ORAZIO - MATERIALE PER LEZIONI DEL 26APRILE/3 MAGGIO/16 MAGGIO (COMPLETO)
Orazio nasce a Venosa, attualmente in Basilicata (in territorio lucano) nel 65 a. C. Suo padre è forse un liberto, ossia uno schiavo liberato, come lo stesso poeta ha occasione di scrivere in un suo componimento (la Satira I, in cui si legge me libertino parte natum, io, nato da un padre di origine servile) che tuttavia guadagna abbastanza (forse come esattore di tasse) per garantirgli studi continuativi e approfonditi, che Orazio conduce prima a Roma, poi ad Atene (studi retorici) e quindi in Campania presso l'epicureo Filodemo. Ad Atene entra in contatto con altri giovani romani che politicamente si riconoscono nelle idee repubblicane e anticesariane: di qui la militanza sotto Bruto, dopo la morte di Cesare, in veste di tribunus militum. Dopo la sconfitta di Filippi nel 42 a. C., che segna l'inizio dell'ascesa irresistibile di Ottaviano Augusto al potere, prende definitivamente le distanze dalla lotta politica. Si tratta di un distacco che certo affonda le sue radici, e trova le sue motivazioni basilari, nell'epicureismo e negli insegnamenti di Filodemo: come ben ripreso da Lucrezio nel De rerum natura, l'acme della vita del saggio epicureo coincide col raggiungimento di un'autonomia esistenziale, autàrcheia, che, in ottemperanza all'indicazione del làthe biòsas ossia vivi nascostamente), allontana il soggetto dalle incombenze civili, in assoluto contrasto con il mos maiorum, ma certo coerentemente con la situazione di incertezza e di disagio prodotta dagli ultimi eventi storici, ossia dalle turbolenze delle guerre civili. Come lo stesso poeta racconta in qualche passaggio autobiografico della sua produzione, i primi anni dopo Filippi sono dedicati da una parte alla sopravvivenza, s'impiega come scriba questorio, dall'altra all'approfondimento della pratica poetica, studiando la diatriba stoico-cinica, i poeti giambici greci come Ipponatte e Archiloco e la poesia lirica ellenistica classica e alessandrina (dal VII secolo a. C., con Alceo e Saffo, agli alessandrini del III e II secolo, come Teocrito). Conosce Virgilio e viene da lui presentato a Mecenate nel 38 a. C., di cui diventa amico per tutta la vita. Lo segue infatti nel viaggio a Brindisi del 37 per il rinnovo dell'accordo fra Ottaviano e Antonio. Tornato a Roma, diventa una figura di spicco del circolo poetico, ma soprattutto si approfondisce il suo legame di amicizia con Mecenate, che ne 31 circa gli dona un podere in Sabina, una sorta di rifugio dalla vita cittadina per Orazio. fino alla morte, avvenuta a pochi mesi di distanza da quella di Mecenate, nell'8 a. C.
Orazio scrive Epodi, Odi (entrambe sono raccolte di liriche, rispettivamente in metri giambici e in metri vari), Satire ed Epistole entrambe in esametri. Gli Epodi sono la sua prima prova poetica, in cui prende a modello in particolare il lirico greco Ipponatte, autore, nel VII-VI secolo a. C., di componimenti in giambi (versi dal ritmo incalzante e zoppicante, determinato da serrate successioni di vocali brevi e lunghe) dal contenuto violento e accusatorio. Forse il suo primo componimento è l'epodo XIII, dell'epoca di Filippi, in cui si legge:
XIII
Probabilmente il primo a essere composto: evoca il giorno precedente la battaglia di Filippi e risuona già dello spirito del carpe diem.
Amici miei, cogliamo il momento e, finché
ci reggiamo decorosamente in piedi, sgombriamo la mente
da pensieri oscuri. E tu, mesci il vino del mio anno di nascita,
smetti di parlare: forse un dio volgerà tutto nel miglior modo.
Ora giova profumarci di essenze orientali, e stornare le preoccupazioni
con la musica. Ecco le parole di Chirone, il suo viatico per Achille:
"fanciullo nato mortale da una dea, invincibile figlio di Teti,
ti attende la terra Troiana, attraversata dalle gelide correnti del Simoenta,
del torrente Xanto, da cui le Parche non hanno previsto per te ritorno.
