TRADUZIONE E ANALISI COMPLETE DEI CARMI LETTI DURANTE LA LEZIONE DEL 26 MAGGIO (IN FIERI)
CATULLO
Liber, carmen I upload.wikimedia.org/wikibooks/it/f/fb/Carmina_(Catullo).pdf
Cui dono lepidum novum libellum
arida modo pumice expolitum?
Corneli, tibi; namque tu solebas
meas esse aliquid putare nugas,
iam tum cum ausus es unus Italorum
omne aevum tribus explicare chartis,
doctis, Iuppiter, et laboriosis!
Quare habe tibi quidquid hoc libelli
qualecumque: quod, o patrona virgo,
plus uno maneat perenne saeclo.
Dedica a Cornelio Nepote (carme 1)
TRAD cb
A chi donare il mio nuovo, graziosissimo libretto
levigato da poco con la scabra pomice?
A te, Cornelio: infatti tu eri solito
assegnare un qualche valore alle mie sciocchezzuole,
già al tempo in cui, unico fra gli Italici, osasti
ripercorrere in tre libri, eruditi e elaborati, la storia universale.
Quindi ecco a te, quale ne sia il valore, questo libretto:
che esso, o vergine musa, divenga eterno, superando il limite della mia generazione.
TRAD M. Ramous, Garzanti, 1975.
A chi donerò questo prezioso novissino
libretto ancora lucido di pomice?
A te, Cornelio, a te che alle mie cose
attribuivi un senso fin dagli anni
in cui, unico fra noi, tu affrontavi
la storia universale in tre libri
così colti e tormentati, mio dio.
Valga quel che valga, il libretto è tuo:
musa, vergine mia,
fa' che mi possa sopravvivere.
TRAD Mario Rapisardi, 1889 (wikisource)
A chi mai dedico questo libretto
Di cianciafruscole giocondo e schietto,
Che uscendo in pubblico, ben ben polito
Dall’arsa pomice mostra il vestito?
5A te, Cornelio, ch’uso dir sei,
C’han qualche grazia gli scherzi miei;
E che fra gl’itali scrittori osasti
Di tutti i secoli spiegare i fasti
Con ardir unico, solo in tre carte:
10E che giudizio, per dio, che arte!
Qual ch’esso siasi dunque tu accetta
Questo libercolo che a te si spetta,
Di cianciafruscole giocondo e schietto,
Che uscendo in pubblico, ben ben polito
Dall’arsa pomice mostra il vestito?
5A te, Cornelio, ch’uso dir sei,
C’han qualche grazia gli scherzi miei;
E che fra gl’itali scrittori osasti
Di tutti i secoli spiegare i fasti
Con ardir unico, solo in tre carte:
10E che giudizio, per dio, che arte!
Qual ch’esso siasi dunque tu accetta
Questo libercolo che a te si spetta,
E tu fa’, vergine patrona e diva,
Che più d’un secolo perenne ei viva.
Che più d’un secolo perenne ei viva.
Qualche osservazione
Si notino alcuni termini utilizzati da Catullo: il novum riferito alla raccolta di Carmi, per cominciare, mette in primo piano un’esigenza particolarmente sentita dalla corrente poetica alla quale egli appartiene come esponente di spicco. Non a caso, infatti, Cicerone conierà la denominazione di neòteroi (poetae novi), con evidenti intenti dispregiativi (in quanto egli era un tradizionalista, dal punto di vista letterario): Catullo e i poeti di questa corrente si sentono “moderni”, diversi dai poeti latini tradizionali e rivendicano (a parole e a fatti) tale loro caratteristica. Consideriamo poi l’espressione expolitum modo arida pomice (si tratta del labor limae, l’operazione di rendere il testo formalmente ineccepibile): con essa il poeta fa riferimento a un’altra caratteristica rivendicata dai poetae novi come assolutamente peculiare del loro modo di far poesia: l’eleganza dello stile, ricercato e prezioso, mai corrivo, nutrito di modelli raffinati come quelli offerti dai poeti alessandrini (ellenistici) del III secolo o, ancor prima, dai grandi lirici greci (Saffo e Alceo in primis). Ovviamente alla medesima caratteristica fa riferimento il termine doctis eruditi, riferito all’opera storica di Cornelio Nepote, amico di Catullo e coinvolto in questa nuova esperienza letteraria. Nugas è un altro termine chiave per iniziare a definire la poetica catulliana: va inteso, nel suo significato “cose di poco conto” come espressione di una finta modestia, di là dalla quale si cela una profonda consapevolezza dell’originalità del proprio prodotto artistico: il poeta vuole contrapporre polemicamente le proprie “sciocchezzuole” alle altisonanti opere della tradizione, i grandi poemi epici innanzi tutto, quasi certo che da esse potrà venirgli una fama perenne, che superi il limite della sua generazione.
