ESTRATTO DISPENSA ULTIMI GIORNI - ROMANTICISMO E GOETHE
ROMANTICISMO
Il periodo che va
dall’ultimo settecento agli anni ottanta dell’ottocento circa offre almeno due
ragioni che ne legittimano una trattazione unitaria: sul piano storico-politico
è in quel lasso di tempo che si afferma il principio di nazionalità, realizzandosi
concretamente in numerosi processi di
unificazione territoriale (Italia, Germania, Grecia), e si consolida il
liberalismo attraverso istituzioni e prassi politiche e economiche (elezioni,
sistema parlamentare, libertà d’impresa); sul piano letterario è quasi
interamente occupato dalla manifestazione in varie arti del romanticismo, cioè
la nascita, lo sviluppo e la diramazione a livello europeo di questo composito
movimento culturale e artistico.
Inserisco qualche
cenno alla storia, in particolare ancora a quell’evento epocale che è la rivoluzione francese. Tra le varie anime
della rivoluzione è quella liberal-borghese ad avere la meglio: è il terzo
stato, la borghesia, a codificare un assetto sociale rispondente ai suoi
interessi, in particolare con la Dichiarazione
dei diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789, che sancisce l’abolizione
del regime feudale, la libertà personale, l’uguaglianza di tutti di fronte alla
legge, e dichiara la proprietà diritto inviolabile e sacro; tuttavia al momento
di dare determinazione concreta a tale libertà
e uguaglianza la Costituzione del
1791 discrimina il diritto di voto sulla base del censo e con la Costituzione dell’anno III, 1795, frutto
della reazione di Termidoro al Terrore giacobino, viene ancora una volta
stabilito il principio del censo nelle elezioni, ribadito il diritto di
proprietà senza restrizioni, riaffermata la piena libertà di iniziativa degli
operatori economici. Una strada, quella praticata dalla borghesia attraverso
queste codificazione, di opposizione tanto ai privilegi della nobiltà quanto
alle richieste più radicali del popolo, che pure in certe occasioni vengono
sfruttate per ottenerne l’appoggio in contrasto con l’aristocrazia. La medesima
strada seguita dal Codice civile
napoleonico (1804), responsabile della
diffusione in Europa, nei territori, ivi compresa l’Italia, toccati
dall’invasione, dell’assetto statale liberal-borghese, che concede spazio non
tanto all’uomo di cui si parla nella
dichiarazione dei diritti, ma a quell’uomo
che sia sufficientemente autonomo,
possidente, colto, da potersi considerare vero cittadino.
La Rivoluzione
comprende comunque anche fasi che vanno in direzione propriamente democratica e non liberale, intendendo col primo termine un’attenzione alle esigenze
e al ruolo delle forze popolari, con sottintesa una contestazione dell’egemonia
borghese: il mito giacobino, sostengono alcuni storici fra cui Eric Hobsbawm[1], si è
imposto con potenza superiore persino a quello napoleonico (che comunque
sopravvive alla morte dell’imperatore) in quanto sogno di libertà, eguaglianza
e fraternità, rivendicate da un popolo che si sente finalmente signore di sé. Indimenticabile, tra
l’altro, in una ricostruzione attenta ai dettagli, che un episodio della rivoluzione francese sia la radicalissima congiura degli Uguali di Gracco Babeuf, organizzata nel 1796,
repressa nel sangue dal Direttorio, ma espressasi in un Manifesto, le Manifeste des plébéiens, in cui si trova teorizzata
l’abolizione della proprietà privata come premessa indispensabile
dell’effettiva eguaglianza fra cittadini, considerata, tale eguaglianza, primo
bisogno dell’uomo e auspicio della natura. Si tratta palesemente di un
comunismo ante litteram: a riprova di
questo, nel ’28, l’italiano Filippo Buonarroti, che vi aveva preso parte,
indica in tale esperienza il punto di partenza per una ripresa dell’azione
rivoluzionaria che rompa l’assetto dell’Europa della restaurazione. Da questo breve
quadro risulta che la rivoluzione francese può quantomeno essere ritenuta una
fucina nella quale si sono avviate e sperimentate forme di organizzazione
politica che per tutto l’Ottocento avrebbero costituito punti di riferimento,
anche per artisti di varia estrazione.
Quanto a Napoleone,
l’imperatore fonda il suo potere su un colpo di stato (del 18 brumaio 1798) con
cui nega e afferma al contempo la rivoluzione: da una parte realizza un
accentramento assolutistico obiettivo
d’elezione dei sovrani dell’ancien
régime, dall’altra edifica lo stato borghese, che risponde alle aspettative
e agli interessi della classe che è stata protagonista vittoriosa della
rivoluzione francese; oltre a ciò riporta ordine all’interno e riafferma il
prestigio della Francia e la sua egemonia nel contesto europeo. Di qui,
peraltro, la delusione storica percepita
da soggetti di varia nazionalità, di vedere una rivoluzione approdare al
cesarismo, delusione alla quale la cultura e sensibilità ottocentesche daranno
voce, per cominciare proprio con Foscolo.
Come nel caso
dell’illuminismo, anche del romanticismo è impossibile fornire una definizione
univoca: si tratta di un movimento estremamente diversificato, per intenzioni
ideologiche e per esiti, sia a livello di letterature europee, sia all’interno
di singole nazioni. Qualche semplificazione tuttavia è, come sempre, utile. Al classico, con l’annessa
codificazione di generi, o l’indicazione di regole quali quelle relative a
unità di luogo, tempo e azione teatrali, viene opposta l’esaltazione della
spontaneità; passione amorosa, malinconia,
irrequietezza interiore, gusto
dell’introspezione, pittoresco e sehnsucht
sono sentimenti e concetti che, uniti o separatamente, alimentano una
sensibilità poetica che affonda le sue radici di preferenza non più nella mitologia
greco-latina, ma in miti nazionali, nella storia, nel folclore locale. D’altra
parte, identificate approssimativamente queste linee di fondo, va tenuto conto
che il romanticismo si diffonde con una tempistica differente nelle varie
nazioni europee: prima in Germania e in Inghilterra, quindi in Francia e infine, con una certa resistenza, in Italia[2]. Per
questo motivo, ovvero per riuscire a cogliere una sorta di matrice della sensibilità variegata del romanticismo, esamineremo
nel prossimo capitolo il romanzo
epistolare I dolori del giovane Werther.