Neppure la tua madre marina potrà concedertelo.
Laggiù, dovrai rimediare al dolore col vino,
con la musica, dolci conforti al dolore che ci deturpa."
XIV
Uno dei tanti carmi dedicati a Mecenate: il poeta si scusa di non riuscire a seguire la sua ispirazione perché distratto dall'amore di Frine (l'etèra per antonomasia).
Sermo I, 1 | Satira I, 1 Il senso della misura |
Qui fit, Maecenas, ut nemo, quam sibi sortem seu ratio dederit seu fors obiecerit, illa contentus vivat, laudet diversa sequentis? "O fortunati mercatores" gravis annis miles ait, multo iam fractus membra labore; contra mercator navim iactantibus Austris: "Militia est potior. Quid enim? Concurritur: horae momento cita mors venit aut victoria laeta". Agricolam laudat iuris legumque peritus, sub galli cantum consultor ubi ostia pulsat; ille, datis vadibus qui rure extractus in urbem est, solos felicis viventis clamat in urbe. Cetera de genere hoc - adeo sunt multa - loquacem delassare valent Fabium. Ne te morer, audi, quo rem deducam. Si quis deus "en ego" dicat "iam faciam quod voltis: eris tu, qui modo miles, mercator; tu, consultus modo, rusticus: hinc vos, vos hinc mutatis discedite partibus. Eia, quid statis?" nolint. Atqui licet esse beatis. Quid causae est, merito quin illis Iuppiter ambas iratus buccas inflet neque se fore posthac tam facilem dicat, votis ut praebeat aurem? [...]Milia frumenti tua triverit area centum: non tuus hoc capiet venter plus ac meus: ut, si reticulum panis venalis inter onusto forte vehas umero, nihilo plus accipias quam qui nil portarit. Vel dic quid referat intra naturae finis viventi, iugera centum an mille aret? "At suave est ex magno tollere acervo". dum ex parvo nobis tantundem haurire relinquas, cur tua plus laudes cumeris granaria nostris? Ut tibi si sit opus liquidi non amplius urna vel cyatho et dicas "Magno de flumine mallem quam ex hoc fonticulo tantundem sumere [...] est modus in rebus, sunt certi denique fines, quos ultra citraque nequit consistere rectum. Illuc, unde abii, redeo, qui nemo, ut avarus, se probet ac potius laudet diversa sequentis, quodque aliena capella gerat distentius uber, tabescat neque se maiori pauperiorum turbae conparet, hunc atque hunc superare laboret. Sic festinanti semper locupletior obstat, ut, cum carceribus missos rapit ungula currus, instat equis auriga suos vincentibus, illum praeteritum temnens extremos inter euntem. Inde fit, ut raro, qui se vixisse beatum dicat et exacto contentus tempore vita cedat uti conviva satur, reperire queamus. Iam satis est. Ne me Crispini scrinia lippi conpilasse putes, verbum non amplius addam. | Com’è possibile, Mecenate amico mio, che nessuno sia soddisfatto del suo destino, di ragionevole o casuale origine che sia, nessuno viva appagato di esso e si estenui a forza di lodare i casi degli altri? “Fortunati i mercanti” dice il soldato con le ossa spezzate dalla fatica di anni; viceversa il mercante, preda dei venti furiosi che quasi capovolgono la nave “Meglio soldato: che si fa, poi? Si va di corsa, e in un attimo sopraggiunge o la morte o una felice vittoria.” L’avvocato esalta la vita del contadino, quando all’alba il postulante bussa al sua porta; il contadino, costretto a testimoniare in città, proclama felici solo i cittadini. Con casi del genere potrei, a forza di enumerarli, rendere afono l’uomo più garrulo del mondo. Allora, per non sfibrarti, arrivo al punto. Se arrivasse un dio e dicesse: “ora faccio come volete, tu che sei un soldato, ecco diventi un mercante; tu, giurista, contadino: da questa parte voi, voi altri di qui, scambiatevi i ruoli. Ma allora, perché state fermi?” Non vogliono. Eppure avrebbero la possibilità di essere felici. Vi meritereste che Giove, irato, gonfiasse le guance e d’ora in poi non ascoltasse le vostre preghiere. [...] Il tuo granaio contiene, ammassati, centomila moggi [un moggio corrisponde a otto litri e mezzo]: