SAGGIO INTRODUTTIVO OVIDIO IN SOSTITUZIONE PROVVISORIA DI SERMONTI

 OVIDIO

LA PAROLA: UN DONO E UN ERROR

L’8 d.C. è un anno cruciale nella vita di Ovidio, nato a Sulmona, nei pressi di L’Aquila, nel 43 a. C. L’imperatore Ottaviano Augusto, il princeps che nell’arco d’un ventennio è riuscito a fare quello che al padre adottivo, Cesare, era costato un bel po’ di pugnalate mortali (trasformare la res publica in imperium Augusti), lo condanna all’esilio perpetuo, a Tomi. Da questo paese sperduto, coincidente con l’attuale Costanza, sul mar Nero, Ovidio lancia disperati appelli a personaggi influenti di Roma affinché intercedano presso il sovrano e gli procurino, se non la possibilità di tornare a Roma, almeno quella di avvicinarsi all’Italia. La relegatio dura invece fino alla morte, avvenuta nel 17 o 18 d. C., dato che nemmeno il successore di Ottaviano, Tiberio che subentra in veste di Augusto alla morte di quest’ultimo nel 14, concede il perdono al poeta. Impossibile determinare con certezza quale sia stata la colpa, il crimen commesso da Ovidio: egli stesso vi allude vagamente nei Tristia, indicando come motivi un atto preciso e un carmen. Il primo sarebbe stato (le ipotesi nel tempo si sono sprecate) la connivenza con spregiudicate relazioni di Giulia minore, nipote di Ottaviano; il secondo potrebbe essere la raccolta di elegie intitolata Ars Amatoria, pubblicata e ben nota da anni, quando il poeta viene condannato.

 Se fosse il carmen licenzioso e sfrenato ad aver determinato l’ira senza appello di Ottaviano, il moralizzatore, nei confronti di Ovidio, sarebbe tuttavia da registrare una specie di effetto ritardato nel prodursi della censura. Meglio quindi fare astrazione da quella che sia stata la verità dei fatti e concentrarsi invece su quel monumento dell’ingegno compositivo che sono Le metamorfosi, scritte in età matura, dopo la prova elegiaca dell’Ars amatoria. Vale comunque la pena partire, per così dire, dal fondo della vita di Ovidio, nonché dal fondo della sua parabola esistenziale, dato che   si manifesta in questo una sorta di inveramento di profezia contenuta nelle Metamorfosi, pubblicate poco prima dell’esilio: vivam è l’ultima parola dell’opera che l’Autore volle diventasse la sua unica, vera tomba. Una tomba che è la negazione della morte, e l’affermazione del privilegio che, da tempo immemore e oggi ancora, si assegna all’arte. Quello di rendere eterni gli esseri umani che sanno praticarla. Vivam, dunque, esclama il poeta Ovidio, in faccia e alla faccia del tiranno che avrebbe voluto farlo sparire dal mondo anche prima di quando stabilito dal fato.  

  L’antico nome di Costanza, o Tomi, era Tomis. Colonia fondata dai Greci, etimologicamente imparentata con un verbo greco temno che significa taglio, si collega anche a una turpe e tragica vicenda mitica, protagonista della quale è la terribile maga Medea, capace di vendetta atroce nei confronti del marito fedifrago Giasone (uccide con le sue mani i figli  avuti da lui), e già macchiatasi di delitto analogamente contro natura durante la fuga con l’innamorato dalla terra del padre: per far perdere le proprie tracce, non esita a uccidere e squartare il fratellino, lasciandone pezzi in bella vista (sugli scogli di Tomi, appunto) perché il padre freni la sua ricerca di lei. Nel VII libro delle Metamorfosi proprio alla sanguinaria maga Ovidio dedica un ritratto di più di trecento versi, al contempo tetro e grandioso, ma non menziona la circostanza dell’uccisione del fratello, che compare invece in altra opera, Heroides, sia pure solo fugacemente.

Il personaggio di Medea attrae Ovidio per un motivo che racchiude, anche se non compendia totalmente, il tipo di ispirazione elegiaca che gli è propria e che è  l’anima già dell’Ars amatoria: la maga è una pura incarnazione del desiderio, quello che si muta in, o forse è originariamente, furor, capace di conferire una forza trasgressiva a chi ne è invaso. E la trasgressione si manifesta subito, nel caso di Medea, con una totale insubordinazione da parte sua nei riguardi dell’autorità paterna. Uno straordinario dialogo fra sé e sé, in cui Medea si manifesta schizofrenicamente, proprio all’inizio del VII libro, la mostra preda di convulsi assalti di amore, ai quali per nulla riesce a resistere la ragione:  ella vede il meglio ma sceglie il peggio. Vede che sarebbe preferibile rimanere nella Colchide accanto al padre, sceglie invece di tradire lui e la sua gente, partendo con lo straniero appena intravisto. Medea sceglie di deviare dalla via che i romani – Ovidio all’epoca faceva parte del circolo di Mecenate, aurea tribuna, in parte, dell’imperatore – chiamano del mos: rispetto, pietas, nei confronti della patria e della familia, del pater familias in particolare. Medea si abbandona, non senza che il poeta dia appunto voce al dissidio, all’imperio di Cupido, al desiderio al quale inizialmente non si sa nemmeno che nome dare, anche se gli effetti dei suoi assalti sono già evidenti e le ferite sanguinano. Eppure Medea è una maga, ossia possiede un potere che la rende superiore agli umani: non nella difesa dalle frecce d’amore, però, che colpiscono tutti indistintamente. La relazione fra Medea e il padre può certo sembrare un calco di quella fra Ovidio e Augusto, come pure una metafora di quanto il potere rappresenti un permanente invito all’ordine (per i sudditi, è naturale) al quale gli spiriti poetici, desideranti, innamorati e, pertinente in questo caso, pratici di magia, sono refrattari. Il furor non solo non può essere tenuto a freno, ma ha come conditio sine qua non per la sua esistenza l’opporsi alla ragionevolezza e rifuggire un unico eccesso, quello di regole.

Possibile, è una suggestiva ipotesi, che Ottaviano Augusto abbia colto, non solo nell’Ars amatoria, ma tanto più nelle Metamorfosi, lo spirito ostinatamente oppositivo di Ovidio, tale nel profondo e non in manifestazioni esteriori. Per questo ben più pericoloso per un potere che si stava solo allora iniziando a consolidare. L’intelligente Augusto non poteva non cogliere come un nemico invisibile e astratto sia ben più pericoloso di uno armato di pugnale che si deve comunque nascondere nell’ombra per non essere visto. Quanto potere ha l’ars. Un potere metamorfico, sicuramente, parente stretto di quello posseduto dai maghi. Medea  può operare sulla materia proprio come sanno fare i poeti, entrambi artefici quindi, e bisognosi di autonomia nel poièin che è loro prerogativa.

Seguo quindi volentieri una via spesso proficua, nell’interpretazione di opere d’arte, ossia quella di trovare nel testo uno (o più) personaggi che possano essere considerati alter ego degli autori. Come Dante nei confronti di Ulisse,  seguendo un intendimento di Borges, Medea è un alter ego di Ovidio, nel senso che ho appena indicato. Disobbedire al padre ha un costo: oltre a Medea lo dimostra anche Fetonte, il figlio del Sole, che nel II libro delle Metamorfosi paga con la vita la sfida alla prerogativa paterna di guidare un carro fiammeggiante per le vie del cosmo. Volgo quindi l’interpretazione in questa nuova direzione, che accorpa il terzo personaggio: si tratta per tutti e tre di sfidare Apollo, chi per esserne il figlio diretto (Fetonte), chi per via di un apparentamento alla luce dell’auctoritas, il padre di Medea e Ottaviano con Ovidio. I gesti arditi non di rado presuppongono una sopravvalutazione delle proprie forze, ed è lì che si incunea la necessaria punizione, ovvero quella che il potere stabilisce e rende senza appello: fulmini di Giove per Fetonte, relegatio per Ovidio, impossibilità di vivere una vita familiare e d’amore per Medea. Nonostante questo, però, i veri sfidanti non rinunciano a rivendicare il valore della loro scelta originaria: nel finale delle Metamorfosi, al quale ritorno, il poeta scrive

Iamque opus exegi, quod nec Iovis ira nec ignis

nec poterit ferrum, nec edax abolere vetustas.

Cum volet, illa dies, quae nil nisi corporis huius

ius habet, incerti spatium mihi finiat aevi;

parte tamen meliore mei super alta perennis

astra ferar, nomenque erit indelebile monstrum;

quaque patet domitis Romana potentia terris

ore legar populi, perque omnia saecula fama

(si quid habent veri vatum praesagia) vivam.

Ecco compiuta l’opera contro cui nulla potranno

l’ira di Giove, il fuoco, il ferro e nemmeno il tempo divoratore.

Quell’ultimo giorno, che vanta diritti solo sul mio corpo,

quando vorrà porrà fine al mio tempo precario;

quanto a me, la mia parte migliore salirà al di sopra degli astri,

il mio nome diverrà incancellabile;

per l’intera estensione del dominio romano

sarò letto, nei secoli dei secoli, se i presagi dei poeti sono veri vaticini,

nella fama io vivrò.  

Se la vita è incerta, scrive il poeta, breve e effimera, fugace e transitoria, non così la fama conseguita con vera arte. Potente come una magia, persino più di questa, sicuramente meno ingannevole di questa, porta chi se la merita a distanze siderali, super alta astra, mentre l’ira di Giove, il fuoco e il ferro restano armi pericolose, certo, alle quali tuttavia certi eletti riescono a sfuggire. Parole che potrebbero suonare arroganti, non fosse per quegli ultimi anni di vita con cui ho iniziato la presentazione: possiamo persino spingerci a immaginare che quei versi trionfali, scritti alcuni anni prima di essere relagato a Tomi, regalassero poi consolazioni all’animo affranto del poeta. Vivam, con la sua ambiguità modale (è un indicativo futuro o un congiuntivo presente esortativo?), sembra proprio un’esclamazione impertinente e irriverente, sulle labbra di uno che l’Augusto volle cancellare dalla memoria con una sentenza irreversibile.

Sempre a proposito di affinità e consonanze, non possiamo non avvertire cosa leghi  questo finale  alle terzine che Dante, il cui debito artistico nei confronti di Ovidio è immenso, scrive nel XII canto del Paradiso, quando si fa pronosticare dall’avo Cacciaguida un destino di gloria imperitura grazie ai versi della Divina Commedia (vv. 133-142):

Questo tuo grido farà come vento,

che le più alte cime più percuote;

e ciò non fa d’onor poco argomento.

 

Però ti son mostrate in queste rote,

nel monte e ne la valle dolorosa

pur l’anime che son di fama note,

 

che l’animo di quel ch’ode, non posa

né ferma fede per essempro ch’aia

la sua radice incognita e ascosa,

 

né per altro argomento che non paia».

 

Vivere nel tempo, soffiare come una tempesta sulle cime più alte, questo augurano alle proprie parole, e a se stessi, i due poeti. Ma ritorno a Ovidio e al filo dell’esistenza conclusasi nell’oscurità  e nel dolore.

Al poeta, Augusto assegna, ho più volte ricordato, una condanna senza appello. Che implica un’aggiunta di pena, per uno che abbia fatto della parola una missione. Lo condanna a non poter rispondere. Lo condanna al silenzio. Un silenzio certo non totale, dato che il poeta nel periodo dell’esilio continua a scrivere, ma in quella lontananza le sue parole diventano echi, non hanno la forza, la consistenza vera che  possiedono quando fuoriescono dal pensiero e dalla penna di uno che vive a Roma, nel centro del mondo. Dunque il secondo polo che attrae la mia attenzione, dopo il vivam, è rappresentato da un riferimento che si replica varie volte nel tessuto delle metamorfosi continue. Quello alla voce, voce umana naturalmente, e alla sorte che le tocca nei vari casi trattati, con sempre nuove variazioni, come vedremo. 

Intanto perdono la voce tutte le creature che passano dalla condizione umana a quella animale, vegetale o allo stato di costellazioni. La reversibilià è raramente contemplata, e il recupero della voce quindi pressoché impossibile: tra le poche a cui accade, ricordo Io, trasformata in giovenca da Giove (I libro), per scampare alla gelosia morbosa e motivata della moglie Giunone. La giovane, scampata ala sorveglianza di Argo grazie alle astuzie affabulatorie di Ermes, viene graziata da Zeus/Era e recupera la forma umana.  Ma si tratta appunto di un caso più unico che raro. Ben più atrocemente irreversibile è una metamorfosi che rientra nell’argomento appena impostato, della voce messa a tacere dal mutamento occorso: si tratta del caso della ninfa Eco, prescelta nel III libro  al fine di esprimere, come spesso accade nel poema,  un’eziologia, ossia l’origine di un preciso fenomeno fisico attraverso un mito. Per avere troppo parlato, al fine di  distrarre Giunone e impedirle di accorgersi dei ripetuti tradimenti di Giove con ninfe sue compagne, alla fine scoperta dalla regina dei cieli, viene privata appunto della capacità di parlare, se non ripetendo le ultime parole di altri. Ancora dotata di corpo, però, le tocca un’ulteriore mutazione: innamoratasi di Narciso, e respinta da lui al quale peraltro non riesce a rivolgere che parole risonanti delle sue, si consuma fino a diventare pelle e ossa e infine solo eco, non più Eco, ma ciò che ne rima sotto forma di risonanza vocale. Geniale variazione questa metamorfosi in due tempi, con la ninfa che non perde subito la forma corporea, ma la vede poi estinguersi come già si è estinta la voce: inedito fantasma, evocato ogniqualvolta un suono s’imbatta in superficie adeguata a generare il fenomeno. Ma Eco non è solo questo. Il suo valore metaforico si spinge oltre. La ninfa che si consuma riducendosi a qualcosa di meno di un flatus vocis, rappresenta quello che può accadere al desiderio: di consumarsi così tanto da non esserci più o quasi, di ridursi a una parvenza, a un’ombra, all’impronta di quel ch’è stato e non sarà mai più. Ma forse, peggio ancora, Eco rimasta eco non può esprimere niente di suo, solo attendere che qualcuno emetta un suono o una parola che riesca a essere colta e ripetuta, anche solo una, meglio di una lunga sequenza che l’eco smemorata non riesce a recepire, se non nell’ultima emissione. In questo senso l’eco è parente stretta del silenzio, più che della voce, e ben si addice a esseri che hanno perso la loro umanità e con essa la facoltà che maggiormente la contraddistingue.  Che anche in questo caso Ovidio avesse un presentimento relativamente al suo futuro di poeta silenziato dal potere, condannato a estinguersi in lontananze quasi siderali per l’epoca? In ogni caso, i versi che le dedica sono questi:

Ille fugit fugiensque «manus complexibus aufer!

ante» ait «emoriar, quam sit tibi copia nostri».

Rettűlit illa nihil nisi «sit tibi copia nostri».

Spreta latet silvis pudibundaque frondibus ora

protęgit et solis ex illo vivit in antris;

395 sed tamen haeret amor crescitque dolore repulsae;

et tenuant vigiles corpus miserabile curae

adducitque cutem macies et in aëra sucus

corporis omnis abit; vox tantum atque ossa

supersunt:

vox manet; ossa ferunt lapidis traxisse figuram.

400 Inde latet silvis nulloque in monte videtur;

omnibus audītur: sonus est, qui vivit in illa. (III, vv. 390-401)

 

Egli [Narciso, che non vuole saperne di Eco]  fugge e nel fuggire grida “Toglimi le mani di dosso! Morire, piuttosto di darmi a te!” E lei di rimando “Darmi a te”. Eco, disprezzata così, si nasconde nelle foreste, copre il volto con fronde, in preda alla vergogna, e vive in caverne solitarie; ma l’amore, attizzato dal rifiuto, aumenta di giorno in giorno; l’insonnia e i pensieri ossessivi la consumano, la pelle raggrinzisce, rimangono ossa e voce, poi le ossa son sassi, si narra, e la voce resta ancora. Nascosta nei boschi, invisibile sui monti, la si sente ovunque: è il suono a sopravvivere in lei.

Eco è suono che sopravvivive. Anche in questo caso la metafora è magnificamente associabile alla poesia, se non alla musica e all’arte.  Nel mondo tessuto nelle Metamorfosi ovunque si posi lo sguardo si coglie il fremito della vita. Come ha scritto Calvino, è anche, certo non solo, così che Ovidio è riuscito a rendere stile un contenuto mitico esistente ma non ancora rielaborato in maniera univoca com’è riuscito a fare lui. Poema della rapidità, secondo la definizione che sempre Calvino ne dà  in una delle sue Lezioni americane, le Metamorfosi potrebbero essere rappresentate visivamente come una spirale in cui le linee curve sono vicinissime ma non si uniscono mai. O, meglio ancora dell’immagine geometrica, in un intrico di rami e foglie, da foresta pluviale dei primordi, in cui le forme animali e vegetali (ma chissà, forse anche umane) si fondono e confondono. Insetti che sembrano bastoncini e foglie sono ancora visibili ora, il mimetismo animale produce esattamente questi effetti.

Allora, per iniziare a rendere visibili, pregnanti alcune delle storie concepite da Ovidio nelle Metamorfosi, seguento questo primo filo introduttivo, ecco i libri intorno ai quali si tesse questo primo discorso analitico: I, II, III, VII e XV.

