ESTRATTO DISPENSA ULTIMI GIORNI - ROMANTICISMO E GOETHE

 ROMANTICISMO

Il periodo che va dall’ultimo settecento agli anni ottanta dell’ottocento circa offre almeno due ragioni che ne legittimano una trattazione unitaria: sul piano storico-politico è in quel lasso di tempo che si afferma il principio di nazionalità, realizzandosi concretamente in numerosi  processi di unificazione territoriale (Italia, Germania, Grecia), e si consolida il liberalismo attraverso istituzioni e prassi politiche e economiche (elezioni, sistema parlamentare, libertà d’impresa); sul piano letterario è quasi interamente occupato dalla manifestazione in varie arti del romanticismo, cioè la nascita, lo sviluppo e la diramazione a livello europeo di questo composito movimento culturale e artistico.

Inserisco qualche cenno alla storia, in particolare ancora a quell’evento epocale che è  la rivoluzione francese. Tra le varie anime della rivoluzione è quella liberal-borghese ad avere la meglio: è il terzo stato, la borghesia, a codificare un assetto sociale rispondente ai suoi interessi, in particolare con la Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789, che sancisce l’abolizione del regime feudale, la libertà personale, l’uguaglianza di tutti di fronte alla legge, e dichiara la proprietà diritto inviolabile e sacro; tuttavia al momento di dare determinazione concreta a tale libertà  e uguaglianza la Costituzione del 1791 discrimina il diritto di voto sulla base del censo e con la Costituzione dell’anno III, 1795, frutto della reazione di Termidoro al Terrore giacobino, viene ancora una volta stabilito il principio del censo nelle elezioni, ribadito il diritto di proprietà senza restrizioni, riaffermata la piena libertà di iniziativa degli operatori economici. Una strada, quella praticata dalla borghesia attraverso queste codificazione, di opposizione tanto ai privilegi della nobiltà quanto alle richieste più radicali del popolo, che pure in certe occasioni vengono sfruttate per ottenerne l’appoggio in contrasto con l’aristocrazia. La medesima strada seguita dal Codice civile napoleonico (1804), responsabile della diffusione in Europa, nei territori, ivi compresa l’Italia, toccati dall’invasione, dell’assetto statale liberal-borghese, che concede spazio non tanto all’uomo di cui si parla nella dichiarazione dei diritti, ma a quell’uomo che sia sufficientemente autonomo, possidente, colto, da potersi considerare vero cittadino.

La Rivoluzione comprende comunque anche fasi che vanno in direzione propriamente democratica e non liberale, intendendo col primo termine un’attenzione alle esigenze e al ruolo delle forze popolari, con sottintesa una contestazione dell’egemonia borghese: il mito giacobino, sostengono alcuni storici fra cui Eric Hobsbawm[1], si è imposto con potenza superiore persino a quello napoleonico (che comunque sopravvive alla morte dell’imperatore) in quanto sogno di libertà, eguaglianza e fraternità, rivendicate da un popolo che si sente finalmente signore di sé. Indimenticabile, tra l’altro, in una ricostruzione attenta ai dettagli, che un episodio della rivoluzione francese sia   la radicalissima congiura degli Uguali di Gracco Babeuf, organizzata nel 1796, repressa nel sangue dal Direttorio, ma espressasi in un Manifesto, le Manifeste des plébéiens, in cui si trova  teorizzata l’abolizione della proprietà privata come premessa indispensabile dell’effettiva eguaglianza fra cittadini, considerata, tale eguaglianza, primo bisogno dell’uomo e auspicio della natura. Si tratta palesemente di un comunismo ante litteram: a riprova di questo, nel ’28, l’italiano Filippo Buonarroti, che vi aveva preso parte, indica in tale esperienza il punto di partenza per una ripresa dell’azione rivoluzionaria che rompa l’assetto dell’Europa della restaurazione. Da questo breve quadro risulta che la rivoluzione francese può quantomeno essere ritenuta una fucina nella quale si sono avviate e sperimentate forme di organizzazione politica che per tutto l’Ottocento avrebbero costituito punti di riferimento, anche per artisti di varia estrazione.

Quanto a Napoleone, l’imperatore fonda il suo potere su un colpo di stato (del 18 brumaio 1798) con cui nega e afferma al contempo la rivoluzione: da una parte realizza un accentramento assolutistico  obiettivo d’elezione dei sovrani  dell’ancien régime, dall’altra edifica lo stato borghese, che risponde alle aspettative e agli interessi della classe che è stata protagonista vittoriosa della rivoluzione francese; oltre a ciò riporta ordine all’interno e riafferma il prestigio della Francia e la sua egemonia nel contesto europeo. Di qui, peraltro,  la delusione storica percepita da soggetti di varia nazionalità, di vedere una rivoluzione approdare al cesarismo, delusione alla quale la cultura e sensibilità ottocentesche daranno voce, per cominciare proprio con Foscolo.

Come nel caso dell’illuminismo, anche del romanticismo è impossibile fornire una definizione univoca: si tratta di un movimento estremamente diversificato, per intenzioni ideologiche e per esiti, sia a livello di letterature europee, sia all’interno di singole nazioni. Qualche semplificazione tuttavia è, come sempre,  utile. Al classico, con l’annessa codificazione di generi, o l’indicazione di regole quali quelle relative a unità di luogo, tempo e azione teatrali, viene opposta l’esaltazione della spontaneità;  passione amorosa,  malinconia,  irrequietezza interiore,  gusto dell’introspezione, pittoresco e sehnsucht sono sentimenti e concetti che, uniti o separatamente, alimentano una sensibilità poetica che affonda le sue radici  di preferenza non più nella mitologia greco-latina, ma in miti nazionali, nella storia, nel folclore locale. D’altra parte, identificate approssimativamente queste linee di fondo, va tenuto conto che il romanticismo si diffonde con una tempistica differente nelle varie nazioni europee: prima in Germania e in Inghilterra, quindi in Francia e infine, con una certa resistenza, in Italia[2]. Per questo motivo, ovvero per riuscire a cogliere una sorta di matrice della sensibilità variegata del romanticismo, esamineremo nel prossimo capitolo  il romanzo epistolare I dolori del giovane Werther.

