ATTRAVERSO IL POEMA: I SESTI CANTI

Su classroom file audio che riporto anche qui

https://drive.google.com/file/d/1xKR6vJTmFBK_jg4iAGoitZaa5ZElff7R/view?usp=sharing

I sesti canti di ogni cantica sono legati tra loro da un filo noto a tutti i lettori, anche scolastici e distratti, di Dante. Il filo della politica, ovvero  un filo intinto nel sangue: per cominciare,  quello delle guerre fratricide che videro l’agens coinvolto in prima persona, carnefice e vittima, vittima e carnefice, in un ambiguo gioco delle parti che ben conoscono i praticanti di quest’arte antica e non sempre  nobile, almeno di per sé, se non in relazione a chi la pratichi. Ma se dovessimo fermarci alla sola dimensione esistenziale per così dire privata, se la poesia a questo solo portasse, non saremmo di fronte a un’opera universale. Che anche quando attinge alle radici dell’essere singolo, dell’artista che compone, risuona nelle volte infinite del sentire collettivo, canta di ogni epoca e di ogni momento storico, dal primo vagito dell’essere umano all’esplosione o implosione finale di tutto, a seconda di come si preferisce figurarsi l’arco della vicenda di cui facciamo parte, se non si abbraccia la tesi creazionista.

Per Dante certo la politica intride la vita, e di quanto ciò sia vero dice già  la più scarna delle biografie, prosciugata di ogni dettaglio che non inerisca a questo ambito. Dopo la nascita a Firenze nel 1265, la sua famiglia fa parte  della milizia cittadina e  i genitori sono Bella e Alighiero da Bellincione, partecipa a spedizioni dell’esercito in veste di cavaliere: di sicuro era a Campaldino, fra i guelfi fiorentini, nel 1289.  Si iscrive all’arte  dei medici e degli speziali per poter entrare nel consiglio dei Cento, poi in quello dei Trentasei  e, nel 1300, accedere al vertice del Comune, il priorato. Mentre a Firenze s’intensifica la lotta tra le fazioni aristocratiche dei bianchi (capeggiati dai Cerchi) e dei neri (guidati dai Donati), i primi tendenti ad avvicinarsi al popolo (la borghesia) e i secondi più interessati ad appoggiare Bonifacio VIII nei suoi tentativi di controllare Firenze, Dante, priore nel momento in cui lo scontro diventa particolarmente intenso, è vicino ai bianchi e sostiene la linea politica contraria alle mire del papa anche l’anno successivo. Per questa ragione, quando i neri prendono il sopravvento grazie all’arrivo delle truppe di Carlo di Valois, inviato dal papa, e, nel 1302, avviano processi contro i precedenti rettori, è accusato di malversazioni, bandito e condannato a morte in contumacia, mentre si trova a Roma per un incarico d’ambasceria. Iniziano gli anni d’esilio: tra il 1302 e il 1304 è ancora  legato al gruppo degli esuli bianchi a cui si sono uniti i ghibellini,  viaggia in Toscana, a Forlì e a Verona, alla ricerca di alleati per poter rientrare a Firenze. Tenta anche la strada della pacificazione, che fallisce come il rientro in forze nel 1304. A quel punto abbandona i bianchi, va forse a Parigi, probabilmente a Bologna, a Treviso, quindi in altre città della Marca trevigiana e poi di nuovo in Toscana dove soggiorna a Lucca. La discesa in Italia  e la morte dell’imperatore Arrigo VII, in cui riponeva speranza di pacificazione e (per quanto riguardava se stesso) rientro in Firenze, decretano nel 1308 il tramonto di ogni sua prospettiva di reintegro nella vita politica e nella sua città. Infine, le peregrinazioni fra Verona, presso  Cangrande della Scala, e Ravenna, presso Guido Novello da Polenta, dove muore nel 1321.

