccole le corna, ma tali che potresti ritenerle fatte a mano, e più
trasparenti d'una gemma pura. Niente di minaccioso in volto, niente di spietato
nello sguardo: un'aria mansueta. La figlia di Agenore lo guarda meravigliata,
bello com'è e senza intenti bellicosi. Prima però, malgrado le appaia così
mite, esita a toccarlo; ma poi gli si accosta e a quel candido muso porge dei
fiori. Gode l'innamorato e, in attesa del piacere sognato, le bacia le mani: a
stento ormai, a stento rimanda il resto; intanto si sfrena gioioso saltando
sull'erba verde o stendendo il fianco color di neve sulla rena bionda; e
allontanata a poco a poco da lei la paura, le offre il petto perché l'accarezzi
con la sua mano ingenua, o le corna perché le inghirlandi ancora di fiori. E la
figlia del re s'adagia persino sul suo dorso, senza sapere su chi si siede.
Allora il dio dalla terra asciutta della riva, senza parere, comincia a
imprimere le sue mentite orme nelle prime onde, poi procede oltre e in mezzo
alle acque del mare si porta via la sua preda. Lei terrorizzata si volge a
guardare la riva ormai lontana: la destra stringe un corno, la sinistra
s'afferra alla groppa; palpitando al vento si gonfiano le vesti. LIBRO TERZO
Abbandonate le false sembianze di toro, ormai Giove si era svelato e aveva
raggiunto le campagne di Creta, quando il padre, all'oscuro del rapimento,
ordinò a Cadmo di cercargli la figlia, con la minaccia, per crudeltà e affetto
insieme, di esiliarlo se non l'avesse trovata. Percorsa invano la terra (e chi
potrebbe scoprire i sotterfugi di Giove?), come un esule il figlio di Agenore
evita la patria, l'ira paterna, e consulta l'oracolo di Febo supplicandolo di
dirgli in che terra si debba fermare. «In una landa deserta», afferma Febo,
«incontrerai una giovenca che, non obbligata al curvo aratro, mai ha subito il
giogo: seguila dove ti guida e nella pianura in cui s'adagerà innalza delle
mura e chiama Beozia quella regione.» Appena disceso dall'antro di Castalia,
Cadmo vide passare lentamente una giovenca incustodita, che sul collo non
recava segno di schiavitù. La segue e con cautela ne ripercorre le tracce,
ringraziando in cuore Febo d'indicargli il cammino. Superati i guadi del Cefiso
e i campi di Pànope, l'animale si fermò e levando al cielo la fronte ornata di
alte corna, riempì l'aria di muggiti, poi voltandosi a guardare chi lo seguiva,
si accosciò stendendo il fianco sull'erba tenera. Riconoscente Cadmo imprime
baci su quel suolo straniero e saluta quei monti e campi sconosciuti. Si
accinge poi a onorare Giove e ordina ai servi di recarsi ad attingere acqua per
la cerimonia a una fresca sorgente. C'era una foresta antica, inviolata dalla
scure, e in mezzo, tra un intrico di rami e virgulti, una spelonca, dove, sotto
una bassa volta sorretta da un ammasso di pietre, sgorgava abbondante l'acqua.
Qui stava rintanato un serpente generato da Marte e screziato di squame d'oro:
saettano fuoco gli occhi, gonfio tutto di veleno è il suo corpo, e in mezzo a
tre file di denti guizzano tre lingue. In questo bosco per sventura s'inoltrò
la gente venuta da Tiro. L'anfora calata nell'acqua fece un tonfo, ed ecco che
livido il serpente dal fondo dell'antro trae fuori il capo vomitando sibili
orrendi. Sfuggono le anfore dalle mani, esangue si fa il corpo e un tremito
improvviso pervade le membra irrigidite. Con rapide volute il mostro avvolge in
spire le sue squame e con un guizzo si tende in archi immensi; ergendosi con
oltre metà del suo corpo nel vuoto dell'aria, domina tutto il bosco: tanto è
grande, se tu lo vedessi intero, quanto il Serpente che separa le due Orse. Poi
di colpo s'avventa sui Fenici, o che s'apprestino a combattere, a fuggire o che
il terrore impedisca loro entrambe le azioni: e questi li uccide coi morsi,
quelli tendendo le spire, altri infine infettandoli col miasma mortale del suo
veleno. Già il sole altissimo aveva ridotto le ombre a un filo: stupito del
ritardo dei compagni, il figlio di Agenore allora si mise a cercarli. Addosso
portava la pelle strappata a un leone, per armi un'asta smagliante di ferro, un
dardo e, più efficace di qualsiasi arma, il suo coraggio. Come penetrò nel
bosco e vide i cadaveri e su questi lo smisurato avversario che vittorioso
leccava le macabre ferite con la lingua lorda di sangue: «O vendicherò la
vostra morte, fedelissimi miei,» esclamò, «o vi sarò compagno». Disse, e con la
destra sollevò un macigno e grande quant'era con gran furia lo scagliò.
Quell'urto avrebbe raso al suolo anche le mura più massicce con le sue torri
svettanti: incolume rimase il serpente; le squame compatte della sua pelle
nera, che lo proteggevano come una corazza, respinsero quel colpo spaventoso.
