ORAZIO - MATERIALE PER LEZIONI DEL 26APRILE/3 MAGGIO/16 MAGGIO (COMPLETO)

Orazio nasce a Venosa, attualmente in Basilicata (in territorio lucano)  nel 65 a. C. Suo padre è forse un liberto, ossia uno schiavo liberato, come lo stesso poeta ha occasione di scrivere in un suo componimento (la Satira I, in cui si legge me libertino parte natum, io, nato da un padre di origine servile) che tuttavia guadagna abbastanza (forse come esattore di tasse) per garantirgli studi continuativi e approfonditi, che Orazio conduce prima a Roma, poi ad Atene (studi retorici) e quindi in Campania presso l'epicureo Filodemo. Ad Atene entra in contatto con altri giovani romani che politicamente si riconoscono nelle idee repubblicane e anticesariane: di qui la militanza sotto Bruto, dopo la morte di Cesare, in veste di tribunus militum. Dopo la sconfitta di Filippi nel 42 a. C., che segna l'inizio dell'ascesa irresistibile di Ottaviano Augusto al potere, prende definitivamente le distanze dalla lotta politica. Si tratta di un distacco che certo affonda le sue radici, e trova le sue motivazioni basilari,  nell'epicureismo e negli insegnamenti di Filodemo: come ben ripreso da Lucrezio nel De rerum natura, l'acme della vita del saggio epicureo coincide col raggiungimento di un'autonomia esistenziale, autàrcheia, che, in ottemperanza all'indicazione del làthe biòsas ossia vivi nascostamente), allontana il soggetto dalle incombenze civili, in assoluto contrasto con il mos maiorum, ma certo coerentemente con la situazione di incertezza e di disagio prodotta dagli ultimi eventi storici, ossia dalle turbolenze delle guerre civili.  Come lo stesso poeta racconta in qualche passaggio autobiografico della sua produzione, i primi anni dopo Filippi sono dedicati da una parte alla sopravvivenza, s'impiega come scriba questorio, dall'altra all'approfondimento della pratica poetica, studiando la diatriba stoico-cinica, i poeti giambici greci come Ipponatte e Archiloco e la poesia lirica ellenistica classica e alessandrina (dal VII secolo a. C., con Alceo e Saffo, agli alessandrini del III e II secolo, come Teocrito).  Conosce Virgilio e viene da lui presentato a Mecenate nel 38 a. C., di cui diventa amico per tutta la vita.  Lo segue infatti nel viaggio a Brindisi del 37 per il rinnovo dell'accordo fra Ottaviano e Antonio. Tornato a Roma, diventa una figura di spicco del circolo poetico, ma soprattutto si approfondisce il suo legame di amicizia con Mecenate, che ne 31 circa gli dona un podere in Sabina, una sorta di rifugio dalla vita cittadina per Orazio. fino alla morte, avvenuta a pochi mesi di distanza da quella di Mecenate, nell'8 a. C. 

Orazio scrive Epodi, Odi (entrambe sono raccolte di liriche, rispettivamente in metri giambici e in metri vari),  Satire ed Epistole entrambe  in esametri. Gli Epodi sono la sua prima prova poetica, in cui prende a modello in particolare il lirico greco Ipponatte, autore, nel VII-VI secolo a. C., di componimenti in giambi (versi dal ritmo incalzante e zoppicante, determinato da serrate successioni di vocali brevi e lunghe) dal contenuto violento e accusatorio. Forse il suo primo componimento è  l'epodo XIII, dell'epoca di Filippi, in cui si legge:

Tremenda tempesta ha convogliato le nubi; scaricano giù il cielo piogge e nevi; ora il mare, ora le selve fremono al soffio della tramontana che viene dalla Tracia. Amici, cogliamo a volo l'occasione del giorno e, finché salde sono le ginocchia, s'addice tenere lontana la vecchiaia dalla fronte corrucciata. Tu spilla il vino pigiato l'anno che nacqui, sotto il console Torquato. D'altro non devi parlare: forse un dio, mutandola in bene, accomoderà ogni cosa. Ora ci piace olezzare di profumi persiani e sollevare lo spirito dell'affannosa tristezza con la cetra di Mercurio, come il Centauro famoso cantava al suo grande discepolo: "invitto fanciullo, nato mortale dalla mortale Tetide, ti attende la terra troiana, percorsa dal gelido e torrenziale piccolo Scamandro e dal Simoenta dannnoso, da cui a te le Parche con il loro infallibile filare hanno spezzato il ritorno; né la cerule madre ti riporterà in patria. Laggiù lenisci l'ambascia col vino e col canto, i dolci contraddittori dell'avvilente tristezza". 