A parte, però, il doveroso omaggio a ciò che è reale e documentato dell’esperienza politica dantesca di cui ho appena dato fugace testimonianza, è indubbio che la politica rappresenti per il Dante che noi conosciamo meglio, quello che scrive la Divina commedia, un’ispirazione visionaria, che si modifica nel corso del tempo e dà luogo sia a astratte considerazioni, condensate nel trattato in tre libri (unico tra i suoi trattati a essere completato) De Monarchia (1310-1313) sia a numerosi canti o parti di canti del poema. Che Dante sia un visionario non è cosa che necessiti di essere dimostrata: la sua opera principale si presenta come una visione, non solo dei regni ultraterreni nei quali si compie il viaggio, ma della vita terrena così com’è stata, com’è e sarà. Come tutte le visioni condensa, spesso davvero  in un istante, quello che richiede invece molto tempo per essere concepito e recepito, per non dire compreso in tutta la sua interezza. La visione specifica di cui intendo ora trattare, passando  attraverso le tre cantiche, è appunto quella politica. Sul tema dell’ordine del mondo, del suo disporsi e porsi per consentire un’esistenza felice, ossia realizzata e piena, agli esseri umani, Dante ha un paio di idee basilari che manifesta nel De monarchia, trattato che la chiesa condanna al rogo per eresia nel 1329 (otto anni dopo la morte dell’autore), per volontà di Bertrando del Poggetto (vescovo e uomo d’armi francese),  inserisce  nel 1559 fra i libri all’Indice e riabilita alla fine del XIX secolo. La prima idea è che l’organizzazione politica sia resa necessaria dal peccato originale, che ha rivelato la natura imperfetta degli esseri umani: se essi fossero rimasti innocenti non ci sarebbe stato bisogno dei poteri, ovvero dell’organizzazione politica in quanto organizzazione dei medesimi. La seconda idea è che i poteri sono due: l’uno temporale, l’altro spirituale. Servendosi di precisi riferimenti biblici, Dante argomenta in modo serrato come la distinzione rappresenti il fondamento di una visione separata di due giurisdizioni: il potere temporale riguarda la dimensione giuridica, rappresenta l’ordine sulla terra, ed è un potere che ha un fine e una fine, coincidente con la durata dell’esistenza terrena (dei singoli come di tutti i viventi); il potere spirituale riguarda la dimensione della vita eterna, e il vicario di Cristo sulla terra, il papa, detiene questo potere riconducibile a Dio per un  tempo determinato. Quanto alla controversa questione della derivazione dei due poteri, sono entrambi parte integrante di  un disegno divino, come già si evince dalla prima dichiarazione, ma il temporale non deriva dallo spirituale (ad aiutare è la metafora dei due soli), per quanto si possa concludere che il secondo si situi a un livello più alto, in ragione della sua natura che è diretta emanazione dell’eterno. Questa visione del potere deriva a Dante da Agostino, padre della chiesa, che tra il 413 e il 426 scrive il De civitate Dei, trattato nel quale teorizza l’esistenza di due civitates, una terrena e una celeste, presenti contemporaneamente nella dimensione dell’interiorità umana sotto forma di opzione: alla terrena corrispondono valori transitori e ingannevoli, che coincidono con varie smanie di arricchimento, di accumulo (non a caso è la città fondata da Caino, che uccide il fratello per invidia), mentre alla celeste valori assoluti, come lo spirito di carità e l’amore che unisce fra loro tutti i figli di Dio in Dio medesimo (la città di Abele).

Questa, dunque, la teorizzazione messa sulla carta da Dante nell’unico suo trattato che risulti portato a compimento. Ma nei canti della Divina commedia¸ la prospettiva è ben più completa, e solo uno sguardo che li colga tutti e tre permette di comprenderlo fino in fondo.

Cominciamo allora, come sempre, dall’inferno. Il sesto canto porta nel III cerchio, dopo spiriti magni e lussuriosi, ed è il cerchio dei golosi e del cane guardiano Cerbero, gola più che profonda, canide antropomorfo per appassionati di teratologia: l’auctor lo dipinge all’inizio del canto, subito dopo essere rinvenuto dalla sincope sopraggiunta per la pieta provata suo malgrado per i due cognati, lussuriosi eccezionalmente graziati dal dio della poesia, Dante medesimo, con l’essere uniti per sempre nella pena.

Cerbero, fiera crudele e diversa,

con tre gole caninamente latra

sovra la gente che quivi è sommersa.

 

Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,

e ’l ventre largo, e unghiate le mani;

graffia li spirti ed iscoia ed isquatra.

 

Urlar li fa la pioggia come cani;

de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo;

volgonsi spesso i miseri profani.

 

Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,

le bocche aperse e mostrocci le sanne;

non avea membro che tenesse fermo.