Possiamo però iniziare a concepire il romanticismo come  una corrente di lungo periodo,  che accompagna per decenni l’Europa nella sua metamorfosi letteraria, politica, economica, filosofica, sociale, in aperta fraternità o in continuo conflitto con l’ordine costituito e con la storia: una corrente provvista di una notevole forza di penetrazione in territori e tempi differenti, in Italia e altrove. Per questo la geografia del romanticismo è molto variegata: ci sono centri di diffusione e espansione, zone morte e zone ritardatarie, centri prolifici di manifesti e proclamazioni.  Si delinea fin dall’inizio del discorso uno dei paradossi romantici, di quella corrente che afferma il concetto di nazione e pratica d’altra parte, in continuità col settecento, un accentuato cosmopolitismo. Come elemento caratterizzante la sensibilità romantica possiamo però almeno indicare quella che Rousseau[3], in pieno settecento, definisce la force et la viguerur de l’ âme, ossia una sorta di coscienza vitale naturale che, secondo il filosofo illuminista, secoli di civiltà avevano soffocata.   Tale forza originaria, che mira esclusivamente al piacere e alla felicità, da ottenersi con mezzi semplici e pur sempre naturali, diviene il corrispettivo del sogno dell’età dell’oro e  come esso nei tempi antichi, svolge appunto la funzione di dare alla poesia una sorta di orizzonte di riferimento. Dai primi romantici tedeschi, fra cui Goethe, a Leopardi, pur nelle declinazioni molto differenti, questa sorta di linfa originaria resta intatta, manifestandosi come forza dirompente: è un vitalismo che produce rivolte spirituali, dando luogo a visioni variegate, dall’ottimismo al pessimismo, dal religioso all’ateo, a comprova della natura composita del movimento.   Da notare che, come vedremo occupandoci di specifiche opere letterarie, energia e vitalismo appena evocate permeano tanto il pensiero quanto il sentimento: da loro nascono rivolte contro il sistema, la società, la cultura, che vedremo maturare all’inizio dell’ottocento e sbocciare verso la metà, mentre precocemente si manifesta, come vedremo con Werther, anche il sentore di una possibile malattia dello spirito, che s’impadronisce del soggetto quando gli slanci iniziali non approdano ai risultati desiderati, ovvero quasi sempre. In una fase aurorale, comunque, ad esempio i protagonisti del primo movimento romantico, i tedeschi dello Sturm un Drang, concepiscono la poesia come impeto d’azione, in armonia col nome adottato, Tempesta e Impeto.  La scelta lessicale segnala un cambiamento radicale, rispetto al neoclassicismo, ovvero l’uscita dal recinto sacro (pur sempre un recinto) dell’accademia o dei salotti aristocratici e la scelta di un nuovo territorio, il più vasto e smisurato possibile, anche il più naturale possibile, per esprimere una ricerca di assoluto e un superamento dei limiti che appare come tema dominante dell’ispirazione. A questa tensione si associa, in alcuni casi, un’idealizzazione del primitivo, già presente in Rousseau, da intendersi come popolo primitivo, per definizione libero, selvaggio e in sé poetico. Anche in Leopardi ritroviamo questa sorta di idealizzazione, come pure nei primi romantici, e in lui riconosciamo un’altra componente peculiare del romanticismo, in apparente contrasto con quella appena trattata: la malinconia, il colore oscuro che tingeva secoli prima l’anima accidiosa di Petrarca nel suo Secretum e che torna ora a essere l’inchiostro preferito di tanti artisti. L’immaginazione è malinconica quando il vigore dell’istinto vitale e naturale non riesce a ravvivarla, il che a volte accade per via della storia individuale come di quella collettiva. D’altronde l’istinto vitale naturale può anche affiancarsi alla malinconia e sconvolgere così definitivamente la rigidità formale del settecento: la serenità, la classica compostezza non s’accordano con la poesia che s’innalza verso il cielo o s’immerge nell’abisso. Omero, la Bibbia, Shakespeare, gli elisabettiani assurgono a simboli, anche polemici, di una poesia che non teme  la violenza e il disordine. E la natura, prediletta dai poeti romantici, riflette perfettamente questa nuova direzione: sono le scogliere del Baltico schiaffeggiate da gelide onde, le pianure immense e variopinte, in pieno rigoglìo  di piante e di uccelli selvatici, dell’America, la Grecia delle isole bagnate dal mare che vide nascere dalle sue onde Afrodite, i monti selvosi della Scozia. Natura antica e vergine, che ha alimentato l’immaginazione di poeti vecchi e nuovi: Omero, Ossian, Milton, Chénier, Chateaubriand.

In armonia o in contrasto con questo spirito della natura che è sentimento della natura, il romanticismo è attraversato da svariati rivoli di sensibilità religiosa: in alcuni casi già si presagisce la svolta decadente, di un cristianesimo oscuro e venato di sadismo, ideale per la messinscena di atti atroci o di perversioni (da Chateaubriand a de Maistre), in altri, come per noi principalmente in Manzoni, si presenta come un’ideologia forte, in grado di veicolare messaggi formativi per la società e di guidare il percorso della letteratura.

Un’attenzione a parte merita anche il concetto di genio: per i primi romantici l’uomo è una creatura partecipe del’infinito, e il genio non si identifica certo con colui che mette ordine nelle cose: tende piuttosto a dar loro fuoco  per ricrearle. Per uno scrittore come Balzac il genio-romanziere fa concorrenza direttamente a Dio. L’iconografia romantica insiste: Byron, Shelley e Chateaubriand si fanno ritrarre in mezzo alla natura tempestosa, capelli al vento e cravatta nera svolazzante, nella postura dello sfidante e del profeta. Presto però l’immagine si logora, e quando anche quieti borghesi ricorrono a questa ritrattistica si capisce che la sorte del genio è segnata: sarà Baudelaire, a metà del secolo, a stroncare il tipo dell’artista-genio come se l’immaginavano ormai solo i buoni borghesi, modello del disordine, dell’ispirazione che si nutre di condotta dissoluta: insomma del genio ridotto a banale ciarlatano.

Dato che inevitabilmente le epoche vengono, da quelli che le vivono e da quelli che le ricostruiscono, confrontate, non di rado contrapposte, e comunque sottoposte a un vaglio che porta a riconoscere differenze più che continuità, è tra classicismo e romanticismo che nasce un dibattito, al quale danno voce autori come Madame de Staël, che rimprovera  a Goethe l’adorazione per il mondo classico,  per lei anacronistica: la nuova letteratura, la letteratura romantica venuta dal nord, a suo dire conviene di più allo spirito di un popolo libero di quanto non sia per una letteratura antica. Nei primi decenni dell’ottocento, però, la grande letteratura gravita  ancora intorno al sud europeo, e Grecia e Italia continuano a essere percepite come ideale patria comune, le cui rovine (nel senso archeologico del termine) sono ancora oggetto di venerazione. Un mito che non solo stenta a morire, ma che si prefigge anche di rinnovarsi, rispetto al neoclassicismo settecentesco:  così, gli dei della Grecia di Schiller, ma anche i richiami all’antico presenti in Leopardi (più che in Foscolo)  non sono certo considerabili espressioni di spirito reazionario e attardato. Schiller, ad esempio,  oppone il politeismo pagano come religione della libertà e dell’antico valore al monoteismo cristiano responsabile della separazione, scrive lui, della Verità dalla Bellezza.