non per questo il tuo ventre è più capiente del mio. Come se tu fossi lo schiavo che al mercato porta sulle spalle il sacco del pane: non ne riceveresti una briciola in più di chi non ha portato niente. O vuoi dirmi che ci sia una differenza, per chi vive entro i limiti della natura, tra arare centro iugeri [un quarto di ettaro] e mille? “Ma dà una bella sensazione prendere da un gran mucchio.” Purché ci permetta di attingere da un piccolo mucchio, perché considerare superiori i tuoi granai ai nostri panieri? Un po’ come se ti servisse non più di una brocca o d’un bicchiere d’acqua e tu dicessi: “Preferisco attingerla da un grande fiume piuttosto che da questa fontanina.” [...] c’è una misura nelle cose, ci sono dei confini definiti, di qua e di là dai quali non sussiste il giusto. Torno al punto di partenza: com’è che nessuno (è il caso dell’avaro) si appaghi del suo e esalti le vite degli altri, si strugga perché la capretta d’un altro ha le mammelle più gonfie e, invece di confrontarsi con quelli, ben più numerosi, che sono più poveri, si dia pena per superare questo o quell’altro. Così, benché s’affanni, c’è sempre a ostacolarlo uno più ricco, proprio come quando gli zoccoli trascinano via i carri lanciati fuori dalle gabbie, l’auriga incalza i cavalli che precedono i suoi, senza curarsi di quello che, ormai sorpassato, sta scivolando indietro fra gli ultimi. Accade perciò che di rado possiamo scovare uno che dica di essere vissuto felice e che, terminato il suo tempo, se ne contenti e abbandoni la vita come un convitato sazio. Ma adesso basta, non un parola di più, per non sembrarti un emulo del cisposo Crispino [filosofo predicatore stoico, prolisso autore di versi: Orazio scherza su di lui per alleggerire il tono del discorso; cisposi, secondo dicerie popolari, erano coloro che conducevano una vita sregolata: l’attribuzione a Crispino di questa caratteristica è di nuovo uno scherzo bonario]. CB |
Sermo I, 9 Ibam forte via Sacra | Satira I, 9 La satira dello scocciatore |
Ibam forte via Sacra, sicut meus est mos, nescio quid meditans nugarum, totus in illis. Accurrit quidam notus mihi nomine tantum, arreptaque manu "quid agis, dulcissime rerum?" "suaviter, ut nunc est, "inquam, "et cupio omnia quae vis". cum assectaretur, "num quid vis?" occupo. At ille "noris nos" inquit; "docti sumus". Hic ego "pluris hoc" inquam "mihi eris". Misere discedere quaerens, ire modo ocius, interdum consistere, in aurem dicere nescio quid puero, cum sudor ad imos manaret talos. "O te, Bolane, cerebri felicem!" aiebam tacitus, cum quidlibet ille garriret, vicos, urbem laudaret. ut illi nil respondebam, "misere cupis" inquit "abire; iamdudum video: sed nil agis; usque tenebo; persequar hinc quo nunc iter est tibi". "Nil opus est te circumagi: quendam volo visere non tibi notum: trans Tiberim longe cubat is, prope Caesaris hortos". "Nil habeo quod agam et non sum piger: usque sequar te". demitto auriculas, ut iniquae mentis asellus, cum grauius dorso subiit onus. Incipit ille: "Si bene me novi non Viscum pluris amicum, non Varium facies: nam quis me scribere pluris aut citius possit versus? Quis membra movere mollius? Invideat quod et Hermogenes ego canto". interpellandi locus hic erat: "Est tibi mater, cognati, quis te salvo est opus?". Haud mihi quisquam: omnis composui". "Felices! Nunc ego resto. confice; namque instat fatum mihi triste, Sabella quod puero cecinit divina mota anus urna: hunc neque dira venena nec hosticus auferet ensis, nec laterum dolor aut tussis, nec tarda podagra; garrulus hunc quando consumet cumque: loquaces, si sapiat, vitet, simul atque adoleverit aetas". Ventum erat ad Vestae, quarta iam parte diei praeterita, et casu tunc respondere vadato debebat, quod ni fecisset, perdere litem. 'si me amas,' inquit 'paulum hic ades.' 'inteream, si aut valeo stare aut novi civilia iura; et propero quo scis.' 