Crudele e diverso, con uso assoluto e non comparativo del secondo aggettivo, a segnalare un unicum difficile da immaginare, Cerbero infligge ai suoi dannati multiple pene, alle quali potevano certo essere avvezzi i lettori medievali, per via della pratica consueta della tortura, ma che in noi producono associazioni con racconti e film dell’orrore. Il gran vermo, in gara, quanto alla definizione, niente meno che con il re dell’inferno, Satana, non si esime dal portare a compimento quello che produce di per sé già la pena specifica, la pioggia mista a grandine mista a neve e chissà che altro, anche lei diversa nel suo essere un fenomeno non meteorologico poiché in atto nelle viscere della Terra, nell’imbuto della morte secunda. I golosi, bersagliati da questo incessante diluvio,  non hanno più forma umana e diventano a loro volta possibile cibo per Cerbero, anche perché Virgilio, imitando se stesso nell’invenzione dell’Eneide, impasta con le mani un po’ dell’orrida mistura per mettere provvisoriamente a tacere Cerbero. Parodia delle più nobili focacce ammannite da Enea, su suggerimento della Sibilla, all’ingresso dell’Averno. Prosegue, la camminata che preferiamo non immaginare nei dettagli, finché dall’ammasso maleodorante e in fermento non si rizza qualcosa, o meglio qualcuno:

 

Noi passavam su per l’ombre che adona
la greve pioggia, e ponavam le piante
sovra lor vanità che par persona.36

Elle giacean per terra tutte quante,
fuor d’una ch’a seder si levò, ratto
ch’ella ci vide passarsi davante.39

"O tu che se’ per questo ’nferno tratto",
mi disse, "riconoscimi, se sai:
tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto".42

E io a lui: "L’angoscia che tu hai
forse ti tira fuor de la mia mente,
sì che non par ch’i’ ti vedessi mai.45

Ma dimmi chi tu se’ che ’n sì dolente
loco se’ messo, e hai sì fatta pena,
che, s’altra è maggio, nulla è sì spiacente".48

 Siccome  i versi danteschi, come sempre accade coi visionari, addensano e condensano, il compito dell’interprete è spesso quello di concentrarsi su singoli termini, o associazioni di termini rivelatori. In queste terzine scelgo di concentrarmi sul disfatto, fatto, al verso 42, accostamento di participi perfetti che assolutizzano, per cominciare, due eventi cruciali dell’esistenza umana, la morte (disfatto) e la nascita (fatto) collocandoli in una prospettiva temporale rovesciata, con un prima che confonde un po’: l’anima dannata si presenta dicendo che Dante è nato prima che lui morisse, e nel dirlo però, appunto in ragione della presenza del prima, i due eventi risultano invertiti nel loro ordine naturale, così  la morte, nel verso, precede la vita. La circostanza è significativa: Ciacco, goloso, è prescelto da Dante per fungere da portavoce di un canto funebre, intonato per celebrare i misfatti della politica. Quella fiorentina, in modo particolare e in omaggio a un crescendo per cui i sesti canti della Commedia sono dedicati prima al comune natale di Dante, poi all’Italia e infine all’impero, ma certo non solo. La politica non fa che compiere misfatti, dicevo, è una continua celebrazione di morte, malamente mascherata da vita. Chi la pratica, anche con le migliori intenzioni, non è risparmiato da quella che sembra essere una specie di contagio. Lascio ancora la parola a Ciacco perché ci porti nella direzione di questa ulteriore rivelazione.

 

E quelli a me: "Dopo lunga tencione
verranno al sangue, e la parte selvaggia
caccerà l’altra con molta offensione.66

Poi appresso convien che questa caggia
infra tre soli, e che l’altra sormonti
con la forza di tal che testé piaggia.69

Alte terrà lungo tempo le fronti,
tenendo l’altra sotto gravi pesi,
come che di ciò pianga o che n’aonti.72

Giusti son due, e non vi sono intesi;
superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville c’ hanno i cuori accesi".