ELENCO DEI MITI PER LIBRO CITATO:

LIBER I

Mito                                                          Versi

Caos primigenio - Origine del mondo     5-75

Prometeo crea l'uomo                              76-88

Le quattro "Età dell'uomo"                    89-150

Gigantomachia                                         151-162

Via Lattea                                                168-171

Giove e Licaone                                        196-239

Deucalione e Pirra                                    244-312; 313-415

Apollo e Pitone                                         416-451

Apollo e Dafne                                          452-567

Giove ed Io                                                        568-667; 724-747

Mercurio e Argo                                       668-688; 713-723

Pan e Siringa                                            689-712

Fetonte                                                      748-779

LIBER II

Mito                                                          Versi

Fetonte                                                      1-400

Cicno                                                                 367-380

Giove e Callisto                                         401-530

Apollo e Coronide                                    531-632

Minerva ed Erittonio                               553-563

Cornacchia                                                        569-588

Nittimene                                                  589-595

Esculapio e Chirone                                 627-632

Ociroe                                                       633-675

Batto e Mercurio                                       676-707

Mercurio, Agraulo e Erse                        708-832

Giove e Europa                                        833-875

LIBER III

Mito                                                          Versi

Cadmo                                                      1-137

Diana e Atteone  1                                    38-259

Giove e Semele - nascita di Bacco           259-315

Tiresia                                                       316-338

Narciso                                                     339-510

Penteo                                                       511-564; 692-734

Bacco e i marinai di Acete                        565-691

LIBER VII

Mito                                                         

Giasone e gli Argonauti       

Giasone e Medea

Medea e Esone   

Pelia uccide il padre    

Irie e Cicno        

Mirmidoni

Cefalo e Aurora 

Cefalo e Procri                                         

LIBER XV

Mito                                        Versi

Ercole, Crotone e Miscelo     11-59

Pitagora                                 60-507

Diana e Ippolito                     497-546

Egeria                                    547-551

Tagete                                    552-558

Peste di Roma ed Esculapio  619-728

Apoteosi di Cesare                729-842

Glorificazione di Augusto     843-870

L'immortalità del poeta        871-879

TESTO da pdf HTTP://COPIONI.CORRIERESPETTCOLO.IT (non sarà la nostra traduzione preferita. propongo solo i primi tre libri)