'dubius sum, quid faciam', inquit, 'tene relinquam an rem.' 'me, sodes.' 'non faciam' ille, et praecedere coepit; ego, ut contendere durum cum victore, sequor. 'Maecenas quomodo tecum?' hinc repetit. 'paucorum hominum et mentis bene sanae.' “Nemo dexterius fortuna est usus. Haberes magnum adiutorem, posset qui ferre secundas, hunc hominem velles si tradere: dispeream, ni summosses omnis.' 'non isto vivimus illic, quo tu rere, modo; domus hac nec purior ulla est nec magis his aliena malis; nil mi officit, inquam, ditior hic aut est quia doctior; est locus uni cuique suus.' 'magnum narras, vix credibile.' 'atqui sic habet.' 'accendis quare cupiam magis illi proximus esse.' 'velis tantummodo: quae tua virtus, expugnabis: et est qui vinci possit eoque difficilis aditus primos habet.' 'haud mihi dero: muneribus servos corrumpam; non, hodie si exclusus fuero, desistam; tempora quaeram, occurram in triviis, deducam. nil sine magno vita labore dedit mortalibus.' haec dum agit, ecce Fuscus Aristius occurrit, mihi carus et illum qui pulchre nosset. consistimus. 'unde venis et quo tendis?' rogat et respondet. vellere coepi et pressare manu lentissima bracchia, nutans, distorquens oculos, ut me eriperet. male salsus ridens dissimulare; meum iecur urere bilis. 'certe nescio quid secreto velle loqui te aiebas mecum.' 'memini bene, sed meliore tempore dicam; hodie tricensima sabbata: vin tu curtis Iudaeis oppedere?' 'nulla mihi' inquam 'religio est.' 'at mi: sum paulo infirmior, unus multorum. ignosces; alias loquar.' huncine solem tam nigrum surrexe mihi! fugit inprobus ac me sub cultro linquit. casu venit obvius illi adversarius et 'quo tu, turpissime?' magna inclamat voce, et 'licet antestari?' ego vero oppono auriculam. rapit in ius; clamor utrimque, undique concursus. sic me servavit Apollo. | Passeggiavo per la via Sacra, preda come mio solito di pensieri varî e vani. D’un tratto mi si accosta un tale, che conosco di nome, mi afferra la mano e dice “Come stai amore mio?” “Bene, per ora. Ti auguro ogni bene”. Dato che mi seguiva, lo precedo: “Vuoi qualcosa?” Ma lui dice “Dovrei esserti noto: sono un intellettuale”. E io di rimando: “Per questo ti stimerò di più”. Tentando vanamente di distanziarlo, ora procedo più in fretta, ora mi fermo, dico non so cosa all’orecchio del mio schiavo, mentre sudo fino ai talloni. “Fortunate le teste calde” dicevo fra me e me, mentre quello cianciava di non so che, lodando le strade e la città. Dato che stavo zitto dice: “Vuoi dartela a gambe, eh? Me ne sono accorto da un po’, ma niente da fare, non ti mollerò: ti seguiròfino alla tua meta.” “Non è il caso tu faccia un giro così lungo: non conosci colui che vado a trovare: abita oltre al Tevere, vicino ai Giardini di Cesare.” “Non ho niente da fare e non sono pigro: verrò fin là con te.” Abbasso le orecchie come un asinello scontento, quando gli si mette sulla schiena un carico troppo pesante. Quello ricomincia: “Se mi conosco bene, apprezzerai la mia amicizia più di quella di Visco e di Vario [fratelli, amici di Orazio, Virgilio e Mecenate]; in effetti, chi sa scrivere più versi, e più in fretta, di me? Chi danzare con più grazia? Persino Ermogene [cantore alla moda dell’epoca] mi invidia quando canto.” Era il momento adatto per chiedergli: “Hai una madre, un dei parenti, che tengono a te” “Non ho nessuno: li ho seppelliti tutti” “Beati loro! È la mia volta. Finiscimi. So che mi attende un triste destino, profetizzatomi da ragazzo da una vecchia Sabina [la Sabina, provincia di Rieti, era considerata terra di fattucchiere] scuotendo l’urna profetica: costui non morirà a causa del veleno né di spada nemica, né di dolore al petto, tosse o podagra; a ucciderlo sarà un chiacchierone; si tenga lontano, se è saggio, non appena diverrà adulto, dai linguacciuti.” Eravamo arrivati al tempio di Vesta, già a un quarto della giornata, e caso voleva ch’egli dovesse presentarsi in