 

L'agens ha posto tre domande e il dannato, la cui voce è un lagrimabil suono (e di nuovo fatichiamo a immaginare che suono possa emettere una poltiglia provvisoriamente ricomposta in corpo umano), sta rispondendo. Vuol sapere cosa succederà ancora a Firenze, perché sia successo quando è successo, e se ci sia ancora qualche persona giusta fra i cittadini di questa città. Una domanda riguarda il futuro, una il passato e la terza il presente, o forse un assoluto temporale. Ciacco risponde in modo diretto e chiaro: ci sarà una guerra di tutti contro tutti, vincitori e vinti si avvicenderanno con la medesima reciproca crudeltà, tutto è accaduto per via di quella commistione di superbia, invidia e avidità che rende l’animo umano poltiglia informe (che somiglia tanto alla pena patita da lui come goloso) e infine, in quell’eterno presente nel quale s’inscena la storia, pantomima, tragedia, farsa del mondo, i giusti son due e non vi sono intesi. Mentre Ciacco emette il suo suono che induce al pianto, ed è abbastanza chiaro come sia una questione sia di forma sia di contenuto, noi capiamo di non essere più solo a Firenze, il luogo del cuore dell’auctor e dell’agens, ma di essere nella nostra storia, nella storia del mondo di allora e di ora. Qui e lì ci porta la visione, con il suo orizzonte smisurato, e  apocalittico nel senso etimologico di rivelatore. L’essenza della rivelazione di Ciacco, di là dal fatto di porsi come una profezia post factum, consiste soprattutto in questo: non c’è salvezza per chi si  occupa di politica, i poteri che prevalgono sono quelli che risalgono alle tre faville  che accendono i cuori di luce oscura. E anche le persone degne, le brave e ben intenzionate persone, che fanno politica, o prima o poi arrivano a essere anime nere:

Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni,

Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca

e li altri ch’a ben far puoser li ’ngegni,

 

dimmi ove sono e fa ch’io li conosca;

ché gran disio mi stringe di savere

se ’l ciel li addolcia o lo ’nferno li attosca".

 

E quelli: "Ei son tra l’anime più nere;

diverse colpe giù li grava al fondo:

se tanto scendi, là i potrai vedere.

 

Sembra quasi che l’agens ponga ingenuamente la sua domanda, ma è fuori di dubbio che ingenuo non sia, dal momento che, ad artificio poetico svelato,  lui parla e lui si risponde: se fuor sì degni, come una specie di fair play ante litteram sembra dettare all’auctor, tali non sono stati riconosciuti dal divino giustiziere (a volte così sembra, più che giudice), dal momento che diverse colpe giù li grava al fondo. La nostra immaginazione non ha bisogno di esercitarsi più di tanto, in questo caso: Farinata, ghibellino e nemico giurato della parte dantesca, campeggia nel X canto ed è un monumento eretto alla magnanimità declinata in senso opposto rispetto a quella degli abitanti del limbo, ma quel che importa qui sottolineare è che Dante, anzi, l’occhio visionario di Dante, non si esima  dal proferire una condanna senza appello per chi pretende di essere una guida nello stato e, in modi che variano a seconda delle propensioni individuali, non fa che arrossare di sangue  le strade e i fiumi del mondo. A ulteriore conferma di questo, non possiamo dimenticare che il girone dei violenti ospita una specie di braccio speciale destinato ai soli tiranni, VII cerchio dell’inferno, XII canto, con la buona compagnia dei predoni. Non provo nemmeno il brivido dell’anacronismo se mi azzardo a sostenere che Dante possa essere affratellato, in questa associazione tra soggetti che agiscono con violenza e in contrasto con le leggi, al ben diverso Pasolini che, in pieno Novecento, e dopo le esperienze dei totalitarismi, ha avuto questa notevolissima intuizione: nulla è più anarchico del potere, il potere fa praticamente ciò che vuole. E ciò che il potere vuole è completamente arbitrario o dettato da una necessità di carattere economico, che sfugge alle logiche razionali. In sintesi: tiranni e predoni rispondono alla medesima logica. Nel sesto canto di Dante, per tornare al punto e concludere questo primo tassello, a essere poste al centro dell’atto di accusa contro forme di governo assassine sono le forme d’ingordigia umane, malamente mascherate da astratte idealità. Non a caso in questo canto è una sorta di creatura senza forma a prendere, faticosamente, la parola: quasi ad alludere all’essenza di un’attività incautamente ammantata di dignità e di onore da un’antica tradizione, ma corrispondente a quanto di più oscuramente violento e prevaricatore e disordinato si agita nelle pieghe dell’anima umana.