Si possono rintracciare nel componimento  alcuni temi che ritorneranno nella produzione oraziana posteriore: la metafora della tempesta, che squassa le foreste e il mare, allude alle turbolenze esistenziali, guerra compresa, dalle quali ci si può distrarre con la convivialità, che si gode particolarmente da giovani, quando la vecchiaia è ancora lontana. Cibi, bevande, profumi, musica, possono tenere lontana la tristezza, nonché un canto nostalgico, che a sua volta rammenta le gioie, seppur fugaci, procurate da un buon vino. L'invito alla convivialità si approfondisce nel tempo, come vedremo nelle Odi, ma manifesta già qui la sua matrice epicurea: nell'impossibilità di opporsi all'ininterrotto processo di vita e di morte di cui è intessuta la realtà, conviene disporsi a ricercare l'equilibrio interiore, pur senza negare soddisfazioni al corpo, almeno finché la giovinezza permette di godere fino in fondo del piacere. Di epoca poco posteriore è la satira che si presenta nel I libro come VII e in ogni caso la composizione degli Epodi e delle Satire procede di pari passo: nel 35 il poeta dedica il I libro delle Satire  a Mecenate, e nel 30 l'intero libro degli Epodi e il II delle Satire.  Al 23 risalgono invece i primi tre libri delle Odi, tutti dedicati a Mecenate. Come conclusione della sua produzione concepisce nell'ordine il I libro delle Epistulae,  il IV libro delle Odi  e il II delle Epistole, all'interno del quale si trova il componimento noto come Ars poetica. 
L'ispirazione poetica di Orazio, un classico per eccellenza, proprio come Virgilio, è compenetrata con la sua esistenza. Fatte, l'una e l'altra (la poesia e la vita) di svolte  e di autàrkeia, l'autonomia dettata dalla ricerca esistenziale di matrice epicurea. Consideriamo per cominciare le svolte esistenziali. La prima coincide con Filippi: la battaglia che segna la fine del sogno repubblicano e dell'affidamento, intriso d'entusiasmo giovanile, alla forza degli eventi storici, ai quali anche il singolo può, se vuole, dare un contributo. Orazio torna sconfitto (ma è un evento collettivo) a doversi occupare della propria sopravvivenza, dato che in concomitanza con Filippi si verifica anche la morte del padre. La prima svolta esistenziale lo conduce quindi a diventare un umile scriba questorius, un qualunque funzionario di stato, uno scribacchino. Ma non resta fermo a questo, gli studia lo tengono impegnato, lo conducono direttamente alla seconda svolta esistenziale, alla conoscenza con Mecenate, alla partecipazione alla vita culturale della capitale, collateralmente anche alle vicende del potere e alla promozione della propria arte. Poi la maturità e la ricerca dell'isolamento, intervallata al piacere dell'amicizia, fino alla morte. Le svolte in ambito creativo coincidono invece con le sue straordinarie invenzioni di poeta. Nella fucina del poeta intriso di conoscenza del passato (il suo classicismo nasce da lì) a ribollire nei calderoni sono i grandi poeti monodici della antichità greca come Alceo, Saffo, Archiloco, Bione di Boristene raffinatamente comico nella sua forma diatribica, Pindaro e Ipponatte, ma anche Lucrezio  e, collateralmente, Lucilio, Catullo, persino Cicerone. Si tratta di fucina e di calderoni, poi a rendere tutto unico e originale è il genio inventivo del poeta innovatore. Innova con le Satire, con le Odi, con le Epistole. Queste ultime, in particolare, non hanno proprio precedenti, nella forma che dà loro Orazio.  Ma seguo il percorso compositivo trattando le forme in questione nell'ordine appena istituito. Le Satire sono suddivise in due libri, rispettivamente di 10 e di 8 componimenti in esametri. Il genere è, annoterà il retore e maestro Quintiliano vissuto nel I secolo d. C. all'epoca degli imperatori Flavi, tutto latino (satyra tota nostra est, scrive nella sua Institutio oratoria), sottolineando così come si tratti dell'unica forma letteraria che non sia stata inventata dai greci. Il primo autore latino a farne uso è Lucilio, nel II secolo a. C., ma dal punto di vista del classico Orazio, Lucilio è un poeta arcaico, che fluit lutulentus, scorre fangoso, ossia con uno stile che non ha ancora avuto modo di perfezionarsi con il necessario labor limae. Quanto all'orgine del termine satira esso probabilmente risale a un uso religioso: offrire agli dei un lanx satura ovvero un piatto (lanx) pieno di prelibatezze (satura), con riferimento quindi alla varietà: in effetti la satira è una forma poetica che, già in Lucilio ma ancor più in Orazio, si presta a una notevole varietà di contenuti, compresi quelli tratti dalla vita reale, quotidiana, o dall'esperienza diretta e autobiografica dell'autore. Un tratto originario, cioè luciliano, peculiare della satira è poi la sua aggressività, la mordacità critica, esercitata sia nei riguardi di soggetti riconoscibili del tempo sia di categorie di persone. La satira è insomma pervasa di spirito polemico, ironico, volto a smascherare ipocrisie della contemporaneità, tenendo sotto controllo quella che si può considerare una facile deriva dello spirito critico ovvero il moralismo. Considero ora separatamente i due libri. Nel primo libro la I satira tratta il tema dell'insoddisfazione umana. Si tratta di un argomento gnomico, trattato in modo da mettere in evidenza come gli esseri umani non riescano a ottenere, se non la felicità, nemmeno la semplice soddisfazione che può scaturire dal sapere di star facendo del proprio meglio. La seconda satira contiene un dibattuto su adulterio e prostituzione, che si risolve a favore di quest'ultima, la terza   è un'ironica trattazione della perfetta saggezza stoica, la IV, di argomento letterario, un'apologia della poesia satirica che contiene riferimenti a Lucilio, la V il racconto di un viaggio di Mecenate a Brindisi, la VI una lode di Mecenate che ha accolto nella sua cerchia un poeta di umili origini come Orazio, la VII una scena comica tra due litiganti con un terzo che sopraggiunge e gode, l'VIII un'altra storiella comica narrata dalla statua del dio Priapo, la IX è la celebre satira dello scocciatore,  e la X è di nuovo una satira letteraria in difesa del genere, con elencazione di pregi e difetti di Lucilio. Il secondo libro contiene una I satira che contiene un confronto fra un poeta satirico e un giurista sui rischi della professione del primo, una II che contiene l'elogio della semplicità della vita campestre, una III che critica l'idea stoica secondo cui solo il sapiente è sano di mente, la IV che propone come massime filosofiche dei precetti di cucina, la V in cui Tiresia spiega a Ulisse come diventare cacciatore d'eredità, la VI che è la favola del topo di città e di campagna, la VII in cui il servo Davo contesta al padrone Orazio l'incapacità di contenere le passioni e infine l'VIII che evoca scene tratte dal volgare banchetto di Nasidieno. 