Possiamo però
iniziare a concepire il romanticismo come una corrente di lungo periodo, che accompagna per decenni l’Europa nella sua
metamorfosi letteraria, politica, economica, filosofica, sociale, in aperta
fraternità o in continuo conflitto con l’ordine costituito e con la storia: una
corrente provvista di una notevole forza di penetrazione in territori e tempi
differenti, in Italia e altrove. Per questo la geografia del romanticismo è
molto variegata: ci sono centri di diffusione e espansione, zone morte e zone
ritardatarie, centri prolifici di manifesti e proclamazioni. Si delinea fin dall’inizio del discorso uno
dei paradossi romantici, di quella corrente che afferma il concetto di nazione
e pratica d’altra parte, in continuità col settecento, un accentuato
cosmopolitismo. Come elemento caratterizzante la sensibilità romantica possiamo
però almeno indicare quella che Rousseau[3], in
pieno settecento, definisce la force et
la viguerur de l’ âme, ossia una
sorta di coscienza vitale naturale che, secondo il filosofo illuminista, secoli
di civiltà avevano soffocata. Tale
forza originaria, che mira esclusivamente al piacere e alla felicità, da
ottenersi con mezzi semplici e pur sempre naturali,
diviene il corrispettivo del sogno
dell’età dell’oro e come esso nei
tempi antichi, svolge appunto la funzione di dare alla poesia una sorta di
orizzonte di riferimento. Dai primi romantici tedeschi, fra cui Goethe, a
Leopardi, pur nelle declinazioni molto differenti, questa sorta di linfa
originaria resta intatta, manifestandosi come forza dirompente: è un vitalismo
che produce rivolte spirituali, dando luogo a visioni variegate, dall’ottimismo
al pessimismo, dal religioso all’ateo, a comprova della natura composita del
movimento. Da notare che, come vedremo
occupandoci di specifiche opere letterarie, energia
e vitalismo appena evocate permeano
tanto il pensiero quanto il sentimento: da loro nascono rivolte contro il
sistema, la società, la cultura, che vedremo maturare all’inizio dell’ottocento
e sbocciare verso la metà, mentre precocemente si manifesta, come vedremo con
Werther, anche il sentore di una possibile malattia dello spirito, che
s’impadronisce del soggetto quando gli slanci iniziali non approdano ai
risultati desiderati, ovvero quasi sempre. In una fase aurorale, comunque, ad
esempio i protagonisti del primo movimento romantico, i tedeschi dello Sturm un Drang, concepiscono la poesia
come impeto d’azione, in armonia col
nome adottato, Tempesta e Impeto.
La scelta lessicale segnala un cambiamento radicale, rispetto al
neoclassicismo, ovvero l’uscita dal recinto
sacro (pur sempre un recinto) dell’accademia o dei salotti aristocratici e
la scelta di un nuovo territorio, il più vasto e smisurato possibile, anche il
più naturale possibile, per esprimere
una ricerca di assoluto e un superamento dei limiti che appare come
tema dominante dell’ispirazione. A questa tensione si associa, in alcuni casi,
un’idealizzazione del primitivo, già
presente in Rousseau, da intendersi come popolo
primitivo, per definizione libero,
selvaggio e in sé poetico. Anche
in Leopardi ritroviamo questa sorta di idealizzazione, come pure nei primi
romantici, e in lui riconosciamo un’altra componente peculiare del
romanticismo, in apparente contrasto con quella appena trattata: la malinconia,
il colore oscuro che tingeva secoli prima l’anima accidiosa di Petrarca nel suo
Secretum e che torna ora a essere
l’inchiostro preferito di tanti artisti. L’immaginazione è malinconica quando
il vigore dell’istinto vitale e naturale non riesce a ravvivarla, il che a
volte accade per via della storia individuale come di quella collettiva. D’altronde
l’istinto vitale naturale può anche affiancarsi alla malinconia e sconvolgere così
definitivamente la rigidità formale del settecento: la serenità, la classica compostezza non s’accordano con la poesia
che s’innalza verso il cielo o s’immerge nell’abisso. Omero, la Bibbia, Shakespeare, gli elisabettiani assurgono a
simboli, anche polemici, di una poesia che non teme la violenza e il disordine. E la natura,
prediletta dai poeti romantici, riflette perfettamente questa nuova direzione:
sono le scogliere del Baltico schiaffeggiate da gelide onde, le pianure immense
e variopinte, in pieno rigoglìo di
piante e di uccelli selvatici, dell’America, la Grecia delle isole bagnate dal
mare che vide nascere dalle sue onde Afrodite, i monti selvosi della Scozia.
Natura antica e vergine, che ha alimentato l’immaginazione di poeti vecchi e
nuovi: Omero, Ossian, Milton, Chénier, Chateaubriand.
In armonia o in
contrasto con questo spirito della natura
che è sentimento della natura, il
romanticismo è attraversato da svariati rivoli di sensibilità religiosa: in
alcuni casi già si presagisce la svolta decadente, di un cristianesimo oscuro e
venato di sadismo, ideale per la messinscena di atti atroci o di perversioni
(da Chateaubriand a de Maistre), in altri, come per noi principalmente in
Manzoni, si presenta come un’ideologia forte, in grado di veicolare messaggi
formativi per la società e di guidare il percorso della letteratura.
Un’attenzione a parte
merita anche il concetto di genio: per
i primi romantici l’uomo è una creatura partecipe del’infinito, e il genio non
si identifica certo con colui che mette ordine nelle cose: tende piuttosto a
dar loro fuoco per ricrearle. Per uno
scrittore come Balzac il genio-romanziere fa concorrenza direttamente a Dio.
L’iconografia romantica insiste: Byron, Shelley e Chateaubriand si fanno
ritrarre in mezzo alla natura tempestosa, capelli al vento e cravatta nera
svolazzante, nella postura dello sfidante e del profeta. Presto però l’immagine
si logora, e quando anche quieti borghesi ricorrono a questa ritrattistica si
capisce che la sorte del genio è segnata: sarà Baudelaire, a metà del secolo, a
stroncare il tipo dell’artista-genio come se l’immaginavano ormai solo i buoni
borghesi, modello del disordine, dell’ispirazione che si nutre di condotta
dissoluta: insomma del genio ridotto a banale ciarlatano.
Dato che inevitabilmente
le epoche vengono, da quelli che le vivono e da quelli che le ricostruiscono,
confrontate, non di rado contrapposte, e comunque sottoposte a un vaglio che
porta a riconoscere differenze più che continuità, è tra classicismo e
romanticismo che nasce un dibattito, al quale danno voce autori come Madame de
Staël, che rimprovera a Goethe
l’adorazione per il mondo classico, per lei anacronistica: la nuova
letteratura, la letteratura romantica venuta dal nord, a suo dire conviene di
più allo spirito di un popolo libero di quanto non sia per una letteratura
antica. Nei primi decenni dell’ottocento, però, la grande letteratura gravita ancora intorno al sud europeo, e Grecia e
Italia continuano a essere percepite come ideale patria comune, le cui rovine
(nel senso archeologico del termine) sono ancora oggetto di venerazione. Un mito che non solo stenta a morire,
ma che si prefigge anche di rinnovarsi, rispetto al neoclassicismo
settecentesco: così, gli dei della
Grecia di Schiller, ma anche i richiami all’antico presenti in Leopardi (più
che in Foscolo) non sono certo considerabili
espressioni di spirito reazionario e attardato. Schiller, ad esempio, oppone il politeismo pagano come religione
della libertà e dell’antico valore al monoteismo cristiano responsabile della
separazione, scrive lui, della Verità
dalla Bellezza.