Carmen XIII
Cenabis bene, mi Fabulle, apud me
paucis, si tibi di favent, diebus,
si tecum attuleris bonam atque magnam
cenam, non sine candida puella
et vino et sale et omnibus cachinnis.
Haec si, inquam, attuleris, venuste noster,
cenabis bene; nam tui Catulli
plenus sacculus est aranearum.
Sed contra accipies meros amores
seu quid suavius elegantiusve est:
nam unguentum dabo, quod meae puellae
donarunt Veneres Cupidinesque,
Quod tu cum olfacies, deos rogabis
totum ut te faciant, Fabulle, nasum
Un invito a cena (carme 13)
TRAD cb
Con l’aiuto degli dei, Fabullo caro, entro pochi
giorni farai una buona cena a casa mia,
se porterai cibo gustoso e abbondante,
nonché una bella fanciulla,
vino, sale e tutta la tua allegria.
Se porterai ciò, ripeto, bello mio,
cenerai bene: questo perché
la borsa del tuo amico Catullo è piena…di ragnatele.
Però, in cambio, riceverai il mio sincero affetto
e quanto vi è di più elegante e raffinato:
ti darò un unguento che Venere e Amore
hanno donato alla mia bella.
E quando l’odorerai, caro Fabullo, implorerai gli dei
che ti rendano “tutto naso”!
TRAD Rapisardi
Presto avrai lauta cena, o Fabullo,
Gli Dei t’ ajutino, dal tuo Catullo,
Solo che piacciati con te portare
Ogni amminicolo per ben cenare,
5Da una piacevole donnetta infino
Al sale, ai lepidi sollazzi e al vino.
Gli Dei t’ ajutino, dal tuo Catullo,
Solo che piacciati con te portare
Ogni amminicolo per ben cenare,
5Da una piacevole donnetta infino
Al sale, ai lepidi sollazzi e al vino.
Se questo, o amabile, tu recherai,
Cena lautissima con me farai:
Chè nel mio povero portamonete
10I ragni, credilo, ci fan la rete.
Ma da me in cambio sarai fornito
Del più gradevole, del più squisito
Unguento, un balsamo che all’amor mio
Cupido e Venere diedero; ed io
15Sono certissimo, che appena il senti,
Gli Dei tu supplichi con voti ardenti,
Perchè d’un subito, secondo il caso,
Tutto ti facciano diventar naso.
Cena lautissima con me farai:
Chè nel mio povero portamonete
10I ragni, credilo, ci fan la rete.
Ma da me in cambio sarai fornito
Del più gradevole, del più squisito
Unguento, un balsamo che all’amor mio
Cupido e Venere diedero; ed io
15Sono certissimo, che appena il senti,
Gli Dei tu supplichi con voti ardenti,
Perchè d’un subito, secondo il caso,
Tutto ti facciano diventar naso.
TRAD Ramous
Se dio vorrà, uno di questi giorni,
mio Fabullo, da me cenerai bene;
ma con te porta una cena abbondante
e squisita, una ragazza in fiore,
vino, sale e tutta la tua allegria.