SATIRA  I, 1
Qui fit, Maecenas, ut nemo, quam sibi sortem
Come accade, Mecenate, che nessuno, del quale destino  a se stesso
seu ratio dederit seu fors obiecerit, illa
sia gli abbia dato la ragione sia gli abbia procurato la sorte, di quello 
contentus vivat, laudet diversa sequentes?
contento viva, lodi quelli che seguono cose differenti?
"O fortunati mercatores" gravis annis
"O fortunati i mercanti" appesantito dagli anni
miles ait, multo iam fractus membra labore;
il soldato dice, dal molto ormai spezzato nelle membra lavoro; 
contra mercator navim iactantibus Austris:
al contrario il mercante mentre gli Austri sballottano la nave: 
"Militia est potior. Quid enim? Concurritur: horae
"La milizia è preferibile. Che cosa infatti? Si va all'assalto: di un'ora
momento cita mors venit aut victoria laeta".
nello spazio una veloce morte viene o una lieta vittoria."
Agricolam laudat iuris legumque peritus,
Il contadino loda di diritto e di leggi l'esperto, 
sub galli cantum consultor ubi ostia pulsat;
al canto del gallo il clente quando la porta bussa: 
ille, datis vadibus qui rure extractus in urbem est,
quello, portati i garanti il quale dalla campagna è stato catapultato in città,
solos felicis viventis clamat in urbe.
soli felici quelli che vivono proclama in città.
[...]. Ne te morer, audi,
Perché non ti faccia indugiare, ascolta,
quo rem deducam. Si quis deus "en ego" dicat
dove la cosa io conduca. Se un dio "eccomi" dica
"iam faciam quod voltis: eris tu, qui modo miles,
"adesso farò ciò che volete: sarai tu, che ora soldato, 
mercator; tu, consultus modo, rusticus: hinc vos,
mercante; tu, giurista ora, contadino: di qui voi, 
vos hinc mutatis discedite partibus. Eia,
voi di qua allontanatevi essendosi scambiate le parti. Ehi, 
quid statis?" nolint. Atqui licet esse beatos.
perché state fermi? Non vogliono. Eppure sarrebbe possibile essere felici. 
Quid causae est, merito quin illis Iuppiter ambas
Che cosa di motivo c'è, perché meritatamente Giove entrambe
iratus buccas inflet neque se fore posthac
irato le guance gonfi e non se stesso sarà poi
tam facilem dicat, votis ut praebeat aurem?
tanto facile dica, alle richieste che presti orecchio? 
 (Orazio, Sermones, I, 1)
Quella riportata sopra è una traduzione interlineare. A ogni termine corrisponde la sua meccanica traduzione. Questa operazione, che naturalmente sottintende una certa conoscenza di regole grammaticale e un primo intendimento del testo raggiunto attraverso multiple letture del medesimo, deve essere considerata preliminare, e si può certo realizzare a mente, senza scrivere le parole sul testo. 
Questo primo risultato si mette poi a frutto in una traduzione che non è ancora quella definitiva, ma già è soddisfacente dal punto di vista di un traduttore che intenda soprattutto cogliere il primo intento comunicativo del testo, senza troppe sottigliezze, ma soprattutto senza nessuna intenzione di renderlo in maniera soggettiva. Per questo motivo denomino questa prima traduzione, 
TRADUZIONE 1
Come avviene, Mecenate, che nessuno si appaghi del destino che gli abbia assegnato la ragione o il fato, ma lodi quelli che praticano vie diverse? "Fortunati i mercanti" esclama il soldato con le membra ormai spezzate dalla grande fatica; al contrario il mercante, mentre i venti Austri sballottano la nave: "E' preferibile essere soldati. Che cos'è, infatti? Si va all'assalto e nel giro di un'ora sopraggiunge o una veloce morte o una lieta vittoria." L'esperto di diritto e di leggi loda il contadino, quando il cliente bussa alla sua porta al canto del gallo; quello che, portati i garanti, è stato catapultato dalla campagna in città, proclama felici solo quelli che vivono in città. Per farla breve, ascolta dove faccio arrivare il discorso: se un dio dicesse "Eccomi, farò ciò che volete: tu che ora sei un soldato sarai un mercante, tu avvocato, un contadino; voi di qua, di là voi altri, allontanatevi a parti scambiate.Ehi, perché state fermi? Non vogliono. Eppure sarebbe possibile essere felici. Non ci sarebbe motivo perché Giove, adirato, gonfiasse entrambe le gote e dicesse che non presterà tanto facilmente ascolto alle preghiere?
La seconda traduzione tiene conto del fatto che il processo di cui ci stiamo occupando è caratterizzato da un costante aggiornamento. Non esiste infatti una traduzione definitiva di nessun testo, compresi quelli che nel tempo siano stati più tradotti, come alcuni classici latini e greci, compreso l'Orazio con cui ci stiamo cimentando noi. Ogni epoca fornisce infatti suoi intendimenti dei testi, proprio per questo ritenuti universali,  senza contare che ogni traduttore rende ulteriormente multiple le possibili rese e intendimenti in questione. 
Per tale ragione, definisco la prossima
TRADUZIONE C.B finale
Come mai, Mecenate, nessuno è soddisfatto della vita che conduce, per necessità o per caso, e esalta quelle altrui? "Son fortunati i mercanti" proclama il soldato col fisico spezzato dalla fatica di anni; viceversa il mercante, nel mezzo della tempesta che squassa la nave, "Beati i soldati: nello spazio di un'ora o son morti o hanno vinto." L'avvocato, quando il cliente lo disturba al mattino presto, invidia il contadino; chi si ritrova catapultato dalla campagna in città  esalta il vivere urbano. Abbrevio il discorso e ti porto dove voglio arrivare. Se apparisse un dio e dicesse: "Eccomi a realizzare i vostri desideri: tu, soldato, sarai mercante, tu avvocato un contadino. Scambiatevi i ruoli. Perché state lì impalati? Non vogliono. Eppure potrebbero. Non avrebbe ragione Giove ad adirarsi e a dire che non darà ascolto a desideri di sorta?
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Dagli Epodi (17 in tutto), scritti fra il 42 e il 30 (Filippi - Azio)
XIII
Probabilmente il primo a essere composto: evoca il giorno precedente la battaglia di Filippi e risuona già dello spirito del carpe diem.  
Una tempesta spaventosa serra il cielo, scendono dall'alto
pioggia e neve, e mare e foreste rimbombano al vento del Nord.
Amici miei, cogliamo il momento e, finché
ci reggiamo decorosamente in piedi, sgombriamo la mente
da pensieri oscuri. E tu, mesci il vino del mio anno di nascita,
smetti di parlare: forse un dio volgerà tutto nel miglior modo.
Ora giova profumarci di essenze orientali, e stornare le preoccupazioni
con la musica. Ecco le parole di Chirone, il suo viatico per Achille:
"fanciullo nato mortale da una dea, invincibile figlio di Teti,