Un ultimo
riferimento, col quale concludo l’excursus
sul romanticismo, alla Sehnsucht,
vocabolo tedesco di difficile traduzione, che tuttavia è importante avvicinarsi
a definire per la sua espressività concettuale. La nostalgia è dolore del
ritorno, sentimento quindi strettamente connesso con la percezione di una
distanza pressoché invalicabile rispetto al passato: anche se si riesce a
tornare, insegna l’esperienza di Ulisse che tocca il suolo della sua Itaca dopo
un’assenza di vent’anni, dieci di guerra e più di nove di vagabondaggi e
prigionie, non si riconosce subito la propria terra, la propria casa, tutto è
diventato estraneo, il tempo scava grandissimi solchi. La definizione di nostalgia deve precedere quella di sehnsucht,
che è una forma di struggimento sempre connesso
con la lontananza, ma riferito piuttosto a qualcosa che non si potrà mai avere,
a un oggetto di desiderio precluso; sehnsucht
è anelito all’inattingibile, desiderio allo stato puro, per questo venato
di malinconia; è, approssimandoci a una traduzione letterale, il male del desiderio, quello che però,
in uno di quei soprassalti che si trasformano in capriole, può anche diventare felice struggimento, come mirabilmente
esprime Leopardi al termine del suo idillio L’infinito,
col celebre ossimoro che suona il
naufragar m’è dolce. Desiderare di
desiderare, si capisce, è un anelito destinato a non finire mai, sicché la
sua parentela con la categoria inebriante dell’infinito è resa evidente sin dall’etimologia. Analogamente si
coglie quanto, pur nel distanziamento dall’antico, ci si riavvicini alla
matrice della poesia originaria, nonché alla matrice del metamorfismo, primo
fra tutti quello ovidiano. Il poeta augusteo, senza il quale interi canti dell’Inferno non esisterebbero, ha colto
forse per primo quanto di inimitabile la
natura abbia nelle sue intime fibre, e l’ha reso poesia. I versi latini delle Metamorfosi sono espressione di quella
quintessenza che si muove nella pianta, risplende nella luce, sorride nelle
creature appena nate o nelle anime innamorate. La poesia originaria che ha
trovato il logos, la parola, per
esprimersi.
GOETHE
Primogenito di Johann Caspar Goethe, giurisperito
e consigliere imperiale, e di Katharina Elisabeth Textor, Johann Wolfgang von
Goethe nasce a Francoforte sul Meno nel 1749. Riceve dapprima un’educazione
familiare, studiando insieme alla sorella di poco più giovane sotto la guida
del padre e di qualche maestro privato. Pur avendo sviluppato una vocazione per
le lettere e la filosofia, per volontà paterna si iscrive alla facoltà di diritto di Lipsia
nel 1765. Trascorre qualche anno di intensa partecipazione alla vita della
città, incorre in qualche problema di salute ma si riprende, e parte per
Strasburgo nel 1770 per proseguire gli studi presso l’università e perfezionare
la sua conoscenza del francese. Nel 1771, tornato a Francoforte, ottiene il permesso
di esercitare la professione di avvocato, che abbandona dopo circa quattro
anni. Nel frattempo si dedica alla scrittura e inizia a seguire la nuova
corrente dello Sturm und Drang, che
prende il nome dall’omonimo dramma di Friedrich Maximilian Klinger. Consigliato
dal padre, si trasferisce nel 1772 nella cittadina di Wetzlar, e si iscrive al
tribunale come praticante. In questo periodo conosce la giovane che
probabilmente gli ispira il personaggio di Lotte nei Dolori del giovane Werther, così come probabilmente il personaggio
di Werther è ispirato a un suo amico, suicida per amore, di quel periodo. Nei
primi mesi del 1774 l’ispirazione detta a Goethe I dolori del giovane Werther, il cui impatto sulla società del
tempo è immediato: in breve tempo il testo valica i confini della Germania e
viene tradotto in tutte le lingue europee, contribuendo così al diffondersi
della sensibilità che cercheremo di approfondire nei suoi connotati salienti
leggendo e analizzando l’opera. Impossibile procedere con un dettagliato
resoconto della genesi delle numerosissime opere di Goethe, autore estremamente
prolifico, studioso dalle molteplici curiosità, viaggiatore e cultore di pittura e musica. Scelgo pertanto ancora
qualche evento e qualche opera che possano poi essere evocate e collegate al
momento dell’analisi del primo romanzo. Goethe viaggiatore, allora, per dare
conto di quello che viaggiare significa a quell’epoca, col vantaggio di poter
leggere considerazioni dello stesso autore, il quale non manca di redigere un diario di viaggio, Ricordi del viaggio in Italia 1786-’87, all’inizio dei quali si
legge che la partenza avviene come sotto un cogente impulso, una furia quasi,
che lo prende, a fine agosto, poco dopo
la festa di compleanno organizzata da suoi amici, e lo induce a salire, quasi di soppiatto, su una carrozza diretta a sud, prima tappa la
Baviera, poi, l’11 settembre, le prime città d’Italia: Bolzano e Trento.
Ho percorsa la città [Trento] la quale
è molto antica, ma che però possiede in alcune strade case nuove, di buona
costruzione. Nella chiesa havvi un dipinto, il quale rappresenta il concilio
ecumenico, intento ad ascoltare un discorso del generale dei gesuiti.
Avrei pure voluto sapere quanto avesse detto quegli all’assemblea. La chiesa di
quei padri porge bello aspetto, colle sue colonne di marmo rossiccio nella
facciata, e l’ingresso è preceduto da una tenda pesante per impedire l’accesso
alla polvere; la chiesa stessa poi è chiusa da una cancellata in ferro, la
quale consente spingere lo sguardo all’interno. Tutto era silenzioso,
tranquillo, imperocchè non si celebrano più in quella chiesa le funzioni del
culto, e la porta era aperta, unicamente perchè così si suole praticare in
tutte le chiese, all’ora del vespro.