Solo così, ripeto, amico mio,
cenerai bene, perché il tuo Catullo
ha la borsa piena di ragnatele.
In cambio avrai un affetto sincero
e tutto ciò che è bello e raffinato:
ti darò un profumo che la mia donna
ha avuto in dono da Venere e Amore.
Quando l'odorerai, prega gli dei,
Fabullo mio, di farti tutto naso.
Qualche osservazione
Tra le Nugae si trovano diversi componimenti scherzosi (questo, in particolare, contiene una sorta di fulmen in clausula, ovvero di battuta finale), che trasmettono un’immagine vivace della vita mondana di Roma, nonché della rete di relazioni affettive di Catullo. Fabullo, in effetti, compare in diverse poesie, evocato sempre con grande affetto, a testimonianza dell’importanza che l’amicitia (patto fondato sulla fides) riveste per il poeta.
Carmen LXXIII
Desine de quoquam quicquam bene velle mereri
aut aliquem fieri posse putare pium.
Omnia sunt ingrata, nihil fecisse benigne
immo magisque etiam taedet obestque magis,
ut mihi, quem nemo gravius nec acerbius urget,
quam modo qui me unum atque unicum amicum habuit
Carmen LXXIII
Desine de quoquam quicquam bene velle mereri
aut aliquem fieri posse putare pium.
Omnia sunt ingrata, nihil fecisse benigne
immo magisque etiam taedet obestque magis,
ut mihi, quem nemo gravius nec acerbius urget,
quam modo qui me unum atque unicum amicum habuit
L’amicizia tradita (carme 73)
TRAD cb
Smetti di credere che l’affetto meriti qualcosa
o che qualcuno possa esserne reso riconoscente.
L’ingratitudine è universale, aver fatto del bene non vale niente,
anzi, peggio, dà fastidio e nuoce persino,
come a me, che nessuno odia più crudelmente e accanitamente
di colui che fino a ieri mi ritenne suo solo, unico amico.
TRAD Ramous
Non credere più che l'affetto meriti qualcosa
o che qualcuno possa mai esserti grato.
L'ingratitudine è di tutti; e il bene fatto nulla,
anzi fonte di amarezze e mali peggiori.
Nessuno ora mi odia con più crudele accanimento
di chi ieri mi considerava l'unico vero amico.
TRAD Rapisardi
Non aspettar del ben che vuoi, che fai,
Bene per bene o gratitudin mai.
Son tutti ingrati, ed il ben far non vale,
Anzi rincresce, ed è stimolo al male.
5Io me ’l so, che non ho peggior nemico
Di chi diceasi or or mio solo amico.
TRAD Ramous
Non credere più che l'affetto meriti qualcosa
o che qualcuno possa mai esserti grato.
L'ingratitudine è di tutti; e il bene fatto nulla,
anzi fonte di amarezze e mali peggiori.
Nessuno ora mi odia con più crudele accanimento
di chi ieri mi considerava l'unico vero amico.
TRAD Rapisardi
Non aspettar del ben che vuoi, che fai,
Bene per bene o gratitudin mai.
Son tutti ingrati, ed il ben far non vale,
Anzi rincresce, ed è stimolo al male.
5Io me ’l so, che non ho peggior nemico
Di chi diceasi or or mio solo amico.
Qualche osservazione
Non ci sono nomi, in questo componimento, ma il sentimento espresso dal poeta suona vero e intenso: una delusione inconsolabile, incisa nella carne, incancellabile. L’importanza dell’amicizia, del bene velle, è tale che quando accada di esserne delusi il mondo intero si oscura, tutto perde significato: il poeta universalizza la sua delusione e sente che nulla può ritornare come prima.
Carmen CI
Multas per gentes et multa per aequora vectus
advenio has miseras, frater, ad inferias,
ut te postremo donarem munere mortis
et mutam nequiquam adloquerer cinerem,
quandoquidem fortuna mihi tete abstulit ipsum,
heu miser indigne frater adempte mihi.