Un ultimo riferimento, col quale concludo l’excursus sul romanticismo, alla Sehnsucht, vocabolo tedesco di difficile traduzione, che tuttavia è importante avvicinarsi a definire per la sua espressività concettuale. La nostalgia è dolore del ritorno, sentimento quindi strettamente connesso con la percezione di una distanza pressoché invalicabile rispetto al passato: anche se si riesce a tornare, insegna l’esperienza di Ulisse che tocca il suolo della sua Itaca dopo un’assenza di vent’anni, dieci di guerra e più di nove di vagabondaggi e prigionie, non si riconosce subito la propria terra, la propria casa, tutto è diventato estraneo, il tempo scava grandissimi solchi. La definizione di nostalgia deve precedere quella di  sehnsucht,  che  è una forma di struggimento sempre connesso con la lontananza, ma riferito piuttosto a qualcosa che non si potrà mai avere, a un oggetto di desiderio precluso; sehnsucht è anelito all’inattingibile, desiderio allo stato puro, per questo venato di malinconia; è, approssimandoci a una traduzione letterale, il male del desiderio, quello che però, in uno di quei soprassalti che si trasformano in capriole, può anche diventare felice struggimento, come mirabilmente esprime Leopardi al termine del suo idillio L’infinito, col celebre ossimoro che suona il naufragar m’è dolce. Desiderare di desiderare, si capisce, è un anelito destinato a non finire mai, sicché la sua parentela con la categoria inebriante dell’infinito è resa evidente sin dall’etimologia. Analogamente si coglie quanto, pur nel distanziamento dall’antico, ci si riavvicini alla matrice della poesia originaria, nonché alla matrice del metamorfismo, primo fra tutti quello ovidiano. Il poeta augusteo, senza il quale interi canti dell’Inferno non esisterebbero, ha colto forse per primo quanto di inimitabile la natura abbia nelle sue intime fibre, e l’ha reso poesia. I versi latini delle Metamorfosi sono espressione di quella quintessenza che si muove nella pianta, risplende nella luce, sorride nelle creature appena nate o nelle anime innamorate. La poesia originaria che ha trovato il logos, la parola, per esprimersi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

GOETHE

Primogenito di Johann Caspar Goethe, giurisperito e consigliere imperiale, e di Katharina Elisabeth Textor, Johann Wolfgang von Goethe nasce a Francoforte sul Meno nel 1749. Riceve dapprima un’educazione familiare, studiando insieme alla sorella di poco più giovane sotto la guida del padre e di qualche maestro privato. Pur avendo sviluppato una vocazione per le lettere e la filosofia, per volontà paterna  si iscrive alla facoltà di diritto di Lipsia nel 1765. Trascorre qualche anno di intensa partecipazione alla vita della città, incorre in qualche problema di salute ma si riprende, e parte per Strasburgo nel 1770 per proseguire gli studi presso l’università e perfezionare la sua conoscenza del francese. Nel 1771, tornato a Francoforte, ottiene il permesso di esercitare la professione di avvocato, che abbandona dopo circa quattro anni. Nel frattempo si dedica alla scrittura e inizia a seguire la nuova corrente dello Sturm und Drang, che prende il nome dall’omonimo dramma di Friedrich Maximilian Klinger. Consigliato dal padre, si trasferisce nel 1772 nella cittadina di Wetzlar, e si iscrive al tribunale come praticante. In questo periodo conosce la giovane che probabilmente gli ispira il personaggio di Lotte nei Dolori del giovane Werther, così come probabilmente il personaggio di Werther è ispirato a un suo amico, suicida per amore, di quel periodo. Nei primi mesi del 1774 l’ispirazione detta a Goethe I dolori del giovane Werther, il cui impatto sulla società del tempo è immediato: in breve tempo il testo valica i confini della Germania e viene tradotto in tutte le lingue europee, contribuendo così al diffondersi della sensibilità che cercheremo di approfondire nei suoi connotati salienti leggendo e analizzando l’opera. Impossibile procedere con un dettagliato resoconto della genesi delle numerosissime opere di Goethe, autore estremamente prolifico, studioso dalle molteplici curiosità, viaggiatore e cultore  di pittura e musica. Scelgo pertanto ancora qualche evento e qualche opera che possano poi essere evocate e collegate al momento dell’analisi del primo romanzo. Goethe viaggiatore, allora, per dare conto di quello che viaggiare significa a quell’epoca, col vantaggio di poter leggere considerazioni dello stesso autore, il quale non manca di redigere  un diario di viaggio, Ricordi del viaggio in Italia 1786-’87, all’inizio dei quali si legge che la partenza avviene come sotto un cogente impulso, una furia quasi, che lo prende,  a fine agosto, poco dopo la festa di compleanno organizzata da suoi amici,  e lo induce a salire, quasi di soppiatto,  su una carrozza diretta a sud, prima tappa la Baviera, poi, l’11 settembre, le prime città d’Italia: Bolzano e  Trento.  

 

Ho percorsa la città [Trento] la quale è molto antica, ma che però possiede in alcune strade case nuove, di buona costruzione. Nella chiesa havvi un dipinto, il quale rappresenta il concilio ecumenico, intento ad ascoltare un discorso del generale dei gesuiti. Avrei pure voluto sapere quanto avesse detto quegli all’assemblea. La chiesa di quei padri porge bello aspetto, colle sue colonne di marmo rossiccio nella facciata, e l’ingresso è preceduto da una tenda pesante per impedire l’accesso alla polvere; la chiesa stessa poi è chiusa da una cancellata in ferro, la quale consente spingere lo sguardo all’interno. Tutto era silenzioso, tranquillo, imperocchè non si celebrano più in quella chiesa le funzioni del culto, e la porta era aperta, unicamente perchè così si suole praticare in tutte le chiese, all’ora del vespro.