Mentre io stavo esaminando l’architettura, la quale è
simile a quella di tutte le chiese dello stesso ordine, entrò un vecchio, togliendosi la berretta nera che aveva in
testa. Tutti i suoi abiti neri, vecchi, logori, rivelavano appartenere desso al
clero; egli s’inginocchiò davanti alla cancellata, e dopo fatta una breve
preghiera, si alzò di nuovo in piedi, e nel girarsi addietro disse a mezza
voce, quasi parlando a sè stesso «Ora che hanno cacciati i gesuiti, avrebbero
per lo meno dovuto pagare loro quanto ha loro costato la chiesa. Io so pure al
pari di tanti altri, quanto abbiano loro costato non solo la chiesa, ma ancora
il seminario.» Intanto era ricaduta dietro di lui la tenda che io aveva tenuta
alzata, standomene in silenzio; egli si era fermato sull’ultimo gradino in
alto, e diceva «Non è l’imperatore che abbia ciò fatto; lo volle il Papa.» E
volgendosi verso la strada, senza punto badare a me, disse «Prima gli
Spagnuoli; dopo noi; quindi i Francesi. Il sangue di Abele grida vendetta,
contro Caino suo fratello» e scendendo la gradinata si avviò per la strada,
continuando a parlare per tal guisa, con sè stesso. Probabilmente era tale
mantenuto dai gesuiti, il quale, dopo l’immensa rovina dell’ordine sarà
impazzato, e che verrà ora ogni giorno nella chiesa deserta, per cercarvi gli
antichi abitatori, e dopo una breve preghiera, scagliare maledizioni ai
persecutori di quelli.[4]
Tanto per dare
un’idea dello spirito di questi appunti di viaggio, riporto ancora due passaggi
del testo, uno relativo a Venezia, il secondo a Roma. Il resto lascio
all’eventuale curiosità dei singoli.
Era scritto nel libro del destino, alla pagina a me
dedicata, che nel 1786 il 28 settembre a sera, e verso le cinque, secondo il
nostro modo di contare le ore, sboccando dalla Brenta nella laguna, io potessi
vedere Venezia per la prima volta, e poco dopo porre il piede in questa città
meravigliosa, formata tutta d’isole, e visitare questa repubblica di castori!
La cosa sta propriamente così, e Venezia, grazie a Dio, non è più per me una
parola vana, un nome vuoto, il quale mi ha tormentato le tante volte col suo
suono fatale! [...] Di Venezia si è di già narrato e scritto oramai tanto,
che io non intendo punto farne una descrizione. Narrerò unicamente quanto mi
avvenne, le cose le quali mi colpirono. E la prima fu qui ancora il popolo,
questa folla immensa, la quale, non spontaneamente, ma per necessità fu
condotta a vivere diversamente dagli altri popoli. Non fu per propria elezione
che i primi abitatori si stabilirono su queste isole, nè che vennero altri
unirsi ai primi; la necessità fu quella la quale li spinse a cercare sicurezza
in una località infelice che col tempo seppero rendere felicissima, e che li
rese avveduti allorquando tutte le contrade settentrionali trovavansi immerse
tuttora nelle tenebre. D’allora in poi, le case sorsero le une a fianco alle
altre, le paludi, le sabbie furono rese ferme, e stabili per mezzo delle
pietre, e le case cercando aria, nè più nè meno che le piante le quali crescono
chiuse in spazio ristretto, cercarono a crescere in altezza, quanto loro faceva
difetto in larghezza. Facendo fin da principio la massima economia del terreno,
si lasciò alle strade quel tanto di ampiezza appena, che si richiede per
separare le file delle case le une dalle altre, e per consentire il passo ad
una persona. Nel resto l’acqua servì loro di strade, di piazze, di passeggiate.
Il Veneziano pertanto dovette diventare uomo di nuova specie, nella stessa
guisa che Venezia sorge città tale, da non potersi paragonare a verun altra. Il
canale grande che si svolge a forma di spirale, non ha strada al mondo che lo
agguagli; la piazza di S. Marco non ha altro che le si possa porre a confronto.
E d’uopo far menzione poi dello spazio acqueo che si stende a forma di mezza
luna, al di quà di Venezia propriamente detta. A sinistra si scorge l’isola di
S. Giorgio maggiore, alquanto più in là a diritta la Giudecca ed il suo canale;
più in là, e sempre a diritta la dogana, e l’ingresso del canal grande, dove
sorgono, l’una di fianco all’altra, due chiese grandiose ricche di marmi. Sono
questi, accennati con poche parole, i principali oggetti i quali si
presentarono al nostro sguardo, allorquando sboccammo fra le due colonne sulla
piazza di S. Marco.Tutte queste cose furono disegnate ed incise le tante e le
tante volte, che sarà facile a miei amici il rappresentarsele. Dopo cenato mi
affrettai di procacciarmi un impressione complessiva della città, e mi lanciai,
solo, senza guida, tenendo presenti soltanto le stelle, in quel laberinto della
città, la quale tuttochè frastagliata in ogni punto di canali, e canaletti,
trovasi però tutta riunita da ponti, e ponticelli. Non è possibile imaginarsi,
senza averla vista, la ristrettezza di queste strade, l’aderenza delle case le
une alle altre. Generalmente, stendendo le braccia si può misurare la larghezza
delle prime, e per talune bastano i gomiti, se si appoggiano le mani ai
fianchi; si trovano pure per dir vero strade più ampie, e quà e là piccole
piazze, ma in complesso tutto si deve dire angusto, ristretto,Trovai facilmente
il canale grande, ed il ponte principale, quello di Rialto,formato di un arco
solo in marmo bianco. Dall’alto di quello la vista è stupenda; si vede il
canale solcato di barche, le quali recano dalla terra ferma i prodotti
occorrenti alla vita, e che per la maggior parte si fermano e sbarcano il loro
carico in questo punto, e fra mezzo alle barche poi, una flottiglia di gondole;
ed oggi specialmente che era giorno di festa, quella di S. Michele, lo
spettacolo, la vista erano meravigliose, se non che, per poterne dare un’idea
abbastanza esatta, è d’uopo soggiungere ancora alcuni particolari.Le due parti
principali di Venezia, separate dal canal grande, non sono riunite da altro
ponte, all’infuori di quello unico di Rialto, però si provvide alle
comunicazioni fra l’una e l’altra parte della città, per mezzo di barche
pubbliche, le quali attraversano di continuo il canale, in certi punti
determinati. Ed oggi, tutta quella folla pulitamente vestita, le donne con un
velo nero sul capo, faceva bellissima vista, nell’avviarsi alla chiesa dove si
celebrava la festa dell’Arcangelo. Scesi dal ponte, e mi portai in uno di quei
punti di passaggio, per osservare con più comodo le persone le quali
attraversavano il canale, e viddi colà bellissime figure, e
fisionomie.Allorquando mi trovai stanco, presi posto in una gondola, ed
abbandonando le stradelle anguste, mi avviai per la parte a settentrione del
canal grande, facendomi portare all’isola di S. Chiara, nelle lagune, nel
canale della Giudecca, e per ultimo alla piazza di S. Marco, ed allora mi
sentii io pure a mia volta compadrone del mare adriatico, al pari di qualunque
Veneziano sdraiato nella sua gondola. Mi ricordai allora del mio buon padre, il
quale non la finiva tanto facilmente, allorquando prendeva a discorrere di
questa città. Non ne farò io oramai altrettanto? Tutte le cose le quali mi
circondano sono degne di rispetto, sono opera pregevole delle forze di molte
generazioni di uomini; sono monumento stupendo, non già di un principe, ma
bensì di un popolo. Ed ora, quantunque la laguna si vadi poco a poco
interrando, quantunque sorgano vapori mefitici dalle paludi, tuttochè sia decaduto
il commercio, e venuta meno la grande possanza della Repubblica, sono pur
sempre meritevoli questa ed i suoi ordinamenti, dell’attenzione di un
osservatore. Dessa soggiacque all’influenza del tempo, a cui nessuna cosa
sfugge, di quante sono al mondo.