Nunc tamen interea haec, prisco quae more parentum
tradita sunt tristi munere ad inferias,
accipe fraterno multum manantia fletu
atque in perpetuum, frater, ave atque vale
Carmen CI
Multas per gentes et multa per aequora vectus
advenio has miseras, frater, ad inferias,
ut te postremo donarem munere mortis
et mutam nequiquam adloquerer cinerem,
quandoquidem fortuna mihi tete abstulit ipsum,
heu miser indigne frater adempte mihi.
Nunc tamen interea haec, prisco quae more parentum
tradita sunt tristi munere ad inferias,
accipe fraterno multum manantia fletu
atque in perpetuum, frater, ave atque vale
Sulla tomba del fratello (carme 101)
TRAD cb
Trasportato attraverso molti popoli e molti mari
Trasportato attraverso molti popoli e molti mari
giungo, fratello, alle tue misere spoglie,
così da porgerti l’ultima offerta che si deve ai morti
e invano parlare alle tue mute ceneri:
ora che la sorte ti ha strappato a me,
povero fratello crudelmente sottrattomi.
Ora però accetta questa offerta che, secondo l’antico costume dei padri,
affido come triste dono per i riti funebri,
tutta intrisa del mio pianto fraterno;
addio per sempre, fratello.
TRAD Rapisardi
TRAD Rapisardi
Per molte genti e molti mari ai mesti
Tuoi funeri, o fratel, sono venuto,
A ciò che a te gli ufficj ultimi io presti,
4E parli, ah invan, col tuo cenere muto:
Col cener tuo, poi che tu stesso a questi
Occhi fosti rapito, e t’ho perduto,
O misero fratel, che qui cadesti
8Nel fior dei tuoi giocondi anni mietuto.
Pur questi doni, che con rito antico
Consecrato dagli avi, o fratel mio,
11Spargo sul tuo sepolcro, accogli amico:
Stillan del pianto irrefrenato, ond’io,
Perpetua pace a te pregando dico:
14Dolce fratello, eternamente addio.
TRAD Ramous
Di mare in mare, da un popolo all'altro
vengo a queste tue misere esequie, fratello,
per donarti l'ultima offerta che si deve ai morti
e invano parlare alle tue ceneri mute:
ora che la sorte a me ti ha strappato,
così crudelmente strappato, fratello infelice.
Pure, amaro dono per un rito estremo,
nell'uso antico dei padri accogli l'offerta
che ora ti affido: così intrisa del mio pianto.
E in eterno riposa, fratello mio, addio.
Tuoi funeri, o fratel, sono venuto,
A ciò che a te gli ufficj ultimi io presti,
4E parli, ah invan, col tuo cenere muto:
Col cener tuo, poi che tu stesso a questi
Occhi fosti rapito, e t’ho perduto,
O misero fratel, che qui cadesti
8Nel fior dei tuoi giocondi anni mietuto.
Pur questi doni, che con rito antico
Consecrato dagli avi, o fratel mio,
11Spargo sul tuo sepolcro, accogli amico:
Stillan del pianto irrefrenato, ond’io,
Perpetua pace a te pregando dico:
14Dolce fratello, eternamente addio.
TRAD Ramous
Di mare in mare, da un popolo all'altro
vengo a queste tue misere esequie, fratello,
per donarti l'ultima offerta che si deve ai morti
e invano parlare alle tue ceneri mute:
ora che la sorte a me ti ha strappato,
così crudelmente strappato, fratello infelice.
Pure, amaro dono per un rito estremo,
nell'uso antico dei padri accogli l'offerta
che ora ti affido: così intrisa del mio pianto.
E in eterno riposa, fratello mio, addio.
Qualche osservazione
Si può considerare questo carme come un documento efficace della sensibilità pagana nei riguardi della morte: scarsa consolazione offrono i riti (che pure vengono compiuti fino in fondo) per un evento da cui i sentimenti sono sovrastati. La morte interrompe la comunicazione (le ceneri sono mute), strappa gli uni agli altri; la morte è crudele e impone di dirsi addio per sempre. Il poeta resta solo e piangente di fronte all’abisso fatale da cui non c’è ritorno.
cfr. Foscolo, In morte del fratello Giovanni
Un dì, s'io non andrò sempre fuggendo
di gente in gente, me vedrai seduto
su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
il fior de' tuoi gentil anni caduto.