Mentre io stavo esaminando l’architettura, la quale è simile a quella di tutte le chiese dello stesso ordine, entrò un vecchio, togliendosi la berretta nera che aveva in testa. Tutti i suoi abiti neri, vecchi, logori, rivelavano appartenere desso al clero; egli s’inginocchiò davanti alla cancellata, e dopo fatta una breve preghiera, si alzò di nuovo in piedi, e nel girarsi addietro disse a mezza voce, quasi parlando a sè stesso «Ora che hanno cacciati i gesuiti, avrebbero per lo meno dovuto pagare loro quanto ha loro costato la chiesa. Io so pure al pari di tanti altri, quanto abbiano loro costato non solo la chiesa, ma ancora il seminario.» Intanto era ricaduta dietro di lui la tenda che io aveva tenuta alzata, standomene in silenzio; egli si era fermato sull’ultimo gradino in alto, e diceva «Non è l’imperatore che abbia ciò fatto; lo volle il Papa.» E volgendosi verso la strada, senza punto badare a me, disse «Prima gli Spagnuoli; dopo noi; quindi i Francesi. Il sangue di Abele grida vendetta, contro Caino suo fratello» e scendendo la gradinata si avviò per la strada, continuando a parlare per tal guisa, con sè stesso. Probabilmente era tale mantenuto dai gesuiti, il quale, dopo l’immensa rovina dell’ordine sarà impazzato, e che verrà ora ogni giorno nella chiesa deserta, per cercarvi gli antichi abitatori, e dopo una breve preghiera, scagliare maledizioni ai persecutori di quelli.[4]

 

Tanto per dare un’idea dello spirito di questi appunti di viaggio, riporto ancora due passaggi del testo, uno relativo a Venezia, il secondo a Roma. Il resto lascio all’eventuale curiosità dei singoli.

 

Era scritto nel libro del destino, alla pagina a me dedicata, che nel 1786 il 28 settembre a sera, e verso le cinque, secondo il nostro modo di contare le ore, sboccando dalla Brenta nella laguna, io potessi vedere Venezia per la prima volta, e poco dopo porre il piede in questa città meravigliosa, formata tutta d’isole, e visitare questa repubblica di castori! La cosa sta propriamente così, e Venezia, grazie a Dio, non è più per me una parola vana, un nome vuoto, il quale mi ha tormentato le tante volte col suo suono fatale! [...] Di Venezia si è di già narrato e scritto oramai tanto, che io non intendo punto farne una descrizione. Narrerò unicamente quanto mi avvenne, le cose le quali mi colpirono. E la prima fu qui ancora il popolo, questa folla immensa, la quale, non spontaneamente, ma per necessità fu condotta a vivere diversamente dagli altri popoli. Non fu per propria elezione che i primi abitatori si stabilirono su queste isole, nè che vennero altri unirsi ai primi; la necessità fu quella la quale li spinse a cercare sicurezza in una località infelice che col tempo seppero rendere felicissima, e che li rese avveduti allorquando tutte le contrade settentrionali trovavansi immerse tuttora nelle tenebre. D’allora in poi, le case sorsero le une a fianco alle altre, le paludi, le sabbie furono rese ferme, e stabili per mezzo delle pietre, e le case cercando aria, nè più nè meno che le piante le quali crescono chiuse in spazio ristretto, cercarono a crescere in altezza, quanto loro faceva difetto in larghezza. Facendo fin da principio la massima economia del terreno, si lasciò alle strade quel tanto di ampiezza appena, che si richiede per separare le file delle case le une dalle altre, e per consentire il passo ad una persona. Nel resto l’acqua servì loro di strade, di piazze, di passeggiate. Il Veneziano pertanto dovette diventare uomo di nuova specie, nella stessa guisa che Venezia sorge città tale, da non potersi paragonare a verun altra. Il canale grande che si svolge a forma di spirale, non ha strada al mondo che lo agguagli; la piazza di S. Marco non ha altro che le si possa porre a confronto. E d’uopo far menzione poi dello spazio acqueo che si stende a forma di mezza luna, al di quà di Venezia propriamente detta. A sinistra si scorge l’isola di S. Giorgio maggiore, alquanto più in là a diritta la Giudecca ed il suo canale; più in là, e sempre a diritta la dogana, e l’ingresso del canal grande, dove sorgono, l’una di fianco all’altra, due chiese grandiose ricche di marmi. Sono questi, accennati con poche parole, i principali oggetti i quali si presentarono al nostro sguardo, allorquando sboccammo fra le due colonne sulla piazza di S. Marco.Tutte queste cose furono disegnate ed incise le tante e le tante volte, che sarà facile a miei amici il rappresentarsele. Dopo cenato mi affrettai di procacciarmi un impressione complessiva della città, e mi lanciai, solo, senza guida, tenendo presenti soltanto le stelle, in quel laberinto della città, la quale tuttochè frastagliata in ogni punto di canali, e canaletti, trovasi però tutta riunita da ponti, e ponticelli. Non è possibile imaginarsi, senza averla vista, la ristrettezza di queste strade, l’aderenza delle case le une alle altre. Generalmente, stendendo le braccia si può misurare la larghezza delle prime, e per talune bastano i gomiti, se si appoggiano le mani ai fianchi; si trovano pure per dir vero strade più ampie, e quà e là piccole piazze, ma in complesso tutto si deve dire angusto, ristretto,Trovai facilmente il canale grande, ed il ponte principale, quello di Rialto,formato di un arco solo in marmo bianco. Dall’alto di quello la vista è stupenda; si vede il canale solcato di barche, le quali recano dalla terra ferma i prodotti occorrenti alla vita, e che per la maggior parte si fermano e sbarcano il loro carico in questo punto, e fra mezzo alle barche poi, una flottiglia di gondole; ed oggi specialmente che era giorno di festa, quella di S. Michele, lo spettacolo, la vista erano meravigliose, se non che, per poterne dare un’idea abbastanza esatta, è d’uopo soggiungere ancora alcuni particolari.Le due parti principali di Venezia, separate dal canal grande, non sono riunite da altro ponte, all’infuori di quello unico di Rialto, però si provvide alle comunicazioni fra l’una e l’altra parte della città, per mezzo di barche pubbliche, le quali attraversano di continuo il canale, in certi punti determinati. Ed oggi, tutta quella folla pulitamente vestita, le donne con un velo nero sul capo, faceva bellissima vista, nell’avviarsi alla chiesa dove si celebrava la festa dell’Arcangelo. Scesi dal ponte, e mi portai in uno di quei punti di passaggio, per osservare con più comodo le persone le quali attraversavano il canale, e viddi colà bellissime figure, e fisionomie.Allorquando mi trovai stanco, presi posto in una gondola, ed abbandonando le stradelle anguste, mi avviai per la parte a settentrione del canal grande, facendomi portare all’isola di S. Chiara, nelle lagune, nel canale della Giudecca, e per ultimo alla piazza di S. Marco, ed allora mi sentii io pure a mia volta compadrone del mare adriatico, al pari di qualunque Veneziano sdraiato nella sua gondola. Mi ricordai allora del mio buon padre, il quale non la finiva tanto facilmente, allorquando prendeva a discorrere di questa città. Non ne farò io oramai altrettanto? Tutte le cose le quali mi circondano sono degne di rispetto, sono opera pregevole delle forze di molte generazioni di uomini; sono monumento stupendo, non già di un principe, ma bensì di un popolo. Ed ora, quantunque la laguna si vadi poco a poco interrando, quantunque sorgano vapori mefitici dalle paludi, tuttochè sia decaduto il commercio, e venuta meno la grande possanza della Repubblica, sono pur sempre meritevoli questa ed i suoi ordinamenti, dell’attenzione di un osservatore. Dessa soggiacque all’influenza del tempo, a cui nessuna cosa sfugge, di quante sono al mondo.

