CORREZIONE DEI LAVORI INVIATI

 gruppo 3 labor limae versi 132-136 (senza traduzione di riferimento)

Vela dabant ventis neque adhuc bene noverat illos

navita quaeque diu steterant in montibus altis

fluctibus ignotis insultavere carinae

135communemque prius, ceu lumina solis et auras,

cautus humum longo signavit limite mensor.

FORNISCO LA MIA VERSIONE PER CONFRONTARE CON IL VOSTRO RISULTATO (che ho visto e di cui dirò a voce)

Traduzione frutto di analisi (interlineare): Le vele (c. ogg.) davano ai venti e non fino a quel momento bene conosceva (novi, novisse, forma perfetto significato presente, qui piuccheperfetto con significato imperfetto) quelli (riferito a venti, c. ogg.) il navigante (soggetto di noverat) e quelle che (assimilazione di relativo, illae quae, illae aggettivo di carinae, ossia chiglie, quae con funzione di relativo in prolessi rispetto al termine cui si riferisce, ossia carinae) a lungo erano rimaste sui monti alti ai flutti ignoti saltarono sopra (exsultavere è forma sincopata per exsultaverunt)  le chiglie e la comune (concodato con humum, attr. di c. ogg.) in precedenza, al pari delle luci del sole e dell'aria il cauto (concordato con mensor, soggetto di signavit) la terra con lungo (concordato con limite, complemento di mezzo) segnò solco l'agrimensore. Riordino: Davano ai venti le vele e fino a quel momento il navigante non li conosceva bene e quelle chiglie che a lungo erano rimaste sugli alti monti saltarono sopra ai flutti ignoti e la terra, comune in precedenza, al pari delle luci del sole e dall'aria, il cauto agrimensore segnò con lungo solco. 
Traduzione con labor limae: Aprivano le vele ai venti, ignoti ai naviganti, così come le chiglie, avvezze agli alti monti, presero a volare sui flutti mai percorsi;  e la terra, bene comune al pari della luce e dell'aria,  a lunghi solchi la demarcava il cauto agrimensore.
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Gruppo 1 completamento tabella
Pubblico direttamente il vostro lavoro con le correzioni evidenziate

VERSI 113-131 I LIBRO METAMORFOSI OVIDIO 

ANALISI MORFOSINTATTICA 

Postquam, Saturno tenebrosa in Tartara misso, 

sub Iove mundus erat, subiit argentea proles, 

auro deterior, fulvo pretiosior aere. 

Iuppiter antiqui contraxit tempora veris 

perque hiemes aestusque et inaequalis autumnos 

et breve ver spatiis exegit quattuor annum. 

Tum primum siccis aër fervoribus ustus 

canduit et ventis glacies adstricta pependit. 

Tum primum subiere domos; domus antra fuerunt 

et densi frutices et vinctae cortice virgae. 

Semina tum primum longis Cerealia sulcis 

obruta sunt pressique iugo gemuere iuvenci. 

Tertia post illam successit aenea proles, 

saevior ingeniis et ad horrida promptior arma, 

non scelerata tamen. De duro est ultima ferro; 

protinus in rupit venae peioris in aevum 

omne nefas; fugere pudor verumque fidesque, 

in quorum subiere locum fraudesque dolique 

insidiaeque et vis et amor sceleratus habendi. 