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Nel VI canto del Purgatorio non si è ancora arrivati alla porta del regno, che attende i pellegrini al IX canto. Alle spalle ci sono svariati incontri significativi, da quello con Catone a quello con Manfredi, vittima della chiesa ma salvato da quel Grande Generoso che sa essere il Dio dantesco, quando non è né giudice né giustiziere. Ora però è la volta di un compaesano di Virgilio, Sordello da Mantova, poeta italiano in lingua provenzale vissuto nello stesso secolo di Dante e grande ammiratore di Virgilio. Indimenticabile l’incontro tra i due, promosso da un’unica parola, quella che contrassegna la terra natale:

 

Ma vedi là un’anima che, posta

sola soletta, inverso noi riguarda:

quella ne ’nsegnerà la via più tosta".

 

Venimmo a lei: o anima lombarda,

come ti stavi altera e disdegnosa

e nel mover de li occhi onesta e tarda!

 

Ella non ci dicëa alcuna cosa,

ma lasciavane gir, solo sguardando

a guisa di leon quando si posa.

 

Pur Virgilio si trasse a lei, pregando

che ne mostrasse la miglior salita;

e quella non rispuose al suo dimando,

 

ma di nostro paese e de la vita

ci ’nchiese; e ’l dolce duca incominciava

"Mantüa..." e l’ombra, tutta in sé romita,

 

surse ver’ lui del loco ove pria stava,

dicendo: "O Mantoano, io son Sordello

de la tua terra!"; e l’un l’altro abbracciava.

 

Pronto a recitare il suo epitaffio, Mantua me genuit...Virgilio viene immediatamente tacitato dall’abbraccio, a quanto pare soffocante (non fosse che si parla di anime) di Sordello, che senza nemmeno sapere chi sia il destinatario di tanto affetto, glielo tributa in ragione della patria comune. Tanto basta al nostro visionario per dare inizio alla celebre allocuzione, apostrofe e nostalgica (in senso genuinamente romantico, come avrò modo di sostenere) evocazione dell’Italia che non c’è e, forse, non ci sarà mai. Ma procediamo con ordine. Si tratta, è chiaro, di un discorso che si tiene di fronte alle masse e dal pulpito della storia. Difficile credere che Dante non ne fosse perfettamente consapevole, che non presentisse quante volte il suo incipit sarebbe stato utilizzato con più o meno cognizione di causa. Quanto al fatto che si tratti di un’apostrofe, è evidente che il soggetto astratto è lì, è l’Italia in carne e ossa, di cui non si poteva ancora sapere che sarebbe esistita, ma che per Dante è come se lo fosse, in primo luogo perché è lui l’inventore primario della lingua che quell’Italia avrebbe dovuto parlare, quando avesse potuto e se avesse voluto. Per quanto concerne la nostalgia, questa è l’ultima carta dimostrativa che mi voglio giocare, sicché per ora la lascio in sospeso e passo al  testo, che è lungo ma deve essere intero.

 

Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!78


Quell’anima gentil fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa;81

e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di quei ch’un muro e una fossa serra.84

Cerca, misera, intorno da le prode
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
s’alcuna parte in te di pace gode.87

Che val perché ti racconciasse il freno
Iustinïano, se la sella è vòta?
Sanz’esso fora la vergogna meno.90

Ahi gente che dovresti esser devota,
e lasciar seder Cesare in la sella,
se bene intendi ciò che Dio ti nota,93

guarda come esta fiera è fatta fella
per non esser corretta da li sproni,
poi che ponesti mano a la predella.96


O Alberto tedesco ch’abbandoni
costei ch’è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni,99

giusto giudicio da le stelle caggia
sovra ’l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che ’l tuo successor temenza n’aggia!102

Ch’avete tu e ’l tuo padre sofferto,
per cupidigia di costà distretti,
che ’l giardin de lo ’mperio sia diserto.105

Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,
Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:
color già tristi, e questi con sospetti!108

Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura
d’i tuoi gentili, e cura lor magagne;
e vedrai Santafior com’è oscura!111

Vieni a veder la tua Roma che piagne
vedova e sola, e dì e notte chiama:
"Cesare mio, perché non m’accompagne?".114

Vieni a veder la gente quanto s’ama!
e se nulla di noi pietà ti move,
a vergognar ti vien de la tua fama.117

E se licito m’è, o sommo Giove
che fosti in terra per noi crucifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?120