Ma la sua corazza non valse contro il dardo, che si conficcò in mezzo alla spina
dorsale, dove questa flettendosi s'inarca, e penetrò con tutto il ferro nelle
viscere. Pazzo di dolore il serpente torse il capo verso il dorso e scorta la
ferita, addentò l'asta che vi era confitta e, dopo averla scossa con violenza
da ogni parte, alla fine la divelse, ma il ferro gli rimase nelle ossa. Allora
che al suo furore abituale si aggiunse nuovo sprone, un flusso di sangue gli
gonfiò la gola, una bava biancastra gli spumeggiò intorno alle fauci letali;
graffiata dalle sue squame la terra stridette e l'alito nero che gli usciva
dalla bocca infernale ammorbò di fetore l'aria. Ora si raggomitola in spire che
descrivono archi immensi, mentre a volte s'inerpica più dritto di un alto
fusto, ora con impeto immane, come un fiume ingrossato dalle piogge, si lancia
e col petto abbatte ogni ostacolo che nella selva incontra. Il figlio di
Agenore arretra un po' e nelle spoglie del leone sostiene l'assalto, con la
lancia protesa tiene a bada la bocca che lo incalza. Quello infuria, a vuoto
avventa morsi contro il duro ferro e ficca i suoi denti nella punta. Dal suo
palato gonfio di veleno ormai il sangue cominciava a stillare, schizzando di
macchie il verde dell'erba. Ma era ferita leggera, perché il mostro sfuggiva ai
colpi piegando indietro il collo offeso e arretrando impediva all'arma di
piantarsi e di penetrare più a fondo; finché il figlio di Agenore, puntandogli
l'asta contro la gola, non lo incalzò da presso e, quando alle sue spalle nel
ritrarsi si parò una quercia, insieme trafisse collo e tronco. Sotto il peso
del serpente l'albero s'incurvò e gemette per le sue fibre sferzate
dall'estremità della coda. Mentre il vincitore osserva le spoglie smisurate del
nemico, si udì una voce all'improvviso (donde venisse non si capiva, ma certo
si udì): «Perché, figlio di Agenore, guardi quel serpente ucciso? Tu stesso
come serpente sarai guardato». Sbigottito Cadmo smarrì a lungo la mente e il
colore, coi capelli ritti, gelato dal terrore. Ed ecco che, scendendo dall'alto
dei cieli, la sua protettrice, Pallade gli è accanto e gli ordina, scavata la
terra, di seppellirvi i denti del drago, germi di un popolo futuro. Lui
ubbidisce e, com'ebbe tracciato un solco affondando l'aratro, ligio sparge al
suolo quei denti, semi di stirpe mortale. Allora, si stenta a crederlo, prende
a tremare la terra, dal solco affiorano prima picche di lance, poi spuntano
elmi con al vento i loro pennacchi variopinti, poi spalle, petti, braccia
cariche di armi e prolifica infine una messe di guerrieri armati di scudo: così
vedi sorgere le figure, quando nei giorni di festa si solleva in teatro il
sipario: prima mostrano il volto, poi man mano il resto, finché continuando
pian piano a crescere appaiono intere, coi piedi che poggiano sul bordo del
palco. Cadmo, atterrito dal nuovo nemico, sta per prendere le armi: «Non
farlo!» gli grida uno del popolo spuntato dalla terra. «Non intrometterti in
guerre civili». E in quell'istante ferì dritto di spada uno dei fratelli nati
dalla terra al suo fianco, ma lui stesso cadde colpito da un dardo. E chi
l'uccise, anche lui, non visse più a lungo ed esalò quel respiro che aveva
appena avuto in dono. E come questi il gruppo intero infuria: combattendo fra
loro, per reciproche ferite cadono insieme i fratelli. Ormai quella gioventù,
destinata a così breve vita, col petto insanguinato giaceva nel tepore di madre
terra: cinque solo i superstiti e fra questi Echìone che, ammonito da Pallade,
gettò al suolo le proprie armi, chiese e strinse un patto di pace coi fratelli.
Così lo straniero di Sidone li ebbe compagni di lavoro, quando fondò la città
designata dall'oracolo di Febo. Tebe ormai era sorta, ormai potevi, Cadmo,
sembrare felice in quell'esilio: per suoceri avevi Marte e Venere, e a questo
aggiungi la prole nata da una consorte così illustre, tanti figli, tante figlie
e, pegno d'affetto, i tuoi nipoti, anche loro ormai giovinetti. Ma vero è che
sempre l'uomo debba attendere il giorno estremo: nessuno mai, prima della morte
e delle proprie esequie, dovrebbe asserirsi felice. Fra tanta felicità il primo
dolore ti fu causato, Cadmo, da tuo nipote, da quelle strane corna cresciutegli
in fronte, e da voi, cani, che vi abbeveraste al sangue del padrone. Ma, a ben
guardare, in lui vedrai torto di malasorte, non malvagità: e quale malvagità è
in un errore? C'era un monte intriso del sangue di diversa selvaggina, e già il
mezzogiorno aveva contratto le ombre delle cose, perché il sole si trovava a
ugual distanza dai suoi confini, quando il giovane Ianteo si rivolse con voce
pacata ai compagni di caccia che si aggiravano per forre isolate: «Amici, armi
e reti sono madide del sangue di animali; giornata fortunata questa: può
bastare. Quando, trascinata dal suo cocchio d'oro, domani l'Aurora riporterà la
luce, ci rimetteremo all'opera. Ora Febo è a metà del suo cammino e spacca la
terra con la sua vampa. Sospendete l'opera in corso e togliete l'intrico delle
reti». Gli uomini eseguono e interrompono il loro lavoro. C'era una valle
coperta di pini e sottili cipressi, chiamata Gargafia, sacra a Diana dalle
vesti succinte, nei cui recessi in fondo al bosco si trovava un antro
incontaminato dall'uomo: la natura col suo estro l'aveva reso simile a un'opera
d'arte: con pomice viva e tufo leggero aveva innalzato un arco naturale. Sulla
destra in mille riflessi frusciava una fonte d'acque limpide, col taglio della
sua fessura incorniciato di margini erbosi. Qui veniva, quand'era stanca di
cacciare, la dea delle selve per rinfrescare il suo corpo di vergine in acque
sorgive. E qui giunta, alla ninfa che le fa da scudiera consegna il
giavellotto, la faretra e il suo arco allentato; si sfila la veste che un'altra
prende sulle braccia; due le tolgono i sandali dai piedi, e la figlia di
Ismeno, Cròcale, più esperta di queste, in un nodo le raccoglie i capelli
sparsi sul collo, che lei al solito portava sciolti. Nèfele, Iale, Ranis,
Psecas e Fiale attingono acqua con anfore capaci e gliela versano sul corpo.