La Madre or sol suo dì tardo traendo
parla di me col tuo cenere muto,
ma io deluse a voi le palme tendo
e sol da lunge i miei tetti saluto.
Sento gli avversi numi, e le secrete
cure che al viver tuo furon tempesta,
e prego anch'io nel tuo porto quiete.
Questo di tanta speme oggi mi resta!
Straniere genti, almen le ossa rendete
allora al petto della madre mesta.
cfr. Foscolo, In morte del fratello Giovanni
Un dì, s'io non andrò sempre fuggendo
di gente in gente, me vedrai seduto
su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
il fior de' tuoi gentil anni caduto.
La Madre or sol suo dì tardo traendo
parla di me col tuo cenere muto,
ma io deluse a voi le palme tendo
e sol da lunge i miei tetti saluto.
Sento gli avversi numi, e le secrete
cure che al viver tuo furon tempesta,
e prego anch'io nel tuo porto quiete.
Questo di tanta speme oggi mi resta!
Straniere genti, almen le ossa rendete
allora al petto della madre mesta.
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LESBIA
Carmen V
Vivamus mea Lesbia, atque amemus,
rumoresque senum severiorum
omnes unius aestimemus assis!
soles occidere et redire possunt:
nobis cum semel occidit brevis lux,
nox est perpetua una dormienda.
da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum.
dein, cum milia multa fecerimus,
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut ne quis malus invidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum.
rumoresque senum severiorum
omnes unius aestimemus assis!
soles occidere et redire possunt:
nobis cum semel occidit brevis lux,
nox est perpetua una dormienda.
da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum.
dein, cum milia multa fecerimus,
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut ne quis malus invidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum.
TRAD cb
Godiamoci la vita, Lesbia mia, e vogliamoci bene,
non prendiamoci cura dei borbottii dei vecchi troppo austeri!
Il sole può tramontare e poi sorge:
ma noi, una volta che sia venuta meno la breve luminosa vita,
dobbiamo dormire un’unica, eterna notte.
Dammi mille baci, poi cento,
poi altri mille e ancora cento.
Quando ne avremo messe insieme molte migliaia,
le confonderemo, per non saperne il numero,
o perché nessun malvagio possa gettarci il malocchio,
qualora venga a conoscenza di un così gran numero di baci.
TRAD Rapisardi
Godiamo, o Lesbia, mia Lesbia, amiamo,
E de’ più rigidi vecchi i rimproveri
3Meno d’un misero asse stimiamo.
Tramontar possono gli astri e redire:
Noi, quando il tenue raggio dileguasi,
6Dobbiam perpetua notte dormire.
Baciami, baciami, vuo’ che mi baci;
A cento scocchino, a mille piovano
9Qui su quest’avida bocca i tuoi baci.
E poi che il numero sfugge a noi stessi,
Baciami, baciami, sì che l’invidia
12Non frema al còmputo de’ nostri amplessi.
TRAD Ramous
TRAD Rapisardi
Godiamo, o Lesbia, mia Lesbia, amiamo,
E de’ più rigidi vecchi i rimproveri
3Meno d’un misero asse stimiamo.
Tramontar possono gli astri e redire:
Noi, quando il tenue raggio dileguasi,
6Dobbiam perpetua notte dormire.
Baciami, baciami, vuo’ che mi baci;
A cento scocchino, a mille piovano
9Qui su quest’avida bocca i tuoi baci.
E poi che il numero sfugge a noi stessi,
Baciami, baciami, sì che l’invidia
12Non frema al còmputo de’ nostri amplessi.
