LEZIONE DEL 15 MARZO - LA RISALITA VERSO LA SUPERFICIE - L'IMPOSSIBILE RITORNO - PAVESE

Mentre lui dice così, pizzicando le corde, singhiozzano le anime esangui; Tantalo si disinteressa dell’acqua che gli sfugge; la ruota di Issione s’imbambola; gli avvoltoi smettono di rovistare nel fegato [il riferimento è a Tizio, un gigante punito da Zeus per la sua tracotanza]; mollan le brocche le nipoti di Belo [si tratta delle Danaidi]  e tu, Sisifo, ti sei messo a sedere sul sasso. Per la prima volta le Eumenidi, turbate dal canto, si dice bagnassero il viso di lacrime. Né la consorte del re, né lo stesso re degli abissi resistono a quella preghiera; convocano Euridice, e fra le ombre nuove arrivate eccola farsi avanti zoppicando per la ferita. 

VV. 50-67

Hanc simul et legem Rhodopeius accipit Orpheus,   50

ne flectat retro sua lumina, donec Avernas

exierit valles; aut irrita dona futura.

Carpitur acclivis per muta silentia trames,

arduus, obscurus, caligine densus opaca.

55Nec procul afuerant telluris margine summae;

hic, ne deficeret metuens avidusque videndi,

flexit amans oculos et protinus illa relapsa est;

bracchiaque intendens prendique et prendere certans,

nil nisi cedentis infelix arripit auras.

60Iamque iterum moriens non est de coniuge quicquam

questa suo (quid enim nisi se quereretur amatam?)

supremumque "vale", quod iam vix auribus ille

acciperet, dixit, revolutaque rursus eodem est.

Non aliter stupuit gemina nece coniugis Orpheus

65quam tria qui timidus, medio portante catenas,

colla canis vidit, quem non pavor ante reliquit

quam natura prior, saxo per corpus oborto;   67

 

Traduzione di Sermonti

Se la riprende, l'eroe del Rodope, a patto di non voltare indietro la testa, fintanto non fosse uscito dalle bolge d'Averno: altrimenti il premio sarebbe sfumato. Si avventurano per un viottolo in salita, scosceso, abbuiato da un nebbione compatto, dentro un silenzio muto. E sono lì lì per raggiungere la superficie, che lui nel timore di averla perduta e smanioso di rivederla, per amore si gira, e lei gli scivola subito via, e tende le braccia per aggrapparglisi e farlo aggrappare, senza stringere altro, poverina, che l'aria fugace. Ma morendo di nuovo, lei non si lagna di suo marito (di cosa potrebbe lagnarsi, se non di essere amata?) e datogli un ultimo addio, che gli orecchi di lui percepiscono appena appena, ripiomba in fondo all'abisso di prima. Alla seconda morte della moglie impietrisce Orfeo come quello che vide i tre colli del cane di Stige, il collo di mezzo in catene, e non gli passò la paura finché non cambiò di natura diventando tutto di sasso. 

Da C. Pavese, Dialoghi con Leuco

Il sesso, l’ebbrezza e il sangue richiamarono sempre il mondo sotterraneo e promisero a più d’uno beatitudini ctonie. Ma il tracio Orfeo, cantore, viandante nell’Ade e vittima lacerata come lo stesso Dionisio, valse di più.
(Parlano Orfeo e Bacca).

ORFEO: È andata così. Salivamo il sentiero tra il bosco delle ombre. Erano già lontani Cocito, lo Stige, la barca, i lamenti. S’intravvedeva sulle foglie il barlume del cielo. Mi sentivo alle spalle il fruscìo del suo passo. Ma io ero ancora laggiù e avevo addosso quel freddo. Pensavo che un giorno avrei dovuto tornarci, che ciò ch’è stato sarà ancora. Pensavo alla vita con lei, com’era prima; che un’altra volta sarebbe finita. Ciò ch’è stato sarà. Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravvidi il barlume del giorno. Allora dissi "Sia finita" e mi voltai. Euridice scomparve come si spegne una candela. Sentii soltanto un cigolìo, come d’un topo che si salva.
BACCA: Strane parole, Orfeo. Quasi non posso crederci. Qui si diceva ch’eri caro agli dèi e alle muse. Molte di noi ti seguono perché ti sanno innamorato e infelice. Eri tanto innamorato che - solo tra gli uomini - hai varcato le porte del nulla. No, non ci credo, Orfeo. Non è stata tua colpa se il destino ti ha tradito.
ORFEO: Che c’entra il destino. Il mio destino non tradisce. Ridicolo che dopo quel viaggio, dopo aver visto in faccia il nulla, io mi voltassi per errore o per capriccio.
BACCA: Qui si dice che fu per amore.
ORFEO: Non si ama chi è morto.
BACCA: Eppure hai pianto per monti e colline - l’hai cercata e chiamata - sei disceso nell’Ade. Questo cos’era?
ORFEO: Tu dici che sei come un uomo. Sappi dunque che un uomo non sa che farsi della morte. L’Euridice che ho pianto era una stagione della vita. Io cercavo ben altro laggiù che il suo amore. Cercavo un passato che Euridice non sa. L’ho capito tra i morti mentre cantavo il mio canto. Ho visto le ombre irrigidirsi e guardar vuoto, i lamenti cessare, Persefòne nascondersi il volto, lo stesso tenebroso-impassibile, Ade, protendersi come un mortale e ascoltare. Ho capito che i morti non sono più nulla.
BACCA: Il dolore ti ha stravolto, Orfeo. Chi non rivorrebbe il passato? Euridice era quasi rinata. 