ti attende la terra Troiana, attraversata dalle gelide correnti del Simoenta,
del torrente Xanto, da cui le Parche non hanno previsto per te ritorno. 
Neppure la tua madre marina potrà concedertelo.
Laggiù, dovrai rimediare al dolore col vino,
con la musica, dolci conforti al dolore che ci deturpa."  
XIV
Uno dei tanti carmi dedicati a Mecenate: il poeta si scusa di non riuscire a seguire la sua ispirazione perché distratto dall'amore di Frine (l'etèra per antonomasia). 
Perché un tedio m'abbia infuso
in fondo al cuore tanto oblio,
come se per arsura inestinguibile avessi inghiottito
con l'acqua del Lete il sonno eterno,
mio buon Mecenate, m'uccidi a forza di chiederlo;
è un dio, un dio a impedirmi
di condurre a termine i giambi che avevo iniziato,
le poesie che ti promisi.
Cosí, cosí dicono che per Battillo di Samo
a Teo ardesse Anacreonte,
il poeta che al suono della lira tanto spesso
pianse d'amore in ritmi spezzati.
Ahimè, anche tu bruci, ma la fiamma che incendiò
Troia in armi non fu piú bella:
godi della tua sorte. E' Frine, quella libertina,
che mi estenua, e non le basto nemmeno.
Dai SermonesSatire
I, 1 
Sermo I, 1  Est modus in rebus
Satira I, 1 Il senso della misura 
Qui fit, Maecenas, ut nemo, quam sibi sortem
seu ratio dederit seu fors obiecerit, illa
contentus vivat, laudet diversa sequentis?
"O fortunati mercatores" gravis annis
miles ait, multo iam fractus membra labore;
contra mercator navim iactantibus Austris:
"Militia est potior. Quid enim? Concurritur: horae
momento cita mors venit aut victoria laeta".
Agricolam laudat iuris legumque peritus,
sub galli cantum consultor ubi ostia pulsat;
ille, datis vadibus qui rure extractus in urbem est,
solos felicis viventis clamat in urbe.
Cetera de genere hoc - adeo sunt multa - loquacem
delassare valent Fabium. Ne te morer, audi,
quo rem deducam. Si quis deus "en ego" dicat
"iam faciam quod voltis: eris tu, qui modo miles,
mercator; tu, consultus modo, rusticus: hinc vos,
vos hinc mutatis discedite partibus. Eia,
quid statis?" nolint. Atqui licet esse beatis.
Quid causae est, merito quin illis Iuppiter ambas
iratus buccas inflet neque se fore posthac
tam facilem dicat, votis ut praebeat aurem?
[...]Milia frumenti tua triverit area centum:
non tuus hoc capiet venter plus ac meus: ut, si
reticulum panis venalis inter onusto
forte vehas umero, nihilo plus accipias quam
qui nil portarit. Vel dic quid referat intra
naturae finis viventi, iugera centum an
mille aret? "At suave est ex magno tollere acervo".
dum ex parvo nobis tantundem haurire relinquas,
cur tua plus laudes cumeris granaria nostris?
Ut tibi si sit opus liquidi non amplius urna
vel cyatho et dicas "Magno de flumine mallem
quam ex hoc fonticulo tantundem sumere [...]
est modus in rebus, sunt certi denique fines,
quos ultra citraque nequit consistere rectum.
Illuc, unde abii, redeo, qui nemo, ut avarus,
se probet ac potius laudet diversa sequentis,
quodque aliena capella gerat distentius uber,
tabescat neque se maiori pauperiorum
turbae conparet, hunc atque hunc superare laboret.
Sic festinanti semper locupletior obstat,
ut, cum carceribus missos rapit ungula currus,
instat equis auriga suos vincentibus, illum
praeteritum temnens extremos inter euntem.
Inde fit, ut raro, qui se vixisse beatum
dicat et exacto contentus tempore vita
cedat uti conviva satur, reperire queamus.
Iam satis est. Ne me Crispini scrinia lippi
conpilasse putes, verbum non amplius addam.
Com’è possibile, Mecenate amico mio, che nessuno sia soddisfatto del suo destino, di ragionevole o casuale origine che sia, nessuno viva appagato di esso e si estenui a forza di lodare i casi degli altri?
“Fortunati i mercanti” dice il soldato con le ossa spezzate dalla fatica di anni; viceversa il mercante, preda dei venti furiosi che quasi capovolgono la nave “Meglio soldato: che si fa, poi? Si va di corsa, e in un attimo sopraggiunge o la morte o una felice vittoria.” L’avvocato esalta la vita del contadino, quando all’alba il postulante bussa al sua porta; il contadino, costretto a testimoniare in città, proclama felici solo i cittadini.
Con casi del genere potrei, a forza di enumerarli, rendere afono l’uomo più garrulo del mondo. Allora, per non sfibrarti, arrivo al punto. Se arrivasse un dio e dicesse: “ora faccio come volete, tu che sei un soldato, ecco diventi un mercante; tu, giurista, contadino: da questa parte voi, voi altri di qui, scambiatevi i ruoli. Ma allora, perché state fermi?” Non vogliono. Eppure avrebbero la possibilità di essere felici. Vi meritereste che Giove, irato, gonfiasse le guance e d’ora in poi non ascoltasse le vostre preghiere. [...] Il tuo granaio contiene, ammassati, centomila moggi [un moggio corrisponde a  otto litri e mezzo]: non per questo il tuo ventre è più capiente del mio. Come se tu fossi lo schiavo che al mercato porta sulle spalle il sacco del pane: non ne riceveresti una briciola in più di chi non ha portato niente. O vuoi dirmi che ci sia una differenza, per chi vive entro i limiti della natura, tra arare centro iugeri [un quarto di ettaro] e mille? “Ma dà una bella sensazione prendere da un gran mucchio.” Purché ci permetta di attingere da un piccolo mucchio, perché considerare superiori i  tuoi granai ai  nostri panieri?
Un po’ come se ti servisse non più di una brocca o d’un bicchiere d’acqua e tu dicessi: “Preferisco attingerla da un grande fiume piuttosto che da questa fontanina.” [...] c’è una misura nelle cose, ci sono dei confini definiti, di qua e di là dai quali non sussiste il giusto.
Torno al punto di partenza: com’è che nessuno (è il caso dell’avaro) si appaghi del suo e esalti le vite degli altri, si strugga perché la capretta d’un altro ha le mammelle più gonfie e, invece di confrontarsi con quelli, ben più numerosi, che sono più poveri, si dia pena per superare questo o quell’altro. Così, benché s’affanni, c’è sempre a ostacolarlo uno più ricco, proprio come quando gli zoccoli trascinano via i carri lanciati fuori dalle gabbie, l’auriga incalza i cavalli che precedono i suoi, senza curarsi di quello che, ormai sorpassato, sta scivolando indietro fra gli ultimi. Accade perciò che di rado possiamo scovare uno che dica di essere vissuto felice e che, terminato il suo tempo, se ne contenti e abbandoni la vita come un convitato sazio. Ma adesso basta, non un parola di più, per non sembrarti un emulo del cisposo Crispino [filosofo predicatore stoico, prolisso autore di versi: Orazio scherza su di lui per alleggerire il tono del discorso; cisposi, secondo dicerie popolari, erano coloro che conducevano una vita sregolata: l’attribuzione a Crispino di questa caratteristica è di nuovo uno scherzo bonario]. CB