TRAD Ramous
Qualche osservazione
Questo carme è “leggero” (come potrebbe far pensare la presenza al suo interno del tema dei mille basia) solo apparentemente: contiene il tema filosofico della breve durata della vita umana (contrapposta alla lunga durata concessa a un astro come il sole), che l’uomo può contrastare solo cercando di assegnare valore a ogni istante e riconoscendo fra gli impegni umani l’unico in grado di dare senso al breve tempo concessoci. Per Catullo tale impegno, ovviamente, è l’amore, in contrasto con l’etica del civis romanus, che ritiene attività fondamentale quella politica. In un’alternanza di chiaroscuri (vita e amore contrapposti ai rumores dei vecchi borbottoni, sole e luce contrapposti alla nox perpetua, la messe di baci opposta al malocchio mandato da quis malus) il componimento propone dunque un’anticonformista filosofia di vita: coltivare e preservare, quale unico bene, l’amore.
Lesbia e le altre (carme 86)
Quintia formosa est multis. mihi candida, longa,
recta est: haec ego sic singula confiteor.
totum illud formosa nego: nam nulla venustas,
nulla in tam magno est corpore mica salis.
Lesbia formosa est, quae cum pulcherrima tota est,
tum omnibus una omnis surripuit Veneres.
Quintia formosa est multis. mihi candida, longa,
recta est: haec ego sic singula confiteor.
totum illud formosa nego: nam nulla venustas,
nulla in tam magno est corpore mica salis.
Lesbia formosa est, quae cum pulcherrima tota est,
tum omnibus una omnis surripuit Veneres.
A detta di molti Quinzia è bella, per me è bianca, slanciata,
proporzionata. Presi uno a uno riconosco questi pregi,
ma nego che nell’insieme sia bella: infatti in quel corpo superbo
non c’è nessuna grazia, né un po’ di spirito.
Bella è Lesbia, che intanto è bellissima nell’insieme,
e poi ha tolto a tutte le altre ogni attrattiva.
Qualche osservazione
Anche questo carme è solo apparentemente leggero: Catullo riflette sul concetto di bello, che risulta essere frutto d’una commistione di elementi fisici e spirituali. La bellezza di Lesbia è certo incontestabilmente “fisica”, nel senso che in lei sono presenti i requisiti della bellezza “universalmente intesa” (proporzioni armoniche del corpo e del volto), ma viene valorizzata dal suo spirito e dalla grazia (che, nel componimento, risultano mancare a Quinzia).
Ille mi par esse deo videtur (carme 51)
lle mì par èsse deò vidètur,
ìlle, sì fas èst, superàre dìvos,
quì sedèns advèrsus idèntidèm te
spèctat et àudit
dùlce rìdentèm, miserò quod òmnes
èripit sensùs mihi: nàm simùl te,
Lèsbia, àspexì, nihil èst supèr mi
<vòcis in òre;>
lìngua sèd torpèt, tenuìs sub àrtus
flàmma dèmanàt, sonitù suòpte
tìntinànt aurès, geminà tegùntur
lùmina nòcte.
Òtiùm, Catùlle, tibì molèstus:
òtio èxsultàs nimiùmque gèstis:
òtium èt regès prius èt beàtas
pèrdidit ùrbes.
lle mì par èsse deò vidètur,
ìlle, sì fas èst, superàre dìvos,
quì sedèns advèrsus idèntidèm te
spèctat et àudit
dùlce rìdentèm, miserò quod òmnes
èripit sensùs mihi: nàm simùl te,
Lèsbia, àspexì, nihil èst supèr mi
<vòcis in òre;>
lìngua sèd torpèt, tenuìs sub àrtus
flàmma dèmanàt, sonitù suòpte
tìntinànt aurès, geminà tegùntur
lùmina nòcte.
Òtiùm, Catùlle, tibì molèstus:
òtio èxsultàs nimiùmque gèstis:
òtium èt regès prius èt beàtas
pèrdidit ùrbes.