Mentre Diana si bagnava così alla sua solita fonte, ecco che il nipote di
Cadmo, prima di riprendere la caccia, vagando a caso per quel bosco che non
conosceva, arrivò in quel sacro recesso: qui lo condusse il destino. Appena
entrò nella grotta irrorata dalla fonte, le ninfe, nude com'erano, alla vista
di un uomo si percossero il petto e riempirono il bosco intero di urla
incontrollate, poi corsero a disporsi intorno a Diana per coprirla con i loro
corpi; ma, per la sua statura, la dea tutte le sovrastava di una testa. Quel
colore purpureo che assumono le nubi se contro si riflette il sole, o che
possiede l'aurora, quello apparve sul volto di Diana sorpresa senza veste.
Benché attorniata dalla ressa delle sue compagne, pure si pose di traverso e
volse il volto indietro. Non avendo a presa di mano le frecce, come avrebbe
voluto, attinse l'acqua che aveva ai piedi e la gettò in faccia all'uomo,
inzuppandogli i capelli con quel diluvio di vendetta, e a predire l'imminente
sventura, aggiunse: «Ed ora racconta d'avermi vista senza veli, se sei in grado
di farlo!». Senza altre minacce, sul suo capo gocciolante impose corna di cervo
adulto, gli allungò il collo, gli appuntì in cima le orecchie, gli mutò le mani
in piedi, le braccia in lunghe zampe, e gli ammantò il corpo di un vello a
chiazze. Gli infuse in più la timidezza. Via fuggì l'eroe, figlio di Autònoe, e
mentre fuggiva si stupì d'essere così veloce. Quando poi vide in uno specchio
d'acqua il proprio aspetto con le corna, «Povero me!» stava per dire: nemmeno
un fil di voce gli uscì. Emise un gemito: quella fu la sua voce, e lacrime gli
scorsero su quel volto non suo; solo lo spirito di un tempo gli rimase. Che
fare? Tornare a casa, nella reggia, o nascondersi nei boschi? Quello glielo
impediva la vergogna, questo il timore. Mentre si arrovellava, lo avvistarono i
cani. Melampo e Icnòbate, quel gran segugio, per primi con un latrato diedero
il segnale (Icnòbate di ceppo cretese, Melampo di razza spartana). Poi di
corsa, più veloci di un turbine, si avventarono gli altri: Pànfago, Dorceo e
Orìbaso, tutti dell'Arcadia, e il forte Nebròfono, il truce Terone con Lèlape,
Ptèrela e Agre, eccellenti l'una in velocità, l'altra nel fiuto, e il
battagliero Ileo ferito di recente da un cinghiale, Nape concepita da un lupo,
Pemènide già guardiana di mandrie e Arpia accompagnata dai due figli, Ladone di
Sicione coi suoi fianchi scarni, e Dròmade, Cànace, Sticte, Tigri ed Alce,
Lèucon e Asbolo, col pelo niveo il primo, di pece il secondo, il fortissimo
Làcon e Aello insuperabile nella corsa, e Too, la veloce Licisca col fratello
Ciprio, Arpalo con una stella bianca in mezzo alla fronte nera, e Melàneo e
Lacne col suo mantello irsuto, Labro e Agrìodo nati da padre cretese, ma da
madre di Laconia, e Ilàctore con la sua voce acuta, e altri, troppi da elencare.
Tutta questa muta, avida di preda, per rupi, anfratti e rocce inaccessibili,
dove la via è impervia o dove via non esiste, l'insegue. Lui fugge, per quei
luoghi dove un tempo li aveva seguiti, ahimè lui fugge i suoi stessi fedeli.
Vorrebbe gridare: «Sono Attèone! Non riconoscete più il vostro padrone?».
Vorrebbe, ma gli manca la parola. E il cielo è pieno di latrati. Le prime
ferite gliele infligge sul dorso Melanchete, poi Teròdamas; Oresìtrofo gli si
avvinghia a una spalla: erano partiti in ritardo, ma tagliando per i monti
avevano abbreviata la via. Mentre essi trattengono il padrone, il resto della
muta si raduna e in corpo gli conficca i denti. Ormai non c'è più luogo per
altre ferite. E geme, ma con voce che, se non è umana, neanche un cervo emetterebbe,
e riempie quei gioghi di lugubri lamenti: in ginocchio, supplicando come chi
prega, volge intorno muti sguardi quasi fossero braccia. I suoi compagni
intanto con gli sproni di sempre aizzano ignari il branco infuriato e cercano
Attèone con gli occhi, poi, come se fosse lontano, 'Attèone' gridano a gara (al
suo nome lui gira il capo) e si lamentano che non ci sia, che per pigrizia si
perda lo spettacolo offerto dalla preda. Certo lui vorrebbe non esserci, ma
c'è; vorrebbe assistere senza dover subire la ferocia dei suoi cani. Ma quei
cani da ogni parte l'attorniano e, affondando le zanne nel corpo, sbranano il
loro padrone sotto il simulacro di un cervo: e si dice che l'ira della
bellicosa Diana non fu sazia, finché per le innumerevoli ferite non finì la sua
vita. I pareri sono incerti: per alcuni troppo crudele fu la dea; altri la
lodano, considerandola degna della sua verginità austera; ognuno con buone
ragioni. Solo la consorte di Giove non si perde in pro e contro, ma esulta per
la sciagura che ha colpito il casato di Agenore, perché su tutta la stirpe
riversa l'odio concepito per la rivale fenicia. E a quell'antico motivo se ne
aggiunge uno nuovo: lo sdegno che in seno porti Sèmele il seme del grande
Giove; e affila la lingua per la lite, ma: «Che mai ne ho ricavato,» dice,
«tutte le volte che ho litigato? Colpirla, questo devo; sì, la distruggerò,