La congiunzione temporale postquam introduce erat, il verbo sum con funzione di predicato verbale, il cui soggetto è mundus: Giove ha il controllo sul mondo (così si può rendere sub Iove mundus erat, cambiando il soggetto grammaticale della proposizione) dato che Saturno è stato cacciato nel Tartaro (Saturno misso in tenebrosa Tartara, scrive Ovidio, ricorrendo a un ablativo assoluto al passato, il participio perfetto misso, da mitto). L’argentea proles che subentra (subiit da subeo) rappresenta una degradazione rispetto alla precedente età aurea (è deterior, con ricorso a un comparativo di maggioranza derivato dalla preposizione de, a esprimere il concetto), ma è certo migliore della successiva età del bronzo, come si comprende dal secondo comparativo, pretiosior che introduce secondo termine di paragone, in ablativo, fulvo aere, appunto il fulvo bronzo. Giove provvede a una sorta di riorganizzazione delle stagioni: non più eterna, la primavera s’accorcia (contraxit tempora veris) e l’anno viene suddiviso in quattro parti, che comprendono passaggi attraverso i geli invernali (per hiemes), le calure estive (aestus, sempre retto da per) e inaequalis (la desinenza is è un accusativo plurale es) autumnos ovvero periodi autunnali variabili, mentre appunto la primavera è breve. Gli avverbi tum e primum indicano la prima volta in cui il mondo secondo Ovidio cambia aspetto: l’aria allora, per la prima volta prende fuoco, espressione resa dal verbo canduit, (deriva da candeo, dall'etimo greco kàndaros), e il ghiaccio si sospende penzola giù dai venti, concetto espresso dal verbo pependit (da pendeo con raddoppiamento del tema del perfetto). Si  presenta poi una ripetizione, in retorica anafora, degli avverbi tum primum seguiti questa volta da subiere domos, in cui il predicato verbale subiere (subire) è una terza persona plurale del perfetto indicativo, nell'alternativa -ere, sincopata, alla terminazione più comune -erunt. Segue poi la descrizione delle prime abitazioni, in cui la proposizione coordinata copulativa vinctae cortice virgae (verghe legate con una corteccia), è composta da un participio perfetto del verbo vincio, is, vixi, vinctum, ere vinxi, vincire. congiunto al sostantivo virgae. Ovidio, per mezzo di una terza ripetizione anafora di tum primum, evidenzia l’avvento di un cambiamento radicale, simbolo di una nuova era in cui gli uomini, grazie anche agli servendosi anche degli animali, sono costretti a lavorare per vivere. A questa tale era succedette l’età di bronzo, aenea proles, più crudele e più violenta, seppur non completamente scellerata, come invece risulta essere l’ultima, chiamata di del ferro.  De duro est ultima ferro, in cui l’aggettivo durus ha un duplice significato: resistente e insensibile, usato per indicare la degenerazione che sta subendo l’umanità, espressa dalla preposizione rupit omne nefas, (ogni empietà irruppe), in cui il soggetto nefas è un sostantivo neutro invariabile, cioè presenta lo stesso caso per ogni declinazione e il verbo è il perfetto di rumpo (- is- rupi -ruptum -rumpere). Segue, poi un elenco di virtù positive, che però scompaiono dalla civiltà, diventata sempre più degradata: fugere pudor verumque fidesque (fuggirono il pudore, la verità e la fiducia), in cui il verbo fugere, da fugio, rappresenta una particolarità nuovamente una forma sincopata in quanto utilizza la desinenza -ere, invece di -erunt per la terza persona plurale. Concludono i versi una lista di sostantivi con valore negativo (pudor, verum e fides, di cui gli ultimi due sono uniti alla congiunzione enclitica -que), usati da Ovidio per descrivere i vizi che subentrano nella nuova e ultima generazione. Risulta particolare interessante, in un poeta fondamentalmente elegiaco, l'accostamento dell’aggettivo della prima declinazione sceleratus, al sostantivo maschile della terza declinazione amor, percepito dal poeta come un vizio negativo.  la cui connotazione negativa è pesantemente condizionata dal fatto che sia un amor habendi (forma di gerundio di habeo al genitivo, che assume valore di sostantivo, del possesso), ovvero una brama di possesso che non può che essere rovinosa, dal momento che da essa procedono appunto svariati scelera, atti scellerati o decisamente delitti.