LIBRO PRIMO A narrare il mutare delle forme in corpi nuovi mi spinge l'estro. O dei, se vostre sono queste metamorfosi, ispirate il mio disegno, così che il canto dalle origini del mondo si snodi ininterrotto sino ai miei giorni. Prima del mare, della terra e del cielo, che tutto copre, unico era il volto della natura in tutto l'universo, quello che è detto Caos, mole informe e confusa, non più che materia inerte, una congerie di germi differenti di cose mal combinate fra loro. Non c'era Titano che donasse al mondo la luce, né Febe che nuova crescendo unisse le sue corna; in mezzo all'aria, retta dalla gravità, non si librava la terra, né lungo i margini dei continenti stendeva Anfitrite le sue braccia. E per quanto lì ci fossero terra, mare ed aria, malferma era la prima, non navigabile l'onda, l'aria priva di luce: niente aveva forma stabile, ogni cosa s'opponeva all'altra, perché in un corpo solo il freddo lottava col caldo, l'umido col secco, il molle col duro, il peso con l'assenza di peso. Un dio, col favore di natura, sanò questi contrasti: dal cielo separò la terra, dalla terra il mare e dall'aria densa distinse il cielo limpido. E districati gli elementi fuori dall'ammasso informe, riunì quelli dispersi nello spazio in concorde armonia. Il fuoco, imponderabile energia della volta celeste, guizzò insediandosi negli strati più alti; poco più sotto per la sua leggerezza si trova l'aria; la terra, resa densa dai massicci elementi assorbiti, rimase oppressa dal peso; e le correnti del mare, occupati gli ultimi luoghi, avvolsero la terraferma. Quando così ebbe spartito in ordine quella congerie e organizzato in membra i frammenti, quel dio, chiunque fosse, prima agglomerò la terra in un grande globo, perché fosse uniforme in ogni parte; poi ordinò ai flutti, gonfiati dall'impeto dei venti, di espandersi a cingere le coste lungo la terra. E aggiunse fonti, stagni immensi e laghi; strinse tra le rive tortuose le correnti dei fiumi, che secondo il percorso scompaiono sottoterra o arrivano al mare e, raccolti in quella più ampia distesa, invece che sugli argini, s'infrangono sulle scogliere. E al suo comando si stesero campi, s'incisero valli, fronde coprirono i boschi, sorsero montagne rocciose. Così come il cielo è diviso in due zone a sinistra e altrettante a destra, con una più torrida al centro, la divinità ne distinse la materia interna in modo uguale e sulla terra sono impresse fasce identiche. Quella mediana è inabitabile per la calura; due oppresse dalla neve; e altrettante ne collocò in mezzo che rese temperate mescolando fuoco e gelo. Su tutte incombe l'aria, che è più pesante del fuoco quanto più leggera è l'acqua del suolo. Lì comandò che si raccogliessero nebbie e nuvole, e ancora i tuoni che avrebbero poi turbato i nostri cuori, e i venti che con i fulmini scatenano lampi. Ma neppure a questi lasciò in balia l'aria l'architetto del mondo: ancora oggi, benché le sue raffiche ciascuno diriga in senso diverso, poco manca che dilanino il mondo, tanta è la discordia tra fratelli. Verso aurora si ritirò Euro, nel regno di Persiani e Nabatei, tra le montagne esposte ai raggi del mattino; in occidente, sulle coste intiepidite dal sole della sera sta Zefiro; l'agghiacciante Borea invase Scizia e settentrione; all'opposto le terre sono sempre umide di nubi per le piogge dell'Austro. E su tutto l'architetto pose l'etere limpido e leggero, che nulla ha della feccia terrena. Le cose aveva così appena spartito in confini esatti, che le stelle, sepolte a lungo in tenebre profonde, cominciarono a scintillare in tutto il cielo; e perché non ci fosse luogo privo d'esseri animati, astri e forme divine invasero le distese celesti, le onde ospitarono senza remore il guizzare dei pesci, la terra accolse le belve, l'aria mutevole gli uccelli. Ma ancora mancava l'essere più nobile che, dotato d'intelletto più alto, sapesse dominare sugli altri. Nacque l'uomo, fatto con seme divino da quell'artefice del creato, principio di un mondo migliore, o plasmato dal figlio di Giàpeto, a immagine di dei che tutto reggono, impastando con acqua piovana la terra recente che, appena separata dalle vette dell'etere, ancora del cielo serbava il seme nativo; e mentre gli altri animali curvi guardano il suolo, all'uomo diede viso al vento e ordinò che vedesse il cielo, che fissasse, eretto, il firmamento. Così quella terra che sino allora era grezza e informe, mutò e assunse l'ignorata figura dell'uomo. Per prima fiorì l'età dell'oro, che senza giustizieri o leggi, spontaneamente onorava lealtà e rettitudine. Non v'era timore di pene, né incise nel bronzo si leggevano minacce, o in ginocchio la gente temeva i verdetti di un giudice, sicura e libera com'era. Reciso dai suoi monti, nell'onda limpida il pino ancora non s'era immerso per scoprire terre straniere e i mortali non conoscevano lidi se non i propri. Ancora non cingevano le città fossati scoscesi, non v'erano trombe dritte, corni curvi di bronzo, né elmi o spade: senza bisogno di eserciti, la gente viveva tranquilla in braccio all'ozio. Libera, non toccata dal rastrello, non solcata dall'aratro, la terra produceva ogni cosa da sé e gli uomini, appagati dei cibi nati spontaneamente, raccoglievano corbezzoli, fragole di monte, corniole, more nascoste tra le spine dei rovi e ghiande cadute dall'albero arioso di Giove. Era primavera eterna: con soffi tiepidi gli Zefiri accarezzavano tranquilli i fiori nati senza seme, e subito la terra non arata produceva frutti, i campi inesausti biondeggiavano di spighe mature; e fiumi di latte, fiumi di nettare scorrevano, mentre dai lecci verdi stillava il miele dorato. Quando Saturno fu cacciato nelle tenebre del Tartaro e cadde sotto Giove il mondo, subentrò l'età d'argento, peggiore dell'aurea, ma più preziosa di quella fulva del bronzo. Giove ridusse l'antica durata della primavera e divise l'anno in quattro stagioni: l'inverno, l'estate, un autunno variabile e una breve primavera. Allora per la prima volta l'aria si fece di fuoco per l'arsura o si rapprese in ghiaccio per i morsi del vento; per la prima volta servirono case, e furono grotte, arbusti fitti, verghe legate insieme da fibre; allora in lunghi solchi si seminarono i cereali e sotto il peso del giogo gemettero i giovenchi. Terza a questa seguì l'età del bronzo: d'indole più crudele e più proclive all'orrore delle armi, ma non scellerata. L'ultima fu quella ingrata del ferro. E subito, in quest'epoca di natura peggiore, irruppe ogni empietà; si persero lealtà, sincerità e pudore, e al posto loro prevalsero frodi e inganni, insidie, violenza e smania infame di possedere. Senza conoscerli bene, il marinaio diede le vele ai venti, e le carene, che un tempo stavano in cima ai monti, si misero a battere flutti sconosciuti. Sulla terra, comune a tutti prima, come la luce del sole o l'aria, il contadino tracciò con cura lunghi confini. E non si pretese solo che questa, nella sua ricchezza, desse messi e alimenti, ma si penetrò nelle sue viscere a scavare i tesori che nasconde vicino alle ombre dello Stige e che sono stimolo ai delitti. Così fu estratto il ferro nocivo e più nocivo ancora l'oro: e comparve la guerra, che si combatte con entrambi e scaglia armi di schianto con mani insanguinate. Si vive di rapina: l'ospite è alla mercé di chi l'ospita, il suocero del genero, e concordia tra fratelli è rara. Trama l'uomo la morte della moglie e lei quella del coniuge; terribili matrigne mestano veleni lividi; il figlio scruta anzitempo gli anni del padre. Vinta giace la pietà, e la vergine Astrea, ultima degli dei, lascia la terra madida di sangue. Né più sicuro della terra sarebbe stato l'etere al vertice: si narra che i Giganti, aspirando al regno celeste, ammassassero i monti gli uni sugli altri fino alle stelle. Scagliando i suoi fulmini allora squarciò il padre onnipotente l'Olimpo e giù dall'Ossa rovesciò il Pelio. Quando quei corpi orrendi giacquero travolti dal loro edificio, dicono che la Terra s'inzuppasse del fiume di sangue sparso dai figli e che ancora caldo lo rianimasse; poi, perché non sparisse ogni traccia della sua stirpe, a quello diede aspetto umano. Ma anche questa prole fu spregiatrice dei numi, assetata con furia di stragi e violenta: nata dal sangue, questo avresti detto. Quando dall'alto vide questo, il figlio di Saturno mandò un gemito e ripensando al mostruoso banchetto di Licàone, ancora sconosciuto perché troppo recente, arse in cuore d'ira senza fine e in tutto degna di Giove, e convocò un concilio: all'invito non fu frapposto indugio. C'è in alto nel cielo una via, che si vede quand'è sereno: Lattea ha nome ed è nota proprio per il suo candore. Questa è la strada dei numi per la dimora di Giove tonante, per la sua reggia. A destra e a sinistra, con gli stipiti aperti, sono gli atri affollati dalla nobiltà divina; gli dei inferiori abitano sparsi altrove, quelli più illustri e potenti hanno invece qui, sul davanti, dimora. Se audacia è permessa alle mie parole, oserei dire che questo luogo è il Palatino del cielo infinito. Quando infine gli dei si furono assisi fra i marmi dell'interno, Giove, eccelso su tutti, appoggiandosi allo scettro d'avorio, più volte scosse con gesto terrificante la sua chioma e fece tremare la terra, il mare e le stelle; poi schiuse le labbra indignate con queste parole: «Mai più in ansia fui per il dominio del mondo, neppure quando il mostro dai piedi di serpe s'apprestava a scagliare le sue cento braccia per conquistare il cielo. Per quanto feroce fosse il nemico, allora all'origine di quella guerra era un gruppo solo. Ma ora sulla terra, dove tutt'intorno risuona il mare, devo distruggere la razza umana. Sui fiumi infernali, che scorrono sotterra nei boschi dello Stige, lo giuro: tutto è stato tentato, ma questa piaga incurabile dev'essere recisa a spada, perché non guasti la parte sana. Abbiamo semidei, divinità campestri, Ninfe, Fauni, Satiri e Silvani dei monti: visto che ancora degni non ci sembrano degli onori del cielo, concediamogli almeno di abitare la terra a loro assegnata. Ma voi, numi, credete che possano vivere sicuri, dopo le insidie che quel sanguinario Licàone ha tramato contro di me, che voi e il fulmine tengo in potere?». Un fremito li colse e ardendo di sdegno tutti pretesero che si punisse il temerario. Così quando un'empia schiera infierì per estinguere il nome di Roma nel sangue di Cesare, il genere umano sbigottì di fronte al terrore incontrollabile dell'improvvisa sciagura e inorridì il mondo intero: e la devozione dei tuoi, Augusto, non ti fu meno gradita di quella degli dei a Giove, che con la voce e col gesto sedò il tumulto, imponendo a tutti il silenzio. Poi, quando con autorità ebbe allontanato e represso il clamore, ruppe il silenzio e riprese a parlare: «Egli per verità ne ha pagato il fio, non temete; comunque vi dirò che ha fatto e quale sia il castigo. Mi era giunta all'orecchio l'infamia di questo tempo; sperando che non fosse vero, scendo dalla cima dell'Olimpo e sotto spoglie umane io Giove percorro la terra. Lungo sarebbe elencare tutti i misfatti che trovai disseminati: nulla il sospetto in confronto al vero. Passato il Mènalo spaventoso per i covi delle sue belve, il Cillene e le pinete del gelido Liceo, arrivo, quando il crepuscolo annuncia ormai la notte, dove ha sede l'inospitale dimora del tiranno di Arcadia. Feci intendere che era giunto un dio, e il popolo si mise a pregare: Licàone prima si fa beffe dei devoti, poi dice: "Voglio accertare, con prova lampante, che questo dio non sia un mortale; e il vero sarà indubitabile". Di notte, immerso nel sonno, m'avrebbe ucciso a tradimento: questa era la prova della verità che intendeva. Non contento, sgozza col pugnale un ostaggio inviatogli dalla gente di Molossia, e quelle membra ancora palpitanti nell'acqua bollente parte le lessa e parte le arrostisce al fuoco. Non ha il tempo d'imbandirmele, che con la fiamma vendicatrice su sé stessa io faccio crollare quella casa degna del padrone. Atterrito fugge e raggiunta la campagna silenziosa lancia ululati, tentando di parlare. La rabbia gli sale al volto dal profondo e assetato come sempre di sangue si rivolge contro le greggi e tuttora gode del sangue. Le vesti si trasformano in pelo, le braccia in zampe: ed è lupo, ma della forma antica serba tracce. La canizie è la stessa, uguale la furia del volto, uguale il lampo degli occhi e l'espressione feroce. Una casa è crollata, ma non solo una meritava la distruzione: dovunque è terra, selvaggia v'impera l'Erinni. Una congiura del crimine, la diresti; e allora ognuno paghi all'istante la pena che merita: così è deciso!». A viva voce una parte approva le parole di Giove, aizzando la sua ira; un'altra si limita ad assentire. Ma la distruzione del genere umano addolora tutti, e tutti si chiedono che aspetto avrà in futuro la terra senza i mortali, chi offrirà incenso agli altari, e se lui pensi di lasciare il mondo in balia delle fiere. Questo chiedono, ma il loro sovrano li convince a non temere (penserà lui a tutto), promettendo una stirpe diversa dalla precedente e di origine miracolosa. Già al punto di scagliare i suoi fulmini su tutta la terra, il timore lo colse che l'etere sacro potesse incendiarsi con tutto quel fuoco, e che bruciasse il lungo asse del mondo. Memore che il destino prediceva un tempo in cui sarebbe arso il mare, arsa la terra, travolgendo la reggia del cielo, e l'edificio complesso del mondo avrebbe vacillato, si deposero le armi fabbricate dalle mani dei Ciclopi e si decise una pena diversa: annientare il genere umano nei flutti, rovesciando un diluvio da tutto il cielo. Senza indugio chiude negli antri di Eolo l'Aquilone e ogni vento che possa disperdere gli ammassi di nubi; libera invece Noto, e questo si libra sulle sue ali madide, col volto terrificante avvolto di caligine nera: la barba è gravida di gocce, grondano acqua i bianchi capelli, sulla fronte calano nebbie, gocciolano penne e vesti; e a un tratto con tutta la mano preme le nubi sospese: scoppia un fragore, e fitta dal cielo scroscia la pioggia. Ammantata di vari colori, Iride, messaggera di Giunone, attinge acqua e le nuvole alimenta: travolte le messi, il contadino piange le sue speranze rase al suolo e la frustrante fatica di tutto un anno svanita. Ma l'ira di Giove non si limita al suo cielo: Nettuno, l'azzurro suo fratello, gli porta aiuto coi flutti. Convoca i fiumi ai suoi ordini e quando questi si presentano alla sua reggia: «Non è tempo di perdersi in lunghe esortazioni», dice. «Scatenate le vostre forze: questo è il compito assegnato. Spalancate le chiuse e, rimossi gli ostacoli, lanciate le vostre correnti a briglia sciolta». Così ordina e quelli, al ritorno, sciolgono le sorgenti, che a corsa sfrenata rovinano giù verso il mare. Lui, Nettuno, col suo tridente percuote la terra: quella trema, e le scosse aprono la via all'acqua. Straripando i fiumi erompono in aperta campagna e travolgono seminati, piante, greggi, uomini, tetti e con le immagini sacre i santuari. Anche se qualche casa rimane, reggendo a tanta furia senza crollare, l'acqua superandola ne sommerge la cima e le torri spariscono strette nella morsa dei gorghi. Ormai non c'è più divario tra mare e terra: tutto è mare, un mare privo d'approdi. Uno conquista un colle, l'altro sul banco di un guscio a becco rema sui luoghi dove prima arava; quello naviga sui seminati o sul tetto di una villa sommersa, questo afferra un pesce in cima a un olmo. A caso l'àncora si pianta nel verde dei prati oppure la carena sfiora la vigna subito sotto, e dove prima le snelle caprette brucavano l'erba, ora col loro corpo informe giacciono le foche. Con stupore guardano le Nereidi sott'acqua boschi, città e case, e in mezzo a selve, urtando rami altissimi, squassando querce a furia di colpi, s'aggirano i delfini. Nuota tra pecore il lupo, trascina la corrente leoni e tigri, e a nulla serve la forza fulminea ai cinghiali, l'agilità delle zampe ai cervi travolti, e dopo aver cercato a lungo una terra su cui posarsi, con le ali stremate, smarriti gli uccelli precipitano in mare. La furia sfrenata del mare ormai ha coperto le alture, e i flutti, cosa mai vista, si frangono contro i picchi dei monti. Il più degli uomini è travolto dai marosi e quelli risparmiati sono vinti, per mancanza di cibo, dal lungo digiuno. Dalla regione dell'Eta la Focide separa gli Aoni: terra fertile, finché vi fu terra, ma in quel tempo tratto di mare, vasta distesa di acque inattese. Lì un monte si leva in alto con due cime verso le stelle: di nome Parnaso, le sue vette sovrastano le nuvole. Fu in questo luogo (l'unico non sommerso) che Deucalione approdò, portato da una piccola barca, con la sua compagna, e subito invocarono le ninfe coricie, gli dèi dei monti e Temi, che predice il destino e che allora lì teneva oracoli. Mai ci fu uomo migliore di lui e più amante di giustizia, mai ci fu donna più timorata di lei. E Giove, quando vide il creato ridotto a un mare d'acque stagnanti e di tante migliaia d'uomini un solo superstite, di tante migliaia di donne una sola superstite, due esseri innocenti, due esseri devoti agli dei, squarciò le nubi e, dispersi col vento gli uragani, mostrò di nuovo al cielo la terra e alla terra il cielo. Cessò la furia del mare e, deposto il suo tridente, il dio degli oceani rabbonì le acque, chiamò l'azzurro Tritone, che sporge fuori dai gorghi con le spalle incrostate di conchiglie, e gli ordinò di soffiare nel suo corno sonoro, perché a quel segnale rientrassero flutti e fiumi. E quello prese la sua bùccina cava e ritorta, che dalla punta si allarga a spirale, la bùccina che, se le si dà fiato in mezzo al mare, riempie con la sua voce le coste da levante a ponente. Anche allora, quando tra la barba madida la portò alla bocca gocciolante e, soffiando a comando, sonò la ritirata, l'udirono tutte le acque del mare e della terraferma, e tutte, udendola, ripresero i loro confini. Calano i fiumi e rispuntare si vedono i colli, il mare riacquista un lido e gli alvei raccolgono i torrenti in piena; emerge la terra, ricresce il suolo col decrescere delle acque, e dopo giorni e giorni mostrano le loro cime spoglie i boschi, coi rami ancora avvinti da residui di fango. Restituita era la terra; ma come la vide deserta e desolata dal cupo silenzio che incombeva, Deucalione si volse a Pirra trafitto di pianto. Disse: «O sorella, o sposa, unica donna rimasta, che dividi con me la stirpe e l'origine di famiglia, il giaciglio delle nozze e qui gli stessi timori, noi due soli siamo tutti gli esseri della terra che vede l'aurora e il tramonto: il resto è sommerso dal mare. Né, certo, questa nostra vita puoi dire sicura, se ancora e sempre quelle nuvole ci opprimono la mente. Quale sarebbe ora l'animo tuo, se fossi sfuggita alla morte senza di me? Come potresti sopportare la paura qui da sola? come consolare il dolore? E io pure t'avrei seguito, o sposa, se il mare t'avesse inghiottito, credimi, anche me lo stesso mare avrebbe inghiottito. Oh se con l'arte paterna potessi ricreare gli uomini e plasmando la creta infondervi respiro! Ora in noi soli vive la qualità dei mortali, questo il volere degli dei, restiamo unici esempi». Disse, e piangevano. Decisero di invocare la volontà dei celesti e di chiedere aiuto agli oracoli. Senza indugio si accostarono insieme alla corrente del Cefiso, che, pur non ancora limpida, già fluiva nel suo letto. Attinta un po' d'acqua, la spruzzarono sulle vesti e sul capo; quindi volsero i passi verso il santuario della dea, scolorito e deturpato sino in cima dal muschio e privo di qualsiasi fuoco sugli altari. Giunti ai gradini del tempio, si prostrarono fianco a fianco sino a terra, baciarono intimoriti la pietra gelida e: «Se a preghiere devote», dissero, «le divinità si rabboniscono, se l'ira degli dei si placa, rivelaci, o Temi, come si possa rimediare alla rovina della nostra stirpe e soccorri, tu così mite, il mondo sommerso». Commossa la dea sentenziò: «Andando via dal tempio velatevi il capo, slacciatevi le vesti e alle spalle gettate le ossa della grande madre». Lungo fu il loro smarrimento, poi Pirra ruppe il silenzio per prima, rifiutandosi di obbedire a quegli ordini e per sé invocava, con voce tremante, il perdono divino al timore di offendere l'ombra di sua madre, disperdendone le ossa. E continuano a ripetersi dentro le parole oscure, impenetrabili del responso e a girarvi intorno. Ma a un tratto il figlio di Promèteo rasserena la sua sposa con queste parole pacate: «O io m'inganno o giusto è l'oracolo e non c'induce in sacrilegio. La grande madre è la terra; per ossa credo intenda le pietre del suo corpo: queste dobbiamo noi gettarci alle spalle». La figlia del Titano è scossa dall'intuito del marito, anche se dubbia è la speranza, tanto incredibile sembra a loro il consiglio divino. Ma che male s'aveva a tentare? S'incamminano, velandosi il capo, sciogliendo le vesti, e ubbidendo, lanciano pietre alle spalle sui loro passi. E i sassi (chi lo crederebbe se non l'attestasse il tempo antico?) cominciarono a perdere la loro rigida durezza, ad ammorbidirsi a poco a poco e, ammorbiditi, a prendere forma. Poi, quando crebbero e più duttile si fece la natura loro, fu possibile in questi intravedere forme umane, ancora imprecise, come se fossero abbozzate nel marmo, in tutto simili a statue appena iniziate. E se in loro v'era una parte umida di qualche umore o di terriccio, fu usata a formare il corpo; ciò che era solido e rigido fu mutato in ossa; quelle che erano vene, rimasero con lo stesso nome. E in breve tempo, per volere degli dei, i sassi scagliati dalla mano dell'uomo assunsero l'aspetto di uomini, mentre dai lanci della donna la donna rinacque. Per questo siamo una razza dura, allenata alle fatiche, e diamo testimonianza di che origine siamo. Gli altri animali li generò spontaneamente la terra nelle forme più varie, quando la vampa del sole prosciugò gli umori residui. Alla calura si gonfiarono il fango e la melma dei pantani; crebbero, nutriti dall'energia del suolo come nel grembo di una madre, i germi fecondi delle cose e col tempo assunsero l'aspetto loro. Così, quando il Nilo nelle sue sette foci si ritira dai campi