quanto è vero che mi chiamo Giunone la suprema, che ho il diritto d'impugnare
uno scettro sfavillante di gemme, che sono regina, moglie e sorella di Giove,
sua sorella, certo. Si accontenta di un'avventura, penso, di poco conto è
l'offesa al nostro amore. No, è incinta! Questo ci mancava! che col suo ventre
pregno la colpa rivelasse, cercando grazie a Giove d'essere madre, ciò che a
stento mi è toccato, tanto confida nella sua bellezza! Farò che l'inganni: non
sono figlia di Saturno, se nelle acque dello Stige non finirà travolta proprio
dal suo Giove!». Detto questo, si alza dal trono e, nascosta da una nuvola
fulva, si reca a casa di Sèmele. Qui scioglie la nube, ma non prima d'avere
assunto l'aspetto di una vecchia, incanutendo le tempie, solcando la pelle di
rughe e trascinando con passo tremante le membra incurvate; rende senile anche
la voce, ed è Bèroe di Epidauro, la nutrice di Sèmele in persona. Così attacca
discorso, e quando dopo lunghe chiacchiere si arriva a nominare Giove, sospira
e: «Ti auguro», dice, «che sia proprio Giove, ma io sospetto di tutto:
spacciandosi per dei, troppi uomini sono entrati in letti onesti. E non basta
che per te sia Giove: ti dia una prova del suo amore, se è vero amore;
chiedigli che, grande e splendido come l'accoglie l'eccelsa Giunone, grande e
splendido così ti stringa a sé, assumendo prima le sue insegne!». Con queste
parole sobilla Giunone l'ignara figlia di Cadmo; e questa chiede a Giove un
dono senza nominarlo. «Scegli,» le risponde il dio; «nulla ti rifiuterò; e
perché tu più mi creda, sia testimone la divinità del fiume infernale, un dio
che anche agli dei incute paura!» Lieta a proprio danno, eccitata di potere,
sul punto di perdersi per compiacenza dell'amante, Sèmele: «Come ti abbraccia
la figlia di Saturno, quando vi disponete ai giochi d'amore, così concediti a
me!» chiede. Avrebbe voluto il dio, mentre parla, tapparle la bocca, ma ormai
via nell'aria era volata la voce. Gemette: più non può far sì che non abbia lei
chiesto e lui giurato. E allora tristissimo sale in alto nel cielo e con uno
sguardo raduna docili le nubi e vi aggiunge uragani e in mezzo ai venti lampi, tuoni
e il fulmine al quale non si sfugge. Ma, per quanto può, cerca di velare le sue
forze; così non si arma del fuoco con cui aveva abbattuto Tifone, il gigante
dalle cento braccia: troppa ferocia v'era in quello. C'è un altro fulmine più
fioco, nel quale la mano dei Ciclopi ha infuso meno furia e fuoco, meno rabbia:
gli dei lo chiamano fulmine secondo; lo prende ed entra nella casa di Agenore.
Donna mortale non sopporta assalto celeste e quel dono nuziale la incenerì.
Ancora in embrione il piccolo viene estratto dal ventre della madre e tenero
com'è viene cucito, se devo crederlo, in una coscia del padre per compiere la
gestazione. Di nascosto Ino, la zia materna, lo alleva nei primi mesi, quelli
di culla, poi lo affida alle ninfe di Nisa che lo nascondono nelle loro grotte,
nutrendolo di latte. Mentre in terra avvenivano per volere del fato queste cose
e l'infanzia di Bacco, tornato a nascere, scorreva tranquilla, si racconta che,
reso espansivo dal nèttare, per caso Giove bandisse i suoi assilli, mettendosi
piacevolmente a scherzare con la sorridente Giunone. «Il piacere che provate
voi donne», le disse, «è certamente maggiore di quello che provano i maschi.»
Lei contesta. Decisero di sentire allora il parere di Tiresia, che per pratica
conosceva l'uno e l'altro amore. Con un colpo di bastone aveva infatti
interrotto in una selva verdeggiante il connubio di due grossi serpenti, e
divenuto per miracolo da uomo femmina, rimase tale per sette autunni.
All'ottavo rivedendoli nuovamente: «Se il colpirvi ha tanto potere di
cambiare», disse, «nel suo contrario la natura di chi vi colpisce, vi batterò
ancora!». E percossi un'altra volta quei serpenti, gli tornò il primitivo
aspetto, la figura con cui era nato. E costui, scelto come arbitro in quella
divertente contesa, conferma la tesi di Giove. Più del giusto e del dovuto al
caso, a quanto si dice, s'impermalì la figlia di Saturno e gli occhi di chi le
aveva dato torto condannò a eterna tenebra. Ma il padre onnipotente (giacché
nessun dio può annullare ciò che un altro dio ha fatto), in cambio della vista
perduta, gli diede scienza del futuro, alleviando la pena con l'onore. Così,
diventato famosissimo nelle città dell'Aonia, Tiresia dava responsi
inconfutabili a chi lo consultava. La prima a saggiare l'autenticità delle sue
parole fu l'azzurra Lirìope, che Cefiso un giorno aveva spinto in un'ansa della sua corrente, imprigionato
fra le onde e violentato. Rimasta incinta, la bellissima ninfa partorì un
bambino che sin dalla nascita suscitava amore, e lo chiamò Narciso. Interrogato
se il piccolo avrebbe visto i giorni lontani di una tarda vecchiaia, l'indovino
aveva risposto: «Se non conoscerà sé stesso». A lungo la predizione sembrò
priva di senso, ma poi l'esito delle cose, il tipo di morte e la strana follia