giudizio come mallevadore: non l’avesse fatto la causa era persa. “Se mi vuoi bene”, dice, “mi assisti un attimo”. “Possa morire se ho la forza o la competenza di seguire cause civili; inoltre ho fretta di arrivare dove sai”. “Non so che fare, se lasciare te o la causa”. “Me, te ne prego”. “Non lo farò.” E inizia a precedermi. Io, consapevole di come sia difficile contendere con un vincitore, lo seguo. “Come va con Mecenate?” ripiglia. “È un uomo con pochi amici e equilibrato.” “Nessuno ha sfruttato meglio di lui la sorte. Avresti un ottimo aiutante, che potrebbe favorirti, se volessi affidarti a quest’uomo che sono io: possa io crepare, se non li sotterreresti tutti.” “Lì non viviamo come tu sembri pensare: è un ambiente sano, alieno da malignità; non mi importa se uno è più ricco o più dotto: ciascuno ha quel che si merita.” “Gran cosa mi racconti, si fatica a crederla”. “Eppure è così”. “Mi stimoli anche più a volergli essere vicino” “Ti basta volerlo: con questa tua arte lo espugnerai; non è tipo difficile da essere vinto, e per questo rende difficile il primo accesso”. “Non mi lascerò mancare nessun mezzo: corromperò i servi a forza di regali: non desisterò se verrò escluso oggi: cercherò occasioni. Lo incontrerò ai crocicchi, lo incalzerò. Ai mortali non viene dato nulla senza fatica.” Mentre parla così, ecco ci viene incontro Fusco Aristio, mio caro amico che un poco lo conosce. Ci fermiamo. “Da dove vieni, dove vai” ci si interroga a vicenda. Io inizio a tirarlo, cerco di afferrare le sue braccia terribilmente inerti, gli faccio cenni, ammicco, perché mi tolga d’impaccio. Quel burlone fuori luogo, ridacchiando, fa il tonto: ho male al fegato. “Se non sbaglio dovevi parlarmi a quattr’occhi”. “Me ne ricordo, ma te lo dirò in un altro momento; oggi è il novilunio, è sabato: vuoi oltraggiare gli Ebrei?”Non ho scrupoli religiosi”. “Ma io sì: sono un po’ più debole di te, uno come tanti, perdonami: parleremo un’altra volta”. Che brutta giornata! Il furfante se ne va e mi lascia sotto la lama. Per fortuna ci viene incontro il suo avversario in tribunale e “Dove vai canaglia?” grida a gran voce “Puoi farmi da testimone [rivolto a Orazio]? Io, naturalmente, presto orecchio...Lo trascina in tribunale; urla da ambo le parti, gente che accorre. Così Apollo mi ha salvato. CB |
Trovate sotto riportato l'inizio dell'Epistola ai Pisoni (II, 3) nota come Ars poetica.
Humano capiti cervicem pictor equinam iungere si velit et varias inducere plumas undique collatis membris, ut turpiter atrum desinat in piscem mulier formosa superne, spectatum admissi risum teneatis, amici? Credite, Pisones, isti tabulae fore librum persimilem, cuius velut aegri somnia vanae fingentur species, ut nec pes nec caput uni reddatur formae. 'Pictoribus atque poetis quidlibet audendi semper fuit aequa potestas.' Scimus et hanc veniam petimusque damusque vicissim, sed non ut placidis coeant immitia, non ut serpentes avibus geminentur, tigribus agni. Inceptis gravibus plerumque et magna professis purpureus, late qui splendeat, unus et alter adsuitur pannus, cum lucus et ara Dianae et properantis aquae per amoenos ambitus agros aut flamen Rhenum aut pluvius describitur arcus. Sed nunc non erat his locus. Et fortasse cupressum scis simulare: quid hoc, si fractis enatat exspes navibus aere dato qui pingitur? Amphora coepit institui, currente rota cur urceus exit? Denique sit quod vis simplex dumtaxat et unum. Maxima pars vatum, pater et iuvenes patre digni, decipimur specie recti: brevis esse laboro, obscurus fio; sectantem levia nervi deficiunt animique; professus grandia turget; serpit humi tutus nimium timidusque procellae. Qui variare cupit rem prodigialiter unam, delphinum silvis appingit, fluctibus aprum. In vitium ducit culpae fuga, si caret arte. Aemilium circa ludum faber imus et ungues exprimet et mollis imitabitur aere capillos, infelix operis summa, quia