O è preparazion che ne l’abisso
del tuo consiglio fai per alcun bene
in tutto de l’accorger nostro scisso?123

Ché le città d’Italia tutte piene
son di tiranni, e un Marcel diventa
ogne villan che parteggiando viene.126

Fiorenza mia, ben puoi esser contenta
di questa digression che non ti tocca,
mercé del popol tuo che si argomenta.129

Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca
per non venir sanza consiglio a l’arco;
ma il popol tuo l’ ha in sommo de la bocca.132

Molti rifiutan lo comune incarco;
ma il popol tuo solicito risponde
sanza chiamare, e grida: "I’ mi sobbarco!".135

Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:
tu ricca, tu con pace e tu con senno!
S’io dico ’l ver, l’effetto nol nasconde.138

Atene e Lacedemona, che fenno
l’antiche leggi e furon sì civili,
fecero al viver bene un picciol cenno141

verso di te, che fai tanto sottili
provedimenti, ch’a mezzo novembre
non giugne quel che tu d’ottobre fili.144

Quante volte, del tempo che rimembre,
legge, moneta, officio e costume
hai tu mutato, e rinovate membre!147

E se ben ti ricordi e vedi lume,
vedrai te somigliante a quella inferma
che non può trovar posa in su le piume,150

ma con dar volta suo dolore scherma.

 

In principio c’è il lamento, come al solito condensato in un minimo di parole, nel cerchio stretto della terzina: è prodotto dalla schiavitù, dal dolore diffuso dalla mercificazione di quel che dovrebbe essere sacro. Donna di bordello, è diventata, da signora delle provincie quale l’aveva decretata un antico potere, quello dell’impero di Roma.  Un’ansia di storicizzazione coglie i commentatori, che s’affannano a precisare qua e là, ovunque riescono (e si può fare), chi esattamente avesse in mente Dante col suo fuoco di fila d’accuse ai responsabili della rovina d’Italia. Non è questo il tenore della mia analisi, che punta invece a tenere saldo il filo della condanna senza remissione di ogni politica: in nessun luogo c’è pace, ora in te non stanno sanza guerra li vivi tuoi, quelli che dovrebbero assumersi la responsabilità di portarla latitano (persino la gente che dovrebbe esser devota), ma soprattutto  gli occhi di Dio sono volti altrove, osa proferire il poeta sia pur con circospezione, corretta immediatamente (ma quel ch’è detto è detto) dal dubbio di non riuscire a capire mai e poi mai i disegni dell’Eterno Fattore (O è preparazion che ne l’abisso del tuo consiglio fai per alcun bene  in tutto de l’accorger nostro scisso?). Di fronte a certe domande (non del tutto retoriche) Dio tace proprio come la Natura nell’operetta morale di Leopardi. Sospettarlo di strabismo selettivo e renderlo muto conferisce a questa apostrofe anche più forza comunicativa, e senza dubbio conforta attualizzazioni che altro non sono che omaggi all’universalità dell’opera. Nella terzina immediatamente successiva, per esempio, dove il poeta recrimina sugli innumerevoli villan che riescono a sembrar altrettanti Marcelli redivivi, con riferimento al fiero console  pompeiano oppositore di Cesare, risuona  un tema a noi familiare, quello della decadenza della partecipazione politica, che rende possibile a chiunque, e non è un paradosso ma un effetto collaterale, prendere la parola e proporsi come capopopolo, maître à penser, diffusore di pensiero critico e quant’altro, mentre le città son piene di tiranni. E poi, quand’è la volta, per il gran finale,  del palcoscenico fiorentino trasformato in aula di tribunale, la visione s’incupisce in ragione del sarcasmo che prorompe, come sangue vivo da una ferita sempre aperta: mentre l’imputato si guarda intorno come se la valanga d’accuse non riguardasse proprio lui, il pubblico ministero lo incalza e lo umilia, fino a presentarlo sotto specie di malato che non suscita alcuna pena, perché si è ridotto così per sua propria volontà e ora offre lo spettacolo, disarmante nella sua impotenza, di chi con dar volta suo dolore scherma.  