A Roma,invece, giunge il primo novembre.
Sì, io sono
finalmente arrivato in questa capitale del mondo. Se io l’avessi potuta
visitare quindici anni sono, in buona Compagnia, e sotto la direzione di un
uomo intelligente, mi terrei propriamente felice. Ma dovendola visitare da
solo, vederla con i miei propri occhi, è meglio che io abbia aspettato più
tardi.
[...] Mi trovo qui da sette giorni, e mi
vado formando mano a mano, un’idea generale di questa città. Girando continuamente, vo acquistando cognizione della
pianta di Roma nuova e di Roma antica; contemplo le rovine,gli edifici, visito
ora una villa, ora un altra; mi fermo a lungo davanti alle rarità le più
notevoli; cammino su e giù, sempre cogli occhi aperti, guardando ogni cosa,
imperocchè soltanto a Roma è possibile
prepararsi a conoscere Roma. Lasciatemi però dire essere ufficio triste ed
ingrato, quello di cavar fuori Roma antica dalla Roma moderna; ma è pure forza
compierlo, nella speranza di rinvenirvi grande soddisfazione. Trovansi traccie
di splendidezza e di distruzione, le quali superano ogni mia imaginazione.
Quanto fu rispettato dai barbari, venne manomesso dagli architetti moderni. Quando
si considera l’esistenza di questa città, la quale risale a due mille anni ed
oltre; quando si pon mente a tutte le vicissitudini, e tutte le trasformazioni
a cui andò soggetta nel corso dei secoli, e che si pensa sorgere pure dessa
sempre sullo stesso suolo, sugli stessi colli; che si scorgono ancora le stesse
colonne, gli stessi muri; che nel popolo si riconoscono tuttora traccie del
carattere antico, si finisce per diventare in certo modo contemporaneo delle
varie epoche, delle diverse vicende, per comprendere quanto a primo aspetto
pareva oscurissimo, vale a dire, in qual modo una Roma sia succeduta all’altra;
e non solo quella moderna all’antica, ma quelle ancora le quali si formarono, e
si succedettero, nelle epoche intermedie. Ora io non ho fatto altro che cercare
a scoprire i punti tuttora nascosti in parte, alla quale cosa mirabilmente
giovano i lavori preparatori fatti fin qui; imperocchè, a partire dal secolo XV
ai giorni nostri, valenti artisti ed erudit dedicarono a quegli studi tutta intera la loro
vita. Buona parte di questo lavoro poi si compie agevolmente, unicamente nel
percorrere Roma, per recarsi a visitare le cose le più notevoli; imperocchè
negli altri luoghi è d’uopo ricercare queste, e qui, in tanta abbondanza, e
cotanto vicine le une alle altre, si offrono quasi spontanee allo sguardo. Sia
che si stia fermo, sia che si cammini, si vedono dovunque un quadro, una vista
di ogni genere, di ogni specie; palazzi, e rovine, giardini e deserti, strade
ampie e strade strette, casipole, stalle, archi di trionfi e colonne, e spesse
volte tutte queste cose addossate cotanto le une alle altre, che si potrebbero
disegnare sopra uno stesso foglio di carta. Converrebbe avere cento mani, per
poter descrivere tutto. A che cosa può servire una penna? Tanto più se si pensa
che si resta stanchi, quasi spossati, dal continuo vedere, ed ammirare.
Poi il Goethe che contribuisce a un mito: precisamente quello di Faust[5], nell’omonimo
dramma, la cui composizione dura letteralmente una vita, dato che l’originario,
Urfaust risalirebbe al 1772, mentre
l’edizione finale viene completata da Goethe poco prima di morire, e pubblicata
postuma, nel 1832. Il personaggio di Faust nasce nel XVI. secolo: compare in un anonimo Volksbuch,
pubblicato a Francoforte nel 1587 presso
l’editore Spieß. Si tratta di un erudito che stringe un patto con il diavolo
per ottenere conoscenza e potere di là
dai limiti posti dalle facoltà umane. Dal medioevo all’età moderna, il
personaggio inizia a delinearsi, soprattutto in ambito alchimistico, con riferimento al biblico Simon Mago[6] il quale (Atti
degli apostoli, 8,924) sarebbe stato solito sbalordire gli abitanti di
Samaria con le sue arti magiche. Battezzato dall’apostolo Filippo, non abbandona
del tutto le sue pratiche, offrendosi di comprare il diritto di far discendere
lo Spirito Santo imponendo le mani. Maledetto da Pietro, Simon Mago chiede di essere perdonato. La tradizione vuole che in seguito
sia tornato alle sue pratiche magiche e abbia contribuito a promuovere l’eresia
gnostica. Particolarmente interessante, e degno di essere approfondito, il tema
della connessione fra forza demoniaca e scienza
(intesa appunto come scienza magica o
alchemica), che rappresenta il
demonio come un ente in grado di dare
agli esseri umani delle prerogative (sottratte al divino) che lo rendono potente (quasi onnipotente) ma pagando un prezzo spirituale, un tributo che
coincide con la dannazione eterna,
ovvero con la perdita di un bene assoluto anche se non sempre precisato nelle
sue peculiari caratteristiche. Il tema di partenza è quello della scelta fra bene e male,
ma presto i contorni si sfumano, al punto che nel momento in cui la tematica è
colta da Goethe e resa nella forma del suo dramma tragico, le linee di
separazione sono decisamente complesse da stabilire. Mi limito qui a suggerire
che quella proposta da Goethe con la vicenda di Faust sia, tra l’altro, la
sfida della manipolazione demiurgica della materia, quella che gli alchimisti
conducono all’estremo limite della ricerca della pietra filosofale ovvero dell’assoluto,
non senza condire la raffigurazione delle forze in gioco (semplificando,
materiali e spirituali) di una permanente tentazione del carnascialesco, lo spirito giocoso che capovolge tutto nel momento
più (apparentemente) inopportuno, per lasciare poi inopinatamente aperte di
nuovo tutte le possibilità. Un breve cenno alla trama del dramma può
consentirmi di suffragare questo limitato suggerimento interpretativo. Due prologhi precedono l’inizio: il primo,
metateatrale, ospita la discussione fra poeta, direttore di scena e attore in
merito a cosa si debba privilegiare, se l’arte
o il pubblico; il secondo si svolge
nelle regioni celesti e propone il punto di partenza della tragedia: la
scommessa che Satana propone a Dio
(reminiscenza di quella biblica che coinvolge Giobbe) in merito
all’irreprensibilità di un soggetto, Faust medesimo, medico e teologo, che ha
sempre obbedito alle leggi divine e che Satana è sicuro di riuscire a sedurre.