Simile a un dio mi pare,
o addirittura, se non suona blasfemo, superiore agli dei
chi, standoti vicino, ti guarda continuamente,
ti ascolta mentre ridi dolcemente, mentre a me,
poveretto, viene meno la capacità di sentire: ogni volta
che ti guardo, Lesbia, non mi rimane un filo di voce,
mi si intorpidisce la lingua, un sottile fuoco mi scorre nelle ossa,
le orecchie mi ronzano internamente, gli occhi sono
coperti di tenebre.
È l’ozio a farti male, Catullo:
nell’ozio ti esalti e ecciti troppo.
L’ozio ha mandato in rovina in passato
re e prospere città.
Qualche osservazione
Esempio di “imitazione” alla maniera antica: il modello saffico è tenuto presente e variato, raffinato lusus letterario, così che idealmente lo spirito dei due poeti di fonde. Siamo di fronte alla “fenomenologia d’amore” nelle sue originarie espressioni: tutti i sensi vengono prevaricati, sostituiti da un’unica invadente percezione, quella della creatura amata più d’ogni altra. A ciò s’aggiunge la considerazione finale sull’otium, nella quale lo spirito romano di Catullo fa una sua fugace, ironica apparizione: se l’otium è una rovina, che amabile rovina…
Il passerotto di Lesbia (carmi 2-3)
Passer, deliciae meae puellae,
quicum ludere, quem in sinu tenere,
cui primum digitum dare appetenti
et acris solet incitare morsus,
cum desiderio meo nitenti
carum nescio quid lubet iocari
et solaciolum sui doloris,
credo ut tum gravis acquiescat ardor:
tecum ludere sicut ipsa possem
et tristis animi levare curas!
quicum ludere, quem in sinu tenere,
cui primum digitum dare appetenti
et acris solet incitare morsus,
cum desiderio meo nitenti
carum nescio quid lubet iocari
et solaciolum sui doloris,
credo ut tum gravis acquiescat ardor:
tecum ludere sicut ipsa possem
et tristis animi levare curas!
O passero, delizia della mia fanciulla,
col quale è solita giocare, tenerlo in grembo,
porgere il dito all’assalto e
provocarne le beccate rabbiose,
quando alla donna dei miei sogni
piace intrattenersi dolcemente
e trovare sollievo al proprio dolore
(almeno credo); affinché allora si plachi l’affanno doloroso,
potessi io giocar con te come lei
e alleviare le sofferenze dell’animo!
Piangete Divinità dell’Amore,
e tutti voi spiriti più gentili.
È morto il passero della mia bella,
il passero delizia della mia fanciulla,
che lei amava più dei suoi occhi:
era dolcissimo e riconosceva lei
come una bimba riconosce la mamma,
né si allontanava dal suo grembo,
ma saltellando or qua or là
cinguettava per lei sola.
E lui ora se ne va per quell’oscuro cammino
da cui dicono nessuno torni.
Maledette voi, tenebre dell’Orco,
che divorate tutte le cose belle:
mi avete sottratto un passerotto così bello.
O sventura, povero passerotto!
Adesso, per colpa tua, gli occhietti
della mia bella per il gran piangere si son fatti rossi.
Qualche osservazione
Carme II. Convenzionale e originale allo stesso tempo: l’argomento infatti è topico nella produzione epigrammatica ellenistica, ma Catullo introduce una forte nota personale. Essa consiste nell’insinuazione (leggera e seria) che Lesbia provi una sofferenza d’amore ben inferiore a quella che travaglia il cuore del poeta: mentre a lei basta, per distrarsi, giocare col suo passerotto, per Catullo ben altro ci vorrebbe…
Carme III. Meno originale del precedente, giacché sviluppa in modo esclusivo il topos del compianto per una creatura amata (la forma greca dell’epicedio, proposta in modo vagamente scherzoso, visto il soggetto), ferma restando un’ulteriore connotazione ironica personale, che pare evidente soprattutto nel finale (in cui il Poeta si rammarica per l’arrossamento degli occhi di Lesbia, cagionato dalla morte del passerotto).
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