Sermo I, 9 Ibam forte via Sacra 
Satira I, 9 La satira dello scocciatore
Ibam forte via Sacra, sicut meus est mos,
nescio quid meditans nugarum, totus in illis.
Accurrit quidam notus mihi nomine tantum,
arreptaque manu "quid agis, dulcissime rerum?"
"suaviter, ut nunc est, "inquam, "et cupio omnia quae vis".
cum assectaretur, "num quid vis?" occupo. 
At ille "noris nos" inquit; "docti sumus". Hic ego "pluris

hoc" inquam "mihi eris". Misere discedere quaerens,
ire modo ocius, interdum consistere, in aurem dicere nescio quid
puero, cum sudor ad imos manaret talos.
"O te, Bolane, cerebri felicem!" aiebam tacitus,
cum quidlibet ille garriret, vicos, urbem laudaret.
ut illi nil respondebam, "misere cupis" inquit "abire;
iamdudum video: sed nil agis; usque tenebo;
persequar hinc quo nunc iter est tibi". "Nil opus est te

circumagi: quendam volo visere non tibi notum:
trans Tiberim longe cubat is, prope Caesaris hortos".
"Nil habeo quod agam et non sum piger: usque sequar te".
demitto auriculas, ut iniquae mentis asellus,
cum grauius dorso subiit onus. Incipit ille:
"Si bene me novi non Viscum pluris amicum,
non Varium facies: nam quis me scribere pluris
aut citius possit versus? Quis membra movere

mollius? Invideat quod et Hermogenes ego canto".
interpellandi locus hic erat: "Est tibi mater,
cognati, quis te salvo est opus?". Haud mihi quisquam:
omnis composui". "Felices! Nunc ego resto.
confice; namque instat fatum mihi triste, Sabella
quod puero cecinit divina mota anus urna:
hunc neque dira venena nec hosticus auferet ensis,
nec laterum dolor aut tussis, nec tarda podagra;
garrulus hunc quando consumet cumque: loquaces,
si sapiat, vitet, simul atque adoleverit aetas".
Ventum erat ad Vestae, quarta iam parte diei
praeterita, et casu tunc respondere vadato
debebat, quod ni fecisset, perdere litem.
'si me amas,' inquit 'paulum hic ades.' 'inteream, si
aut valeo stare aut novi civilia iura;
et propero quo scis.' 'dubius sum, quid faciam', inquit, 

'tene relinquam an rem.' 'me, sodes.' 'non faciam' ille,

et praecedere coepit; ego, ut contendere durum
cum victore, sequor. 'Maecenas quomodo tecum?'
hinc repetit. 'paucorum hominum et mentis bene sanae.'
“Nemo dexterius fortuna est usus. Haberes 
magnum adiutorem, posset qui ferre secundas,
hunc hominem velles si tradere: dispeream, ni
summosses omnis.' 'non isto vivimus illic,
quo tu rere, modo; domus hac nec purior ulla est
nec magis his aliena malis; nil mi officit, inquam, 
ditior hic aut est quia doctior; est locus uni
cuique suus.' 'magnum narras, vix credibile.' 'atqui
sic habet.' 'accendis quare cupiam magis illi
proximus esse.' 'velis tantummodo: quae tua virtus,
expugnabis: et est qui vinci possit eoque 
difficilis aditus primos habet.' 'haud mihi dero:
muneribus servos corrumpam; non, hodie si
exclusus fuero, desistam; tempora quaeram,
occurram in triviis, deducam. nil sine magno
vita labore dedit mortalibus.' haec dum agit, ecce 
Fuscus Aristius occurrit, mihi carus et illum
qui pulchre nosset. consistimus. 'unde venis et
quo tendis?' rogat et respondet. vellere coepi
et pressare manu lentissima bracchia, nutans,
distorquens oculos, ut me eriperet. male salsus 
ridens dissimulare; meum iecur urere bilis.
'certe nescio quid secreto velle loqui te
aiebas mecum.' 'memini bene, sed meliore
tempore dicam; hodie tricensima sabbata: vin tu
curtis Iudaeis oppedere?' 'nulla mihi' inquam 
'religio est.' 'at mi: sum paulo infirmior, unus
multorum. ignosces; alias loquar.' huncine solem
tam nigrum surrexe mihi! fugit inprobus ac me
sub cultro linquit. casu venit obvius illi
adversarius et 'quo tu, turpissime?' magna 
inclamat voce, et 'licet antestari?' ego vero
oppono auriculam. rapit in ius; clamor utrimque,
undique concursus. sic me servavit Apollo.
Passeggiavo per la via Sacra, preda come mio solito di pensieri varî e vani. D’un tratto mi si accosta un tale, che conosco di nome, mi afferra la mano e dice “Come stai amore mio?” “Bene, per ora. Ti auguro ogni bene”.
Dato che mi seguiva, lo precedo: “Vuoi qualcosa?”
Ma lui dice “Dovrei esserti noto: sono un intellettuale”. E io di rimando: “Per questo ti stimerò di più”. Tentando vanamente di distanziarlo, ora procedo più in fretta, ora mi fermo, dico non so cosa all’orecchio del mio schiavo, mentre sudo fino ai talloni. “Fortunate le teste calde” dicevo fra me e me, mentre quello cianciava di non so che, lodando le strade e la città. Dato che stavo zitto dice: “Vuoi dartela a gambe, eh? Me ne sono accorto da un po’, ma niente da fare, non ti mollerò: ti seguiròfino alla tua meta.” “Non è il caso tu faccia un giro così lungo: non conosci colui che vado a trovare: abita oltre al Tevere, vicino ai Giardini di Cesare.” “Non ho niente da fare e non sono pigro: verrò fin là con te.”
Abbasso le orecchie come un asinello scontento, quando gli si mette sulla schiena un carico troppo pesante. Quello ricomincia: “Se mi conosco bene, apprezzerai la mia amicizia più di quella di Visco e di Vario [fratelli, amici di Orazio, Virgilio e Mecenate]; in effetti, chi sa scrivere più versi, e più in fretta, di me? Chi danzare con più grazia? Persino Ermogene [cantore alla moda dell’epoca] mi invidia quando canto.” Era il momento adatto per chiedergli: “Hai una madre, un dei parenti, che tengono a te” “Non ho nessuno: li ho seppelliti tutti” “Beati loro! È la mia volta. Finiscimi. So che mi attende un triste destino, profetizzatomi  da ragazzo da una vecchia Sabina [la Sabina, provincia di Rieti, era considerata terra di fattucchiere] scuotendo l’urna profetica: costui non morirà a causa del veleno né di spada nemica, né di dolore al petto, tosse o podagra; a ucciderlo sarà un chiacchierone; si tenga lontano, se è saggio, non appena diverrà adulto, dai linguacciuti.
Eravamo arrivati al tempio di Vesta, già a un quarto della giornata, e caso voleva ch’egli dovesse presentarsi in giudizio come mallevadore: non l’avesse fatto la causa era persa. “Se mi vuoi bene”, dice, “mi assisti un attimo”. “Possa morire se ho la forza o la competenza di seguire cause civili; inoltre ho fretta di arrivare dove sai”. “Non so che fare, se lasciare te o la causa”. “Me, te ne prego”. “Non lo farò.” E inizia a precedermi. Io, consapevole di come sia difficile contendere con un vincitore, lo seguo.
“Come va con Mecenate?” ripiglia. “È un uomo con pochi amici e equilibrato.” “Nessuno ha sfruttato meglio di lui la sorte. Avresti un ottimo aiutante, che potrebbe favorirti, se volessi affidarti a quest’uomo che sono io: possa io crepare, se non li sotterreresti tutti.” “Lì non viviamo come tu sembri pensare: è un ambiente sano, alieno da malignità; non mi importa se uno è più ricco o più dotto: ciascuno ha quel che si merita.” “Gran cosa mi racconti, si fatica a crederla”. “Eppure è così”. “Mi stimoli anche più a volergli essere vicino” “Ti basta volerlo: con questa tua arte lo espugnerai; non è tipo difficile da essere vinto, e per questo rende difficile il primo accesso”. “Non mi lascerò mancare nessun mezzo: corromperò i servi a forza di regali: non desisterò se verrò escluso oggi: cercherò occasioni. Lo incontrerò ai crocicchi, lo incalzerò. Ai mortali non viene dato nulla senza fatica.” Mentre parla così, ecco ci viene incontro Fusco Aristio, mio caro amico che un poco lo conosce. Ci fermiamo. “Da dove vieni, dove vai” ci si interroga a vicenda. Io inizio a tirarlo, cerco di afferrare le sue braccia terribilmente inerti, gli faccio cenni, ammicco, perché mi tolga d’impaccio. Quel burlone fuori luogo, ridacchiando, fa il tonto: ho male al fegato.  
“Se non sbaglio dovevi parlarmi a quattr’occhi”. “Me ne ricordo, ma te lo dirò in un altro momento; oggi è il novilunio, è sabato: vuoi oltraggiare gli Ebrei?”Non ho scrupoli religiosi”. “Ma io sì: sono un po’ più debole di te, uno come tanti, perdonami: parleremo un’altra volta”.  Che brutta giornata! Il furfante se ne va e mi lascia sotto la lama. Per fortuna ci viene incontro il suo avversario in tribunale e “Dove vai canaglia?” grida a gran voce “Puoi farmi da testimone [rivolto a Orazio]? Io, naturalmente, presto orecchio...Lo trascina in tribunale; urla da ambo le parti, gente che accorre. Così Apollo mi ha salvato. CB