Dio non accetta la scommessa, ma permette a Satana di tormentare Faust, dal
momento che è certo sia destinato alla
salvezza eterna. Faust conduce, all’inizio del dramma, un’esistenza di studio
che non lo soddisfa: non riesce infatti a svelare quelli che gli paiono i segreti più profondi della natura, per
penetrare i quali si dedica alle arti magiche, con cui evoca lo spirito elementare della Terra
(ovvero Dio che opera attraverso la natura), ma il tentativo si risolve
nell’ennesimo, clamoroso insuccesso e
Faust decide di suicidarsi, ma, un attimo prima di bere una pozione avvelenata,
ode le campane che annunciano la Pasqua e rinsavisce: rilegge il Prologo
del Vangelo di Giovanni (In principio era il Verbo) e intuisce
che la traduzione migliore sarebbe quella che sostituisce atto a verbo; in seguito,
capisce che il suo cane è probabilmente posseduto da uno spirito maligno, che si rivela essere Mefistofele stesso. Faust,
che non teme il soprannaturale, cerca di trattenere il diavolo, che invece
vorrebbe allontanarsi dalla stanza, ma è bloccato da un pentagramma divino
sulla soglia di casa che egli, in quanto creatura demoniaca, non può spezzare. Uscito
di casa solo grazie all’aiuto di un topo, Mefistofele torna da Faust e gli
propone un patto: fargli conoscere le bellezze del mondo e della vita rispetto
all’esistenza di insuccessi e insoddisfazioni sperimentata fino a quel momento dal
dotto protagonista. Faust, che dapprima è titubante, accetta solo quando gli
viene proposto un patto di sangue, la cui posta è la sua stessa anima. Infatti
Mefistofele si propone di esaudire i suoi desideri grazie alla magia: se
riuscirà a far sperimentare a Faust un godimento tale da fargli pronunciare la
frase Dirò all’attimo: sei così bello,
fermati!, avrà l’esclusiva sul suo spirito. Faust, peraltro, non teme
l’oltretomba e, anzi, ha la ferma convinzione che nulla potrà più dargli gioia,
una volta terminata la vita terrena, quindi accetta di partire con il diavolo
alla ricerca dei più grandi piaceri che il mondo ha da offrire. Le successive
vicende, avventurose e a tratti fiabesche, conducono fino alla richiesta da
parte di Faust di far innamorare di lui
la giovane Margherita, una donna innocente e pia di cui si è invaghito e da cui
è stato respinto, benché a questo punto della storia Mefistofele l’abbia reso
giovane, bello e nobile. Grazie agli espedienti escogitati da Mefistofele,
Faust riesce a sedurre Margherita, ma la lo relazione volge presto al tragico e
Margherita viene condannata a morte per infanticidio, mentre Mefistofele
coinvolge Faust in un sabba infernale
(La notte di Valpurga) e, alla fine
di questa parte, Margherita in carcere, per avere invocato il perdono di Dio,
viene salvata dagli angeli e portata in cielo. La seconda parte è ricchissima
di riferimenti alla mitologia classica ed è inizialmente ambientata presso la
corte imperiale. L’evento principale di questa parte è rappresentato
dall’innamoramento di Faust per Elena di Troia, evocata dagli Inferi, seguito da un secondo sabba, durante il quale
assistono ad una processione di creature e mostri mitologici. Faust, dopo aver
salvato Elena da un sacrificio rituale, ha da lei un figlio, Euforione, che
però muore prematuramente come Icaro nell’omonimo mito; Elena si ritira
nuovamente negli Inferi con l’anima del figlio, abbandonando Faust. Il
protagonista e Mefistofele aiutano poi l’imperatore in una guerra contro un
usurpatore e Faust riceve in cambio della vittoria un feudo costiero. Ormai
vecchio e stanco, si ritira nel suo nuovo possedimento, da cui fa espellere due
anziani (dal nome, evocativo di Ovidio, di Filemone e Bauci) causandone infine la morte. Il demone dell’Angoscia s’impadronisce dello
spirito del protagonista, che rimpiange la sua vita sprecata in vane ricerche e
nel commercio con Mefistofele, e che vuole dedicarsi a un’attività utile per la
collettività, bonificando una palude dei suoi possedimenti. Durante i lavori, mentre
immagina un’umanità del futuro veramente libera, Faust pronuncia la frase del
patto, Dirò all’attimo: sei così bello,
fermati!, e Mefistofele pone fine alla sua vita per poter portare via la
sua anima, ma mentre sta per condurlo
all’Inferno, giungono degli angeli che, per intercessione di Margherita e in
considerazione del fatto che si sia sempre dedicato all’assoluto, lo portano in
cielo. Il poema si chiude con la celebrazione dell’eterno femminino, e
dell’Amore come forza creatrice e motrice dell’intero universo.
Potete rendervi conto, da questa sintesi, quale variegata materia sia
contenuta in questo testo, che non a caso viene portato a compimento a pochi
mesi dalla morte, dopo essere stato iniziato in gioventù. Un contenuto che si
può, senza timore di essere approssimativi, rilevare anche solo dalla sintesi e
ricondurre subito al romanzo del quale abbiamo intenzione di occuparci
prioritariamente, è quella ricerca
dell’assoluto alla quale ho fatto più volte riferimento. Il termine stesso,
assoluto, è utile da definire almeno provvisoriamente. Assoluto è, per via etimologica, quanto si situa in un territorio libero da ogni legame (ab unito a solvo, ovvero sciolgo da).