la confermarono. Di un anno aveva ormai superato i quindici il figlio di Cefiso
e poteva sembrare tanto un fanciullo che un giovane: più di un giovane, più di
una fanciulla lo desiderava, ma in quella tenera bellezza v'era una superbia
così ingrata, che nessun giovane, nessuna fanciulla mai lo toccò. Mentre
spaventava i cervi per spingerli dentro le reti, lo vide quella ninfa canora,
che non sa tacere se parli, ma nemmeno sa parlare per prima: Eco che ripete i
suoni. Allora aveva un corpo, non era voce soltanto; ma come ora, benché
loquace, non diversamente usava la sua bocca, non riuscendo a rimandare di
molte parole che le ultime. Questo si doveva a Giunone, perché tutte le volte
che avrebbe potuto sorprendere sui monti le ninfe stese in braccio a Giove,
quella astutamente la tratteneva con lunghi discorsi per dar modo alle ninfe di
fuggire. Quando la dea se ne accorse: «Di questa lingua che mi ha ingannato»,
disse, «potrai disporre solo in parte: ridottissimo sarà l'uso che tu potrai
farne». E coi fatti confermò le minacce: solo a fine di un discorso Eco duplica
i suoni ripetendo le parole che ha udito. Ora, quando vide Narciso vagare in
campagne fuori mano, Eco se ne infiammò e ne seguì le orme di nascosto; e
quanto più lo segue, tanto più vicino alla fiamma si brucia, come lo zolfo che,
spalmato in cima ad una fiaccola, in un attimo divampa se si accosta alla
fiamma. Oh quante volte avrebbe voluto affrontarlo con dolci parole e
rivolgergli tenere preghiere! Natura lo vieta, non le permette di tentare; ma,
e questo le è permesso, sta pronta ad afferrare i suoni, per rimandargli le sue
stesse parole. Per caso il fanciullo, separatosi dai suoi fedeli compagni,
aveva urlato: «C'è qualcuno?» ed Eco: «Qualcuno» risponde. Stupito, lui cerca
con gli occhi in tutti i luoghi, grida a gran voce: «Vieni!»; e lei chiama chi
l'ha chiamata. Intorno si guarda, ma non mostrandosi nessuno: «Perché», chiede,
«mi sfuggi?», e quante parole dice altrettante ne ottiene in risposta. Insiste
e, ingannato dal rimbalzare della voce: «Qui riuniamoci!» esclama, ed Eco che a
nessun invito mai risponderebbe più volentieri: «Uniamoci!» ripete. E decisa a
far quel che dice, uscendo dal bosco, gli viene incontro per gettargli, come
sogna, le braccia al collo. Lui fugge e fuggendo: «Togli queste mani, non
abbracciarmi!» grida. «Possa piuttosto morire che darmi a te!». E lei
nient'altro risponde che: «Darmi a te!». Respinta, si nasconde Eco nei boschi,
coprendosi di foglie per la vergogna il volto, e da allora vive in antri
sperduti. Ma l'amore è confitto in lei e cresce col dolore del rifiuto: un
tormento incessante le estenua sino alla pietà il corpo, la magrezza le
raggrinza la pelle e tutti gli umori del corpo si dissolvono nell'aria. Non
restano che voce e ossa: la voce esiste ancora; le ossa, dicono, si mutarono in
pietre. E da allora sta celata nei boschi, mai più è apparsa sui monti; ma
dovunque puoi sentirla: è il suono, che vive in lei. Così di lei, così d'altre
ninfe nate in mezzo alle onde o sui monti s'era beffato Narciso, come prima
d'una folla di giovani. Finché una vittima del suo disprezzo non levò al cielo
le mani: «Che possa innamorarsi anche lui e non possedere chi ama!». Così
disse, e la dea di Ramnunte assentì a quella giusta preghiera. C'era una fonte
limpida, dalle acque argentee e trasparenti, che mai pastori, caprette portate
al pascolo sui monti o altro bestiame avevano toccato, che nessun uccello,
fiera o ramo staccatosi da un albero aveva intorbidita. Intorno c'era un prato,
che la linfa vicina nutriva, e un bosco che mai avrebbe permesso al sole di
scaldare il luogo. Qui il ragazzo, spossato dalle fatiche della caccia e dal
caldo, venne a sdraiarsi, attratto dalla bellezza del posto e dalla fonte, ma,
mentre cerca di calmare la sete, un'altra sete gli nasce: rapito nel porsi a
bere dall'immagine che vede riflessa, s'innamora d'una chimera: corpo crede ciò
che solo è ombra. Attonito fissa sé stesso e senza riuscire a staccarne gli
occhi rimane impietrito come una statua scolpita in marmo di Paro. Disteso a
terra, contempla quelle due stelle che sono i suoi occhi, i capelli degni di
Bacco, degni persino di Apollo, e le guance lisce, il collo d'avorio, la
bellezza della bocca, il rosa soffuso sul niveo candore, e tutto quanto ammira
è ciò che rende lui meraviglioso. Desidera, ignorandolo, sé stesso, amante e
oggetto amato, mentre brama, si brama, e insieme accende ed arde. Quante volte
lancia inutili baci alla finzione della fonte! Quante volte immerge in acqua le
braccia per gettarle intorno al collo che vede e che in acqua non si afferra!
Ignora ciò che vede, ma quel che vede l'infiamma e proprio l'illusione che
l'inganna eccita i suoi occhi. Ingenuo, perché t'illudi d'afferrare un'immagine
che fugge? Ciò che brami non esiste; ciò che ami, se ti volti, lo perdi! Quella
che scorgi non è che il fantasma di una figura riflessa: nulla ha di suo; con
te venne e con te rimane; con te se ne andrebbe, se ad andartene tu riuscissi.