ponere totum nesciet. Hunc ego me, si quid componere curem, non magis esse velim, quam pravo vivere naso, spectandum nigris oculis nigroque capillo. Sumite materiam vestris, qui scribitis, aequam viribus, et versate diu quid ferre recusent, quid valeant umeri: cui lecta potenter erit res, nec facundia deseret hunc nec lucidus ordo. Ordinis haec virtus erit et venus, aut ego fallor, ut iam nunc dicat iam nunc debentia dici, pleraque differat et praesens in tempus omittat, hoc amet, hoc spernat promissi carminis auctor. In verbis etiam tenuis cautusque serendis dixeris egregie, notum si callida verbum reddiderit iunctura novum. Si forte necesse est indiciis monstrare recentibus abdita rerum, fingere cinctutis non exaudita Cethegis continget, dabiturque licentia sumpta pudenter. Et nova fictaque nuper habebunt verba fidem, si Graeco fonte cadent, parce detorta: quid autem Caecilio Plautoque dabit Romanus, ademptum Vergilio Varioque? Ego cur acquirere pauca si possum invideor, cum lingua Catonis et Enni sermonem patrium ditaverit et nova rerum nomina protulerit? Licuit semperque licebit signatum praesente nota producere nomen. Ut silvae foliis pronos mutantur in annos, prima cadunt, ita verborum vetus interit aetas, et iuvenum ritu florent modo nata vigentque. Debemur morti nos nostraque, sive receptus terra Neptunus classis Aquilonibus arcet, regis opus, sterilisve diu palus aptaque remis vicinas urbes alit et grave sentit aratrum; seu cursum mutavit iniquum frugibus amnis, doctus iter melius: mortalia facta peribunt, nedum sermonum stet honos et gratia vivax. Multa renascentur, quae iam cecidere, cadentque quae nunc sunt in honore vocabula, si volet usus, quem penes arbitrium est et ius et norma loquendi. | I Se abbozzando una testa umana, il pittore volesse unirla a un collo di cavallo e a membra d'ogni natura ricoperte di penne variopinte, facendo terminare oscenamente le stupende fattezze muliebri con la coda nera di un pesce, e vi mostrasse il tutto, sapreste, amici miei, astenervi dal ridere? II Eppure, credetemi Pisoni, assai simile al quadro è un libro, in cui le immagini senza costrutto sembrano nascere dai sogni di un febbricitante, in cui né la testa né i piedi sono coerenti fra loro. “Ma poeti e pittori hanno sempre goduto del giusto diritto di essere audaci”. Lo so; è privilegio che rivendico e concedo, a seconda dei casi, ma non al punto da mescolare mansuetudine e ferocia, da far figliare con gli uccelli i serpenti, con le tigri gli agnelli. III Spesso, affrontando con grandi propositi l'incipit di un'opera di ampio respiro, si appiccicano a quello uno o due brandelli di porpora che brillino da ogni lato, per descrivere il bosco sacro e l'altare di Diana, i meandri dell'acqua, che scorre veloce in mezzo al l'incanto della campagna, il fiume Reno o la rugiada dell'arcobaleno: non era quello il luogo loro. Sai magari copiare dal vero un cipresso, ma a che ti serve, se chi paga vuole piuttosto che tu lo dipinga mentre miracolosamente si salva a nuoto dai relitti della nave. Cominci a modellare un'anfora: perché dal tornio in moto viene fuori una brocca? Insomma: ogni cosa va bene, purché sia semplice e unitaria. IV Guarda tu, padre, e voi figli degni di lui, come il miraggio della perfezione inganni tutti o quasi noi poeti. Mi sforzo d'essere breve e divento oscuro; inseguo l'eleganza e perdo nerbo, slancio. Mi propongo il sublime e ottengo enfasi; sono troppo prudente e timoroso nell'affrontare le difficoltà e striscio terra terra. Si cerca la varietà del meraviglioso in un soggetto semplice e si dipinge un delfino nel bosco, un cinghiale nel mare. V Se manca l'arte, per evitare errori si cade in altri difetti. L'artigiano di poco conto nei pressi della palestra di Emilio, sa con il bronzo rendere le unghie e imitare il fluire dei capelli, ma nell'insieme l'opera è mediocre perché non sa rappresentare il