Trovate sotto riportato l'inizio dell'Epistola ai Pisoni (II, 3) nota come Ars poetica.


Humano capiti cervicem pictor equinam

iungere si velit et varias inducere plumas

undique collatis membris, ut turpiter atrum

desinat in piscem mulier formosa superne,

spectatum admissi risum teneatis, amici?

Credite, Pisones, isti tabulae fore librum

persimilem, cuius velut aegri somnia vanae

fingentur species, ut nec pes nec caput uni

reddatur formae. 'Pictoribus atque poetis

quidlibet audendi semper fuit aequa potestas.'

Scimus et hanc veniam petimusque damusque vicissim, sed non ut placidis coeant immitia, non ut

serpentes avibus geminentur, tigribus agni.

Inceptis gravibus plerumque et magna professis

purpureus, late qui splendeat, unus et alter

adsuitur pannus, cum lucus et ara Dianae

et properantis aquae per amoenos ambitus agros

aut flamen Rhenum aut pluvius describitur arcus.

Sed nunc non erat his locus. Et fortasse cupressum

scis simulare: quid hoc, si fractis enatat exspes

navibus aere dato qui pingitur? Amphora coepit

institui, currente rota cur urceus exit?

Denique sit quod vis simplex dumtaxat et unum.

Maxima pars vatum, pater et iuvenes patre digni,

decipimur specie recti: brevis esse laboro,

obscurus fio; sectantem levia nervi

deficiunt animique; professus grandia turget;

serpit humi tutus nimium timidusque procellae.

Qui variare cupit rem prodigialiter unam,

delphinum silvis appingit, fluctibus aprum.

In vitium ducit culpae fuga, si caret arte.

Aemilium circa ludum faber imus et ungues

exprimet et mollis imitabitur aere capillos,

infelix operis summa, quia ponere totum

nesciet. Hunc ego me, si quid componere curem,

non magis esse velim, quam pravo vivere naso,

spectandum nigris oculis nigroque capillo.

Sumite materiam vestris, qui scribitis, aequam

viribus, et versate diu quid ferre recusent,

quid valeant umeri: cui lecta potenter erit res,

nec facundia deseret hunc nec lucidus ordo.

Ordinis haec virtus erit et venus, aut ego fallor,

ut iam nunc dicat iam nunc debentia dici,

pleraque differat et praesens in tempus omittat,

hoc amet, hoc spernat promissi carminis auctor.

In verbis etiam tenuis cautusque serendis

dixeris egregie, notum si callida verbum

reddiderit iunctura novum. Si forte necesse est

indiciis monstrare recentibus abdita rerum,

fingere cinctutis non exaudita Cethegis

continget, dabiturque licentia sumpta pudenter.

Et nova fictaque nuper habebunt verba fidem, si

Graeco fonte cadent, parce detorta: quid autem

Caecilio Plautoque dabit Romanus, ademptum

Vergilio Varioque? Ego cur acquirere pauca

si possum invideor, cum lingua Catonis et Enni

sermonem patrium ditaverit et nova rerum

nomina protulerit? Licuit semperque licebit

signatum praesente nota producere nomen.

Ut silvae foliis pronos mutantur in annos,

prima cadunt, ita verborum vetus interit aetas,

et iuvenum ritu florent modo nata vigentque.

Debemur morti nos nostraque, sive receptus

terra Neptunus classis Aquilonibus arcet,

regis opus, sterilisve diu palus aptaque remis

vicinas urbes alit et grave sentit aratrum;

seu cursum mutavit iniquum frugibus amnis,

doctus iter melius: mortalia facta peribunt,

nedum sermonum stet honos et gratia vivax.