ORFEO: Per poi morire un’altra volta, Bacca. Per portarsi nel sangue l’orrore dell’Ade e tremare con me giorno e notte. Tu non sai cos’è il nulla.
BACCA: E così tu che cantando avevi riavuto il passato, l’hai respinto e distrutto. No, non ci posso credere.
ORFEO: Capiscimi, Bacca. Fu un vero passato soltanto nel canto. L’Ade vide se stesso soltanto ascoltandomi. Già salendo il sentiero quel passato svaniva, si faceva ricordo, sapeva di morte. Quando mi giunse il primo barlume di cielo, trasalii come un ragazzo, felice e incredulo, trasalii per me solo, per il mondo dei vivi. La stagione che avevo cercato era là in quel barlume. Non m’importò nulla di lei che mi seguiva. Il mio passato fu il chiarore, fu il canto e il mattino. E mi voltai.
BACCA: Come hai potuto rassegnarti, Orfeo? Chi ti ha visto al ritorno facevi paura. Euridice era stata per te un’esistenza.
 ORFEO: Sciocchezze. Euridice morendo divenne altra cosa. Quell’Orfeo che discese nell’Ade, non era più sposo né vedovo. Il mio pianto d’allora fu come i pianti che si fanno da ragazzo e si sorride a ricordarli. La stagione è passata. Io cercavo, piangendo, non più lei ma me stesso. Un destino, se vuoi. Mi ascoltavo.
BACCA: Molte di noi ti vengon dietro perché credevano a questo tuo pianto. Tu ci hai dunque ingannate?
ORFEO: O Bacca, Bacca, non vuoi proprio capire? Il mio destino non tradisce. Ho cercato me stesso. Non si cerca che questo.
BACCA: Qui noi siamo più semplici, Orfeo. Qui crediamo all’amore e alla morte, e piangiamo e ridiamo con tutti. Le nostre feste più gioiose sono quelle dove scorre del sangue. Noi, le donne di Tracia, non le temiamo queste cose.
ORFEO: Visto dal lato della vita tutto è bello. Ma credi a chi è stato tra i morti... Non vale la pena.

BACCA: Un tempo non eri così. Non parlavi del nulla. Accostare la morte ci fa simili agli dèi. Tu stesso insegnavi che un’ebbrezza travolge la vita e la morte e ci fa più che umani... Tu hai veduto la festa.
ORFEO: Non è il sangue ciò che conta, ragazza. Né l’ebbrezza né il sangue mi fanno impressione. Ma che cosa sia un uomo è ben difficile dirlo. Neanche tu, Bacca, lo sai.
BACCA: Senza di noi saresti nulla, Orfeo.

ORFEO: Lo dicevo e lo so. Ma poi che importa? Senza di voi sono disceso all’Ade...
BACCA: Sei disceso a cercarci.
ORFEO: Ma non vi ho trovate. Volevo tutt’altro. Che tornando alla luce ho trovato.
BACCA: Un tempo cantavi Euridice sui monti...
ORFEO: Il tempo passa, Bacca. Ci sono i monti, non c’è più Euridice. Queste cose hanno un nome, e si chiamano uomo. Invocare gli dèi della festa qui non serve.
BACCA: Anche tu li invocavi.
ORFEO: Tutto fa un uomo, nella vita. Tutto crede, nei giorni. Crede perfino che il suo sangue scorra alle volte in vene altrui. O che quello che è stato si possa disfare. Crede di rompere il destino con l’ebbrezza. Tutto questo lo so e non è nulla.
 BACCA: Non sai che farti della morte, Orfeo, e il tuo pensiero è solo morte. Ci fu un tempo che la festa ci rendeva immortali.
ORFEO: E voi godetela la festa. Tutto è lecito a chi non sa ancora. E’ necessario che ciascuno scenda una volta nel suo inferno. L’orgia del mio destino è finita nell’Ade, finita cantando secondo i miei modi la vita e la morte.
BACCA: E che vuol dire che un destino non tradisce?
ORFEO: Vuol dire che è dentro di te, cosa tua; più profondo del sangue, di là da ogni ebbrezza. Nessun dio può toccarlo.
BACCA: Può darsi, Orfeo. Ma noi non cerchiamo nessuna Euridice. Com’è dunque che scendiamo all’inferno anche noi?
ORFEO: Tutte le volte che s’invoca un dio si conosce la morte. E si scende nell’Ade a strappare qualcosa, a violare un destino. Non si vince la notte, e si perde la luce. Ci si dibatte come ossessi. 

BACCA: Dici cose cattive... Dunque hai perso la luce anche tu?
ORFEO: Ero quasi perduto, e cantavo. Comprendendo ho trovato me stesso.
BACCA: Vale la pena di trovarsi in questo modo? C’è una strada più semplice d’ignoranza e di gioia. Il dio è come un signore tra la vita e la morte. Ci si abbandona alla sua ebbrezza, si dilania o si vien dilaniate. Si rinasce ogni volta, e ci si sveglia come te nel giorno.

ORFEO: Non parlare di giorno, di risveglio. Pochi uomini sanno. Nessuna donna come te, sa cosa sia.

BACCA: Forse è per questo che ti seguono, le donne della Tracia. Tu sei per loro come il dio. Sei disceso dai monti. Canti versi di amore e di morte.
ORFEO: Sciocca. Con te si può parlare almeno. Forse un giorno sarai come un uomo.
BACCA: Purché prima le donne di Tracia...
ORFEO: Di’.
BACCA: Purché non sbranino il dio.

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