 

A Roma,invece, giunge il primo novembre.

 

Sì,  io sono finalmente arrivato in questa capitale del mondo. Se io l’avessi potuta visitare quindici anni sono, in buona Compagnia, e sotto la direzione di un uomo intelligente, mi terrei propriamente felice. Ma dovendola visitare da solo, vederla con i miei propri occhi, è meglio che io abbia aspettato più tardi. [...] Mi trovo qui da sette giorni, e mi vado formando mano a mano, un’idea generale di questa città. Girando  continuamente, vo acquistando cognizione della pianta di Roma nuova e di Roma antica; contemplo le rovine,gli edifici, visito ora una villa, ora un altra; mi fermo a lungo davanti alle rarità le più notevoli; cammino su e giù, sempre cogli occhi aperti, guardando ogni cosa, imperocchè soltanto a Roma  è possibile prepararsi a conoscere Roma. Lasciatemi però dire essere ufficio triste ed ingrato, quello di cavar fuori Roma antica dalla Roma moderna; ma è pure forza compierlo, nella speranza di rinvenirvi grande soddisfazione. Trovansi traccie di splendidezza e di distruzione, le quali superano ogni mia imaginazione. Quanto fu rispettato dai barbari, venne manomesso dagli architetti moderni. Quando si considera l’esistenza di questa città, la quale risale a due mille anni ed oltre; quando si pon mente a tutte le vicissitudini, e tutte le trasformazioni a cui andò soggetta nel corso dei secoli, e che si pensa sorgere pure dessa sempre sullo stesso suolo, sugli stessi colli; che si scorgono ancora le stesse colonne, gli stessi muri; che nel popolo si riconoscono tuttora traccie del carattere antico, si finisce per diventare in certo modo contemporaneo delle varie epoche, delle diverse vicende, per comprendere quanto a primo aspetto pareva oscurissimo, vale a dire, in qual modo una Roma sia succeduta all’altra; e non solo quella moderna all’antica, ma quelle ancora le quali si formarono, e si succedettero, nelle epoche intermedie. Ora io non ho fatto altro che cercare a scoprire i punti tuttora nascosti in parte, alla quale cosa mirabilmente giovano i lavori preparatori fatti fin qui; imperocchè, a partire dal secolo XV ai giorni nostri, valenti artisti ed erudit  dedicarono a quegli studi tutta intera la loro vita. Buona parte di questo lavoro poi si compie agevolmente, unicamente nel percorrere Roma, per recarsi a visitare le cose le più notevoli; imperocchè negli altri luoghi è d’uopo ricercare queste, e qui, in tanta abbondanza, e cotanto vicine le une alle altre, si offrono quasi spontanee allo sguardo. Sia che si stia fermo, sia che si cammini, si vedono dovunque un quadro, una vista di ogni genere, di ogni specie; palazzi, e rovine, giardini e deserti, strade ampie e strade strette, casipole, stalle, archi di trionfi e colonne, e spesse volte tutte queste cose addossate cotanto le une alle altre, che si potrebbero disegnare sopra uno stesso foglio di carta. Converrebbe avere cento mani, per poter descrivere tutto. A che cosa può servire una penna? Tanto più se si pensa che si resta stanchi, quasi spossati, dal continuo vedere, ed ammirare.