Multa renascentur, quae iam cecidere, cadentque

quae nunc sunt in honore vocabula, si volet usus,

quem penes arbitrium est et ius et norma loquendi.

 I Se abbozzando una testa umana, il pittore volesse unirla a  un collo di cavallo e a membra d'ogni natura ricoperte di  penne variopinte, facendo terminare oscenamente  le stupende fattezze muliebri con la coda nera di un pesce, e vi mostrasse il tutto, sapreste, amici miei, astenervi dal ridere?

II Eppure, credetemi Pisoni, assai simile al quadro è un libro, in cui le immagini senza costrutto sembrano nascere dai sogni di un febbricitante, in cui né la testa né i piedi sono coerenti fra loro. “Ma poeti e pittori hanno sempre goduto del giusto diritto di essere audaci”. Lo so; è privilegio che rivendico e concedo, a seconda dei casi, ma non al punto da mescolare mansuetudine e ferocia, da  far figliare con gli uccelli i serpenti, con le tigri gli agnelli.

III Spesso, affrontando con grandi propositi l'incipit di un'opera di ampio respiro, si appiccicano a quello uno o due brandelli di porpora che brillino da ogni lato, per descrivere il bosco sacro e l'altare di Diana, i meandri dell'acqua, che scorre veloce in mezzo al l'incanto della campagna, il fiume Reno o la rugiada dell'arcobaleno: non era quello il luogo loro. Sai magari copiare dal vero un cipresso, ma a che ti serve, se chi paga vuole piuttosto che tu lo dipinga mentre miracolosamente si salva a nuoto dai relitti della nave. Cominci a modellare un'anfora: perché dal tornio in moto viene fuori una brocca? Insomma: ogni cosa va bene, purché sia semplice e unitaria.

IV Guarda tu, padre, e voi figli degni di lui, come il  miraggio della perfezione inganni tutti o quasi noi poeti. Mi sforzo d'essere  breve e divento oscuro; inseguo l'eleganza e perdo nerbo, slancio. Mi propongo il sublime e ottengo enfasi; sono troppo prudente e timoroso nell'affrontare le difficoltà e striscio terra terra. Si cerca la varietà del meraviglioso in un soggetto  semplice e si dipinge un delfino nel bosco, un cinghiale nel  mare.

V Se manca l'arte, per evitare errori si cade in altri difetti. L'artigiano di poco conto nei pressi della palestra  di Emilio,  sa con il bronzo rendere le unghie e imitare il fluire dei capelli, ma nell'insieme l'opera è mediocre perché non sa rappresentare il tutto. No, non vorrei essere lui nel mio lavoro, come non vorrei nella vita avere un naso storto e suscitare ammirazione per il nero intenso degli occhi e dei capelli. 

VI Se mai decidete di scrivere, scegliete un argomento che si adatti alle vostre forze; verificate a lungo quanto ricusino e quanto sopportino le vostre spalle. Ma se la scelta del soggetto vi appartiene, non mancheranno eleganza e limpidezza di armonia.

VII Se non m'inganno, l'armonia ha questo merito, questa bellezza, che l'autore dell'opera in lavorazione, mentre accoglie questo o rifiuta quello, dica ora ciò che ora si deve dire e tralasci o rimandi il resto a tempo debito.

VIII E anche per la finezza e la prudenza nel legare fra loro le parole, il tuo linguaggio sarà unico, se un accostamento inconsueto farà di una parola conosciuta una parola nuova. Quando è necessario dire con segni nuovi concetti reconditi, t'avverrà di coniare espressioni che i Cetegi, nel loro costume, non udirono mai: è libertà concessa se usata con discrezione. E avranno credito parole nuove, formate di fresco, se derivate con ritegno da fonte greca: perché dovrebbero i romani concedere a Cecilio e Plauto ciò che negarono a Virgilio e Vario? E se il linguaggio di Catone ed Ennio arricchì il nostro modo di esprimersi con la creazione di neologismi, perché io sono guardato di sbieco per i pochi doni che posso procurare? È dato e sempre sarà dato immettere vocaboli che rechino il sigillo del presente.

IX Come il bosco muta le foglie nel fluire degli anni e cadono le prime, così passa il tempo delle parole, e hanno fioritura e vigore della gioventù le ultime nate. Noi e le nostre cose siamo in obbligo con la morte,  e se per difendere le flotte dai venti la terra accoglie il mare per opera di re, se la palude sterile da tempo, navigabile dà nutrimento alle città vicine e soffre il peso dell'aratro; se il fiume muta il suo corso, che danneggia le messi, e ne apprende uno migliore: le opere dei mortali periranno, e a maggior ragione il credito e la fortuna vitale della lingua. Molte parole cadute in disuso rivivranno, e cadranno quelle che ora sono in onore, se l'uso, in cui risiede l'arbitrio, il diritto e la norma del nostro idioma, lo vorrà.

 

 Dalle Odi
CARMEN I, 9
Strofa alcaica, [vidès ut àlta, stèt nive càndidum/Soràcte nèc iam sùstineànt onus/silvaè labòrantès gelùque/flùmina cònstiterìnt acùto]
Guarda come si erge candido
d’alta  neve il Soratte! I boschi  al peso
non reggono, fiaccati, e per l’acuto gelo
si sono rappresi i fiumi.

Dissipa il freddo deponendo legna
sul focolare, in abbondanza, e mesci
da un’anfora sabina a doppia ansa,
o Taliarco, vino di quattr’anni.

Lascia il resto agli dei, che appena placano
i venti in lotta sulla ribollente
distesa, non più ondeggiano i cipressi
né con essi agitati i vetusti orni.

Cosa accadrà domani tu non chiedere.
Se un altro giorno ti darà la sorte,
ascrivilo a guadagno, e non spregiare
o giovane, le danze, e i dolci amori,

mentre è lontano dal tuo verde il tedio
della vecchiaia. Adesso il Campo
e la piazza: ora prima che annotti
ti ripeta il sussurro dei convegni,

ora l’allegro riso che ti svela
da un angolo segreto ove si celi
la tua fanciulla,  e il pegno di strapparle
dal polso o dal dito che resiste appena.  (Canali)

Vides ut alta stet nive candidum
Soracte nec iam sustineant onus
     silvae laborantes geluque
     flumina constiterint acuto?


Dissolve frigus ligna super foco
large reponens atque benignius
     deprome quadrimum Sabina,
     o Thaliarche, merum diota.