allagati e riporta le correnti nel letto d'origine, e quando il limo ancora fresco si secca ai raggi del sole, i contadini rivoltando le zolle trovano gli animali più diversi e fra questi ne sorprendono alcuni proprio sul nascere appena abbozzati, e altri imperfetti o privi di proporzioni, e a volte in uno stesso corpo una parte che vive, mentre un'altra è terra grezza. Questo perché l'umidità e il calore, se fra loro si combinano, destano vita e dalla loro unione nascono tutte le cose. E se l'acqua e il fuoco stanno agli antipodi, il vapore umido crea tutto: l'armonia dei contrasti è impulso a generare. Quando dunque il suolo, fangoso per il recente diluvio, si riasciugò al calore benefico dell'astro celeste, partorì un'infinità di specie, in parte riproducendo forme note, in parte creando mostri sconosciuti. E pur non volendolo, generò anche te, Pitone smisurato, serpente mai visto prima, terrore delle nuove genti, tanto era lo spazio su cui ti distendevi giù dal monte. Febo, il dio con l'arco, ma che fino ad allora di quell'arma s'era servito solo contro camosci e caprioli in fuga, lo seppellì di frecce e svuotò quasi la faretra per ucciderlo, facendogli sprizzare veleno dalle nere ferite. E perché il tempo non potesse annullare la fama dell'impresa, istituì la celebrazione solenne delle gare chiamate Pìtiche, dal nome del serpente vinto. Qui i giovani, che vincevano ai pugni, nella corsa o col cocchio, venivano incoronati con ghirlande di quercia: l'alloro non c'era ancora e Febo si cingeva le tempie, incorniciate da lunghi capelli, con fronde qualsiasi. Il primo amore di Febo fu Dafne, figlia di Peneo, e non fu dovuto al caso, ma all'ira implacabile di Cupido. Ancora insuperbito per aver vinto il serpente, il dio di Delo, vedendolo che piegava l'arco per tendere la corda: «Che vuoi fare, fanciullo arrogante, con armi così impegnative?» gli disse. «Questo è peso che s'addice alle mie spalle, a me che so assestare colpi infallibili alle fiere e ai nemici, a me che con un nugolo di frecce ho appena abbattuto Pitone, infossato col suo ventre gonfio e pestifero per tante miglia. Tu accontèntati di fomentare con la tua fiaccola, non so, qualche amore e non arrogarti le mie lodi». E il figlio di Venere: «Il tuo arco, Febo, tutto trafiggerà, ma il mio trafigge te, e quanto tutti i viventi a un dio sono inferiori, tanto minore è la tua gloria alla mia». Disse, e come un lampo solcò l'aria ad ali battenti, fermandosi nell'ombra sulla cima del Parnaso, e dalla faretra estrasse due frecce d'opposto potere: l'una scaccia, l'altra suscita amore. La seconda è dorata e la sua punta aguzza sfolgora, la prima è spuntata e il suo stelo ha l'anima di piombo. Con questa il dio trafisse la ninfa penea, con l'altra colpì Apollo trapassandogli le ossa sino al midollo. Subito lui s'innamora, mentre lei nemmeno il nome d'amore vuol sentire e, come la vergine Diana, gode nella penombra dei boschi per le spoglie della selvaggina catturata: solo una benda raccoglie i suoi capelli scomposti. Molti la chiedono, ma lei respinge i pretendenti e, decisa a non subire un marito, vaga nel folto dei boschi indifferente a cosa siano nozze, amore e amplessi. Il padre le ripete: «Figliola, mi devi un genero»; le ripete: «Bambina mia, mi devi dei nipoti»; ma lei, odiando come una colpa la fiaccola nuziale, il bel volto soffuso da un rossore di vergogna, con tenerezza si aggrappa al collo del padre: «Concedimi, genitore carissimo, ch'io goda», dice, «di verginità perpetua: a Diana suo padre l'ha concesso». E in verità lui acconsentirebbe; ma la tua bellezza vieta che tu rimanga come vorresti, al voto s'oppone il tuo aspetto. E Febo l'ama; ha visto Dafne e vuole unirsi a lei, e in ciò che vuole spera, ma i suoi presagi l'ingannano. Come, mietute le spighe, bruciano in un soffio le stoppie, come s'incendiano le siepi se per ventura un viandante accosta troppo una torcia o la getta quando si fa luce, così il dio prende fuoco, così in tutto il petto divampa, e con la speranza nutre un impossibile amore. Contempla i capelli che le scendono scomposti sul collo, pensa: 'Se poi li pettinasse?'; guarda gli occhi che sfavillano come stelle; guarda le labbra e mai si stanca di guardarle; decanta le dita, le mani, le braccia e la loro pelle in gran parte nuda; e ciò che è nascosto, l'immagina migliore. Ma lei fugge più rapida d'un alito di vento e non s'arresta al suo richiamo: «Ninfa penea, férmati, ti prego: non t'insegue un nemico; férmati! Così davanti al lupo l'agnella, al leone la cerva, all'aquila le colombe fuggono in un turbinio d'ali, così tutte davanti al nemico; ma io t'inseguo per amore! Ahimè, che tu non cada distesa, che i rovi non ti graffino le gambe indifese, ch'io non sia causa del tuo male! Impervi sono i luoghi dove voli: corri più piano, ti prego, rallenta la tua fuga e anch'io t'inseguirò più piano. Ma sappi a chi piaci. Non sono un montanaro, non sono un pastore, io; non faccio la guardia a mandrie e greggi come uno zotico. Non sai, impudente, non sai chi fuggi, e per questo fuggi. Io regno sulla terra di Delfi, di Claro e Tènedo, sulla regale Pàtara. Giove è mio padre. Io sono colui che rivela futuro, passato e presente, colui che accorda il canto al suono della cetra. Infallibile è la mia freccia, ma più infallibile della mia è stata quella che m'ha ferito il cuore indifeso. La medicina l'ho inventata io, e in tutto il mondo guaritore mi chiamano, perché in mano mia è il potere delle erbe. Ma, ahimè, non c'è erba che guarisca l'amore, e l'arte che giova a tutti non giova al suo signore!». Di più avrebbe detto, ma lei continuò a fuggire impaurita, lasciandolo a metà del discorso. E sempre bella era: il vento le scopriva il corpo, spirandole contro gonfiava intorno la sua veste e con la sua brezza sottile le scompigliava i capelli rendendola in fuga più leggiadra. Ma il giovane divino non ha più pazienza di perdersi in lusinghe e, come amore lo sprona, l'incalza inseguendola di passo in passo. Come quando un cane di Gallia scorge in campo aperto una lepre, e scattano l'uno per ghermire, l'altra per salvarsi; questo, sul punto d'afferrarla e ormai convinto d'averla presa, che la stringe col muso proteso, quella che, nell'incertezza d'essere presa, sfugge ai morsi evitando la bocca che la sfiora: così il dio e la fanciulla, un fulmine lui per la voglia, lei per il timore. Ma lui che l'insegue, con le ali d'amore in aiuto, corre di più, non dà tregua e incombe alle spalle della fuggitiva, ansimandole sul collo fra i capelli al vento. Senza più forze, vinta dalla fatica di quella corsa allo spasimo, si rivolge alle correnti del Peneo e: «Aiutami, padre», dice. «Se voi fiumi avete qualche potere, dissolvi, mutandole, queste mie fattezze per cui troppo piacqui». Ancora prega, che un torpore profondo pervade le sue membra, il petto morbido si fascia di fibre sottili, i capelli si allungano in fronde, le braccia in rami; i piedi, così veloci un tempo, s'inchiodano in pigre radici, il volto svanisce in una chioma: solo il suo splendore conserva. Anche così Febo l'ama e, poggiata la mano sul tronco, sente ancora trepidare il petto sotto quella nuova corteccia e, stringendo fra le braccia i suoi rami come un corpo, ne bacia il legno, ma quello ai suoi baci ancora si sottrae. E allora il dio: «Se non puoi essere la sposa mia, sarai almeno la mia pianta. E di te sempre si orneranno, o alloro, i miei capelli, la mia cetra, la faretra; e il capo dei condottieri latini, quando una voce esultante intonerà il trionfo e il Campidoglio vedrà fluire i cortei. Fedelissimo custode della porta d'Augusto, starai appeso ai suoi battenti per difendere la quercia in mezzo. E come il mio capo si mantiene giovane con la chioma intonsa, anche tu porterai il vanto perpetuo delle fronde!». Qui Febo tacque; e l'alloro annuì con i suoi rami appena spuntati e agitò la cima, quasi assentisse col capo. C'è un bosco nell'Emonia, chiuso tutto intorno da gole scoscese: Tempe è detto; e in mezzo il Peneo, che sgorga alle falde del Pindo, scorre tumultuoso tra la spuma delle sue onde e, precipitando a valle, solleva nebbie in vortici di pulviscolo leggero, che come pioggia irrora la cima degli alberi, e con gli scrosci assorda all'infinito. Questa è la dimora, la sede, il sacrario del grande fiume; qui, assiso in un antro scavato nella roccia, governa le sue acque e le ninfe che in quelle vivono. Ed ecco che, incerti se congratularsi con lui o consolare un padre, qui si riuniscono per primi i fiumi della regione: lo Sperchìo lussureggiante di pioppi, l'Enìpeo irrequieto, il vecchio Apìdano, il mite Anfriso e l'Eante; e poi gli altri fiumi che, dove il loro impeto li spinge, portano sino al mare le correnti stanche di tanto vagare. Soltanto l'Ínaco mancava: nascosto in fondo al suo antro ingrossava le sue acque col pianto, affliggendosi disperato per la scomparsa della figlia Io: non sa se viva ancora o sia fra le ombre, ma non trovandola in nessun luogo pensa che non sia più e in cuor suo teme il peggio. Mentre tornava dal fiume paterno, l'aveva intravista Giove, che le disse: «O vergine degna di Giove e che beato farai lo sconosciuto che ti sposerà, ritìrati nell'ombra di quei boschi profondi» (e l'ombra di quei boschi le indicava), «ora che fa così caldo e più alto è il sole in mezzo al cielo. E non temere di addentrarti sola fra covi di belve, cammina tranquilla nel cuore del bosco: un dio ti protegge, e non un dio qualunque, ma io, io che con mano potente reggo lo scettro del cielo e scaglio fulmini in ogni luogo. No, non fuggirmi!». Ma lei fuggiva; e già i pascoli di Lerna, le piantagioni del Lirceo s'era ormai lasciata alle spalle, quando il dio, nascosto un lungo tratto di terra con una distesa di nebbia, fermò la sua fuga e le rapì l'onore. Gettò in quel punto Giunone lo sguardo al centro dell'Argòlide e, stupita che sotto un cielo terso folate di nebbia avessero fatto notte, capì che non erano nebbie di fiume o nate dall'umidità del suolo; e, ben conoscendo le infedeltà del marito, sorpreso tante volte in flagrante, si volse intorno a guardare dove fosse. Poiché non lo trovò in cielo: «O m'inganno o io sono tradita», disse e, precipitandosi giù dall'etere, si posò sulla terra ordinando alle nebbie di dissolversi. Ma Giove, prevedendo l'arrivo della moglie, aveva mutato la figlia di Ínaco nelle forme terse d'una giovenca. E anche così è bella. La figlia di Saturno, sia pure a stento, ne ammira l'aspetto e, fingendo d'esserne all'oscuro, chiede di chi sia, da dove venga e a quale armento appartenga. Giove favoleggia che è nata dalla terra, perché smetta d'indagarne l'origine, e lei gliela chiede in dono. Che fare? Cedere l'amata sarebbe stato crudele, non farlo sospetto; da un lato il panico lo sprona, dall'altro lo trattiene amore. E quasi avrebbe vinto questo, se negare a lei, moglie e sorella, il dono banale di una vacca, non avesse rischiato di farle capire che vacca non era. Ma anche avuta in dono la rivale, la dea non smise di temere e, diffidando di Giove, paventò che gliela rubasse, finché non l'ebbe data in custodia ad Argo, il figlio di Arèstore. Cento occhi aveva Argo tutt'intorno al suo capo: due alla volta riposavano a turno, mentre gli altri stavano svegli, montando la guardia. In qualunque modo si sistemasse, sorvegliava Io; anche di spalle l'aveva davanti agli occhi. Di giorno lascia che pascoli; quando il sole scende sottoterra, la rinchiude, cingendole a disdoro il collo con una catena. Di fronde d'alberi e di erba amara si nutre l'infelice, e invece che in un letto si corica sulla terra priva a volte anche d'una coltre erbosa, e s'abbevera in fiumi fangosi. E se voleva tendere le braccia ad Argo per supplicarlo, braccia non possedeva da tendergli; se tentava di lamentarsi dalla bocca uscivano muggiti e a quel suono rabbrividiva atterrita dalla sua stessa voce. Giunse anche alle rive dell'Ínaco, dove un tempo giocava, e come vide nell'acqua il suo muso e quelle strane corna, fu presa da un brivido e si ritrasse sbigottita. Le Naiadi e Ínaco stesso ignorano chi sia; e lei segue il padre, segue le sue sorelle, permette che la tocchino, si offre al loro stupore. Il vecchio Ínaco, colta dell'erba, gliela porge: lei gli lecca le mani, ne bacia le palme, e non trattiene le lacrime: se potesse articolare verbo avrebbe invocato aiuto, rivelato il nome e le sue disgrazie. Ma in luogo di parole, furono i segni, tracciati nella sabbia col piede, a chiarire la triste causa della metamorfosi. «Ahimè infelice» esclama Ínaco, stringendo corna e collo di quella giovenca bianca come neve che si lamenta. «Ahimè infelice» ripete. «Tu, la mia figliola, tu, che ho cercato in ogni angolo della terra? Minor dolore m'avresti dato se non t'avessi ritrovata! Muta, non rispondi nulla a ciò che dico, solo sospiri profondi esali dal tuo petto e alle mie parole muggisci, è l'unica cosa che puoi. Ed io che ignaro ti preparavo talamo e fiaccole nuziali, con la speranza di avere prima un genero e poi nipoti: ora dal gregge avrai il compagno, dal gregge tuo figlio. Né posso troncare con la morte questo immenso dolore: essere un dio è la condanna, quella porta mi è preclusa e così senza fine continuerà in eterno il mio strazio!» Mentre così si lamenta, Argo costellato d'occhi lo scaccia e, strappata la figlia al padre, verso pascoli isolati la sospinge; poi, salito in vetta a un monte che domina lontano, di lassù scruta seduto in ogni luogo possibile. Ma il re degli dei non può più tollerare che la sorella di Foroneo soffra tanto, e chiama il figlio che gli fu partorito dalla Pleiade luminosa, ordinandogli di uccidere Argo. Un attimo e quello ha già le ali ai piedi, stretta in mano la verga magica che infonde il sonno e sui capelli il copricapo; così bardato il figlio di Giove balza dalla rocca paterna giù sulla terra. Lì si toglie il copricapo e depone le ali, solo la verga conserva, e con questa, come un pastore, spinge per campagne fuori mano caprette rubate passando e sulle canne intona una canzone. Argo, il custode di Giunone, affascinato da quei suoni insoliti: «Chiunque tu sia,» dice, «potresti sedere con me su questa roccia: in nessun altro luogo c'è per le tue bestie più abbondanza d'erbe e, come vedi, anche l'ombra ideale per un pastore». Il nipote di Atlante si siede e, chiacchierando continuamente, lo intrattiene lungo il giorno e, suonando canzoni sulla zampogna, cerca di assopire quegli occhi sempre all'erta. Ma quello si sforza di resistere al languore del sonno e, per quanto il sopore avvolga una parte degli occhi, l'altra continua a vegliare; ed anzi, visto che la zampogna era invenzione recente, chiede come ciò sia avvenuto. E allora Mercurio: «Sui monti gelidi dell'Arcadia,» risponde, «tra le amadriadi di Nonacre, c'era famosissima una Naiade, che le compagne chiamavano Siringa. Non una volta sola aveva eluso le insidie dei Satiri e di tutti gli altri dei che vivono nell'ombra dei boschi o nel rigoglio dei campi: venerava la dea di Ortigia votandosi alla castità. E appunto come Diana si vestiva, tanto da trarre in inganno e scambiarla per la figlia di Latona, se questa non avesse avuto un arco d'oro e lei di corno. Malgrado ciò traeva in inganno. Pan che, mentre tornava dal colle Liceo, la vide, col capo cinto d'aculei di pino, le disse queste parole...». E non restava che riferirle: come la ninfa, sorda alle preghiere, fuggisse per luoghi impervi, finché non giunse alle correnti tranquille del sabbioso Ladone; come qui, impedendole il fiume di correre oltre, invocasse le sorelle dell'acqua di mutarle forma; come Pan, quando credeva d'aver ghermito ormai Siringa, stringesse, in luogo del suo corpo, un ciuffo di canne palustri e si sciogliesse in sospiri: allora il vento, vibrando nelle canne, produsse un suono delicato, simile a un lamento e il dio incantato dalla dolcezza tutta nuova di quella musica: «Così, così continuerò a parlarti», disse e, saldate fra loro con la cera alcune canne diseguali, mantenne allo strumento il nome della sua fanciulla. Questo stava dicendo il dio di Cillene, quando s'accorse che tutti gli occhi, lo sguardo velato di sonno, s'erano chiusi. Subito tronca il racconto e, accarezzando con la sua verga magica le palpebre illanguidite, ne assicura il sopore; poi di furia, mentre vacilla, lo colpisce con la spada a falce dove il capo s'unisce al collo e in un lago di sangue, che imbratta i dirupi del monte, lo sbalza giù dal macigno. O Argo, tu giaci: quella luce che possedevi in tante pupille, è spenta; una tenebra sola grava sui tuoi cento occhi. Li raccoglie la dea Saturnia e li fissa alle penne dell'uccello che le è sacro, costellandogli la coda di gemme. Poi, prendendo fuoco, scatena la sua ira facendo apparire allo sguardo e alla mente della rivale argolica l'orribile Erinni, ficcandole in petto un pungolo occulto e facendola fuggire per tutta la terra in preda al terrore. E non restavi che tu, Nilo, a quella corsa senza fine: non appena vi giunse, protendendo indietro il collo, si buttò in ginocchio sul margine di quella riva e levando, come solo poteva, lo sguardo alle stelle, con gemiti, lacrime e muggiti angosciosi parve dolersi con Giove e supplicare la fine dei suoi mali. Giove allora getta le braccia al collo della moglie e la prega di por termine al castigo. «In futuro, non temere,» le dice, «mai più ti darà motivo di dolore» e chiama a testimone la palude dello Stige. Come la dea si placa, Io riprende l'aspetto di un tempo e torna com'era prima: spariscono le setole dal corpo, rientrano le corna, si restringono le orbite degli occhi, s'accorcia il muso, riappaiono braccia e mani, e nel disfarsi lo zoccolo si apre in cinque dita. Nulla sopravvive in lei della giovenca, tranne il candore; felice d'usarne due soli, la ninfa si leva in piedi ed esita a parlare per timore di muggire come prima e con cautela ritenta l'idioma perduto. Ora è una dea famosa, venerata da folle avvolte di lino. Da lei si crede che, fecondata dal grande Giove, sia nato Èpafo, che in diverse città ha santuari insieme alla madre. Pari a lui per fierezza ed anni era Fetonte, il figlio del Sole; e un giorno che questi, orgoglioso d'avere Febo come padre, si vantava d'essergli superiore, il nipote d'Inaco non lo tollerò: «Sciocco,» gli disse, «in tutto tu credi a tua madre e vai superbo di un padre immaginario». Avvampò Fetonte, e pieno di vergogna represse l'ira, riferendo alla madre, Clìmene, quella calunnia; disse: «E a tuo maggior dolore, madre mia, io che sono così impulsivo, così fiero, m'imposi di tacere: non sopporto che qualcuno abbia potuto insultarmi così, senza che potessi ribattere! Ma tu, se è vero che discendo da stirpe celeste, dammi prova di questi natali illustri e rivendicami al cielo». Disse e intorno al collo della madre cinse le braccia, scongiurandola, per il suo e il capo di Mèrope, per le nozze delle sorelle, di dargli testimonianza del suo vero padre. Non si sa se spinta dalle preghiere di Fetonte o più dall'ira per l'accusa rivoltale, Clìmene levò al cielo entrambe le braccia e fissando la luce del Sole: «Per questo fulgore splendido di raggi abbaglianti,» disse, «che ci vede e ci ascolta, io ti giuro, figliolo, che tu sei nato da questo Sole che contempli e che regola la vita in terra. Se ciò che dico è menzogna, mai più mi consenta di guardarlo e sia questa luce l'ultima per i miei occhi! Del resto non ti sarà fatica trovare la casa paterna: la terra in cui risiede confina con la nostra, là dove sorge. Se questo hai in animo, va' e chiedi a lui stesso». Balza lieto Fetonte alle parole della madre e, tutto preso dall'idea del cielo, lascia la terra dei suoi Etiopi, attraversa l'India che si stende sotto la vampa del sole, e di slancio arriva dove sorge il padre. LIBRO SECONDO Alta si ergeva la reggia del Sole su immense colonne, tutta bagliori d'oro e fiammate di rame; lucido avorio rivestiva la cuspide del frontone e i battenti della porta emanavano riflessi argentei. E qui l'arte eclissava la materia, perché il dio del fuoco vi aveva cesellato i mari che circondano la terra, l'universo intero e il cielo che lo sovrasta. Tra i flutti emergono gli dei del mare, Tritone che suona, l'ambiguo Pròteo, Egèone che con le sue braccia imbriglia dorsi enormi di balene, e Dòride con le sue figlie, alcune mentre nuotano, altre sedute su scogli ad asciugarsi i verdi capelli, qualcuna in groppa a un pesce: non hanno tutte lo stesso viso, ma nemmeno diverso, come s'addice a sorelle. Sulla terra vi sono uomini, città, boschi e animali, fiumi, ninfe e le altre divinità della campagna. Sopra è raffigurato il cielo che brilla di luci: sei costellazioni sul battente destro, sei sul sinistro. Quando per un erto sentiero qui giunse il figlio di Clìmene, appena entrato nella dimora del padre putativo, subito si diresse al suo cospetto, ma fermandosi a una certa distanza: più vicino non ne avrebbe sostenuto il fulgore. Avvolto in un manto purpureo, Febo sedeva su un trono tutto sfolgorante di smeraldi luminosi: ai suoi lati stavano il Giorno, il Mese e l'Anno, i Secoli e le Ore disposte a uguale distanza fra loro; e stava la Primavera incoronata di fiori, stava l'Estate, nuda, che portava ghirlande di spighe, stava l'Autunno imbrattato di mosto e l'Inverno gelido con i bianchi capelli increspati. Al centro, con quegli occhi che scorgono tutto, il Sole vide il giovane sbigottito dalla meraviglia e: «Perché sei venuto?» gli disse. «Cosa cerchi in questa rocca, Fetonte, figliolo mio che mai potrei rinnegare?». E quello: «O luce, che a tutto l'universo appartieni, Febo, padre mio, se mi concedi d'usare questo nome e se Clìmene non cela una colpa sotto falsa effigie, dammi testimonianza, genitore, che mi rassicuri d'essere tuo figlio, e strappami questa incertezza dal cuore». A queste parole il genitore depose i raggi che gli sfolgoravano intorno al capo, l'invitò ad avvicinarsi e abbracciandolo gli disse: «Non c'è ragione per negare che tu sia mio e che il vero riferì Clìmene sulla tua nascita. E perché tu non abbia dubbi, chiedimi quello che vuoi: da me, da me l'avrai; e alla mia promessa sia testimone quella palude misteriosa su cui giurano gli dei». Non appena tacque, il figlio gli chiese il cocchio, col