Poi il Goethe che contribuisce a  un mito: precisamente quello di Faust[5], nell’omonimo dramma, la cui composizione dura letteralmente una vita, dato che l’originario, Urfaust risalirebbe al 1772, mentre l’edizione finale viene completata da Goethe poco prima di morire, e pubblicata postuma, nel 1832. Il personaggio di Faust nasce nel  XVI. secolo: compare in un anonimo  Volksbuch,  pubblicato a Francoforte nel 1587 presso l’editore Spieß. Si tratta di un erudito che stringe un patto con il diavolo per ottenere conoscenza e potere  di là dai limiti posti dalle facoltà umane. Dal medioevo all’età moderna, il personaggio inizia a delinearsi,  soprattutto in ambito alchimistico,  con riferimento al biblico Simon Mago[6]  il quale (Atti degli apostoli, 8,924) sarebbe stato solito sbalordire gli abitanti di Samaria con le sue arti magiche. Battezzato dall’apostolo Filippo, non abbandona del tutto le sue pratiche, offrendosi di comprare il diritto di far discendere lo Spirito Santo imponendo le mani. Maledetto da  Pietro, Simon Mago chiede di essere  perdonato. La tradizione vuole che in seguito sia tornato alle sue pratiche magiche e abbia contribuito a promuovere l’eresia gnostica. Particolarmente interessante, e degno di essere approfondito, il tema della connessione fra forza demoniaca e scienza (intesa appunto come scienza magica o alchemica), che rappresenta il demonio come un ente  in grado di dare agli esseri umani delle prerogative (sottratte al divino) che lo rendono potente (quasi onnipotente) ma pagando un prezzo spirituale, un tributo che coincide con la dannazione eterna, ovvero con la perdita di un bene assoluto anche se non sempre precisato nelle sue peculiari caratteristiche. Il tema di partenza è quello della scelta fra bene  e male, ma presto i contorni si sfumano, al punto che nel momento in cui la tematica è colta da Goethe e resa nella forma del suo dramma tragico, le linee di separazione sono decisamente complesse da stabilire. Mi limito qui a suggerire che quella proposta da Goethe con la vicenda di Faust sia, tra l’altro, la sfida della manipolazione demiurgica della materia, quella che gli alchimisti conducono all’estremo limite della ricerca della pietra filosofale ovvero dell’assoluto, non senza condire la raffigurazione delle forze in gioco (semplificando, materiali e spirituali) di una permanente tentazione del carnascialesco, lo spirito giocoso che capovolge tutto nel momento più (apparentemente) inopportuno, per lasciare poi inopinatamente aperte di nuovo tutte le possibilità. Un breve cenno alla trama del dramma può consentirmi di suffragare questo limitato suggerimento interpretativo.  Due prologhi precedono l’inizio: il primo, metateatrale, ospita la discussione fra poeta, direttore di scena e attore in merito a cosa si debba privilegiare, se l’arte o il pubblico; il secondo si svolge nelle regioni celesti e propone il punto di partenza della tragedia: la scommessa che  Satana propone a Dio (reminiscenza di quella biblica che coinvolge Giobbe) in merito all’irreprensibilità di un soggetto, Faust medesimo, medico e teologo, che ha sempre obbedito alle leggi divine e che Satana è sicuro di riuscire a sedurre. Dio non accetta la scommessa, ma permette a Satana di tormentare Faust, dal momento che è certo  sia destinato alla salvezza eterna. Faust conduce, all’inizio del dramma, un’esistenza di studio che non lo soddisfa: non riesce infatti a svelare quelli che gli paiono i segreti più profondi della natura, per penetrare i quali si dedica alle arti magiche, con cui  evoca lo spirito elementare della Terra (ovvero Dio che opera attraverso la natura), ma il tentativo si risolve nell’ennesimo, clamoroso insuccesso  e Faust decide di suicidarsi, ma, un attimo prima di bere una pozione avvelenata, ode le campane che annunciano la Pasqua e rinsavisce:  rilegge il Prologo del Vangelo di Giovanni (In principio era il Verbo) e intuisce che la traduzione migliore sarebbe quella che sostituisce atto a verbo; in seguito, capisce che il suo cane è probabilmente posseduto da uno spirito maligno, che  si rivela essere Mefistofele stesso. Faust, che non teme il soprannaturale, cerca di trattenere il diavolo, che invece vorrebbe allontanarsi dalla stanza, ma è bloccato da un pentagramma divino sulla soglia di casa che egli, in quanto creatura demoniaca, non può spezzare. Uscito di casa solo grazie all’aiuto di un topo, Mefistofele torna da Faust e gli propone un patto: fargli conoscere le bellezze del mondo e della vita rispetto all’esistenza di insuccessi e insoddisfazioni sperimentata fino a quel momento dal dotto protagonista. Faust, che dapprima è titubante, accetta solo quando gli viene proposto un patto di sangue, la cui posta è la sua stessa anima. Infatti Mefistofele si propone di esaudire i suoi desideri grazie alla magia: se riuscirà a far sperimentare a Faust un godimento tale da fargli pronunciare la frase Dirò all’attimo: sei così bello, fermati!, avrà l’esclusiva sul suo spirito. Faust, peraltro, non teme l’oltretomba e, anzi, ha la ferma convinzione che nulla potrà più dargli gioia, una volta terminata la vita terrena, quindi accetta di partire con il diavolo alla ricerca dei più grandi piaceri che il mondo ha da offrire. Le successive vicende, avventurose e a tratti fiabesche, conducono fino alla richiesta da parte di Faust di far innamorare  di lui la giovane Margherita, una donna innocente e pia di cui si è invaghito e da cui è stato respinto, benché a questo punto della storia Mefistofele l’abbia reso giovane, bello e nobile. Grazie agli espedienti escogitati da Mefistofele, Faust riesce a sedurre Margherita, ma la lo relazione volge presto al tragico e Margherita viene condannata a morte per infanticidio, mentre Mefistofele coinvolge Faust in un sabba infernale (La notte di Valpurga) e, alla fine di questa parte, Margherita in carcere, per avere invocato il perdono di Dio, viene salvata dagli angeli e portata in cielo. La seconda parte è ricchissima di riferimenti alla mitologia classica ed è inizialmente ambientata presso la corte imperiale. L’evento principale di questa parte è rappresentato dall’innamoramento di Faust per Elena di Troia, evocata dagli Inferi,  seguito da un secondo sabba, durante il quale assistono ad una processione di creature e mostri mitologici. Faust, dopo aver salvato Elena da un sacrificio rituale, ha da lei un figlio, Euforione, che però muore prematuramente come Icaro nell’omonimo mito; Elena si ritira nuovamente negli Inferi con l’anima del figlio, abbandonando Faust. Il protagonista e Mefistofele aiutano poi l’imperatore in una guerra contro un usurpatore e Faust riceve in cambio della vittoria un feudo costiero. Ormai vecchio e stanco, si ritira nel suo nuovo possedimento, da cui fa espellere due anziani (dal nome, evocativo di Ovidio, di Filemone e Bauci) causandone infine la morte.  Il demone dell’Angoscia s’impadronisce dello spirito del protagonista, che rimpiange la sua vita sprecata in vane ricerche e nel commercio con Mefistofele, e che  vuole dedicarsi a un’attività utile per la collettività, bonificando una palude dei suoi possedimenti. Durante i lavori, mentre immagina un’umanità del futuro veramente libera, Faust pronuncia la frase del patto, Dirò all’attimo: sei così bello, fermati!, e Mefistofele pone fine alla sua vita per poter portare via la sua anima, ma  mentre sta per condurlo all’Inferno, giungono degli angeli che, per intercessione di Margherita e in considerazione del fatto che si sia sempre dedicato all’assoluto, lo portano in cielo. Il poema si chiude con la celebrazione dell’eterno femminino,  e dell’Amore come forza creatrice e motrice dell’intero universo.