Ma né il bisogno di cibo o il bisogno di riposo riescono a staccarlo di lì:
disteso sull'erba velata d'ombra, fissa con sguardo insaziabile quella forma
che l'inganna e si strugge, vittima dei suoi occhi. Poi sollevandosi un poco,
tende le braccia a quel bosco che lo circonda e dice: «Esiste mai amante, o
selve, che abbia più crudelmente sofferto? Voi certo lo sapete, voi che a tanti
offriste in soccorso un rifugio. Ricordate nella vostra lunga esistenza, quanti
sono i secoli che si trascina, qualcuno che si sia ridotto così? Mi piace, lo
vedo; ma ciò che vedo e che mi piace non riesco a raggiungerlo: tanto mi
confonde amore. E a mio maggior dolore, non ci separa l'immensità del mare, o
strade, monti, bastioni con le porte sbarrate: un velo d'acqua ci divide! E
lui, sì, vorrebbe donarsi: ogni volta che accosto i miei baci allo specchio
d'acqua, verso di me ogni volta si protende offrendomi la bocca. Diresti che si
può toccare; un nulla, sì, si oppone al nostro amore. Chiunque tu sia, qui
vieni! Perché m'illudi, fanciullo senza uguali? Dove vai quand'io ti cerco? E
sì che la mia bellezza e la mia età non sono da fuggire: anche delle ninfe mi
hanno amato. Con sguardo amico mi lasci sperare non so cosa; quando ti tendo le
braccia, subito le tendi anche tu; quando sorrido, ricambi il sorriso; e ti ho visto
persino piangere, quando io piango; con un cenno rispondi ai miei segnali e a
quel che posso arguire dai movimenti della bella bocca, mi ricambi parole che
non giungono alle mie orecchie. Io, sono io! l'ho capito, l'immagine mia non
m'inganna più! Per me stesso brucio d'amore, accendo e subisco la fiamma! Che
fare? Essere implorato o implorare? E poi cosa implorare? Ciò che desidero è in
me: un tesoro che mi rende impotente. Oh potessi staccarmi dal mio corpo! Voto
inaudito per gli amanti: voler distante chi amiamo! Ormai il dolore mi toglie
le forze, e non mi resta da vivere più di tanto: mi spengo nel fiore degli
anni. No, grave non mi è la morte, se con lei avrà fine il mio dolore; solo
vorrei che vivesse più a lungo lui, che tanto ho caro. Ma, il cuore unito in
un'anima sola, noi due ora moriremo». Dice, e delirando torna a contemplare
quella figura, e con le sue lacrime sconvolge lo specchio d'acqua, che
increspandosi ne offusca lo splendore. Vedendola svanire: «Dove fuggi?»
esclama. «Fèrmati, infame, non abbandonare chi ti ama! Se non posso toccarti,
mi sia permesso almeno di guardarti e nutrire così l'infelice mia passione!».
In mezzo ai lamenti, dall'orlo in alto lacera la veste e con le palme bianche
come il marmo si percuote il petto nudo. Ai colpi il petto si colora di un
tenue rossore, come accade alla mela che, candida su una faccia, si accende di
rosso sull'altra, o come all'uva che in grappoli cangianti si vela di porpora
quando matura. Specchiandosi nell'acqua tornata di nuovo limpida, non resiste
più e, come cera bionda al brillio di una fiammella o la brina del mattino al
tepore del sole si sciolgono, così, sfinito d'amore, si strugge e un fuoco
occulto a poco a poco lo consuma. Del suo colorito rosa misto al candore ormai
non v'è più traccia, né del fuoco, delle forze, di ciò che prima incantava la
vista, e nemmeno il corpo è più quello che Eco aveva amato un tempo. Ma quando
lei lo vide così, malgrado la collera al ricordo, si addolora e ogni volta che
l'infelice mormora 'Ahimè', rimandandogli la voce ripete 'Ahimè', e quando il
ragazzo con le mani si percuote le braccia, replica lo stesso suono, quello
delle percosse. Le ultime sue parole, mentre fissava l'acqua una volta ancora,
furono: «Ahimè, fanciullo amato invano», e le stesse parole gli rimandò il
luogo; e quando disse 'Addio', Eco 'Addio' disse. Poi reclinò il suo capo
stanco sull'erba verde e la morte chiuse quegli occhi incantati sulle fattezze
del loro padrone. E anche quando fu accolto negli Ínferi, mai smise di
contemplarsi nelle acque dello Stige. Un lungo lamento levarono le Naiadi sue
sorelle, offrendogli le chiome recise; un lungo lamento le Driadi, ed Eco unì
la sua voce alla loro. Già approntavano il rogo, le fiaccole da agitare e il feretro:
il corpo era scomparso; al posto suo scorsero un fiore, giallo nel mezzo e
tutto circondato di petali bianchi. La notizia di queste vicende accrebbe la
fama di Tiresia in tutte le città dell'Acaia e grande divenne il suo prestigio.
Unico e solo, Penteo, figlio di Echìone, miscredente incallito, disprezza il
vecchio e si beffa dei suoi presagi, rinfacciandogli le tenebre in cui vive per
la sventura d'aver perso la vista. Scuotendo le tempie bianche di canizie: «Che
fortuna, se anche tu fossi privato di questa luce», gli ribatte il vate: «non
vedresti i sacri riti di Bacco. Verrà giorno infatti, e prevedo non lontano, che
qui giungerà inaspettato Libero, il figlio di Sèmele, e se tu degno non lo
riterrai dell'onore dei templi, dilaniato sarai disperso in mille parti,
macchiando di sangue le foreste, tua madre e le sorelle di tua madre. Avverrà,
perché degno d'onore non stimerai quel nume, e allora ti lagnerai che in queste
tenebre io abbia visto troppo». Ancora stava parlando che il figlio di Echìone
lo caccia. Ma alle parole seguono i fatti e s'avverano le profezie. Libero
arriva e un delirio di gioia prorompe nei campi: la folla si accalca, insieme
agli uomini madri e spose, popolo e dignitari, tutti accorrono a quei riti
sconosciuti. «Che pazzia vi ha sconvolto la mente, figli di serpe, progenie di
Marte?» grida Penteo. «Tanto potere ha dunque il bronzo percosso dal bronzo, il
flauto a becco curvo, il sortilegio della magia, che persone avvezze a non
temere spade, trombe di guerra o schiere con la lancia in pugno, si lascino
vincere da strepiti di femmine, dal delirio del vino, da masnade oscene e
sciocchi tamburelli? Di chi stupirsi? Di voi, vecchi, che dopo avere a lungo
vagato sui mari, qui avete insediato Tiro, qui i vostri penati in fuga, e ora
vi piegate senza colpo ferire? O di voi, giovani, in età più acerba e più
vicina alla mia, che dovreste impugnare armi e non tirsi, cingere elmi e non
ghirlande di fiori? Memori siate, vi prego, della stirpe che vi ha dato i
natali, ritrovate la fierezza di quel serpente che da solo tanti sconfisse! e
che morì per la sua sorgente, per il suo lago: in nome della vostra fama
vincere dovete! Lui diede morte a prodi, cacciate voi questi rammolliti e
salvate l'onore della patria! Se era intenzione del fato che Tebe non vivesse a
lungo, oh fossero almeno ordigni di guerra o eroi ad abbatterne le mura in un
fragore di ferro e fuoco! Sventurati saremmo, ma senza colpa; da piangere o
celare nostra sorte non sarebbe e mai nelle lacrime vergogna. Ora invece Tebe
sarà espugnata da un fanciullo inerme, che non ama guerre, armi o pratica di
cavalli, ma capelli impregnati di mirra, carezza di ghirlande e vesti color
porpora a ricami d'oro. Ma, se mi fate largo, lo costringerò in un lampo a confessare
che sono un'impostura l'attribuzione del padre e questi riti. Se Acrisio ha
avuto il coraggio di disprezzare un nume sospetto e di sbarrargli in faccia le
porte di Argo, Penteo con tutta Tebe si lascerà spaventare da un intruso?