permesso di guidare per tutto un giorno i cavalli dai piedi alati. Si pentì il padre suo di aver giurato, e scuotendo più volte il capo luminoso, esclamò: «Folle fu la mia proposta, se questo hai in mente. Oh, fosse lecito eludere le promesse! Credi, figliolo, questa è l'unica cosa che vorrei rifiutarti. Ma dissuadere è permesso: colma di rischi è la tua richiesta. Un'enormità chiedi, Fetonte, un dono che non s'addice né alle tue forze né ai tuoi anni in fiore. Il tuo destino è d'essere mortale, e non da mortale è ciò che desideri. Senza saperlo pretendi più di quanto sia lecito concedere ai celesti. Presuma ognuno ciò che gli piace, ma nessuno, tranne me, saprebbe reggersi su quel carro di fuoco. Neppure il signore dell'immenso Olimpo, che con mano tremenda scaglia micidiali folgori, saprebbe guidare quel cocchio. E chi c'è più grande di Giove? Ripida all'inizio è la via, tanto che a fatica s'inerpicano i cavalli freschi al mattino; a metà altissima è nel cielo e molte volte io stesso mi spavento a guardare di lassù il mare e la terra, col cuore che batte di paura e sgomento; l'ultimo tratto è una china a strapiombo, che richiede mano ferma: allora perfino Teti, che mi accoglie in fondo alle onde, teme sempre ch'io possa a picco giù precipitare. Aggiungi poi che senza sosta il cielo ruota vorticosamente, trascinando con sé, strette in orbite veloci, le stelle. Io lo fronteggio, senza che il suo impeto, come in genere accade, mi travolga, e corro in senso contrario alla corrente del suo moto. Immagina di avere il cocchio: che farai? saprai opporti al rotare dei poli, senza che il flusso del cielo ti sommerga? Pensi forse che lì ci siano boschi sacri, città di dei o sacrari ricchi di offerte? Attraverso insidie e visioni di mostri avviene il tuo viaggio, e per quanto tu segua la via giusta senza mai sbagliare, dovrai pure avventurarti tra le corna del Toro che hai di fronte, contro l'arciere di Emonia, tra le fauci violente del Leone, contro lo Scorpione che inarca in un gran cerchio le sue chele velenose e il Cancro che in altra direzione le richiude. Facile non ti sarà reggere cavalli così focosi per le fiamme che hanno in petto e spirano da bocca e froge: a stento obbediscono a me, quando esplode il loro istinto e il collo si ribella alle briglie. Attento dunque, che non sia io, figliolo, il colpevole di un dono così funesto e, finché siamo in tempo, muta il tuo proposito. Chiedi una prova certa che ti convinca d'essere nato dal mio sangue? Io te la do col mio timore: lo sgomento di un padre attesta che lo sono. Guarda, guarda il mio volto: potessi figgermi gli occhi nel cuore e cogliervi tutta l'ansia che solo un padre ha in petto! Forza, guarda intorno di quante cose è ricco l'universo, e di tanti e così grandi beni di cielo, terra e mare chiedi ciò che vuoi: nulla, nulla ti rifiuterò! Da questo solo ti svio, che in verità ha nome castigo, non tributo d'affetto: un castigo, Fetonte mio, mi chiedi in dono. Perché, insensato, mi getti le braccia al collo per blandirmi? Non dubitare, avrai (l'ho giurato sulla palude stigia) qualunque cosa desideri, ma esprimi un desiderio più saggio». Il monito era concluso, ma quello non vuol sentire ragioni e insiste nel suo proposito, smaniando per la voglia del carro. E allora il genitore, dopo avere indugiato tutto il possibile, conduce il giovane al cocchio, sublime dono di Vulcano. D'oro era l'asse, d'oro il timone, d'oro il cerchione delle ruote e d'argento la serie dei raggi; lungo i gioghi, topazi e gemme poste in fila per il riflesso del Sole emanavano sfavillanti bagliori. E mentre l'audace Fetonte ammira in tutti i suoi particolari quell'opera, ecco che all'erta dal lucore di levante l'Aurora spalanca le sue porte purpuree e l'atrio colmo di rose: fuggono le stelle, che Lucifero raduna in schiere, lasciando per ultimo il campo celeste. Come il Titano lo vide avviarsi verso terra e il mondo tingersi di rosso, la falce nebulosa della luna quasi svanire, ordinò alle Ore in attesa di aggiogare i cavalli. Rapide le dee eseguono l'ordine e dal fondo delle stalle traggono i destrieri sazi di succo d'ambrosia, che spirano fuoco, e adattano loro i morsi tintinnanti. Allora il padre unse il viso del figlio con un unguento magico rendendolo immune dall'aggressione delle fiamme, gli pose fra i capelli i raggi e, rinnovando i suoi sospiri presaghi di sventura, col cuore inquieto gli disse: «Se almeno riesci a seguire i consigli di tuo padre, evita la frusta, figliolo, e serviti piuttosto delle briglie. Già tendono a correre: il difficile è frenare la loro foga. E non scegliere la via che incrocia tutte le cinque zone: c'è una pista che con ampia curva si snoda obliquamente nello spazio limitato di tre zone, senza toccare né il polo australe, né l'Orsa legata agli Aquiloni; seguila: vedrai con chiarezza i solchi delle ruote. E perché il cielo e la terra ricevano il giusto calore, in basso non spingere il cocchio e non lanciarlo oltre misura nell'etere: spostandoti troppo in alto bruceresti le dimore celesti, in basso la terra: a mezza via puoi andartene senza alcun rischio. Bada poi che sterzando troppo a destra le ruote non ti conducano nelle spire del Serpente o a sinistra nei recessi dell'Altare: tienti fra loro. Per tutto il resto m'affido alla Fortuna, che ti aiuti e pensi a te, spero, meglio di quanto tu sappia fare. Mentre ti parlo, la notte umida ha raggiunto la meta posta sulle coste di Esperia. Non ci sono concessi indugi: siamo attesi; disperse le tenebre, l'Aurora risplende. Afferra le briglie! Ma se puoi mutare intenzione, serviti dei miei consigli, non del mio cocchio, finché lo puoi e ancora qui sei su terreno solido, finché alla cieca sul carro che purtroppo hai scelto non hai posto piede. Lascia che sia io a illuminare la terra e tu osserva al sicuro!». Balza il figlio col suo giovane corpo sul cocchio volante, ritto in piedi, felice di stringere finalmente nelle mani le briglie, e di lassù ringrazia il genitore contrariato. Intanto gli alati cavalli del Sole, Eòo, Pirois, Èton e Flègon, l'ultimo, riempiono l'aria di nitriti e di fiamme, scalpitando di fronte alla barriera. Non appena Teti, che non sa quale destino attenda il nipote, l'apre, schiudendo a loro gli spazi del cielo immenso, quelli si lanciano fuori, scalciando le zampe nell'aria squarciano la cortina di nebbie e sollevandosi sulle ali superano gli Euri che nascono nelle stesse regioni. Ma leggero è il carico, non quello che i cavalli del Sole conoscono, e il giogo manca del piglio solito; così, come la chiglia delle navi senza la giusta zavorra ondeggia e per eccessiva leggerezza sbanda sul mare, il cocchio, privo del peso consueto, sobbalza nell'aria con scossoni immani, quasi fosse vuoto del tutto. Appena se ne accorgono, i quattro destrieri si scatenano, lasciano la pista battuta e più non corrono ordinati. Lui si spaventa e non sa da che parte tirare le briglie in mano, non sa dov'è la strada e, se anche lo sapesse, come imporsi a loro. Per la prima volta allora ai raggi solari arse l'Orsa gelida, che invano, perché interdetto, tentò d'immergersi nel mare; e il Serpente, sospeso in prossimità dei ghiacci polari, che prima intorpidito dal freddo non spaventava alcuno, s'infiammò e a quel fuoco fu preso da una furia mai vista. E anche tu, Boote, raccontano che fuggisti sconvolto, benché fossi lento e impacciato dal tuo carro. Quando poi dalla vetta del cielo l'infelice Fetonte si volse a guardare in basso la terra lontana, così lontana, impallidì, di fulmineo sgomento gli tremarono i ginocchi e pur fra tanta luce un velo di tenebra gli calò sugli occhi. Ora mai vorrebbe aver toccato i cavalli di suo padre, ora si pente d'avere appreso i natali e vinto con le suppliche; ora figlio di Mèrope vorrebbe che lo dicessero e intanto è trascinato via, come dalle raffiche di Borea una nave, che il pilota rinunci a governare rimettendosi agli dei. Che fare? Alle spalle s'è lasciato buona parte del cielo, ma più ve n'è davanti. Nella mente misura i due tratti: ora scruta l'occidente che il destino gli vieta di raggiungere, ora si volta a guardare l'oriente. Incapace a decidere, resta di pietra, non lascia le redini e non ha la forza di tirarle, i nomi stessi ignora dei cavalli. In più, dispersi nel cielo screziato, in ogni luogo vede prodigi e, inorridito, fantasmi di animali mostruosi. V'è un punto dove lo Scorpione incurva le sue chele in due archi e dalla coda alle branche, strette a fòrcipe, stende le sue membra nello spazio di due costellazioni. Quando il ragazzo lo vede che, asperso tutto di nero veleno, minaccia di colpirlo con la punta dell'aculeo, sconvolto dal gelo del terrore lascia andare le briglie; e appena queste, allentandosi, sfiorano la loro groppa, i cavalli smarriscono la strada e senza freno alcuno vagano per l'aria di regioni ignote e, dove li spinge la foga, lì in disordine rovinano, cozzano contro le stelle infisse nella volta del cielo, trascinando il carro in zone inesplorate. Ora balzano in alto, ora si gettano giù a capofitto per sentieri scoscesi in spazi troppo vicini alla terra. Con stupore la Luna guarda i cavalli del fratello passare sotto i suoi e le nuvole che fumano combuste. Nei punti più alti la terra è ghermita dal fuoco, si screpola in fenditure e, seccandosi gli umori, inaridisce; si sbiancano i pascoli, con tutte le fronde bruciano le piante e le messi riarse danno esca alla propria rovina. Di inezie mi dolgo: con le loro mura crollano città immense e gli incendi riducono in cenere coi loro abitanti regioni intere. Bruciano coi monti i boschi, bruciano l'Ato, il Tauro di Cilicia, il Tmolo, l'Eta e l'Ida, un tempo zampillante di sorgenti e ora inaridito, l'Elicona delle Muse e l'Emo, prima che vi regnasse Eagro; bruciano l'Etna, fuoco su fuoco, in un rogo immenso, i due gioghi del Parnaso, l'Èrice, il Cinto, l'Otri e il Ròdope, finalmente sgombro di neve, il Dìndimo, il Mimante, il Mìcale e il Citerone, destinato ai riti sacri. Nemmeno i suoi ghiacci salvano la Scizia: il Caucaso brucia con l'Ossa, il Pindo e l'Olimpo che entrambi li sovrasta, le Alpi che si confondono col cielo e l'Appennino con le nubi. E così, dovunque guardi, Fetonte vede la terra in fiamme e più non resiste a quell'immenso calore: respira folate infuocate, che sembrano uscire dalla gola d'una fornace ed avverte il suo cocchio farsi incandescente. Non riesce più a sopportare le ceneri e le faville che si sprigionano, un fumo afoso tutto l'avvolge e, immerso in quella caligine di pece, non sa più dove sia o dove vada, trascinato com'è in balia dei cavalli alati. Fu allora, così dicono, che il popolo degli Etiopi divenne, per l'afflusso del sangue a fior di pelle, nero di colore; fu allora che la Libia, privata d'ogni umore, divenne un deserto; fu allora che le ninfe, i capelli al vento, rimpiansero fonti e laghi: invano la Beozia cerca la fonte Dirce, Argo Amìmone, Èfire la vena di Pirene. Neppure i fiumi che hanno avuto in sorte sponde distanti fra loro si salvano: il Tànai fuma persino al centro della sua corrente, e così il vecchio Peneo, il Caìco di Teutrante, il rapido Ismeno, l'Erimanto di re Fegeo e lo Xanto, destinato a nuove fiamme, il biondo Licorma, il Meandro che gioca a rendere tortuose le sue acque, il Mela di Migdonia e l'Eurota di Tènaro. Arde anche l'Eufrate di Babilonia, arde l'Oronte, il vorticoso Termodonte, il Gange, il Fasi e l'Istro. Ribolle l'Alfeo e dello Sperchìo bruciano le rive; l'oro che il Tago trascina col suo flusso scorre fuso dal fuoco, mentre gli uccelli acquatici, che riempiono di canti le sponde di Meonia, avvampano in mezzo al Caìstro. Fugge atterrito il Nilo ai margini del mondo e nasconde il capo dove ancora è celato; in polvere si spengono le sue sette foci: sette alvei senza una goccia d'acqua. Uguale sorte in Tracia prosciuga l'Ebro e lo Strìmone, e in Occidente i fiumi Po, Rodano, Reno e il Tevere a cui fu promesso il dominio del mondo. In ogni luogo il suolo si spacca e attraverso gli squarci la luce penetra nel Tartaro, atterrendo con Proserpina il re degli Inferi. Il mare si contrae e dove c'era l'acqua, ora vi sono distese d'arida sabbia; e i monti, dissimulati nei fondali, ora affiorano moltiplicando l'arcipelago delle Cicladi. Negli abissi si rifugiano i pesci, e i delfini, che per natura s'inarcano nell'aria, non s'azzardano più a balzare sull'acqua; corpi esanimi di foche galleggiano riversi a livello del mare; e si dice che persino Dòride e Nèreo con le figlie cercassero rifugio nel tepore delle grotte; tre volte Nettuno, torvo in volto, cercò di sollevare dall'acqua le braccia e tre volte non resse al fuoco dell'aria. Alla fine la madre Terra, circondata com'era dal mare, fra quelle onde e le fonti consunte, che dov'era luogo cercavano di rintanarsi nelle sue viscere oscure, riarsa sollevò a fatica il volto sino al collo, si portò una mano alla fronte e con un gran sussulto, che fece tremare ogni cosa, si assestò un poco più in basso di dove è solita stare, e con voce roca disse: «Se questo è deciso e l'ho meritato, o sommo fra gli dei, perché ritardano i tuoi fulmini? Se di fuoco devo perire, del fuoco tuo possa perire: più lieve sarà la mia sventura. Posso appena aprire la bocca per articolare verbo» (la soffocava il fumo). «Guarda, guarda i miei capelli in fiamme e quanta cenere negli occhi, quanta sul mio viso! Questo il mio premio? così ricompensi la fertilità e i miei servigi, dopo che sopporto le ferite infertemi da aratri e rastrelli e per tutto l'anno m'affatico? dopo che al bestiame procuro fronde, al genere umano alimenti e frutti teneri, e a voi persino l'incenso? Ma ammesso ch'io meriti questa fine, che colpa hanno le acque, che colpa tuo fratello? perché il mare, che gli fu affidato in sorte, sempre più si contrae e sempre più dal cielo si discosta? E se non ti commuovi per tuo fratello o per me, abbi almeno pietà del cielo che è tuo! Guàrdati intorno: fumano entrambi i poli; e se il fuoco li intaccherà, le vostre regge crolleranno. Atlante stesso s'affatica al limite per sostenere sulle spalle l'asse celeste ormai incandescente. Se scompare il mare, la terra e la reggia del cielo, nel caos antico ci annulleremo. Salvalo dalle fiamme quel poco che ancora resta: abbi a cuore l'universo!». Questo disse la Terra; né più avrebbe potuto resistere al calore o dire altro: su sé stessa si ripiegò, negli antri più vicini al regno delle ombre. Allora il padre onnipotente, chiamati a testimoni gli dei (e per primo chi ha concesso il carro) che se non fosse intervenuto, tutto si sarebbe fatalmente estinto, salì in cima alla rocca da cui suole stendere le nubi sulla crosta terrestre, da cui fa rimbombare i tuoni e scaglia in un guizzo le folgori. Ma in quel momento non gli servirono nubi per coprire la terra, né pioggia che cadesse dal cielo: tuonò, e librato un fulmine alto sulla destra, lo lanciò contro l'auriga, sbalzandolo dal cocchio e dalla vita, e con la furia del fuoco il fuoco represse. Atterriti s'impennano i cavalli e con un balzo sciolgono il collo dal giogo, spezzano i finimenti e fuggono. Qui cadono i morsi, più in là l'asse divelto del timone, da questa parte i raggi delle ruote fracassate e ciò che resta del cocchio in frantumi è disseminato in ogni luogo. Fetonte, con le fiamme che gli divorano i capelli di fuoco, precipita vorticosamente su sé stesso e lascia nell'aria una lunga scia, come a volte una stella che sembra cadere, anche se in verità non cade, dal cielo sereno. Lontano dalla patria, in un'altra parte del mondo, l'accoglie l'immenso Erìdano, che gli deterge il viso fumante. Le Naiadi d'Occidente seppelliscono il corpo incenerito dal fulmine a tre punte e sulla lapide incidono questi versi: «Qui giace Fetonte, auriga del cocchio di suo padre; e se non seppe guidarlo, pure egli cadde in una grande impresa». Affranto, il padre aveva intanto nascosto il volto contratto dal dolore e, se dobbiamo crederlo, dicono che tutto un giorno trascorse senza sole: luce offrivano i bagliori degli incendi e almeno a questo servì quella catastrofe. Clìmene invece, dopo aver maledetto tutto ciò che è possibile in così grande disgrazia, impazzita di dolore, straziandosi il petto, vagò per tutto l'universo cercando all'inizio il corpo senza vita, poi le ossa, e solo queste ritrovò, sepolte in un lido straniero: si accasciò sul tumulo e inondò di lacrime il nome che lesse sul marmo, scaldandolo col seno ignudo. Non minore è il lutto delle Eliadi: pur se vano come tributo, offrono lacrime alla morte, battendosi il petto con le palme, e prosternate sul sepolcro, notte e giorno invocano Fetonte, che d'udire quei tristi lamenti non è certo in grado. Quattro volte, riunendo le corna, piena era tornata la luna e quelle, per rito ormai sancito dal tempo, s'abbandonavano al pianto, quando fra loro Faetusa, la sorella maggiore, volendo prostrarsi a terra, lamentò che le si fossero irrigiditi i piedi; premurosa Lampezie cercò di avvicinarla, ma una radice imprevista la trattenne; un'altra sul punto di strapparsi i capelli con le mani divelse delle foglie. Questa si duole che un ceppo le serri le gambe, quella che le braccia si protendano in rami. E mentre allibiscono, una corteccia avvolge gli inguini e a poco a poco fascia il ventre, il petto, le spalle e le mani: solo la bocca che invoca la madre resta viva in loro. E che può fare la madre, se non correre qua e là, dove la trascina l'angoscia, a dispensare baci finché può? Non basta: tenta di svellere dai tronchi quei corpi, ma con le mani spezza i rami appena spuntati e da questi stillano gocce di sangue, come da una ferita. «Férmati, madre, ti prego,» gridano quelle per la sofferenza, «férmati, ti prego! Nell'albero si strazia il nostro corpo. Addio, è la fine...», e la corteccia soffoca le ultime parole. Ne colano lacrime, ambra che stilla dai nuovi rami e che, rassodata al sole, dal fiume limpido è raccolta per essere offerta come ornamento alle donne in fiore del Lazio. A questo prodigio assistette il figlio di Stènelo, Cicno, che legato a te, Fetonte, per sangue materno, ancor più lo era per vincoli d'affetto. Abbandonato il potere (governava il popolo dei Liguri e le loro grandi città), stava riempiendo di lamenti le correnti dell'Erìdano, le sue verdi sponde e le sue selve infittite da quelle sorelle, quando la voce gli si affievolì, sotto candide piume scomparvero i capelli, sporgendo dal petto si protese il collo, una membrana congiunse le dita rossicce, due ali vestirono i fianchi e un becco smussato sostituì la sua bocca. E Cicno diventa un insolito uccello che, memore dei fulmini scagliati con crudeltà da Giove, diffida di lui e del cielo: cerca gli stagni, i laghi aperti e, detestando il fuoco, sceglie come dimora i fiumi, che sono l'opposto delle fiamme. Frattanto il padre di Fetonte, desolato e privo del suo stesso splendore, come avviene quando lui si eclissa, ha in odio la luce, sé stesso e il chiarore del giorno, si abbandona al dolore e a questo aggiunge l'ira, negando l'ufficio suo al mondo. «Fin dal tempo dei tempi», dice, «il mio destino è stato senza requie. Basta. Sono stanco di affannarmi senza fine, senza nessuna ricompensa. Che sia qualcun altro a guidare il carro che porta la luce! E se non v'è nessuno o fra gli dei chi ammetta di saperlo fare, lo guidi lui: così almeno, mentre combatte con le mie redini, lascerà stare i fulmini che i genitori privano dei figli! Allora, provata la furia dei cavalli dai piedi di fuoco, capirà che non meritava la morte chi non seppe guidarli.» Così dice il Sole, e tutti gli dei gli si stringono intorno, pregandolo con voce supplichevole di non immergere il mondo nelle tenebre. Anche Giove si scusa d'aver scagliato il fulmine e come un despota alle preghiere aggiunge le minacce. Febo raduna i cavalli infuriati e ancora folli di terrore, e pieno di dolore li sprona inferocito a colpi di sferza e inferocito li accusa d'aver causato la morte del figlio. Allora il padre onnipotente fece il giro delle grandi mura del cielo, controllando che, minata dalla violenza del fuoco, nessuna parte rischiasse di crollare. Visto che erano salde e robuste come si doveva, scrutò la terra e le fatiche degli uomini. Ma ciò che più gli sta a cuore è l'Arcadia, la sua Arcadia: le rese le fonti e i fiumi ancora incerti se scorrere, ridonò l'erba alla terra, le fronde agli alberi e impose alle foreste devastate di rinverdire. E mentre va e viene di continuo, è colpito da una vergine di Nonacre e la passione che concepisce gli divampa in petto. Ma lei non ambiva cardare e render soffice la lana o acconciarsi in mille modi i capelli: quando una fibbia la veste o una benda bianca aveva raccolto i suoi capelli al vento, quando in mano stringeva una lancia leggera, oppure un arco, un soldato di Febe, questo era, e più cara a Trivia nessuna aveva sfiorato il Mènalo. Ma non c'è dote che duri a lungo. Alto era il sole, ormai giunto oltre la metà del suo cammino, quando lei entrò in un bosco inviolato dal tempo dei tempi: qui dalla sua spalla depone la faretra, allenta la tensione dell'arco, e si sdraia sul tappeto erboso del suolo, appoggiando il capo reclinato sulla sua faretra dipinta. Come Giove la vide così stanca e indifesa, si disse: «Di questa tresca certo mia moglie non saprà nulla, e anche se venisse a saperla, vale, vale bene una diatriba!». Subito assume l'aspetto e il portamento di Diana, dicendo: «O vergine, che compagna mi sei fra le compagne, su quali monti hai cacciato?». Dal prato balza la fanciulla e: «Benvenuta, dea,» risponde, «che, se anche mi sente, per me sei più grande di Giove!». Sorride lui, divertito nel sentirsi preferito a sé stesso, e la bacia con impeto sulla bocca, con troppo impeto, come non s'addice a una vergine. E mentre lei si accinge a raccontare in quale bosco ha cacciato, la cinge in un amplesso e nel violarla si rivela. Lei si ribella, sì, per quanto almeno può fare una donna (o se tu l'avessi vista, Saturnia, saresti più comprensiva!); si ribella, sì, ma quale fanciulla o chi altro mai potrebbe vincere il sommo Giove? In cielo ritorna vincitore Giove, mentre lei ora odia quei boschi e quegli alberi che sanno; e fuggendo di lì quasi si scorda di raccogliere la faretra