 

Gruppo 2 commento articolo

RIASSUNTO 

L’articolo tratta il tema del lavoro citando il libro romanzo di Dostoevskij Memorie da una casa di morti nella quale nel quale racconta la sua esperienza in un campo di lavoro forzato. Tratta la natura del lavoro, sostenendo che il tormento più grande non è quello fisico ma bensì mentale in quanto non è mirato ad un fine.Tratta la tipologia del lavoro forzato, che è spesso caratterizzata, oltre che dalla costrizione, anche da un'inutilità sostanziale del lavoro imposto. Dostoevskij sostiene che anche un lavoratore forzato potrebbe appassionarsi al suo lavoro e migliorare in abilità ed efficacia spinto dal desiderio di raggiungere maggior dignità. [Si evince da quello che scrive Dostoevskij, che ciò che rende il lavoro, persino, fosse possibile, quello forzato, una fonte di dignità per l'essere umano, è il fatto di riuscire a stimolare il soggetto, ad esempio facendolo sentire utile a qualcosa o a qualcuno, oppure appassionandolo] Lo stesso pensiero viene espresso da Primo Levi in un’intervista a Philip Roth, da cui sorgono interessanti considerazioni sul rapporto tra la sofferenza del lavoro e la sua finalità la fatica, anche immane, richiesta da un lavoro e la possibilità che comunque lo si voglia svolgere bene, ricavando da questo una soddisfazione. Levi infatti dichiara: “al mio mestiere devo la vita”, questo perché esso lo aveva preservato dalle condizioni di lavoro più disumane. che, nella situazione del campo di concentramento, il mestiere gli ha salvato la vita, forse intendendo che proprio il riconoscimento dell'utilità delle sue competenze di chimico in quel contesto di prigionia lo aveva preservato dalla morte. L’articolo prosegue parlando trattando della psicologia positiva, una corrente di pensiero che cambia sostanzialmente l’idea di felicità, riprendendo il termine eudaimonìa, che ipotizza una vita capace di far sviluppare all'individuo le competenze più elevate in suo possesso. La ricerca di un significato determina il progresso che ogni singolo individuo . [periodo interrotto. Oltre alla consapevolezza di sé e dei propri talenti, è importante sviluppare una visione chiara di quali e quante influenze agiscano, a partire dall'infanzia, sulla propria formazione. Sotto questo profilo è importante imparare a distinguere fra un'idea di realizzazione che appartenga davvero al soggetto e una rappresentazione di vita felice che è invece il prodotto di una tradizione culturale, se non di un condizionamento del tutto e sempre esterno all'individuo. La cultura, la conoscenza del passato, ad esempio delle filosofie antiche che si sono espresse sull'argomento, consente di forgiare una coscienza critica, utile in tal senso.]Una condizione di stabilità e sicurezza è la cosa che più permette di dare un senso a ciò che gli imprevisti e le influenze esterne ci pongono di fronte. Da un punto di vista la felicità proviene dal soddisfacimento delle necessità che provengono dall’esterno, e quindi, dei beni materiali, sociali e relazionali, da un’altro il bisogno di arrivare ad un obiettivo che proviene da noi stessi, attraverso azioni e decisioni importanti. Per molti è ben possibile che una vita felice sia poco travagliata e senza molti bivi ma per altri, al contrario, dover quasi lottare per la propria vita può essere fonte di enorme soddisfazione. Essere improntati sul presente ci rende più banalmente felici rifiutando passato e futuro, ma concentrarsi su di essi da un senso più profondo alla propria esistenza. Dagli studi di Baumeister sorge che, chi rinuncia a relazioni sociali e distrazioni, portatrici di gioia effimera, risultano essere più felici.

 

COMMENTO

In quest’articolo è evidente la posizione riguardo a quanto sia importante mantenere un’integrità lavorativa, di fronte alla situazione del lavoro forzato, una situazione nel quale la dignità viene completamente a mancare, l’unica cosa che può dare soddisfazione è proprio il lavoro, ma quest’ultimo utilizzato col solo scopo punitivo, quindi senza nessuna finalità, si pone come un’ulteriore umiliazione. I lavoratori, come sottolineano Levi e Dostoevskij, mantengono comunque la propria integrità e svolgono i loro compiti al meglio delle loro possibilità in modo da avere un fine a cui mirare. 


Gruppo 4 pubblico correzione di uno: Andrea S.