A parte l’uso grammaticale, nella lingua latina per definire il costrutto
sintattico dell’ablativo assoluto ad esempio, il termine viene utilizzato in
filosofia e teologia per indicare quanto si situi a un livello trascendente, privo di relazioni con la
dimensione finita, che non può in alcun modo condizionarlo, quindi
inconoscibile nella sua natura, sovratemporale e infinito. Nel tentativo di
cogliere l’assoluto nella dimensione teologica,
il centro di riferimento diviene il soggetto, e implicitamente la realtà
assoluta è posta come spirituale, non sostanza ma spirito: Dio è spirito, ma è concepito come trascendente, essere eterno e
perfetto, sostanza o natura infinita. Come si legge in Tommaso d’Aquino, Dio è absolutum secundum quod in se est. Questo
modo di rendere l’assoluto sostanza
non elude il problema della conoscenza, anzi, lo ripropone negli stessi termini
in cui si poneva nell’aristotelismo. Una sostanza inconoscibile nella sua
essenza è pertanto, ritornando alla questione della ricerca dell’assoluto, una sfida permanente, che gli alchimisti
denominano grande opera, ossia opus magnum alla latina, rendendo empirica, in particolare chimica, la ricerca spirituale. Il nesso con il nostro discorso letterario è
rappresentato dal fatto che in tanti soggetti, a cominciare da Werther, scaturiti
dall’immaginazione romantica, si manifesta nell’interiorità una condizione di
permanente insoddisfazione che, se non conduce all’autodistruzione, dà luogo a
un vitalismo in grado di esprimersi a vari livelli dell’esistenza. Di qui, nel
romanzo di Werther, la sensibilità acuita nei confronti della natura, dell’arte, dell’amore, e, sul
fronte opposto, il disgusto nei confronti della civiltà, dell’artefazione,
delle convenzioni di qualsiasi
genere. Si predispone, come in un crogiuolo, l’eliminazione di sostanze nocive
alla sensibilità che definiamo romantica,
la maggior parte delle quali è radicata in tradizioni percepite ormai come
usurate, in quanto espressione di una società obsolescente ma ancora rispettata
e in possesso di ricchezze e poteri. La contrapposizione, nel romanzo, fra
Werther e Albert si gioca anche su questo piano: il primo rappresenta lo
spirito ribelle, anticonvenzionale, romantico,
mentre il secondo la rispettabile e
rispettata coscienza borghese, che
tiene a graduali e controllati cambiamenti, e rifugge ogni tipo di eccesso,
stabilendo soglie molto basse per la definizione di quest’ultimo. Riporto, per
suffragare questa affermazione, dalla quale potrà poi svilupparsi un’analisi
ulteriore, una citazione dal testo. Si tratta di una lettera della prima parte
dei Dolori del giovane Werther, datata 12 agosto, con la quale concludo, per
ora, la sezione dedicata a Goethe.
"Questo non c'entra, replicò Alberto, perché un uomo
che è in balìa delle passioni perde ogni forza di ragione, ed è considerato
come in preda all'ebbrezza o al delirio". "Oh le persone
ragionevoli!, esclamai sorridendo. Passione! Ebbrezza! Delirio! Voi siete così
impassibili, così estranei a tutto questo, voi uomini per bene! Rimproverate il
bevitore, condannate l'insensato, passate dinanzi a loro come il sacrificatore
e ringraziate Dio, come il fariseo, perché non vi ha fatto simili a loro! Più
di una volta io sono stato ebbro, le mie passioni non sono lontane dal delirio,
e di queste due cose io non mi pento perché ho imparato a capire che tutti gli
uomini straordinari che hanno compiuto qualcosa di grande, e che pareva
impossibile, sono stati in ogni tempo ritenuti
ebbri o pazzi. Ma anche nella vita comune, è insopportabile sentir dire
ogni volta che qualcuno sta per compiere un'azione libera, nobile, inattesa:
quell'uomo è ubriaco, è pazzo! Vergognatevi, uomini sobri e savi!"
"Ecco le tue solite fantasie, disse Alberto, tu esageri tutto, e in questo
caso hai per lo meno il torto di paragonare il suicidio di cui ora è questione,
con delle grandi gesta, mentre esso non può esser considerato che come una
debolezza, poiché certo è più facile morire che sopportare con fermezza una
vita dolorosa". Ero sul punto di interrompere il discorso, perché niente
mi mette così fuori dei gangheri come vedere qualcuno armato di insignificanti
luoghi comuni mentre io parlo con tutto il cuore. Pure mi contenni, perché
molte volte ho sentito addurre quell'argomento e me ne sono indignato: risposi
dunque alquanto vivamente: "Tu lo chiami una debolezza? Ti prego, non
lasciarti ingannare dall'apparenza. Puoi chiamare debole un popolo che geme
sotto il giogo di un tiranno se infine, fremendo, spezza le sue catene? Un uomo
che nel terrore di vedere la sua casa in preda alle fiamme sente le sue forze
centuplicate, e solleva facilmente dei pesi che a mente calma potrebbe appena
muovere? e uno che nel calore dell'offesa ne affronta sei, e li vince, tu lo
chiami debole? E, mio caro, se lo SFORZO costituisce la forza, per ché lo
sforzo supremo dovrebbe essere il contrario?". Alberto mi guardò e disse:
"Non te ne avere a male, ma gli esempi che tu porti non hanno nulla a
vedere col nostro discorso". "Può darsi, risposi, già più volte mi
hanno detto che il mio modo di ragionare è spesso privo di logica. Vediamo se
possiamo in altro modo figurarci quale coraggio deve avere un uomo che si
decide a gettare il fardello della vita, che è generalmente gradito, perché
solo in quanto noi sentiamo una cosa, possiamo parlarne con giusto criterio. La
natura umana, continuai dunque, ha i suoi limiti: essa può sopportare la gioia,
la sofferenza, il dolore fino a un certo punto, e soccombe se questo è
oltrepassato. Non è questione di stabilire se un uomo è debole o forte, ma di
vedere se egli può sopportare la sofferenza che gli è imposta, sia morale che
fisica; e a me pare tanto strano dire che un uomo è vile perché si toglie la
vita, come troverei assurdo dire che è tale perché muore di febbre
maligna". "Che paradosso!" esclamò Alberto. "Non tanto
quanto tu pensi, ribattei. Ammetterai che noi chiamiamo mortale una malattia la
quale assale la nostra costituzione naturale in modo che le sue forze sono in
parte distrutte e in parte sminuite nella loro attività: sicché essa non può in
alcun modo aiutarci né riattivare, per mezzo di alcuna risoluzione, il corso
della vita. Ebbene, amico mio, applichiamo questo allo spirito. Vedi quante