Avanti, andate,» ordina ai suoi servi, «andate e qui in catene trascinatemi
quel demagogo! Obbedite e senza indugi!». Lo stesso nonno, lo stesso Atamante e
tutti gli altri suoi congiunti lo rimproverano e invano si sforzano di
trattenerlo. Gli ammonimenti lo incattiviscono e la rabbia repressa si esaspera
e cresce; la critica gli brucia: così ho visto torrenti che scorrevano quieti,
senza troppo fragore, dove nulla si opponeva al loro corso, farsi violenti di
fronte agli ostacoli, tra spuma e mulinelli, nei punti in cui li imbrigliavano
tronchi o barriere di massi. Tornano intanto i servi insanguinati e alla
richiesta del signore dove fosse Bacco, rispondono di non averlo visto; e
aggiungono: «Però abbiamo preso questo suo seguace che officiava», e spingono
avanti un uomo con le mani legate sulla schiena, un etrusco che si era votato
alla religione di quel nume. Penteo lo squadra con occhi che l'ira rende
spaventosi e benché a stento si rassegni a differire l'ora del supplizio: «Tu,
che stai per morire e che con la tua morte servirai d'esempio agli altri,»
grida, «dimmi il nome tuo, il nome dei genitori, la tua patria e perché segui
questi riti di nuova istituzione». Senza alcun timore quello risponde: «Il nome
mio è Acete, mia patria è la Meonia, povera gente i miei genitori. Mio padre
non mi ha lasciato campi da lavorare a forza di buoi, non mi ha lasciato greggi
da lana e neppure armenti: povero com'era, s'ingegnava ad adescare col filo e
l'amo qualche pesce che guizzava in acqua e a tirarlo su con la sua canna.
Quell'espediente era tutta la sua ricchezza; tramandandomelo mi disse:
"Prenditi, erede mio che mi succedi in questo lavoro, i beni che ho",
e morendo non mi lasciò nient'altro che distese d'acqua: questa posso dire è la
sola eredità paterna. Ora io, per non rimanere sempre legato agli stessi
scogli, mi sono addestrato a governare il timone di un'imbarcazione con mano
ferma, a riconoscere le stelle che recano pioggia della Capra Olenia, la stella
Taigete, le Íadi e l'Orsa, le case dei venti e i porti adatti alle navi. Per
caso, diretto a Delo, avvisto le sponde dell'isola di Chio, accosto coi remi di
destra e con un agile balzo mi lancio sull'umida rena. Passata lì la notte,
quando appena l'aurora comincia a rosseggiare, mi levo e dispongo che si
attinga acqua fresca, mostrando il sentiero che conduce alla fonte. Io rimango
a scrutare da un'altura cosa mi prometta il vento, poi richiamo i compagni e
torno alla nave. "Eccoci qui!" grida Ofelte venendo avanti a tutti, e
trascina per la spiaggia un fanciullo che pare una vergine, una preda, così
dice, trovata in un campo deserto. Quello sembra barcollare, come stordito dal
vino o dal sonno, e seguirlo a fatica. Io ne osservo la foggia, l'aspetto e
l'incedere: nulla gli vedo che possa attribuirsi a un mortale. Lo sento e dico
ai compagni: "Non so quale nume si celi in questo corpo, ma in questo
corpo si cela un nume. Chiunque tu sia, aiutaci, ti prego, e proteggi il nostro
travaglio! e anche costoro perdona!". "Per noi puoi risparmiarti di
pregare", obietta Dictis, che non aveva rivali nell'arrampicarsi in cima a
un pennone e nel scivolare giù avvinghiato a una fune. Gli dà ragione Libis, il
biondo Melanto di vedetta a prua, ragione Alcimedonte ed Epopeo, capo
dell'equipaggio, che con la voce scandiva le pause e il ritmo della voga; tutti
gli danno ragione, tanto la preda li acceca di voglia. "Ma io non
permetterò che per la presenza di un essere sacro questo legno abbia
danno", grido: "chi comanda qui son io!"; e mi pianto a sbarrare
l'accesso. Chi s'infuria con più arroganza è Licabas: cacciato da una città
dell'Etruria, scontava con l'esilio la pena per un orribile delitto. Mentre lo
fronteggio, lui vibrando un pugno mi sfonda la gola, e con quel colpo m'avrebbe
scaraventato in acqua, se non mi fossi aggrappato per salvarmi, mezzo morto, a
una fune. Quella masnada applaude alla prodezza. Quand'ecco che Bacco (perché
proprio Bacco era), come se il chiasso l'avesse destato dal torpore o, sfumata
l'ebbrezza, tornasse in sé: "Che fate? Cos'è questo chiasso?" chiede.
"Dite, marinai, come mai mi trovo qui? Dove volete portarmi?".
"Non aver paura," risponde Pròreo, "di' in quale porto desideri
arrivare: sarai sbarcato nella terra che vorrai." "Fate rotta su
Nasso", dice allora Bacco. "Quella è la patria mia, terra che vi sarà
ospitale." Quegli impostori giurano sul mare e su tutti gli dei che così
sarà fatto e m'impongono di dar vela alla mia nave. Nasso era a destra, e io
piego le vele per andare a destra: "Che fai, pazzo? hai perso la
testa?" mi rimbrotta Ofelte. Ognuno è in ansia per sé. "Va' a
sinistra!" mi fanno capire i più coi gesti, e gli altri sussurrandomi
all'orecchio ciò che vogliono. Allibisco: "Prenda il timone qualcun altro!"
sbotto, sottraendomi al rischio di compiere un misfatto con le mie arti.