Permitte divis cetera, qui simul
stravere ventos aequore fervido
     deproeliantis, nec cupressi
     nec veteres agitantur orni.

Quid sit futurum cras, fuge quarere et
quem fors dierum cumque dabit, lucro
      adpone nec dulcis amores
     sperne, puer, neque tu choreas,

donec virenti canities abest
morosa. Nunc et Campus et areae
     lenesque sub noctem susurri
      composita repetantur hora,

nunc et latentis proditor intumo
gratus puellae risus ab angulo
     pignusque dereptum lacertis
     aut digito male pertinaci.










LETTERALE E ANALISI INTEGRATA
Vedi [vides, introduce una serie di proposizioni interrogative introdotte da ut] come [ut: sta per quomodo, congiunzione che introduce interrogativa indiretta] di spessa neve sta candido il Soratte [monte di modesta altezza a una quarantina di chilometri di Roma], e ormai non sostengano [sustineant, interrogativa indiretta] il peso [onus: compl. oggetto, sostantivo neutro, onus oneris] le selve affaticate [soggetto e participio presente concordato] e i fiumi si siano congelati [constiterint: consto, composto di sto] per il freddo intenso [gelu acuto: complemento di causa e attributo]. Allontana [dissolve: imperativo] il freddo deponendo abbondantemente legna sul fuoco e mesci più largamente [benignius: comparativo di maggioranza di avverbio] vino  autentico [merus: genuino] di quattro anni da un’anfora a due manici [diota, complemento di moto da luogo, introdotto da de-prome] sabina: lascia agli dei tutto il resto [ceterus, altro, distinto da reliquus, il restante], [dei] che appena [simul] placarono [stravere, forma sincopata per straverunt, da sterno, is, stravi, stratum, sternere] i venti  in lotta [deproliantis per deproliantes, part. presente] sull’acqua ribollente, ne i cipressi né i vecchi ontani sono agitati. Che cosa accadrà [futurum sit: interrogativa indiretta introdotta da quaerere, infinito introdotto da fuge] evita di domandare  e quale [quemcumque, tmesi, da collegare al genitivo partitivo dierum]dei giorni la Sorte darà consideralo guadagno [appone lucro: appono, composto di pono e  ablativo: ascrivilo come guadagno] e non disprezzare [sperno, is, sprevi, spretum, spernere] i dolci [dulces] amori o giovane, né le danze finché la fastidiosa canizie [morosus: che dura nel tempo]è distante [absum]. Ora e il campo Marzio e le piazze e i dolci sussurri sul far della notte si ripetano all’ora convenuta, ora l’allegro riso rivelatore  della fanciulla che si nasconde [latentis] in un angolo nascosto e il pegno strappato alle braccia [lacertum, i] o al dito che resiste appena . [si inanellano iperbati]
Vedi il Soratte splendere di nevi profonde. Ogni boscaglia, affaticata, non regge il peso. Ogni corso d’acqua s’indurisce nel gelo penetrante. Dissipa il freddo con copiosa legna nel focolare, e generosamente cola il vino dal coccio a doppia ansa, sabino, di quattr’anni, o mio Taliarco. E tutto il resto affidalo agli dei. Come abbattono i venti in grande guerra sulle acque che smaniano di febbre, torna pace ai cipressi e ai vecchi frassini. Salvati dal sapere il tuo domani. Ogni giornata che la sorte aggiunge abbila come un dono. Non sdegnare, ragazzo, il dolce amore e danze e musiche, finché manca al tuo fiore la vecchiezza lamentosa. E ora tutto si ripeta, il Campo, le piazzette, e quando annotta il bisbigliare degli appuntamenti, e la ragazza che l’amato riso tradisce nel segreto nascondiglio, un pegno che le strappi dalle braccia, dalle dita che lottano per perdere. [Mandruzzato 1987]]
Guarda la neve che imbianca tutto il Soratte e gli alberi che gemono al suo peso, i fiumi rappresi nella morsa del gelo. Sciogli questo freddo, Taliarco, e legna, legna aggiungi al focolare; poi senza calcolo versa vino vecchio da un’anfora sabina. Lascia il resto agli dèi: quando placano sul mare in burrasca la furia dei venti, non trema più nemmeno un cipresso, un frassino cadente. Smettila di chiederti cosa sarà domani, e qualunque giorno la fortuna ti conceda segnalo tra gli utili. Se ancora lontana è la vecchiaia fastidiosa dalla tua verde età, non disprezzare ragazzo, gli amori teneri e le danze. Ora ti chiamano l’arena, le piazze e i sussurri lievi di un convegno alla sera, il riso soffocato che ti rivela l’angolo segreto dove si nasconde il tuo amore, il pegno strappato da un braccio o da un dito che resiste appena. [Ramous 1954]]

1.
Vedi, che il gelido Soratte è candido
di neve rigida, e i boschi piegano
dal gel, che a' fiumi l'onda
rattien tra sponda, e sponda.
Il freddo scaccia ponendo provido
le legna ad ardere, e non ti spiaccia
grato versar il vino
dal vaso tuo Sabino.
Del resto lascia la cura ai vigili
numi, che acchetano i venti, e i turbini,
né più vedrai d'intorno
crollar cipresso, ed orno.
Di cercar lascia qual sia per essere
il doman; goditi quanto concedeti
il fato buono, o rio;
e non disprezzar Clio.
Finché discostasi da te vecchiaja
in lotta esercita le membra giovani,
e cogli amici intorno
godi festoso il giorno.
(trad. di Giacomo Leopardi, 1809)

. (uso facoltativo)
Behold Soracte, white with snow,
Its laden woods are bending low,
Keen frost arrests the river's flow;
Melt, Thaliarchus, melt the cold.
Heap freely logs upon the fire.
Nay, more and better I desire,
And from the Sabine jar require
Its wine, that reckons four years old.
The rest is Heav'n's: which can at will
Bid all the battling winds be still
Upon the seething main; until
Nor veteran ash nor cypress quake.
Pry not, the morrow's chance to learn:
Set down to gain whatever turn
The wheel may take. Youth must not spurn
Sweet loves, nor yet the dance forsake,
While grudging Age thy prime shall spare.
The Plain, the Squares, be now thy care,
And lounges, dear at nightfall, where
By concert love may whisper 'Hist!'
From inner nook a winsome smile
Betrays the girl that sculks the while,
And keepsakes, deftly filched by guile
From yielding finger, or from wrist.
(trad. di William E. Gladstone, 1894)

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