Potete rendervi conto, da questa sintesi, quale variegata materia sia contenuta in questo testo, che non a caso viene portato a compimento a pochi mesi dalla morte, dopo essere stato iniziato in gioventù. Un contenuto che si può, senza timore di essere approssimativi, rilevare anche solo dalla sintesi e ricondurre subito al romanzo del quale abbiamo intenzione di occuparci prioritariamente, è quella ricerca dell’assoluto alla quale ho fatto più volte riferimento. Il termine stesso, assoluto, è utile da definire almeno provvisoriamente. Assoluto è, per via etimologica, quanto si situa in un territorio libero da ogni legame (ab unito a solvo, ovvero sciolgo da). A parte l’uso grammaticale, nella lingua latina per definire il costrutto sintattico dell’ablativo assoluto ad esempio, il termine viene utilizzato in filosofia e teologia per indicare quanto si situi a un livello trascendente, privo di relazioni con la dimensione finita, che non può in alcun modo condizionarlo, quindi inconoscibile nella sua natura, sovratemporale e infinito. Nel tentativo di cogliere l’assoluto nella dimensione teologica,  il centro di riferimento diviene il soggetto, e implicitamente la realtà assoluta è posta come spirituale, non sostanza ma spirito: Dio è spirito, ma  è concepito come trascendente, essere eterno e perfetto, sostanza o natura infinita. Come si legge in Tommaso d’Aquino, Dio è absolutum secundum quod in se est. Questo modo di rendere l’assoluto sostanza non elude il problema della conoscenza, anzi, lo ripropone negli stessi termini in cui si poneva nell’aristotelismo. Una sostanza inconoscibile nella sua essenza è pertanto, ritornando alla questione della ricerca dell’assoluto, una sfida permanente, che gli alchimisti denominano grande opera, ossia opus magnum alla latina, rendendo empirica, in particolare chimica, la ricerca spirituale. Il nesso con il nostro discorso letterario è rappresentato dal fatto che in tanti soggetti, a cominciare da Werther, scaturiti dall’immaginazione romantica, si manifesta nell’interiorità una condizione di permanente insoddisfazione che, se non conduce all’autodistruzione, dà luogo a un vitalismo in grado di esprimersi a vari livelli dell’esistenza. Di qui, nel romanzo di Werther, la sensibilità acuita nei confronti della natura, dell’arte, dell’amore, e, sul fronte opposto, il disgusto nei confronti della civiltà, dell’artefazione, delle convenzioni di qualsiasi genere. Si predispone, come in un crogiuolo, l’eliminazione di sostanze nocive alla sensibilità che definiamo romantica, la maggior parte delle quali è radicata in tradizioni percepite ormai come usurate, in quanto espressione di una società obsolescente ma ancora rispettata e in possesso di ricchezze e poteri. La contrapposizione, nel romanzo, fra Werther e Albert si gioca anche su questo piano: il primo rappresenta lo spirito ribelle, anticonvenzionale, romantico, mentre il secondo la rispettabile  e rispettata coscienza borghese, che tiene a graduali e controllati cambiamenti, e rifugge ogni tipo di eccesso, stabilendo soglie molto basse per la definizione di quest’ultimo. Riporto, per suffragare questa affermazione, dalla quale potrà poi svilupparsi un’analisi ulteriore, una citazione dal testo. Si tratta di una lettera della prima parte dei Dolori del giovane Werther,  datata 12 agosto, con la quale concludo, per ora, la sezione dedicata a Goethe.

 