con le sue frecce e l'arco appeso a un ramo. Ed ecco che mentre, fiera della selvaggina uccisa, s'inoltra col suo séguito fra i gioghi del Mènalo, la dea di Ditte la scorge e, riconoscendola, la chiama. Quella al suo nome fugge, temendo sul momento che in lei si nasconda Giove; ma poi, quando vede che al suo fianco compaiono le ninfe, si rende conto che non c'è inganno e si unisce a loro. Ahimè, com'è difficile non tradire la colpa con lo sguardo! Leva appena gli occhi da terra; non si pone come un tempo al fianco della dea; non è più la prima davanti a tutte; ma tace e arrossendo rivela l'infamia subita. Se non fosse stata vergine, da mille segni avrebbe potuto intuirne Diana la colpa; l'intuirono le ninfe, pare. Per il nono mese rinasceva in cielo la falce della luna, quando a caccia la dea, spossata dalla vampa del fratello, trovò un bosco freschissimo, dal quale mormorando, fra granelli di sabbia impazziti, zampillava a valle un ruscello. Il posto le piacque, e con la punta del piede saggiò l'acqua; anche questa le piacque e allora disse: «Qui non ci vede nessuno: immergiamoci nude in queste limpidi correnti». La fanciulla di Parrasia arrossì. Tutte si tolgono le vesti: lei sola prende tempo, ma mentre indugia viene spogliata e, quando è nuda, il suo corpo mette in luce la colpa. Smarrita lei si affanna a nascondere il ventre con le mani: «Via di qui!» le grida Cinzia; «non profanare questa fonte sacra!» e le impone di abbandonare il suo séguito. Da tempo la moglie del gran Tonante era al corrente della cosa, ma aveva rimandato di trarne vendetta alla giusta occasione. Ormai non c'era più motivo d'attendere: alla rivale (altro colpo inferto a Giunone) è già nato un bambino: Arcade. Appena a ciò volse, puntando gli occhi, il cuore esasperato: «Mancava solo questo, svergognata,» si sfogò, «che tu restassi incinta, che partorendo rendessi nota a tutti l'offesa e testimoniassi l'indegna azione del mio Giove! Non potrai sfuggirmi: ti toglierò questa figura di cui ti compiaci, sfacciata, e per la quale piaci a mio marito!». Disse e, affrontandola, l'afferrò davanti per i capelli e la gettò bocconi a terra. Lei tendeva le braccia implorando: ma ecco che pian piano le braccia si coprono di peli neri; le mani si curvano e, crescendo in artigli adunchi, fungono da piedi; il viso, che aveva un tempo incantato Giove, si deforma in fauci mostruose. E perché non piegasse nessuno con suppliche e preghiere, le è tolto l'uso della parola: dalla sua gola rauca esce solo un ringhio di rabbia minacciosa, che incute paura. Anche se mutata in orso, conserva l'anima di un tempo e, manifestando con gemiti incessanti il suo dolore, leva al cielo, alle stelle le mani, o quello che sono, e, costretta a tacere, avverte in sé l'ingratitudine di Giove. Ah, quante volte, temendo di sostare nel recesso dei boschi, torna a vagare davanti alla casa e nei campi ch'erano suoi! Ah, quante volte, inseguita tra le rocce dal latrato dei cani, fugge atterrita, lei, la cacciatrice, per fobia dei cacciatori! Se vede una belva, spesso si nasconde scordandosi chi era, e pur essendo un'orsa, si spaventa se scorge un orso sui monti, ha terrore dei lupi, sebbene un lupo fosse suo padre. Ed ecco apparire, sul punto di compiere quindici anni, Arcade, nipote di Licàone, che nulla sapeva della madre. Mentre insegue la selvaggina, sceglie gli anfratti più adatti e circonda con maglie di rete i boschi dell'Erimanto, s'imbatte in sua madre. Quando lo vede, lei s'arresta come se lo riconoscesse; ma Arcade, all'oscuro di tutto, di fronte a quegli occhi che immobili lo fissavano senza sosta, s'impaurisce e arretra; quando poi lei accenna ad avvicinarsi, è lì per trafiggerle il petto con un dardo micidiale. Ma l'Onnipotente l'impedì: rimovendoli entrambi, rimosse il delitto, e sollevatili in aria con un turbine di vento, li pose nel cielo facendone due costellazioni contigue. Scoppiò d'ira Giunone, quando la rivale sfavillò nel firmamento, e discesa nel mare, s'accostò all'argentea Teti e al vecchio Oceano, che incutevano rispetto a tutti gli dei, e quando le chiesero ragione della visita: «Vi domandate perché io, regina degli dei,» sbottò, «dalle sedi celesti qui venga? Un'altra sta in cielo al posto mio! Che io menta, se voi, quando la notte avrà oscurato il mondo, non vedrete, a mia offesa, stelle appena assunte agli onori del cielo, nel punto più alto, là, dove l'ultimo cerchio, il più breve, circonda l'estremità dell'asse celeste. E chi vi sarà mai che si trattenga dall'offendere Giunone e tremi d'averla offesa, se premio, io sola, chi vorrei punire? Oh che gran cosa ho fatto! Che straordinaria autorità è la mia! Non la volevo più donna: è diventata una dea! Così io infliggo ai colpevoli le pene, così immenso è il potere mio! Che le ridoni l'aspetto di un tempo, cancellandole quel muso di belva, come già fece con Io, la sorella di Foroneo! E perché mai non ripudia Giunone e non la sposa, mettendola in camera mia e prendendosi Licàone come suocero? Ma voi, se avvertite l'affronto subito da chi avete allevato, respingete dai vostri gorghi azzurri le sette stelle dell'Orsa, bandite una costellazione accolta in cielo a prezzo di uno stupro, così che un'adultera non s'immerga in acque pure!». Gli dei del mare acconsentirono. E Giunone risalì nel cielo limpido sull'agile carro trainato da pavoni screziati, screziati solo di recente, da quando era morto Argo, come di recente tu, che prima eri candido, corvo loquace, ti sei visto tutt'a un tratto mutare le ali in nere. E in verità questo uccello un tempo era d'argento con penne di neve, tanto da competere con le colombe immacolate, da non sfigurare di fronte alle oche, che avrebbero salvato dando l'allarme il Campidoglio, o ai cigni che adorano i fiumi. La lingua fu la sua rovina: per colpa della lingua loquace, il suo colore, da bianco qual era, ora è il suo contrario. Più bella di Corònide di Larissa in tutta l'Emonia non v'era nessuna; e tu ne fosti innamorato, nume di Delfi, finché fu casta o almeno non sospettata. Ma l'uccello di Febo scoprì l'adulterio e, per denunciare quella colpa segreta, già filava spedito, inesorabile delatore, alla volta del suo padrone. Con un battito d'ali gli è dietro, per sapere tutto, la cornacchia chiacchierona e, sentito il perché di quella corsa: «Viaggio pericoloso è il tuo,» gli dice; « dai retta alle predizioni che ti faccio. Guarda me cos'ero e cosa sono e chiediti la ragione: scoprirai che a rovinarmi è stata la fedeltà. Tempo fa infatti Minerva rinchiuse Erictonio, fanciullo creato senza madre, dentro una cesta intessuta di vimini dell'Attica, che affidò alle tre vergini nate da Cècrope, quel mostro, con l'ordine che non cercassero di scoprirne il segreto. Da un olmo fitto, nascosta tra il fremito delle foglie, io spiavo cosa stavano facendo: due, Pàndroso ed Erse, mantengono fede all'impegno, ma la terza, Aglàuro, accusa le sorelle d'essere troppo paurose e con le mani scioglie i nodi: dentro vi scorgono il bambino e disteso accanto un serpente. Riferisco l'accaduto alla dea, e cosa ne ottengo in compenso? d'essere esclusa dalle grazie di Minerva e posposta all'uccello della notte! Di monito il mio castigo dovrebbe servire agli uccelli, perché non cerchino guai sparlando. Ma, dico, m'aveva cercato lei o no, senza che io le chiedessi niente, proprio niente? Puoi domandarlo a Pallade, a lei stessa: anche se è in collera, non potrà certo per la collera negarlo. Nella terra di Focide mi generò l'illustre Coroneo (son cose fin troppo note): una principessa, questo ero, e richiesta (non ridere di me) da ricchi pretendenti. La bellezza fu la mia rovina. Mentre a passi lenti vagavo, come al solito, sulla lingua di sabbia lungo la riva, il dio del mare mi vide e s'infiammò, e dopo che a pregarmi con parole di miele ebbe sprecato senza successo il suo tempo, pronto a farmi violenza m'inseguì. Io fuggo, m'allontano dalla riva compatta e arranco invano dove affondo nella sabbia. Invoco allora dei e uomini, ma la mia voce non giunge ad alcun mortale: solo una vergine per una vergine si commosse dandomi aiuto. Al cielo tendevo le braccia: e queste si facevano man mano nere di penne leggere; tentavo di strapparmi la veste dalle spalle: ma quella un manto di piume ormai era, che affondava radici nella pelle; cercavo di battermi con le mani il petto ignudo: ma ormai non avevo più mani, non avevo un petto nudo; correvo, e la sabbia non tratteneva più i miei piedi, come prima, ma mi libravo raso terra. Poi alta mi levo nel cielo e illibata, come compagna, vengo assegnata a Minerva. Ma cosa conta ormai questo, se mutata in uccello per un crimine orrendo, Nictìmene mi succede in questo onore? Non hai mai sentito dire (la cosa è risaputa in ogni luogo di Lesbo) che Nictìmene ha profanato il letto di suo padre? Anche lei ora è un uccello, ma consapevole della sua colpa, fugge sguardi e luce, celandosi fra le tenebre per la vergogna, e in tutto il cielo da tutti è scacciata». A tali chiacchiere: «Che un accidente ti prenda, te e le tue prediche!» sbottò il corvo. «Di presagi campati in aria me ne rido»; e proseguì nel cammino per riferire al suo padrone di aver visto Corònide stesa in braccio a un giovane dell'Emonia. Appreso il tradimento, al dio che l'ama cadde l'alloro dal capo, sbiancando in volto dalle mani gli sfuggì la cetra e col cuore in fiamme che traboccava d'ira afferrò al fianco le sue armi e, tendendo l'arco al limite estremo, con una freccia infallibile le trafisse il petto, quel petto che un'infinità di volte aveva stretto al suo. Colpita lei emise un gemito, strappò dal corpo il ferro, inondando di sangue purpureo le sue candide membra, e disse: «Prima di scontare la mia pena, Febo, potevo almeno partorire. Ora due in una moriremo!». Fu tutto, e col sangue si dileguò la vita: un gelo mortale invase quel corpo inanimato. Troppo tardi, ahimè, di quel crudele castigo si pente l'amante e si odia per avere ascoltato, per essersi così infuriato; odia l'uccello che l'ha costretto a scoprire il tradimento, causando il suo dolore, e odia l'arco, la sua mano e con la mano le frecce, quelle armi scagliate all'impazzata. Cerca di rianimarne il corpo esanime e di vincere la morte con rimedi estremi, ma all'arte medica ricorre invano. Dopo questi tentativi infruttuosi, quando vede che s'appronta il rogo e che quel corpo sta per essere cremato dalle fiamme, allora, sì, cavati dal fondo del cuore, prorompe in lamenti (non è concesso che il volto degli dei si bagni di lacrime), come la giovenca che davanti agli occhi vede il martello, librato all'altezza dell'orecchio destro, ridurre in pezzi con un colpo netto la tempia cava al vitello di latte. Ma dopo averle cosparso il seno di profumi per lei superflui, dopo averla abbracciata e averle reso gli onori per l'ingiustizia, Febo non si rassegnò che anche il suo seme si riducesse in cenere, e allora dal grembo della madre strappò il figlio alle fiamme e lo portò nell'antro di Chirone, l'ibrido centauro. HTTP://COPIONI.CORRIERESPTTACOLO.IT Quanto al corvo, che si attendeva un premio per la sua franchezza, lo escluse dal novero degli uccelli bianchi. Raggiante era il centauro di quel suo pupillo di stirpe divina e gioiva dell'onore legato al suo compito; quand'ecco che, con le spalle ammantate di capelli rossi, giunge la figlia di Chirone, che sulla riva di un fiume in piena gli aveva partorito la ninfa Cariclo, e per questo chiamata Ocìroe: non contenta d'avere appreso le arti del padre, vaticinava i segreti del destino. Così, quando vide il fanciullo, ispirata dal furore profetico e infiammata dal dio che aveva chiuso in petto: «Cresci, fanciullo, che all'universo intero darai salute!» disse. «Non poche volte i corpi dei mortali ti dovranno la vita; a te sarà permesso rendere l'anima a chi l'ha persa: ma dopo averlo osato una volta, destando l'ira degli dei, la folgore del tuo avo t'impedirà di farlo ancora, e da dio quale sei diverrai corpo esangue, per tornare ad essere da quel corpo dio, mutando due volte il tuo destino. E anche tu, padre mio, che ora, creato in virtù della nascita per sopravvivere nei secoli dei secoli, sei immortale, ambirai di poter morire quando, penetrato nel tuo corpo da una ferita, ti strazierà il veleno di un serpente maligno, e allora gli dei, da eterno che sei, ti renderanno alla mercé della morte, lasciando che le Parche ti recidano la vita». Altro restava da predire: sospirò dal profondo del cuore, lacrime le spuntarono a rigarle il volto e così disse: «Il destino mi previene: precludendomi l'uso della voce, mi vieta di parlare ancora. Non valeva tanto un'arte che attira su di me l'ira di un nume: meglio, sì, se avessi ignorato il futuro. Già sento che l'aspetto umano mi viene sottratto, già godo a cibarmi d'erba, già di correre lungo i campi provo l'impulso: in cavalla mi trasformo, in un corpo familiare. Ma perché tutta intera? Solo a metà lo è mio padre». Mentre così parlava, l'ultima parte del suo lamento divenne poco comprensibile e le parole confuse. Poi non furono più parole, ma nemmeno il verso di un cavallo, un'imitazione piuttosto; e in breve tempo emise nitriti veri, agitando nell'erba le sue braccia. Si fusero allora le dita e con una fascia di corno uno zoccolo leggero saldò le cinque unghie; crebbero in lunghezza faccia e collo, gran parte del fluente abito divenne coda, e i capelli, che le cadevano sciolti sul collo, si partirono da un lato in criniera; insieme voce e aspetto mutarono; e quel prodigio acquistò persino un nuovo nome. Piangeva l'eroe, figlio di Fìlira, e invano, o dio di Delfo, invocava il tuo aiuto. Invano, perché non avresti potuto infrangere il volere del grande Giove e anche se avessi potuto, tu allora non c'eri: per l'Elide e i campi di Messenia vagavi. Era il tempo in cui andavi coperto di una pelle da pastore e reggevi nella sinistra un bastone strappato al bosco, nell'altra mano una zampogna a sette canne digradanti. E mentre, confortato dalla tua zampogna, t'assillava amore, si racconta che le tue giovenche incustodite passassero nella campagna di Pilo, dove il figlio di Maia le vide e con l'abilità del ladro le nascose in una selva. Del furto nessuno s'era accorto, se non un vecchio che sul posto tutti conoscevano e che i vicini chiamavano Batto: come guardiano sorvegliava i boschi, i verdi pascoli e le mandrie delle cavalle di razza del ricco Nèleo. Diffidando di lui, il dio lo trasse con gentilezza in disparte e: «Chiunque tu sia, straniero, se capita che qualcuno cerchi questo armento, non l'hai visto, e perché di ciò tu non rimanga senza mercede, prenditi in premio una vacca bella lustra». E gliela diede. Accettandola, quello gli rispose: «Stai tranquillo, amico: del tuo furto parlerà prima una pietra, questa»; e ne indicò una. Il figlio di Giove finse di andar via, ma di lì a poco tornò e con diverso aspetto e voce: «Ehi, contadino,» gli disse, «se qui intorno hai visto passare delle giovenche, dammi aiuto e squarcia il silenzio su questo furto. Avrai in un colpo solo una femmina col suo toro». Il vecchio, visto che il premio raddoppiava: «Saranno sotto a quei monti», rispose; e sotto a quei monti erano. Rise il nipote di Atlante: «Perfido, tradisci me a me stesso? me a me stesso tradisci?», e mutò quello spergiuro in una dura pietra, che ancor oggi è chiamata 'la spia': da allora, senza sua colpa, l'antica infamia bolla quella pietra. Di lì ad ali tese s'era alzato il dio con la verga magica e in volo dall'alto guardava la campagna di Munichia, la terra cara a Minerva e le piantagioni del Liceo. Per caso in quel giorno, com'è costume, un corteo di fanciulle portava sul capo, in canestri inghirlandati, i sacri oggetti del culto alla rocca di Pallade parata a festa. Il dio alato le scorge sulla via del ritorno e, invece di proseguire spedito, si mette a volare in cerchio. Come il nibbio, fulmineo uccello, quando avvista vittime, finché c'è folla di sacerdoti intorno all'altare, timoroso volteggia in cielo, senza avere la forza d'allontanarsi, e battendo le ali vola avido intorno al suo miraggio; così il dio di Cillene piega rapido il suo volo sulla rocca dell'Attica e solca in tondo sempre lo stesso spazio. Quanto più luminoso di tutte le stelle brilla Lucifero e più di Lucifero la luna d'oro, di tanto più bella di tutte le altre vergini incedeva Erse, gemma fra le compagne di tutto il corteo. Abbagliato da tanta bellezza Mercurio, sospeso nell'aria, prese fuoco come il piombo scagliato da una fionda delle Baleari, che vola e nel suo volo si fa incandescente, trovando sotto le nuvole quel fuoco che prima non aveva. E cambia rotta, lascia il cielo per calare sulla terra senza nemmeno travestirsi, tanta fiducia ripone in sé. Giustificata certo, ma qualche aiuto non guasta: si liscia i capelli, sistema il mantello in modo che cada come si deve e mostri per intero il bordo col suo fregio d'oro, bada che la verga, con cui infonde e scaccia il sonno, gli luccichi in mano e che i sandali risplendano sui piedi tersi. Nella parte più interna della casa c'erano tre camere decorate d'avorio e tartaruga: a destra la tua, Pàndroso, a sinistra quella di Aglàuro e in mezzo la stanza assegnata ad Erse. La prima a notare l'arrivo di Mercurio fu dalla sua camera a sinistra Aglàuro, che ebbe l'ardire di chiedergli il nome e il motivo della visita. Le rispose: «Nipote di Atlante e di Plèione io sono, che per l'etere porto i messaggi del padre, e mio padre è Giove in persona. Non adduco pretesti: m'auguro solo che devota tu sia a tua sorella e che ti piaccia esser chiamata zia della mia prole. Per Erse sono venuto: asseconda, ti prego, chi è innamorato». Con gli stessi occhi, con cui non molto prima aveva di nascosto frugato nei segreti della bionda Minerva, lo scrutò Aglàuro, e per i suoi servigi gli chiese in compenso una gran quantità d'oro; ma intanto lo costrinse ad uscire di casa. Squadrandola con occhio torvo, la dea della guerra trasse allora dal profondo del cuore un sospiro così violento da scuoterle insieme il petto e l'egida che quel forte petto difendeva. E le tornò a mente che con mano empia aveva violato lei il suo segreto, quando, malgrado il divieto, sorprese il fanciullo generato senza madre dal dio di Lemno; e che insieme alla riconoscenza di Mercurio e della sorella, con l'oro per avidità preteso ricchezze avrebbe ottenuto. Subito si reca alla dimora di Invidia, funerea di peste e squallore. È una casa nascosta in fondo a una valle, una casa priva di sole, senza un alito di vento, tetra, tutta intorpidita dal gelo, dove sempre manca il fuoco e sempre dilagano le nebbie. Quando vi giunge, la temibile vergine della guerra si ferma sulla soglia, non essendole permesso di varcarla, e bussa alla porta con la punta della lancia. Ai colpi si spalancano i battenti: all'interno intravede Invidia, che mangia carne di vipera per alimentare i suoi vizi, e a quella vista distoglie gli occhi. L'altra invece si alza pigramente da terra, lasciandosi alle spalle brandelli di serpenti mezzo rosicchiati, e avanza con passo incerto: quando scorge la dea lucente d'armi in tutto il suo fulgore, manda un gemito, contraendo il volto nel conato dei sospiri. Il pallore le segna il viso, la magrezza tutto il corpo; mai dritto lo sguardo, ha denti lividi e guasti, il cuore verde di bile, la lingua tinta di veleno. Senza un'ombra di sorriso, se non mosso dalla sventura altrui, non gode del sonno, agitata com'è dall'assillo dei suoi crucci; con astio apprende i successi degli uomini e quando li apprende si strugge; strazia ed è straziata al tempo stesso: questo il suo tormento. Pur detestandola, Minerva, la dea di Tritone, si rivolge a lei con queste brevi parole: «Infetta col tuo veleno una figlia di Cècrope, quella. È scritto. Aglàuro è il suo nome». E senza una parola di più, facendo leva con la lancia, si stacca da terra e vola via. Mentre con occhio bieco guarda Minerva che fugge, Invidia, amareggiata di doverla accontentare, brontola un attimo fra sé, poi prende il suo bastone, tutto avvolto da una fascia di spine. Nascosta da una nuvola nera, ovunque passa, calpesta i fiori dei campi, brucia l'erba, strappa la cima delle piante, e col suo fiato appesta popoli, case e città. Giunge alla fine in vista della rocca consacrata a Pallade, fiorente di ingegni, di benessere e di pace festosa: a stento trattiene le lacrime, non scorgendo nulla che strappasse il pianto. Entra comunque nella stanza della figlia di Cècrope e l'ordine esegue: con la sua mano livida le tocca il petto e le colma il cuore di rovi e spine, le inietta un virus tossico e lungo le ossa, dentro i polmoni, nero come la pece, le sparge e diffonde il suo veleno. E perché i motivi del male non andassero dispersi, davanti agli occhi le pone l'immagine della sorella felicemente sposata a quel nume affascinante, portando il tutto alle stelle. Irritata, la figlia di Cècrope è morsa da un dolore occulto e in ansia geme la notte, in ansia il giorno; tormentata da quel lento stillicidio si strugge, come ghiaccio sfiorato appena dal sole; la sorte felice di Erse la brucia a poco a poco, come se metti un fuoco sotto a sterpi freschi, che non divampano, ma si consumano al lento calore. Per non vedere quella gioia a volte vorrebbe morire, a volte denunciarla al padre intransigente come illecita; si siede infine sulla soglia per impedire al dio, quando fosse tornato, di varcarla; e a lui che la blandisce con le sue preghiere e le parole più gentili: «Smettila,» gli grida, «io non mi muoverò di qui se prima non t'avrò cacciato». «Starò al tuo patto», le risponde in un lampo il dio di Cillene, e con la verga spalanca la porta cesellata. Lei fa per alzarsi, ma le membra, che pieghiamo all'atto di sederci, appesantite da uno strano languore, rifiutano di muoversi. Si sforza in ogni modo di drizzarsi in piedi, ma le ginocchia sembrano di marmo, un gelo si propaga sino alle dita, esangui impallidiscono le vene; e come il cancro, quel male incurabile che si diffonde ovunque, aggredisce dopo quelle intaccate le cellule sane, così quel gelo mortale le penetra a poco a poco nel petto e del respiro le occlude le vie che donano la vita. Lei non tenta nemmeno di parlare, ma se anche tentasse, non