Domande per il 26/10 1) La visione dell’età dell’oro di Platone e quella di Ovidio concordavano convergevano su un concetto: l’età dell’oro è stato un periodo in cui gli uomini vivevano concordi tra loro e in completa armonia con gli dei e con la natura. In questa condizione, paragonabile a un paradiso terrestre di memoria biblica, gli uomini non erano costretti a lavorare, ricevevano dalla natura direttamente tutto il necessario. A un certo punto, però, si meritano quella sorta di condanna che è, appunto il lavoro medesimo: il poeta e il filosofo lo concepiscono come tale, perché corrisponde a un’imposizione a faticare. Anche per Virgilio l’inizio dell'età in cui si lavora, per ottenere cibo e quanto serve alla vita, coincide con la fine dell’età dell’oro, ma il poeta non considera il labor come del tutto improbus, ovvero come una punizione degradante, bensì come un valore: infatti, oltre a essere ciò che differenzia l’uomo dall’animale, il lavoro ha come risultato le artes, ovvero le applicazione pratiche, che gli consentono di raffinare le proprie virtutes. 2) Nell’età dell’oro è ipotizzabile che la purezza, la positività della condizione umana, abbia raggiunto un livello tale che sia impossibile avere una si manifesti la virtù. Infatti, gli uomini nascono innocenti e, quindi, non devono scegliere tra bene e male, e gli uomini vengono praticamente privati della loro libertà di scelta. Perciò, li possiamo considerare come dei prigionieri di una cella dorata, poiché vivono bene e felici, ma non sono liberi. L’unica virtus è quella di riuscire a vivere in completa armonia con la natura, ma per loro questa è la normalità e, quindi, nuovamente non si può considerare una vera e propria virtù 3) Platone, nel suo dialogo intitolato Politico, modifica il mito dell’età dell’oro. Per il filosofo si succedono due cicli, il primo ascendente, coincidente con l'età dell'oro, l'altro discendente. Nel primo ciclo gli umani, divisi in greggi, sono subordinati e accuditi da delle divinità, di cui una è superiore alle altre. L'età dell'oro platonica ha, quindi, una veste pastorale e il suo eden originario somiglia ad un utopico comunismo, in cui la condivisione dei beni e l'assenza di necessità di lavorare lasciano spazio ad altre attività, come conversare e fare dedicarsi alla filosofia, allo sviluppo del pensiero. I poeti iniziano poi a romanizzare il mito e il primo è Ennio, che nei suoi Annales trasforma cCrono in Saturno, con il quale coinciderà un periodo felice della storia italica, la Saturnia Tellus. Il prossimo successivo è Virgilio, che prima, nella IV Ecloga delle Georgiche, celebrerà la nascita del figlio di Asinio Pollione nei termini del segno di un ritorno dell'età dell'oro, e . pPoi, nell’Eneide, farà risalire a Ottaviano Augusto il merito di aver restaurato l’età di Saturno, salvando il Lazio dalle guerre civili. Con Virgilio, quindi, il mito assume una valenza decisamente politica. Infine, possiamo constatare come Eden e Saturnia Tellus siano accomunati dallo stesso stato di benessere “spensierato” dell’uomo. Infatti, entrambi si configurano come un grande luogo periodo in cui gli uomini vivono senza provare il timore per le divinità che contraddistingue le epoche successive. 4) Gli uomini erano senza un giustiziere sicuro. Gli uomini vivevano tranquilli, anche senza qualcuno che esercitasse la giustizia. Con questa frase Nel verso Ovidio sottolinea come non ci fossero delle leggi o un giustiziere uno che dovesse esercitare la giustizia, vindice, qui ricondotta, per via etimologica, alla vendetta, durante l’età dell’oro, perché gli uomini non ne necessitavano: infatti, gli uomini vivevano spontaneamente in armonia tra loro e con la natura. Solo con la fine dell’età aurea e con l’avvento di Zeus, gli uomini iniziano a vivere un’esistenza dettata dalle regolata da leggi e dal esposta ad arbitri nonché attraversata dal timore per le autorità. Questo denota nuovamente come la fine dell’età dell’oro sia vista come una punizione per da Ovidio, perché quest’evento ha reso l’uomo incapace di controllarsi da solo e lo ha costretto a una vita di terrore e di servitù. gran parte degli esseri umani debole e incapace di governarsi da sola, e pertanto esposta a vivere nel terrore e nell'asservimento.





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