E ora onoro la promessa di riportare l’attenzione alla nostalgia romantica. Quella che, nelle sue multiple declinazioni, prevede persino che si possa essere nostalgici di quello che non è mai stato. Nella loro acuminata precisione descrittiva queste terzine sottintendono un motivo di questo genere,  e offrono all’ispirazione (e all’intendimento del testo) il collegamento possibile con l’ultimo sesto canto del quale intendiamo occuparci. Mentre lamenta tutto quello che lui vede, mentre addirittura Dio è sospettato di essere distratto, Dante sogna nostalgicamente un’altra Italia. Ma per confortare la nostra interpretazione è ancor meglio esprimersi dicendo che Dante sogna nostalgicamente (è un visionario) un altro mondo che non è mai esistito. A giocare con le parole capita di lasciarsi prendere la mano: l’altro mondo non è ultraterreno, tengo a precisare. Per quello, evidentemente, il Dio in cui Dante crede, non ha bisogno di suggerimenti. Dei quali invece necessita questo mondo che potrebbe anche, un giorno o l’altro, migliorare. La banalità è dietro l’angolo, ne sono consapevole, e per evitarla conviene limitarsi a indicare come il filo che si delinea in purgatorio con questa lettura, è esattamente quello da cui riparte il sesto canto del paradiso, che ora ci dedichiamo quindi a leggere.

«Poscia che Costantin l’aquila volse

contr’ al corso del ciel, ch’ella seguio

dietro a l’antico che Lavina tolse,

 

cento e cent’ anni e più l’uccel di Dio

ne lo stremo d’Europa si ritenne,

vicino a’ monti de’ quai prima uscìo;

 

e sotto l’ombra de le sacre penne

governò ’l mondo lì di mano in mano,

e, sì cangiando, in su la mia pervenne.

 

Cesare fui e son Iustinïano,

che, per voler del primo amor ch'i' sento,

d'entro le leggi trassi il troppo e 'l vano.

 

E prima ch’io a l’ovra fossi attento,

una natura in Cristo esser, non piùe,

credea, e di tal fede era contento;

 

ma ’l benedetto Agapito, che fue

sommo pastore, a la fede sincera

mi dirizzò con le parole sue.

 

Io li credetti; e ciò che ’n sua fede era,

vegg’ io or chiaro sì, come tu vedi

ogni contradizione e falsa e vera.

 

Tosto che con la Chiesa mossi i piedi,

a Dio per grazia piacque di spirarmi

l’alto lavoro, e tutto ’n lui mi diedi;

 

e al mio Belisar commendai l’armi,

cui la destra del ciel fu sì congiunta,

che segno fu ch’i’ dovessi posarmi.

 

Or qui a la question prima s’appunta

la mia risposta; ma sua condizione

mi stringe a seguitare alcuna giunta,

 

perché tu veggi con quanta ragione

si move contr’ al sacrosanto segno

e chi ’l s’appropria e chi a lui s’oppone.

 

La voce che sentiamo risuonare (ce ne avvertono le virgolette a inizio canto, del fatto che si tratti di un discorso diretto) è quella dell’imperatore Giustiniano, che Dante incontra nel cielo di Mercurio, secondo nell’ordine dei nove (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte,  Giove, Saturno, Stelle fisse, Primo Mobile). Rispondendo a un’esigenza didascalica (chiarita fin dall’inizio della cantica) i cieli rappresentano una sorta di percorso educativo per l’anima dell’agens, che incontra, in corrispondenza di ciascuno, delle anime che sono state improntate favorevolmente  dal loro influsso: attivi per la gloria (Mercurio), per l’amore (Venere), per la sapienza (il sole), per la fede (Marte), per la giustizia (Giove), per la contemplazione (Saturno) e per il trionfo di Cristo e Maria (le Stelle fisse) e degli angeli (il Primo Mobile). Solo nel cielo della Luna, il più vicino alla Terra, si manifesta ancora una sorta di imperfezione, ed esso ospita infatti gli spiriti mancanti ai voti per via di un atto di costrizione. Ma non è ora questo il nostro interesse, sicché passo a trattare direttamente l’incontro con Giustiniano.  Le terzine appena lette sono appunto quelle introduttive, e delineano la storia umana e politica dell’imperatore promotore della la redazione del Codex  che da lui prende il nome. Un unico verso vale a descrivere l’operazione durata decenni: d'entro le leggi trassi il troppo e 'l vano, con riferimento alla rielaborazione resa necessaria dalle mutate condizioni storiche, in particolare dal passaggio da impero romano a impero romano cristiano. Il Giustiniano del nostro visionario precisa di essere stato pienamente autorizzato, a compiere tale operazione da Dio con un signum: della pacificazione militare poteva occuparsi un suo braccio destro, il generale Belisario, mentre  a lui spettava l’altro compito. La ricostruzione encomiastica si chiude provvisoriamente su una terzina che non passa inosservata, per via del contenuto polemico esibito. Giustiniano rivolge all’agens una domanda retorica velenosa, che riguarda proprio il sacrosanto segno, ovvero il simbolo imperiale, l’aquila, e coloro che da una parte se ne appropriano in opposizione a quelli che s’oppongono. La condanna sottesa è senza appello: né gli uni né gli altri  sono veri interpreti dell’aquila e di Dio, ma ambedue sono usurpatori del santo segno. Per suffragare tale condanna, Giustiniano riprende il suo volo attraverso la storia, ispirato a una visione provvidenziale che riesce una volta di più a determinare continuità fra la visione dell’indimenticabile maestro Virgilio e quella cristiana.