impressioni agiscono sull'uomo nella sua limitata sfera, quante idee penetrano
in lui, finché una crescente passione non gli toglie ogni serena forza di
pensiero e lo trascina alla sua perdita. Invano l'uomo libero da ogni cura e in
possesso della sua ragione lo guarda con pietà, invano cerca di convincerlo con
la persuasione. È come un uomo sano che pur stando al letto di un infermo non
può infondergli la minima parte delle sue forze". Ma per Alberto queste
erano idee troppo generali. Gli raccontai allora di una fanciulla che da poco
tempo era stata trovata morta annegata, e ripetei la sua storia. Era una buona
giovane creatura, cresciuta nell'angusta cerchia delle occupazioni casalinghe,
nel lavoro di tutta la settimana, e che non aveva altra prospettiva ed altro
piacere oltre quello di andare a volte la domenica, con le sue compagne, a
passeggiare intorno alla città, abbellita da qualche ornamento messo insieme a
poco a poco; di ballare forse una volta nelle feste solenni e di chiacchierare
qualche ora da una vicina con vivacità ed interesse a proposito di una disputa
o di una maldicenza. L'ardore della sua giovinezza le fa provare infine degli
intimi desideri accesi dalle lusinghe degli uomini. Le sue antiche gioie le
sembrano sempre più insipide, e infine incontra un uomo verso il quale è
irresistibilmente spinta da un sentimento sconosciuto e su cui posano tutte le
sue speranze; dimentica il mondo intero, non ode, non vede, non sente che lui,
non aspira che a lui, l'Unico. E poiché non è corrotta dai vuoti piaceri di
un'incostante vanità, il suo desiderio va dritto allo scopo, vuole essere di
lui, vuole in un eterno legame raggiungere tutta la felicità che le manca e
godere tutte le gioie alle quali aspira. Ripetute promesse, che coronano tutte
le sue speranze, ardite carezze che accendono il suo desiderio, dominano tutta
la sua anima; lei è in preda a un oscuro sentimento che le fa pregustare ogni
gioia, si esalta al massimo grado, stende infine le braccia per cingere
l'oggetto dei suoi desideri... e il suo amato la abbandona. Lei si stupisce e,
come insensata, le pare di essere davanti a un abisso: tutto è tenebre intorno
a lei; non ha nessun avvenire, nessun conforto, nessuna speranza, perché l'ha
lasciata colui nel quale si sentiva vivere. Non vede il vasto mondo che si
stende davanti a lei, né i molti che potrebbero consolarla della perdita
subìta; si sente sola, abbandonata da tutti al mondo, e cieca, oppressa
nell'angustia dell'orribile miseria del suo cuore, si precipita per distruggere
tutti i suoi tormenti in una morte annientatrice. Vedi, Alberto, è questa la
storia di molte persone! e non ti pare proprio lo stesso caso di una malattia?
La natura non trova nessuna via d'uscita dal labirinto delle forze turbate e
contrarie, e l'uomo deve morire. Guai a colui che potrà dire, vedendo un simile
evento: che pazza! se avesse aspettato, se avesse lasciato agire il tempo, la
sua disperazione si sarebbe placata, qualche altro si sarebbe trovato per
consolarla! Sarebbe lo stesso che dire: quel pazzo, è morto di febbre! se
avesse aspettato finché le forze gli fossero ritornate, i succhi vitali
purificati, e calmato il tumulto del suo sangue! Egli vivrebbe ancora oggi e
tutto sarebbe andato bene!". Alberto, a cui il paragone non pareva
appropriato, mosse ancora qualche obiezione; e fra l'altro disse che io avevo
parlato di una semplice giovinetta, ma che egli non capiva come si sarebbe
potuto scusare un uomo di criterio, di mente non così limitata, e che sa
cogliere un maggior numero di rapporti. "Amico mio, esclamai, l'uomo è
uomo, e quel poco d'intelligenza che egli può avere serve poco o niente quando
arde la passione e l'essere umano è spinto verso i confini della sua forza.
Tanto più... Ma ne parleremo un'altra volta" dissi, e presi il cappello...
Il mio cuore era gonfio e ci lasciammo senza esserci compresi. Ma del resto in
questo mondo è difficile che gli uomini si comprendano.
[1] Eric Hobsbawm, 1917-2012, è uno storico satunitense, autore tra l’altro del Secolo breve, 1914-1991, nel quale connota in maniera opposta il XIX e il XX proprio quanto alla lunghezza del primo e alla brevità del secondo
.
[2] Le ragioni della resistenza alla diffusione delle idee romantiche in Italia sono molteplici, ma una delle più evidenti è connessa con la posizione culturale, ovvero con la prossimità anche geografica, addirittura una coincidenza, con la civiltà greco-latina, fonte di miti che i romantici, prima fra tutte M.me de Staël, decidono di sacrificare in nome di un rinnovamento totale del materiale fonte di ispirazione, che recuperi piuttosto le radici nazionali.
[3] Jean-Jacques Rousseau, nato a Ginevra nel 1712 e morto a Ermenonville nel 1778, è insieme a Voltaire uno dei filosofi dell’illuminismo. Tra le opere che influenzano la sensibilità romantica, oltre alle Confessions, La nouvelle Héloise e l’Emile: quest’ultimo contiene in particolare idee sull’educazione molto moderne. Per la storia del pensiero politico, fondamentale il suo Du contrat social.
[4] La fonte di questa citazione è wikisource, che propone una traduzione del testo del 1875 di Augusto Nomis di Cossilla.
[5] Si tratta di una persona che potrebbe essere realmente vissuta tra la fine del Quattrocento e la fine del Cinquecento in Germania: così sostiene Johan Georg Neuman nel 1640 nella sua Disquisitio storica de Fausto prestigiatore, che stabilisce il ritratto di Faust diventato appunto storico, definendolo come un mago itinerante. A lui certo si ispira, con la Tragical History of Doctor Faustus, il drammaturgo inglese Christopher Marlowe (1564-1593), la cui prima rappresentazione attestata è del 1594, ma che è stata composta nel 1588. Marlowe porta in scena caratteri ed episodi che vengono poi mutuati da Goethe, come la tragicità insita nel personaggio o l’amore per Elena di Troia.
Goethe ha modo di avvicinarsi al Doctor Faustus di Marlowe già in giovane età, durante uno spettacolo di marionette, detto Puppenspiel in tedesco.
[6] Da Simon Mago discende anche il peccato della simonia, la compravendita di cose sacre, che Dante stigmatizza nel XIX canto dell’Inferno, relegando i simoniaci nell’VIII cerchio, III bolgia, fra i fraudolenti puniti a testa in giù, con fiamme che bruciano i loro piedi.
Commenti
Posta un commento