M'inveiscono tutti contro, brontola l'intera ciurma; fra loro poi Etalione
sbraita: "Credi proprio che da te solo dipenda la sicurezza di tutti
noi?" e facendosi avanti prende il mio posto, lascia perdere Nasso e punta
su un'altra rotta. Allora il dio, schernendoli come se solo in quell'attimo
avesse compreso l'inganno, dal ponte di poppa guarda il mare e facendo finta di
piangere: "Non è questa, marinai," protesta, "la costa che
m'avevate promesso, non è questa la terra che chiedevo. Che ho fatto per
meritarmi questo? Che prodezza è la vostra a ingannare, maturi come siete, un
bambino, in tanti uno solo?". Da un pezzo io piangevo: quella banda di
scellerati sbeffeggia le nostre lacrime e accelera il battito dei remi in
acqua. Ora io ti giuro per quel dio (perché nessun dio più di lui è presente
fra noi) che quanto ti racconto è vero, anche se supera l'onore del vero:
s'arresta in mezzo al mare la nave, proprio come se la tenesse in secco un
cantiere. Sorpresi, quelli insistono a battere i remi, spiegano le vele e con
entrambi i mezzi tentano di procedere. Radici d'edera inceppano i remi e
serpeggiando in un intrico di volute vanno a ornare le vele con dovizia di
corimbi. E il nume, con la fronte incoronata di grappoli d'uva, agita un'asta
tutta fasciata di pampini; intorno gli si accucciano apparizioni spettrali:
tigri, linci e figure selvagge di pantere screziate. Balzano gli uomini in
piedi per un accesso di follia o di terrore; e per primo Medonte inizia a farsi
nero lungo il corpo e a incurvarsi: a vista d'occhio la spina dorsale gli
s'inarcava. E Licabas gli dice: "In quale mostro ti stai mutando?",
ma mentre parla la bocca gli si allarga, il naso gli si incurva e la pelle
indurita gli si copre di squame. Libis, mentre cerca di sbloccare i remi
impigliati, vede contrarsi e ritrarsi le mani, mani che ormai più tali non sono
e già pinne possono chiamarsi; un altro, volendo allungare le braccia sui
grovigli di funi, si ritrova senza braccia e inarcando quel corpo amputato si
getta in acqua: all'estremità vibra una coda falcata, come la curva che formano
le corna della luna nascente. E da ogni parte si tuffano, sollevando grandi
spruzzi, riemergono per poi tornare ogni volta sott'acqua, intrecciano una
sorta di danza, dimenando con voluttà i loro corpi, e dalle larghe nari
sbuffano l'acqua aspirata. Di venti che eravamo (tanti ne portava quella nave)
restavo io, io solo: gelato dallo spavento, con un tremito in tutto il corpo,
quasi incosciente, mi conforta il nume, mi dice: "Scaccia dal cuore la
paura: in rotta per Dia!". Lì sbarcato, aderisco al culto di Bacco e da
quel giorno ne celebro i riti». «Abbiamo prestato orecchio alle tue fole», gli
ribatte Penteo, «tirate in lungo perché la mia ira potesse intanto sbollire.
Avanti, servi, portatelo via, straziatene le carni con torture atroci e
speditelo nelle tenebre dello Stige!». Subito trascinato via, l'etrusco Acete
viene chiuso in carcere, ma mentre si preparano, come ordinato, gli strumenti
di tortura per ucciderlo, il ferro e il fuoco, si narra che da sé si
spalancassero le porte, che da sé gli cadessero i ceppi dai polsi, senza che
alcuno li sciogliesse. Si ostina il figlio di Echìone, ma va di persona, non
manda altri nel luogo scelto per celebrare i riti, sul Citerone dove risuonano
i canti e le voci squillanti delle baccanti. Come un cavallo focoso, quando la
tromba scatena l'attacco con gli squilli del bronzo, freme e smania di
combattere, così Penteo da quei lunghi ululati che scuotono l'aria è sconvolto
e a udire quel clamore riavvampa d'ira. Quasi a metà del monte, circondata ai
margini dal bosco, c'è una radura sgombra d'alberi dove la vista spazia libera.
Qui, mentre con occhi sacrileghi osserva la cerimonia, la prima a scorgerlo, la
prima ad avventarglisi contro con furia, la prima a sfregiare il suo Penteo
scagliandogli il tirso, è la madre. «O sorelle, gemelle mie, accorrete!»,
urlava, «quel cinghiale enorme che si aggira nei nostri campi, quello, quello
io devo uccidere!». Tutto contro gli si lancia quel branco inferocito:
ammassandosi insieme, tutte lo inseguono e lui trepida, trepida ormai, usa un
linguaggio meno violento ormai, ormai condanna sé stesso, ormai riconosce
l'errore commesso. Colpito malgrado questo: «Aiutami, Autònoe, aiutami zia!»,
grida. «Pietà, abbi pietà almeno per l'ombra di Attèone!». Ma lei non sa più
chi sia Attèone e, mentre la scongiura, gli tronca il braccio destro; l'altro
da un colpo di Ino gli è strappato. Braccia non ha più lo sventurato da tendere
alla madre e allora mostrandole le piaghe aperte dalle membra mozzate: «Guarda,
madre mia, guarda!» grida. A quella vista Agave lancia un urlo, squassa la
testa agitando nell'aria i suoi capelli, poi gli svelle il capo e, stringendolo
tra le mani lorde di sangue, esclama: «Compagne, compagne, opera nostra è
questa vittoria!». Non più in fretta il vento strappa dalla cima degli alberi
le foglie battute dal freddo d'autunno e ormai appese a un filo, di come son
disperse le sue membra da quelle mani nefande. Ammonite da un tale esempio,
seguono le donne dell'Ismeno il nuovo culto e offrendo incenso ne consacrano
gli altari.
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