avrebbe sfogo la voce: di sasso ormai era il collo, impietrito il volto, una statua immobile, esangue. E bianca non è la pietra: la mente sua l'ha imputridita. Dopo aver così punito le parole di quella mente scellerata, il nipote di Atlante lascia le terre che hanno nome da Pallade e con un battito d'ali s'addentra nel cielo. Lo chiama qui suo padre, senza rivelargli che lo spinge amore, e: «Fedele esecutore dei miei ordini,» gli dice, «figlio mio, lascia ogni indugio, scendi giù con la velocità che ti distingue e in quella terra, che i nativi chiamano Sidone, dalla quale in alto a sinistra si vede tua madre, in quella vai; vedrai un armento del re che pascola lontano fra l'erba dei monti: spingilo verso la spiaggia». Questo dice, e già i giovenchi cacciati giù dal monte si dirigono, come ordinato, alla spiaggia, dove la figlia di quel re potente, accompagnata dalle fanciulle di Tiro, è solita giocare. Maestà e amore non vanno molto d'accordo, non possono convivere: lasciato lo scettro solenne, il padre e signore degli dei, quello che ha la destra armata di fulmini a tre punte, lui che con un cenno fa tremare il mondo, assume l'aspetto di un toro e mescolato alle giovenche muggisce, aggirandosi aitante sull'erba tenera. Il suo colore è come quello della neve non calcata da passo pesante o sciolta dalle piogge dell'Austro; gonfio di muscoli è il suo collo, dalle spalle pende la giogaia; piccole le corna, ma tali che potresti ritenerle fatte a mano, e più trasparenti d'una gemma pura. Niente di minaccioso in volto, niente di spietato nello sguardo: un'aria mansueta. La figlia di Agenore lo guarda meravigliata, bello com'è e senza intenti bellicosi. Prima però, malgrado le appaia così mite, esita a toccarlo; ma poi gli si accosta e a quel candido muso porge dei fiori. Gode l'innamorato e, in attesa del piacere sognato, le bacia le mani: a stento ormai, a stento rimanda il resto; intanto si sfrena gioioso saltando sull'erba verde o stendendo il fianco color di neve sulla rena bionda; e allontanata a poco a poco da lei la paura, le offre il petto perché l'accarezzi con la sua mano ingenua, o le corna perché le inghirlandi ancora di fiori. E la figlia del re s'adagia persino sul suo dorso, senza sapere su chi si siede. Allora il dio dalla terra asciutta della riva, senza parere, comincia a imprimere le sue mentite orme nelle prime onde, poi procede oltre e in mezzo alle acque del mare si porta via la sua preda. Lei terrorizzata si volge a guardare la riva ormai lontana: la destra stringe un corno, la sinistra s'afferra alla groppa; palpitando al vento si gonfiano le vesti. LIBRO TERZO Abbandonate le false sembianze di toro, ormai Giove si era svelato e aveva raggiunto le campagne di Creta, quando il padre, all'oscuro del rapimento, ordinò a Cadmo di cercargli la figlia, con la minaccia, per crudeltà e affetto insieme, di esiliarlo se non l'avesse trovata. Percorsa invano la terra (e chi potrebbe scoprire i sotterfugi di Giove?), come un esule il figlio di Agenore evita la patria, l'ira paterna, e consulta l'oracolo di Febo supplicandolo di dirgli in che terra si debba fermare. «In una landa deserta», afferma Febo, «incontrerai una giovenca che, non obbligata al curvo aratro, mai ha subito il giogo: seguila dove ti guida e nella pianura in cui s'adagerà innalza delle mura e chiama Beozia quella regione.» Appena disceso dall'antro di Castalia, Cadmo vide passare lentamente una giovenca incustodita, che sul collo non recava segno di schiavitù. La segue e con cautela ne ripercorre le tracce, ringraziando in cuore Febo d'indicargli il cammino. Superati i guadi del Cefiso e i campi di Pànope, l'animale si fermò e levando al cielo la fronte ornata di alte corna, riempì l'aria di muggiti, poi voltandosi a guardare chi lo seguiva, si accosciò stendendo il fianco sull'erba tenera. Riconoscente Cadmo imprime baci su quel suolo straniero e saluta quei monti e campi sconosciuti. Si accinge poi a onorare Giove e ordina ai servi di recarsi ad attingere acqua per la cerimonia a una fresca sorgente. C'era una foresta antica, inviolata dalla scure, e in mezzo, tra un intrico di rami e virgulti, una spelonca, dove, sotto una bassa volta sorretta da un ammasso di pietre, sgorgava abbondante l'acqua. Qui stava rintanato un serpente generato da Marte e screziato di squame d'oro: saettano fuoco gli occhi, gonfio tutto di veleno è il suo corpo, e in mezzo a tre file di denti guizzano tre lingue. In questo bosco per sventura s'inoltrò la gente venuta da Tiro. L'anfora calata nell'acqua fece un tonfo, ed ecco che livido il serpente dal fondo dell'antro trae fuori il capo vomitando sibili orrendi. Sfuggono le anfore dalle mani, esangue si fa il corpo e un tremito improvviso pervade le membra irrigidite. Con rapide volute il mostro avvolge in spire le sue squame e con un guizzo si tende in archi immensi; ergendosi con oltre metà del suo corpo nel vuoto dell'aria, domina tutto il bosco: tanto è grande, se tu lo vedessi intero, quanto il Serpente che separa le due Orse. Poi di colpo s'avventa sui Fenici, o che s'apprestino a combattere, a fuggire o che il terrore impedisca loro entrambe le azioni: e questi li uccide coi morsi, quelli tendendo le spire, altri infine infettandoli col miasma mortale del suo veleno. Già il sole altissimo aveva ridotto le ombre a un filo: stupito del ritardo dei compagni, il figlio di Agenore allora si mise a cercarli. Addosso portava la pelle strappata a un leone, per armi un'asta smagliante di ferro, un dardo e, più efficace di qualsiasi arma, il suo coraggio. Come penetrò nel bosco e vide i cadaveri e su questi lo smisurato avversario che vittorioso leccava le macabre ferite con la lingua lorda di sangue: «O vendicherò la vostra morte, fedelissimi miei,» esclamò, «o vi sarò compagno». Disse, e con la destra sollevò un macigno e grande quant'era con gran furia lo scagliò. Quell'urto avrebbe raso al suolo anche le mura più massicce con le sue torri svettanti: incolume rimase il serpente; le squame compatte della sua pelle nera, che lo proteggevano come una corazza, respinsero quel colpo spaventoso. Ma la sua corazza non valse contro il dardo, che si conficcò in mezzo alla spina dorsale, dove questa flettendosi s'inarca, e penetrò con tutto il ferro nelle viscere. Pazzo di dolore il serpente torse il capo verso il dorso e scorta la ferita, addentò l'asta che vi era confitta e, dopo averla scossa con violenza da ogni parte, alla fine la divelse, ma il ferro gli rimase nelle ossa. Allora che al suo furore abituale si aggiunse nuovo sprone, un flusso di sangue gli gonfiò la gola, una bava biancastra gli spumeggiò intorno alle fauci letali; graffiata dalle sue squame la terra stridette e l'alito nero che gli usciva dalla bocca infernale ammorbò di fetore l'aria. Ora si raggomitola in spire che descrivono archi immensi, mentre a volte s'inerpica più dritto di un alto fusto, ora con impeto immane, come un fiume ingrossato dalle piogge, si lancia e col petto abbatte ogni ostacolo che nella selva incontra. Il figlio di Agenore arretra un po' e nelle spoglie del leone sostiene l'assalto, con la lancia protesa tiene a bada la bocca che lo incalza. Quello infuria, a vuoto avventa morsi contro il duro ferro e ficca i suoi denti nella punta. Dal suo palato gonfio di veleno ormai il sangue cominciava a stillare, schizzando di macchie il verde dell'erba. Ma era ferita leggera, perché il mostro sfuggiva ai colpi piegando indietro il collo offeso e arretrando impediva all'arma di piantarsi e di penetrare più a fondo; finché il figlio di Agenore, puntandogli l'asta contro la gola, non lo incalzò da presso e, quando alle sue spalle nel ritrarsi si parò una quercia, insieme trafisse collo e tronco. Sotto il peso del serpente l'albero s'incurvò e gemette per le sue fibre sferzate dall'estremità della coda. Mentre il vincitore osserva le spoglie smisurate del nemico, si udì una voce all'improvviso (donde venisse non si capiva, ma certo si udì): «Perché, figlio di Agenore, guardi quel serpente ucciso? Tu stesso come serpente sarai guardato». Sbigottito Cadmo smarrì a lungo la mente e il colore, coi capelli ritti, gelato dal terrore. Ed ecco che, scendendo dall'alto dei cieli, la sua protettrice, Pallade gli è accanto e gli ordina, scavata la terra, di seppellirvi i denti del drago, germi di un popolo futuro. Lui ubbidisce e, com'ebbe tracciato un solco affondando l'aratro, ligio sparge al suolo quei denti, semi di stirpe mortale. Allora, si stenta a crederlo, prende a tremare la terra, dal solco affiorano prima picche di lance, poi spuntano elmi con al vento i loro pennacchi variopinti, poi spalle, petti, braccia cariche di armi e prolifica infine una messe di guerrieri armati di scudo: così vedi sorgere le figure, quando nei giorni di festa si solleva in teatro il sipario: prima mostrano il volto, poi man mano il resto, finché continuando pian piano a crescere appaiono intere, coi piedi che poggiano sul bordo del palco. Cadmo, atterrito dal nuovo nemico, sta per prendere le armi: «Non farlo!» gli grida uno del popolo spuntato dalla terra. «Non intrometterti in guerre civili». E in quell'istante ferì dritto di spada uno dei fratelli nati dalla terra al suo fianco, ma lui stesso cadde colpito da un dardo. E chi l'uccise, anche lui, non visse più a lungo ed esalò quel respiro che aveva appena avuto in dono. E come questi il gruppo intero infuria: combattendo fra loro, per reciproche ferite cadono insieme i fratelli. Ormai quella gioventù, destinata a così breve vita, col petto insanguinato giaceva nel tepore di madre terra: cinque solo i superstiti e fra questi Echìone che, ammonito da Pallade, gettò al suolo le proprie armi, chiese e strinse un patto di pace coi fratelli. Così lo straniero di Sidone li ebbe compagni di lavoro, quando fondò la città designata dall'oracolo di Febo. Tebe ormai era sorta, ormai potevi, Cadmo, sembrare felice in quell'esilio: per suoceri avevi Marte e Venere, e a questo aggiungi la prole nata da una consorte così illustre, tanti figli, tante figlie e, pegno d'affetto, i tuoi nipoti, anche loro ormai giovinetti. Ma vero è che sempre l'uomo debba attendere il giorno estremo: nessuno mai, prima della morte e delle proprie esequie, dovrebbe asserirsi felice. Fra tanta felicità il primo dolore ti fu causato, Cadmo, da tuo nipote, da quelle strane corna cresciutegli in fronte, e da voi, cani, che vi abbeveraste al sangue del padrone. Ma, a ben guardare, in lui vedrai torto di malasorte, non malvagità: e quale malvagità è in un errore? C'era un monte intriso del sangue di diversa selvaggina, e già il mezzogiorno aveva contratto le ombre delle cose, perché il sole si trovava a ugual distanza dai suoi confini, quando il giovane Ianteo si rivolse con voce pacata ai compagni di caccia che si aggiravano per forre isolate: «Amici, armi e reti sono madide del sangue di animali; giornata fortunata questa: può bastare. Quando, trascinata dal suo cocchio d'oro, domani l'Aurora riporterà la luce, ci rimetteremo all'opera. Ora Febo è a metà del suo cammino e spacca la terra con la sua vampa. Sospendete l'opera in corso e togliete l'intrico delle reti». Gli uomini eseguono e interrompono il loro lavoro. C'era una valle coperta di pini e sottili cipressi, chiamata Gargafia, sacra a Diana dalle vesti succinte, nei cui recessi in fondo al bosco si trovava un antro incontaminato dall'uomo: la natura col suo estro l'aveva reso simile a un'opera d'arte: con pomice viva e tufo leggero aveva innalzato un arco naturale. Sulla destra in mille riflessi frusciava una fonte d'acque limpide, col taglio della sua fessura incorniciato di margini erbosi. Qui veniva, quand'era stanca di cacciare, la dea delle selve per rinfrescare il suo corpo di vergine in acque sorgive. E qui giunta, alla ninfa che le fa da scudiera consegna il giavellotto, la faretra e il suo arco allentato; si sfila la veste che un'altra prende sulle braccia; due le tolgono i sandali dai piedi, e la figlia di Ismeno, Cròcale, più esperta di queste, in un nodo le raccoglie i capelli sparsi sul collo, che lei al solito portava sciolti. Nèfele, Iale, Ranis, Psecas e Fiale attingono acqua con anfore capaci e gliela versano sul corpo. Mentre Diana si bagnava così alla sua solita fonte, ecco che il nipote di Cadmo, prima di riprendere la caccia, vagando a caso per quel bosco che non conosceva, arrivò in quel sacro recesso: qui lo condusse il destino. Appena entrò nella grotta irrorata dalla fonte, le ninfe, nude com'erano, alla vista di un uomo si percossero il petto e riempirono il bosco intero di urla incontrollate, poi corsero a disporsi intorno a Diana per coprirla con i loro corpi; ma, per la sua statura, la dea tutte le sovrastava di una testa. Quel colore purpureo che assumono le nubi se contro si riflette il sole, o che possiede l'aurora, quello apparve sul volto di Diana sorpresa senza veste. Benché attorniata dalla ressa delle sue compagne, pure si pose di traverso e volse il volto indietro. Non avendo a presa di mano le frecce, come avrebbe voluto, attinse l'acqua che aveva ai piedi e la gettò in faccia all'uomo, inzuppandogli i capelli con quel diluvio di vendetta, e a predire l'imminente sventura, aggiunse: «Ed ora racconta d'avermi vista senza veli, se sei in grado di farlo!». Senza altre minacce, sul suo capo gocciolante impose corna di cervo adulto, gli allungò il collo, gli appuntì in cima le orecchie, gli mutò le mani in piedi, le braccia in lunghe zampe, e gli ammantò il corpo di un vello a chiazze. Gli infuse in più la timidezza. Via fuggì l'eroe, figlio di Autònoe, e mentre fuggiva si stupì d'essere così veloce. Quando poi vide in uno specchio d'acqua il proprio aspetto con le corna, «Povero me!» stava per dire: nemmeno un fil di voce gli uscì. Emise un gemito: quella fu la sua voce, e lacrime gli scorsero su quel volto non suo; solo lo spirito di un tempo gli rimase. Che fare? Tornare a casa, nella reggia, o nascondersi nei boschi? Quello glielo impediva la vergogna, questo il timore. Mentre si arrovellava, lo avvistarono i cani. Melampo e Icnòbate, quel gran segugio, per primi con un latrato diedero il segnale (Icnòbate di ceppo cretese, Melampo di razza spartana). Poi di corsa, più veloci di un turbine, si avventarono gli altri: Pànfago, Dorceo e Orìbaso, tutti dell'Arcadia, e il forte Nebròfono, il truce Terone con Lèlape, Ptèrela e Agre, eccellenti l'una in velocità, l'altra nel fiuto, e il battagliero Ileo ferito di recente da un cinghiale, Nape concepita da un lupo, Pemènide già guardiana di mandrie e Arpia accompagnata dai due figli, Ladone di Sicione coi suoi fianchi scarni, e Dròmade, Cànace, Sticte, Tigri ed Alce, Lèucon e Asbolo, col pelo niveo il primo, di pece il secondo, il fortissimo Làcon e Aello insuperabile nella corsa, e Too, la veloce Licisca col fratello Ciprio, Arpalo con una stella bianca in mezzo alla fronte nera, e Melàneo e Lacne col suo mantello irsuto, Labro e Agrìodo nati da padre cretese, ma da madre di Laconia, e Ilàctore con la sua voce acuta, e altri, troppi da elencare. Tutta questa muta, avida di preda, per rupi, anfratti e rocce inaccessibili, dove la via è impervia o dove via non esiste, l'insegue. Lui fugge, per quei luoghi dove un tempo li aveva seguiti, ahimè lui fugge i suoi stessi fedeli. Vorrebbe gridare: «Sono Attèone! Non riconoscete più il vostro padrone?». Vorrebbe, ma gli manca la parola. E il cielo è pieno di latrati. Le prime ferite gliele infligge sul dorso Melanchete, poi Teròdamas; Oresìtrofo gli si avvinghia a una spalla: erano partiti in ritardo, ma tagliando per i monti avevano abbreviata la via. Mentre essi trattengono il padrone, il resto della muta si raduna e in corpo gli conficca i denti. Ormai non c'è più luogo per altre ferite. E geme, ma con voce che, se non è umana, neanche un cervo emetterebbe, e riempie quei gioghi di lugubri lamenti: in ginocchio, supplicando come chi prega, volge intorno muti sguardi quasi fossero braccia. I suoi compagni intanto con gli sproni di sempre aizzano ignari il branco infuriato e cercano Attèone con gli occhi, poi, come se fosse lontano, 'Attèone' gridano a gara (al suo nome lui gira il capo) e si lamentano che non ci sia, che per pigrizia si perda lo spettacolo offerto dalla preda. Certo lui vorrebbe non esserci, ma c'è; vorrebbe assistere senza dover subire la ferocia dei suoi cani. Ma quei cani da ogni parte l'attorniano e, affondando le zanne nel corpo, sbranano il loro padrone sotto il simulacro di un cervo: e si dice che l'ira della bellicosa Diana non fu sazia, finché per le innumerevoli ferite non finì la sua vita. I pareri sono incerti: per alcuni troppo crudele fu la dea; altri la lodano, considerandola degna della sua verginità austera; ognuno con buone ragioni. Solo la consorte di Giove non si perde in pro e contro, ma esulta per la sciagura che ha colpito il casato di Agenore, perché su tutta la stirpe riversa l'odio concepito per la rivale fenicia. E a quell'antico motivo se ne aggiunge uno nuovo: lo sdegno che in seno porti Sèmele il seme del grande Giove; e affila la lingua per la lite, ma: «Che mai ne ho ricavato,» dice, «tutte le volte che ho litigato? Colpirla, questo devo; sì, la distruggerò, quanto è vero che mi chiamo Giunone la suprema, che ho il diritto d'impugnare uno scettro sfavillante di gemme, che sono regina, moglie e sorella di Giove, sua sorella, certo. Si accontenta di un'avventura, penso, di poco conto è l'offesa al nostro amore. No, è incinta! Questo ci mancava! che col suo ventre pregno la colpa rivelasse, cercando grazie a Giove d'essere madre, ciò che a stento mi è toccato, tanto confida nella sua bellezza! Farò che l'inganni: non sono figlia di Saturno, se nelle acque dello Stige non finirà travolta proprio dal suo Giove!». Detto questo, si alza dal trono e, nascosta da una nuvola fulva, si reca a casa di Sèmele. Qui scioglie la nube, ma non prima d'avere assunto l'aspetto di una vecchia, incanutendo le tempie, solcando la pelle di rughe e trascinando con passo tremante le membra incurvate; rende senile anche la voce, ed è Bèroe di Epidauro, la nutrice di Sèmele in persona. Così attacca discorso, e quando dopo lunghe chiacchiere si arriva a nominare Giove, sospira e: «Ti auguro», dice, «che sia proprio Giove, ma io sospetto di tutto: spacciandosi per dei, troppi uomini sono entrati in letti onesti. E non basta che per te sia Giove: ti dia una prova del suo amore, se è vero amore; chiedigli che, grande e splendido come l'accoglie l'eccelsa Giunone, grande e splendido così ti stringa a sé, assumendo prima le sue insegne!». Con queste parole sobilla Giunone l'ignara figlia di Cadmo; e questa chiede a Giove un dono senza nominarlo. «Scegli,» le risponde il dio; «nulla ti rifiuterò; e perché tu più mi creda, sia testimone la divinità del fiume infernale, un dio che anche agli dei incute paura!» Lieta a proprio danno, eccitata di potere, sul punto di perdersi per compiacenza dell'amante, Sèmele: «Come ti abbraccia la figlia di Saturno, quando vi disponete ai giochi d'amore, così concediti a me!» chiede. Avrebbe voluto il dio, mentre parla, tapparle la bocca, ma ormai via nell'aria era volata la voce. Gemette: più non può far sì che non abbia lei chiesto e lui giurato. E allora tristissimo sale in alto nel cielo e con uno sguardo raduna docili le nubi e vi aggiunge uragani e in mezzo ai venti lampi, tuoni e il fulmine al quale non si sfugge. Ma, per quanto può, cerca di velare le sue forze; così non si arma del fuoco con cui aveva abbattuto Tifone, il gigante dalle cento braccia: troppa ferocia v'era in quello. C'è un altro fulmine più fioco, nel quale la mano dei Ciclopi ha infuso meno furia e fuoco, meno rabbia: gli dei lo chiamano fulmine secondo; lo prende ed entra nella casa di Agenore. Donna mortale non sopporta assalto celeste e quel dono nuziale la incenerì. Ancora in embrione il piccolo viene estratto dal ventre della madre e tenero com'è viene cucito, se devo crederlo, in una coscia del padre per compiere la gestazione. Di nascosto Ino, la zia materna, lo alleva nei primi mesi, quelli di culla, poi lo affida alle ninfe di Nisa che lo nascondono nelle loro grotte, nutrendolo di latte. Mentre in terra avvenivano per volere del fato queste cose e l'infanzia di Bacco, tornato a nascere, scorreva tranquilla, si racconta che, reso espansivo dal nèttare, per caso Giove bandisse i suoi assilli, mettendosi piacevolmente a scherzare con la sorridente Giunone. «Il piacere che provate voi donne», le disse, «è certamente maggiore di quello che provano i maschi.» Lei contesta. Decisero di sentire allora il parere di Tiresia, che per pratica conosceva l'uno e l'altro amore. Con un colpo di bastone aveva infatti interrotto in una selva verdeggiante il connubio di due grossi serpenti, e divenuto per miracolo da uomo femmina, rimase tale per sette autunni. All'ottavo rivedendoli nuovamente: «Se il colpirvi ha tanto potere di cambiare», disse, «nel suo contrario la natura di chi vi colpisce, vi batterò ancora!». E percossi un'altra volta quei serpenti, gli tornò il primitivo aspetto, la figura con cui era nato. E costui, scelto come arbitro in quella divertente contesa, conferma la tesi di Giove. Più del giusto e del dovuto al caso, a quanto si dice, s'impermalì la figlia di Saturno e gli occhi di chi le aveva dato torto condannò a eterna tenebra. Ma il padre onnipotente (giacché nessun dio può annullare ciò che un altro dio ha fatto), in cambio della vista perduta, gli diede scienza del futuro, alleviando la pena con l'onore. Così, diventato famosissimo nelle città dell'Aonia, Tiresia dava responsi inconfutabili a chi lo consultava. La prima a saggiare l'autenticità delle sue parole fu l'azzurra Lirìope, che Cefiso un giorno aveva spinto  in un'ansa della sua corrente, imprigionato fra le onde e violentato. Rimasta incinta, la bellissima ninfa partorì un bambino che sin dalla nascita suscitava amore, e lo chiamò Narciso. Interrogato se il piccolo avrebbe visto i giorni lontani di una tarda vecchiaia, l'indovino aveva risposto: «Se non conoscerà sé stesso». A lungo la predizione sembrò priva di senso, ma poi l'esito delle cose, il tipo di morte e la strana follia la confermarono. Di un