"Questo non c'entra, replicò Alberto, perché un uomo che è in balìa delle passioni perde ogni forza di ragione, ed è considerato come in preda all'ebbrezza o al delirio". "Oh le persone ragionevoli!, esclamai sorridendo. Passione! Ebbrezza! Delirio! Voi siete così impassibili, così estranei a tutto questo, voi uomini per bene! Rimproverate il bevitore, condannate l'insensato, passate dinanzi a loro come il sacrificatore e ringraziate Dio, come il fariseo, perché non vi ha fatto simili a loro! Più di una volta io sono stato ebbro, le mie passioni non sono lontane dal delirio, e di queste due cose io non mi pento perché ho imparato a capire che tutti gli uomini straordinari che hanno compiuto qualcosa di grande, e che pareva impossibile, sono stati in ogni tempo ritenuti  ebbri o pazzi. Ma anche nella vita comune, è insopportabile sentir dire ogni volta che qualcuno sta per compiere un'azione libera, nobile, inattesa: quell'uomo è ubriaco, è pazzo! Vergognatevi, uomini sobri e savi!" "Ecco le tue solite fantasie, disse Alberto, tu esageri tutto, e in questo caso hai per lo meno il torto di paragonare il suicidio di cui ora è questione, con delle grandi gesta, mentre esso non può esser considerato che come una debolezza, poiché certo è più facile morire che sopportare con fermezza una vita dolorosa". Ero sul punto di interrompere il discorso, perché niente mi mette così fuori dei gangheri come vedere qualcuno armato di insignificanti luoghi comuni mentre io parlo con tutto il cuore. Pure mi contenni, perché molte volte ho sentito addurre quell'argomento e me ne sono indignato: risposi dunque alquanto vivamente: "Tu lo chiami una debolezza? Ti prego, non lasciarti ingannare dall'apparenza. Puoi chiamare debole un popolo che geme sotto il giogo di un tiranno se infine, fremendo, spezza le sue catene? Un uomo che nel terrore di vedere la sua casa in preda alle fiamme sente le sue forze centuplicate, e solleva facilmente dei pesi che a mente calma potrebbe appena muovere? e uno che nel calore dell'offesa ne affronta sei, e li vince, tu lo chiami debole? E, mio caro, se lo SFORZO costituisce la forza, per ché lo sforzo supremo dovrebbe essere il contrario?". Alberto mi guardò e disse: "Non te ne avere a male, ma gli esempi che tu porti non hanno nulla a vedere col nostro discorso". "Può darsi, risposi, già più volte mi hanno detto che il mio modo di ragionare è spesso privo di logica. Vediamo se possiamo in altro modo figurarci quale coraggio deve avere un uomo che si decide a gettare il fardello della vita, che è generalmente gradito, perché solo in quanto noi sentiamo una cosa, possiamo parlarne con giusto criterio. La natura umana, continuai dunque, ha i suoi limiti: essa può sopportare la gioia, la sofferenza, il dolore fino a un certo punto, e soccombe se questo è oltrepassato. Non è questione di stabilire se un uomo è debole o forte, ma di vedere se egli può sopportare la sofferenza che gli è imposta, sia morale che fisica; e a me pare tanto strano dire che un uomo è vile perché si toglie la vita, come troverei assurdo dire che è tale perché muore di febbre maligna". "Che paradosso!" esclamò Alberto. "Non tanto quanto tu pensi, ribattei. Ammetterai che noi chiamiamo mortale una malattia la quale assale la nostra costituzione naturale in modo che le sue forze sono in parte distrutte e in parte sminuite nella loro attività: sicché essa non può in alcun modo aiutarci né riattivare, per mezzo di alcuna risoluzione, il corso della vita. Ebbene, amico mio, applichiamo questo allo spirito. Vedi quante impressioni agiscono sull'uomo nella sua limitata sfera, quante idee penetrano in lui, finché una crescente passione non gli toglie ogni serena forza di pensiero e lo trascina alla sua perdita. Invano l'uomo libero da ogni cura e in possesso della sua ragione lo guarda con pietà, invano cerca di convincerlo con la persuasione. È come un uomo sano che pur stando al letto di un infermo non può infondergli la minima parte delle sue forze". Ma per Alberto queste erano idee troppo generali. Gli raccontai allora di una fanciulla che da poco tempo era stata trovata morta annegata, e ripetei la sua storia. Era una buona giovane creatura, cresciuta nell'angusta cerchia delle occupazioni casalinghe, nel lavoro di tutta la settimana, e che non aveva altra prospettiva ed altro piacere oltre quello di andare a volte la domenica, con le sue compagne, a passeggiare intorno alla città, abbellita da qualche ornamento messo insieme a poco a poco; di ballare forse una volta nelle feste solenni e di chiacchierare qualche ora da una vicina con vivacità ed interesse a proposito di una disputa o di una maldicenza. L'ardore della sua giovinezza le fa provare infine degli intimi desideri accesi dalle lusinghe degli uomini. Le sue antiche gioie le sembrano sempre più insipide, e infine incontra un uomo verso il quale è irresistibilmente spinta da un sentimento sconosciuto e su cui posano tutte le sue speranze; dimentica il mondo intero, non ode, non vede, non sente che lui, non aspira che a lui, l'Unico. E poiché non è corrotta dai vuoti piaceri di un'incostante vanità, il suo desiderio va dritto allo scopo, vuole essere di lui, vuole in un eterno legame raggiungere tutta la felicità che le manca e godere tutte le gioie alle quali aspira. Ripetute promesse, che coronano tutte le sue speranze, ardite carezze che accendono il suo desiderio, dominano tutta la sua anima; lei è in preda a un oscuro sentimento che le fa pregustare ogni gioia, si esalta al massimo grado, stende infine le braccia per cingere l'oggetto dei suoi desideri... e il suo amato la abbandona. Lei si stupisce e, come insensata, le pare di essere davanti a un abisso: tutto è tenebre intorno a lei; non ha nessun avvenire, nessun conforto, nessuna speranza, perché l'ha lasciata colui nel quale si sentiva vivere. Non vede il vasto mondo che si stende davanti a lei, né i molti che potrebbero consolarla della perdita subìta; si sente sola, abbandonata da tutti al mondo, e cieca, oppressa nell'angustia dell'orribile miseria del suo cuore, si precipita per distruggere tutti i suoi tormenti in una morte annientatrice. Vedi, Alberto, è questa la storia di molte persone! e non ti pare proprio lo stesso caso di una malattia? La natura non trova nessuna via d'uscita dal labirinto delle forze turbate e contrarie, e l'uomo deve morire. Guai a colui che potrà dire, vedendo un simile evento: che pazza! se avesse aspettato, se avesse lasciato agire il tempo, la sua disperazione si sarebbe placata, qualche altro si sarebbe trovato per consolarla! Sarebbe lo stesso che dire: quel pazzo, è morto di febbre! se avesse aspettato finché le forze gli fossero ritornate, i succhi vitali purificati, e calmato il tumulto del suo sangue! Egli vivrebbe ancora oggi e tutto sarebbe andato bene!". Alberto, a cui il paragone non pareva appropriato, mosse ancora qualche obiezione; e fra l'altro disse che io avevo parlato di una semplice giovinetta, ma che egli non capiva come si sarebbe potuto scusare un uomo di criterio, di mente non così limitata, e che sa cogliere un maggior numero di rapporti. "Amico mio, esclamai, l'uomo è uomo, e quel poco d'intelligenza che egli può avere serve poco o niente quando arde la passione e l'essere umano è spinto verso i confini della sua forza. Tanto più... Ma ne parleremo un'altra volta" dissi, e presi il cappello... Il mio cuore era gonfio e ci lasciammo senza esserci compresi. Ma del resto in questo mondo è difficile che gli uomini si comprendano.

 



[1] Eric Hobsbawm, 1917-2012, è uno storico satunitense, autore tra l’altro del Secolo breve, 1914-1991,  nel quale connota in maniera opposta il XIX e il XX proprio quanto alla lunghezza del primo e alla brevità del secondo

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[2] Le ragioni della resistenza alla diffusione delle idee romantiche in Italia sono molteplici, ma una delle più evidenti è connessa con la posizione culturale, ovvero con la prossimità anche geografica, addirittura una coincidenza, con la civiltà greco-latina, fonte di miti che i romantici, prima fra tutte M.me de Staël, decidono di sacrificare in nome di un rinnovamento totale del materiale fonte di ispirazione, che recuperi piuttosto le radici nazionali.

[3]  Jean-Jacques Rousseau, nato a Ginevra nel 1712 e morto a Ermenonville nel 1778, è insieme a Voltaire uno dei filosofi dell’illuminismo. Tra le opere che influenzano la sensibilità romantica, oltre alle Confessions, La nouvelle Héloise e l’Emile: quest’ultimo contiene in particolare idee sull’educazione molto moderne. Per la storia del pensiero politico, fondamentale il suo Du contrat social.

[4]  La fonte di questa citazione è wikisource, che propone una traduzione del testo del 1875 di Augusto Nomis di Cossilla.

[5] Si tratta di una  persona che potrebbe essere realmente vissuta tra la fine del Quattrocento e la fine del Cinquecento in Germania: così sostiene Johan Georg Neuman nel 1640 nella sua Disquisitio storica de Fausto prestigiatore, che stabilisce il ritratto di Faust diventato appunto storico, definendolo come un mago itinerante. A lui certo  si ispira, con la  Tragical History of Doctor Faustus,  il drammaturgo inglese Christopher Marlowe (1564-1593), la cui prima rappresentazione attestata è del 1594, ma che è stata composta nel 1588. Marlowe porta in scena caratteri ed episodi che vengono poi mutuati da Goethe, come la tragicità insita nel personaggio o l’amore per Elena di Troia.

Goethe ha modo di avvicinarsi al Doctor Faustus di Marlowe già in giovane età, durante uno spettacolo di marionette, detto Puppenspiel in tedesco.

[6]  Da Simon Mago discende anche il peccato della simonia, la compravendita di cose sacre, che Dante stigmatizza nel XIX canto dell’Inferno, relegando i simoniaci nell’VIII cerchio, III bolgia, fra i fraudolenti puniti a testa in giù, con fiamme che bruciano i loro piedi.

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