tutto. No, non vorrei essere lui nel mio lavoro, come non vorrei nella vita avere un naso storto e suscitare ammirazione per il nero intenso degli occhi e dei capelli. VI Se mai decidete di scrivere, scegliete un argomento che si adatti alle vostre forze; verificate a lungo quanto ricusino e quanto sopportino le vostre spalle. Ma se la scelta del soggetto vi appartiene, non mancheranno eleganza e limpidezza di armonia. VII Se non m'inganno, l'armonia ha questo merito, questa bellezza, che l'autore dell'opera in lavorazione, mentre accoglie questo o rifiuta quello, dica ora ciò che ora si deve dire e tralasci o rimandi il resto a tempo debito. VIII E anche per la finezza e la prudenza nel legare fra loro le parole, il tuo linguaggio sarà unico, se un accostamento inconsueto farà di una parola conosciuta una parola nuova. Quando è necessario dire con segni nuovi concetti reconditi, t'avverrà di coniare espressioni che i Cetegi, nel loro costume, non udirono mai: è libertà concessa se usata con discrezione. E avranno credito parole nuove, formate di fresco, se derivate con ritegno da fonte greca: perché dovrebbero i romani concedere a Cecilio e Plauto ciò che negarono a Virgilio e Vario? E se il linguaggio di Catone ed Ennio arricchì il nostro modo di esprimersi con la creazione di neologismi, perché io sono guardato di sbieco per i pochi doni che posso procurare? È dato e sempre sarà dato immettere vocaboli che rechino il sigillo del presente. IX Come il bosco muta le foglie nel fluire degli anni e cadono le prime, così passa il tempo delle parole, e hanno fioritura e vigore della gioventù le ultime nate. Noi e le nostre cose siamo in obbligo con la morte, e se per difendere le flotte dai venti la terra accoglie il mare per opera di re, se la palude sterile da tempo, navigabile dà nutrimento alle città vicine e soffre il peso dell'aratro; se il fiume muta il suo corso, che danneggia le messi, e ne apprende uno migliore: le opere dei mortali periranno, e a maggior ragione il credito e la fortuna vitale della lingua. Molte parole cadute in disuso rivivranno, e cadranno quelle che ora sono in onore, se l'uso, in cui risiede l'arbitrio, il diritto e la norma del nostro idioma, lo vorrà.
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Guarda come si erge candido d’alta neve il Soratte! I boschi al peso non reggono, fiaccati, e per l’acuto gelo si sono rappresi i fiumi. Dissipa il freddo deponendo legna sul focolare, in abbondanza, e mesci da un’anfora sabina a doppia ansa, o Taliarco, vino di quattr’anni. Lascia il resto agli dei, che appena placano i venti in lotta sulla ribollente distesa, non più ondeggiano i cipressi né con essi agitati i vetusti orni. Cosa accadrà domani tu non chiedere. Se un altro giorno ti darà la sorte, ascrivilo a guadagno, e non spregiare o giovane, le danze, e i dolci amori, mentre è lontano dal tuo verde il tedio della vecchiaia. Adesso il Campo e la piazza: ora prima che annotti ti ripeta il sussurro dei convegni, ora l’allegro riso che ti svela da un angolo segreto ove si celi la tua fanciulla, e il pegno di strapparle dal polso o dal dito che resiste appena. (Canali) |
Soracte nec iam sustineant onus
silvae laborantes geluque
flumina constiterint acuto?
Dissolve frigus ligna super foco
large reponens atque benignius
deprome quadrimum Sabina,
o Thaliarche, merum diota.
Permitte divis cetera, qui simul
stravere ventos aequore fervido
deproeliantis, nec cupressi
nec veteres agitantur orni.
Quid sit futurum cras, fuge quarere et
quem fors dierum cumque dabit, lucro
adpone nec dulcis amores
sperne, puer, neque tu choreas,
donec virenti canities abest
morosa. Nunc et Campus et areae
lenesque sub noctem susurri
composita repetantur hora,
nunc et latentis proditor intumo
gratus puellae risus ab angulo
pignusque dereptum lacertis
aut digito male pertinaci.
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