anno aveva ormai superato i quindici il figlio di Cefiso e poteva sembrare tanto un fanciullo che un giovane: più di un giovane, più di una fanciulla lo desiderava, ma in quella tenera bellezza v'era una superbia così ingrata, che nessun giovane, nessuna fanciulla mai lo toccò. Mentre spaventava i cervi per spingerli dentro le reti, lo vide quella ninfa canora, che non sa tacere se parli, ma nemmeno sa parlare per prima: Eco che ripete i suoni. Allora aveva un corpo, non era voce soltanto; ma come ora, benché loquace, non diversamente usava la sua bocca, non riuscendo a rimandare di molte parole che le ultime. Questo si doveva a Giunone, perché tutte le volte che avrebbe potuto sorprendere sui monti le ninfe stese in braccio a Giove, quella astutamente la tratteneva con lunghi discorsi per dar modo alle ninfe di fuggire. Quando la dea se ne accorse: «Di questa lingua che mi ha ingannato», disse, «potrai disporre solo in parte: ridottissimo sarà l'uso che tu potrai farne». E coi fatti confermò le minacce: solo a fine di un discorso Eco duplica i suoni ripetendo le parole che ha udito. Ora, quando vide Narciso vagare in campagne fuori mano, Eco se ne infiammò e ne seguì le orme di nascosto; e quanto più lo segue, tanto più vicino alla fiamma si brucia, come lo zolfo che, spalmato in cima ad una fiaccola, in un attimo divampa se si accosta alla fiamma. Oh quante volte avrebbe voluto affrontarlo con dolci parole e rivolgergli tenere preghiere! Natura lo vieta, non le permette di tentare; ma, e questo le è permesso, sta pronta ad afferrare i suoni, per rimandargli le sue stesse parole. Per caso il fanciullo, separatosi dai suoi fedeli compagni, aveva urlato: «C'è qualcuno?» ed Eco: «Qualcuno» risponde. Stupito, lui cerca con gli occhi in tutti i luoghi, grida a gran voce: «Vieni!»; e lei chiama chi l'ha chiamata. Intorno si guarda, ma non mostrandosi nessuno: «Perché», chiede, «mi sfuggi?», e quante parole dice altrettante ne ottiene in risposta. Insiste e, ingannato dal rimbalzare della voce: «Qui riuniamoci!» esclama, ed Eco che a nessun invito mai risponderebbe più volentieri: «Uniamoci!» ripete. E decisa a far quel che dice, uscendo dal bosco, gli viene incontro per gettargli, come sogna, le braccia al collo. Lui fugge e fuggendo: «Togli queste mani, non abbracciarmi!» grida. «Possa piuttosto morire che darmi a te!». E lei nient'altro risponde che: «Darmi a te!». Respinta, si nasconde Eco nei boschi, coprendosi di foglie per la vergogna il volto, e da allora vive in antri sperduti. Ma l'amore è confitto in lei e cresce col dolore del rifiuto: un tormento incessante le estenua sino alla pietà il corpo, la magrezza le raggrinza la pelle e tutti gli umori del corpo si dissolvono nell'aria. Non restano che voce e ossa: la voce esiste ancora; le ossa, dicono, si mutarono in pietre. E da allora sta celata nei boschi, mai più è apparsa sui monti; ma dovunque puoi sentirla: è il suono, che vive in lei. Così di lei, così d'altre ninfe nate in mezzo alle onde o sui monti s'era beffato Narciso, come prima d'una folla di giovani. Finché una vittima del suo disprezzo non levò al cielo le mani: «Che possa innamorarsi anche lui e non possedere chi ama!». Così disse, e la dea di Ramnunte assentì a quella giusta preghiera. C'era una fonte limpida, dalle acque argentee e trasparenti, che mai pastori, caprette portate al pascolo sui monti o altro bestiame avevano toccato, che nessun uccello, fiera o ramo staccatosi da un albero aveva intorbidita. Intorno c'era un prato, che la linfa vicina nutriva, e un bosco che mai avrebbe permesso al sole di scaldare il luogo. Qui il ragazzo, spossato dalle fatiche della caccia e dal caldo, venne a sdraiarsi, attratto dalla bellezza del posto e dalla fonte, ma, mentre cerca di calmare la sete, un'altra sete gli nasce: rapito nel porsi a bere dall'immagine che vede riflessa, s'innamora d'una chimera: corpo crede ciò che solo è ombra. Attonito fissa sé stesso e senza riuscire a staccarne gli occhi rimane impietrito come una statua scolpita in marmo di Paro. Disteso a terra, contempla quelle due stelle che sono i suoi occhi, i capelli degni di Bacco, degni persino di Apollo, e le guance lisce, il collo d'avorio, la bellezza della bocca, il rosa soffuso sul niveo candore, e tutto quanto ammira è ciò che rende lui meraviglioso. Desidera, ignorandolo, sé stesso, amante e oggetto amato, mentre brama, si brama, e insieme accende ed arde. Quante volte lancia inutili baci alla finzione della fonte! Quante volte immerge in acqua le braccia per gettarle intorno al collo che vede e che in acqua non si afferra! Ignora ciò che vede, ma quel che vede l'infiamma e proprio l'illusione che l'inganna eccita i suoi occhi. Ingenuo, perché t'illudi d'afferrare un'immagine che fugge? Ciò che brami non esiste; ciò che ami, se ti volti, lo perdi! Quella che scorgi non è che il fantasma di una figura riflessa: nulla ha di suo; con te venne e con te rimane; con te se ne andrebbe, se ad andartene tu riuscissi. Ma né il bisogno di cibo o il bisogno di riposo riescono a staccarlo di lì: disteso sull'erba velata d'ombra, fissa con sguardo insaziabile quella forma che l'inganna e si strugge, vittima dei suoi occhi. Poi sollevandosi un poco, tende le braccia a quel bosco che lo circonda e dice: «Esiste mai amante, o selve, che abbia più crudelmente sofferto? Voi certo lo sapete, voi che a tanti offriste in soccorso un rifugio. Ricordate nella vostra lunga esistenza, quanti sono i secoli che si trascina, qualcuno che si sia ridotto così? Mi piace, lo vedo; ma ciò che vedo e che mi piace non riesco a raggiungerlo: tanto mi confonde amore. E a mio maggior dolore, non ci separa l'immensità del mare, o strade, monti, bastioni con le porte sbarrate: un velo d'acqua ci divide! E lui, sì, vorrebbe donarsi: ogni volta che accosto i miei baci allo specchio d'acqua, verso di me ogni volta si protende offrendomi la bocca. Diresti che si può toccare; un nulla, sì, si oppone al nostro amore. Chiunque tu sia, qui vieni! Perché m'illudi, fanciullo senza uguali? Dove vai quand'io ti cerco? E sì che la mia bellezza e la mia età non sono da fuggire: anche delle ninfe mi hanno amato. Con sguardo amico mi lasci sperare non so cosa; quando ti tendo le braccia, subito le tendi anche tu; quando sorrido, ricambi il sorriso; e ti ho visto persino piangere, quando io piango; con un cenno rispondi ai miei segnali e a quel che posso arguire dai movimenti della bella bocca, mi ricambi parole che non giungono alle mie orecchie. Io, sono io! l'ho capito, l'immagine mia non m'inganna più! Per me stesso brucio d'amore, accendo e subisco la fiamma! Che fare? Essere implorato o implorare? E poi cosa implorare? Ciò che desidero è in me: un tesoro che mi rende impotente. Oh potessi staccarmi dal mio corpo! Voto inaudito per gli amanti: voler distante chi amiamo! Ormai il dolore mi toglie le forze, e non mi resta da vivere più di tanto: mi spengo nel fiore degli anni. No, grave non mi è la morte, se con lei avrà fine il mio dolore; solo vorrei che vivesse più a lungo lui, che tanto ho caro. Ma, il cuore unito in un'anima sola, noi due ora moriremo». Dice, e delirando torna a contemplare quella figura, e con le sue lacrime sconvolge lo specchio d'acqua, che increspandosi ne offusca lo splendore. Vedendola svanire: «Dove fuggi?» esclama. «Fèrmati, infame, non abbandonare chi ti ama! Se non posso toccarti, mi sia permesso almeno di guardarti e nutrire così l'infelice mia passione!». In mezzo ai lamenti, dall'orlo in alto lacera la veste e con le palme bianche come il marmo si percuote il petto nudo. Ai colpi il petto si colora di un tenue rossore, come accade alla mela che, candida su una faccia, si accende di rosso sull'altra, o come all'uva che in grappoli cangianti si vela di porpora quando matura. Specchiandosi nell'acqua tornata di nuovo limpida, non resiste più e, come cera bionda al brillio di una fiammella o la brina del mattino al tepore del sole si sciolgono, così, sfinito d'amore, si strugge e un fuoco occulto a poco a poco lo consuma. Del suo colorito rosa misto al candore ormai non v'è più traccia, né del fuoco, delle forze, di ciò che prima incantava la vista, e nemmeno il corpo è più quello che Eco aveva amato un tempo. Ma quando lei lo vide così, malgrado la collera al ricordo, si addolora e ogni volta che l'infelice mormora 'Ahimè', rimandandogli la voce ripete 'Ahimè', e quando il ragazzo con le mani si percuote le braccia, replica lo stesso suono, quello delle percosse. Le ultime sue parole, mentre fissava l'acqua una volta ancora, furono: «Ahimè, fanciullo amato invano», e le stesse parole gli rimandò il luogo; e quando disse 'Addio', Eco 'Addio' disse. Poi reclinò il suo capo stanco sull'erba verde e la morte chiuse quegli occhi incantati sulle fattezze del loro padrone. E anche quando fu accolto negli Ínferi, mai smise di contemplarsi nelle acque dello Stige. Un lungo lamento levarono le Naiadi sue sorelle, offrendogli le chiome recise; un lungo lamento le Driadi, ed Eco unì la sua voce alla loro. Già approntavano il rogo, le fiaccole da agitare e il feretro: il corpo era scomparso; al posto suo scorsero un fiore, giallo nel mezzo e tutto circondato di petali bianchi. La notizia di queste vicende accrebbe la fama di Tiresia in tutte le città dell'Acaia e grande divenne il suo prestigio. Unico e solo, Penteo, figlio di Echìone, miscredente incallito, disprezza il vecchio e si beffa dei suoi presagi, rinfacciandogli le tenebre in cui vive per la sventura d'aver perso la vista. Scuotendo le tempie bianche di canizie: «Che fortuna, se anche tu fossi privato di questa luce», gli ribatte il vate: «non vedresti i sacri riti di Bacco. Verrà giorno infatti, e prevedo non lontano, che qui giungerà inaspettato Libero, il figlio di Sèmele, e se tu degno non lo riterrai dell'onore dei templi, dilaniato sarai disperso in mille parti, macchiando di sangue le foreste, tua madre e le sorelle di tua madre. Avverrà, perché degno d'onore non stimerai quel nume, e allora ti lagnerai che in queste tenebre io abbia visto troppo». Ancora stava parlando che il figlio di Echìone lo caccia. Ma alle parole seguono i fatti e s'avverano le profezie. Libero arriva e un delirio di gioia prorompe nei campi: la folla si accalca, insieme agli uomini madri e spose, popolo e dignitari, tutti accorrono a quei riti sconosciuti. «Che pazzia vi ha sconvolto la mente, figli di serpe, progenie di Marte?» grida Penteo. «Tanto potere ha dunque il bronzo percosso dal bronzo, il flauto a becco curvo, il sortilegio della magia, che persone avvezze a non temere spade, trombe di guerra o schiere con la lancia in pugno, si lascino vincere da strepiti di femmine, dal delirio del vino, da masnade oscene e sciocchi tamburelli? Di chi stupirsi? Di voi, vecchi, che dopo avere a lungo vagato sui mari, qui avete insediato Tiro, qui i vostri penati in fuga, e ora vi piegate senza colpo ferire? O di voi, giovani, in età più acerba e più vicina alla mia, che dovreste impugnare armi e non tirsi, cingere elmi e non ghirlande di fiori? Memori siate, vi prego, della stirpe che vi ha dato i natali, ritrovate la fierezza di quel serpente che da solo tanti sconfisse! e che morì per la sua sorgente, per il suo lago: in nome della vostra fama vincere dovete! Lui diede morte a prodi, cacciate voi questi rammolliti e salvate l'onore della patria! Se era intenzione del fato che Tebe non vivesse a lungo, oh fossero almeno ordigni di guerra o eroi ad abbatterne le mura in un fragore di ferro e fuoco! Sventurati saremmo, ma senza colpa; da piangere o celare nostra sorte non sarebbe e mai nelle lacrime vergogna. Ora invece Tebe sarà espugnata da un fanciullo inerme, che non ama guerre, armi o pratica di cavalli, ma capelli impregnati di mirra, carezza di ghirlande e vesti color porpora a ricami d'oro. Ma, se mi fate largo, lo costringerò in un lampo a confessare che sono un'impostura l'attribuzione del padre e questi riti. Se Acrisio ha avuto il coraggio di disprezzare un nume sospetto e di sbarrargli in faccia le porte di Argo, Penteo con tutta Tebe si lascerà spaventare da un intruso? Avanti, andate,» ordina ai suoi servi, «andate e qui in catene trascinatemi quel demagogo! Obbedite e senza indugi!». Lo stesso nonno, lo stesso Atamante e tutti gli altri suoi congiunti lo rimproverano e invano si sforzano di trattenerlo. Gli ammonimenti lo incattiviscono e la rabbia repressa si esaspera e cresce; la critica gli brucia: così ho visto torrenti che scorrevano quieti, senza troppo fragore, dove nulla si opponeva al loro corso, farsi violenti di fronte agli ostacoli, tra spuma e mulinelli, nei punti in cui li imbrigliavano tronchi o barriere di massi. Tornano intanto i servi insanguinati e alla richiesta del signore dove fosse Bacco, rispondono di non averlo visto; e aggiungono: «Però abbiamo preso questo suo seguace che officiava», e spingono avanti un uomo con le mani legate sulla schiena, un etrusco che si era votato alla religione di quel nume. Penteo lo squadra con occhi che l'ira rende spaventosi e benché a stento si rassegni a differire l'ora del supplizio: «Tu, che stai per morire e che con la tua morte servirai d'esempio agli altri,» grida, «dimmi il nome tuo, il nome dei genitori, la tua patria e perché segui questi riti di nuova istituzione». Senza alcun timore quello risponde: «Il nome mio è Acete, mia patria è la Meonia, povera gente i miei genitori. Mio padre non mi ha lasciato campi da lavorare a forza di buoi, non mi ha lasciato greggi da lana e neppure armenti: povero com'era, s'ingegnava ad adescare col filo e l'amo qualche pesce che guizzava in acqua e a tirarlo su con la sua canna. Quell'espediente era tutta la sua ricchezza; tramandandomelo mi disse: "Prenditi, erede mio che mi succedi in questo lavoro, i beni che ho", e morendo non mi lasciò nient'altro che distese d'acqua: questa posso dire è la sola eredità paterna. Ora io, per non rimanere sempre legato agli stessi scogli, mi sono addestrato a governare il timone di un'imbarcazione con mano ferma, a riconoscere le stelle che recano pioggia della Capra Olenia, la stella Taigete, le Íadi e l'Orsa, le case dei venti e i porti adatti alle navi. Per caso, diretto a Delo, avvisto le sponde dell'isola di Chio, accosto coi remi di destra e con un agile balzo mi lancio sull'umida rena. Passata lì la notte, quando appena l'aurora comincia a rosseggiare, mi levo e dispongo che si attinga acqua fresca, mostrando il sentiero che conduce alla fonte. Io rimango a scrutare da un'altura cosa mi prometta il vento, poi richiamo i compagni e torno alla nave. "Eccoci qui!" grida Ofelte venendo avanti a tutti, e trascina per la spiaggia un fanciullo che pare una vergine, una preda, così dice, trovata in un campo deserto. Quello sembra barcollare, come stordito dal vino o dal sonno, e seguirlo a fatica. Io ne osservo la foggia, l'aspetto e l'incedere: nulla gli vedo che possa attribuirsi a un mortale. Lo sento e dico ai compagni: "Non so quale nume si celi in questo corpo, ma in questo corpo si cela un nume. Chiunque tu sia, aiutaci, ti prego, e proteggi il nostro travaglio! e anche costoro perdona!". "Per noi puoi risparmiarti di pregare", obietta Dictis, che non aveva rivali nell'arrampicarsi in cima a un pennone e nel scivolare giù avvinghiato a una fune. Gli dà ragione Libis, il biondo Melanto di vedetta a prua, ragione Alcimedonte ed Epopeo, capo dell'equipaggio, che con la voce scandiva le pause e il ritmo della voga; tutti gli danno ragione, tanto la preda li acceca di voglia. "Ma io non permetterò che per la presenza di un essere sacro questo legno abbia danno", grido: "chi comanda qui son io!"; e mi pianto a sbarrare l'accesso. Chi s'infuria con più arroganza è Licabas: cacciato da una città dell'Etruria, scontava con l'esilio la pena per un orribile delitto. Mentre lo fronteggio, lui vibrando un pugno mi sfonda la gola, e con quel colpo m'avrebbe scaraventato in acqua, se non mi fossi aggrappato per salvarmi, mezzo morto, a una fune. Quella masnada applaude alla prodezza. Quand'ecco che Bacco (perché proprio Bacco era), come se il chiasso l'avesse destato dal torpore o, sfumata l'ebbrezza, tornasse in sé: "Che fate? Cos'è questo chiasso?" chiede. "Dite, marinai, come mai mi trovo qui? Dove volete portarmi?". "Non aver paura," risponde Pròreo, "di' in quale porto desideri arrivare: sarai sbarcato nella terra che vorrai." "Fate rotta su Nasso", dice allora Bacco. "Quella è la patria mia, terra che vi sarà ospitale." Quegli impostori giurano sul mare e su tutti gli dei che così sarà fatto e m'impongono di dar vela alla mia nave. Nasso era a destra, e io piego le vele per andare a destra: "Che fai, pazzo? hai perso la testa?" mi rimbrotta Ofelte. Ognuno è in ansia per sé. "Va' a sinistra!" mi fanno capire i più coi gesti, e gli altri sussurrandomi all'orecchio ciò che vogliono. Allibisco: "Prenda il timone qualcun altro!" sbotto, sottraendomi al rischio di compiere un misfatto con le mie arti. M'inveiscono tutti contro, brontola l'intera ciurma; fra loro poi Etalione sbraita: "Credi proprio che da te solo dipenda la sicurezza di tutti noi?" e facendosi avanti prende il mio posto, lascia perdere Nasso e punta su un'altra rotta. Allora il dio, schernendoli come se solo in quell'attimo avesse compreso l'inganno, dal ponte di poppa guarda il mare e facendo finta di piangere: "Non è questa, marinai," protesta, "la costa che m'avevate promesso, non è questa la terra che chiedevo. Che ho fatto per meritarmi questo? Che prodezza è la vostra a ingannare, maturi come siete, un bambino, in tanti uno solo?". Da un pezzo io piangevo: quella banda di scellerati sbeffeggia le nostre lacrime e accelera il battito dei remi in acqua. Ora io ti giuro per quel dio (perché nessun dio più di lui è presente fra noi) che quanto ti racconto è vero, anche se supera l'onore del vero: s'arresta in mezzo al mare la nave, proprio come se la tenesse in secco un cantiere. Sorpresi, quelli insistono a battere i remi, spiegano le vele e con entrambi i mezzi tentano di procedere. Radici d'edera inceppano i remi e serpeggiando in un intrico di volute vanno a ornare le vele con dovizia di corimbi. E il nume, con la fronte incoronata di grappoli d'uva, agita un'asta tutta fasciata di pampini; intorno gli si accucciano apparizioni spettrali: tigri, linci e figure selvagge di pantere screziate. Balzano gli uomini in piedi per un accesso di follia o di terrore; e per primo Medonte inizia a farsi nero lungo il corpo e a incurvarsi: a vista d'occhio la spina dorsale gli s'inarcava. E Licabas gli dice: "In quale mostro ti stai mutando?", ma mentre parla la bocca gli si allarga, il naso gli si incurva e la pelle indurita gli si copre di squame. Libis, mentre cerca di sbloccare i remi impigliati, vede contrarsi e ritrarsi le mani, mani che ormai più tali non sono e già pinne possono chiamarsi; un altro, volendo allungare le braccia sui grovigli di funi, si ritrova senza braccia e inarcando quel corpo amputato si getta in acqua: all'estremità vibra una coda falcata, come la curva che formano le corna della luna nascente. E da ogni parte si tuffano, sollevando grandi spruzzi, riemergono per poi tornare ogni volta sott'acqua, intrecciano una sorta di danza, dimenando con voluttà i loro corpi, e dalle larghe nari sbuffano l'acqua aspirata. Di venti che eravamo (tanti ne portava quella nave) restavo io, io solo: gelato dallo spavento, con un tremito in tutto il corpo, quasi incosciente, mi conforta il nume, mi dice: "Scaccia dal cuore la paura: in rotta per Dia!". Lì sbarcato, aderisco al culto di Bacco e da quel giorno ne celebro i riti». «Abbiamo prestato orecchio alle tue fole», gli ribatte Penteo, «tirate in lungo perché la mia ira potesse intanto sbollire. Avanti, servi, portatelo via, straziatene le carni con torture atroci e speditelo nelle tenebre dello Stige!». Subito trascinato via, l'etrusco Acete viene chiuso in carcere, ma mentre si preparano, come ordinato, gli strumenti di tortura per ucciderlo, il ferro e il fuoco, si narra che da sé si spalancassero le porte, che da sé gli cadessero i ceppi dai polsi, senza che alcuno li sciogliesse. Si ostina il figlio di Echìone, ma va di persona, non manda altri nel luogo scelto per celebrare i riti, sul Citerone dove risuonano i canti e le voci squillanti delle baccanti. Come un cavallo focoso, quando la tromba scatena l'attacco con gli squilli del bronzo, freme e smania di combattere, così Penteo da quei lunghi ululati che scuotono l'aria è sconvolto e a udire quel clamore riavvampa d'ira. Quasi a metà del monte, circondata ai margini dal bosco, c'è una radura sgombra d'alberi dove la vista spazia libera. Qui, mentre con occhi sacrileghi osserva la cerimonia, la prima a scorgerlo, la prima ad avventarglisi contro con furia, la prima a sfregiare il suo Penteo scagliandogli il tirso, è la madre. «O sorelle, gemelle mie, accorrete!», urlava, «quel cinghiale enorme che si aggira nei nostri campi, quello, quello io devo uccidere!». Tutto contro gli si lancia quel branco inferocito: ammassandosi insieme, tutte lo inseguono e lui trepida, trepida ormai, usa un linguaggio meno violento ormai, ormai condanna sé stesso, ormai riconosce l'errore commesso. Colpito malgrado questo: «Aiutami, Autònoe, aiutami zia!», grida. «Pietà, abbi pietà almeno per l'ombra di Attèone!». Ma lei non sa più chi sia Attèone e, mentre la scongiura, gli tronca il braccio destro; l'altro da un colpo di Ino gli è strappato. Braccia non ha più lo sventurato da tendere alla madre e allora mostrandole le piaghe aperte dalle membra mozzate: «Guarda, madre mia, guarda!» grida. A quella vista Agave lancia un urlo, squassa la testa agitando nell'aria i suoi capelli, poi gli svelle il capo e, stringendolo tra le mani lorde di sangue, esclama: «Compagne, compagne, opera nostra è questa vittoria!». Non più in fretta il vento strappa dalla cima degli alberi le foglie battute dal freddo d'autunno e ormai appese a un filo, di come son disperse le sue membra da quelle mani nefande. Ammonite da un tale esempio, seguono le donne dell'Ismeno il nuovo culto e offrendo incenso ne consacrano gli altari.

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