 

Vedi quanta virtù l’ha fatto degno

di reverenza; e cominciò da l’ora

che Pallante morì per darli regno.

 

Tu sai ch’el fece in Alba sua dimora

per trecento anni e oltre, infino al fine

che i tre a’ tre pugnar per lui ancora.

 

E sai ch’el fé dal mal de le Sabine

al dolor di Lucrezia in sette regi,

vincendo intorno le genti vicine.

 

Sai quel ch’el fé portato da li egregi

Romani incontro a Brenno, incontro a Pirro,

incontro a li altri principi e collegi;

 

onde Torquato e Quinzio, che dal cirro

negletto fu nomato, i Deci e ’ Fabi

ebber la fama che volontier mirro.

 

Esso atterrò l’orgoglio de li Aràbi

che di retro ad Anibale passaro

l’alpestre rocce, Po, di che tu labi.

 

Sott’ esso giovanetti trïunfaro

Scipïone e Pompeo; e a quel colle

sotto ’l qual tu nascesti parve amaro.

 

Poi, presso al tempo che tutto ’l ciel volle

redur lo mondo a suo modo sereno,

Cesare per voler di Roma il tolle.

 

E quel che fé da Varo infino a Reno,

Isara vide ed Era e vide Senna

e ogne valle onde Rodano è pieno.

 

Quel che fé poi ch’elli uscì di Ravenna

e saltò Rubicon, fu di tal volo,

che nol seguiteria lingua né penna.

 

Inver’ la Spagna rivolse lo stuolo,

poi ver’ Durazzo, e Farsalia percosse

sì ch’al Nil caldo si sentì del duolo.

 

Antandro e Simoenta, onde si mosse,

rivide e là dov’ Ettore si cuba;

e mal per Tolomeo poscia si scosse.

 

Da indi scese folgorando a Iuba;

onde si volse nel vostro occidente,

ove sentia la pompeana tuba.

 

Di quel che fé col baiulo seguente,

Bruto con Cassio ne l’inferno latra,

e Modena e Perugia fu dolente.

 

Piangene ancor la trista Cleopatra,

che, fuggendoli innanzi, dal colubro

la morte prese subitana e atra.

 

Con costui corse infino al lito rubro;

con costui puose il mondo in tanta pace,

che fu serrato a Giano il suo delubro.

 

Ma ciò che ’l segno che parlar mi face

fatto avea prima e poi era fatturo

per lo regno mortal ch’a lui soggiace,

 

diventa in apparenza poco e scuro,

se in mano al terzo Cesare si mira

con occhio chiaro e con affetto puro;

 

ché la viva giustizia che mi spira,

li concedette, in mano a quel ch’i’ dico,

gloria di far vendetta a la sua ira.

 

Or qui t’ammira in ciò ch’io ti replìco:

poscia con Tito a far vendetta corse

de la vendetta del peccato antico.

 

E quando il dente longobardo morse

la Santa Chiesa, sotto le sue ali

Carlo Magno, vincendo, la soccorse.

 

Nelle terzine appena lette scorre la storia di Roma antica, monarchica, poi repubblicana e infine imperiale. Sempre il volo dell’aquila stiamo seguendo, quella con cui il canto ha avuto inizio, e le immagini dipanate sono per lo più quelle di guerre: tre terzine per il periodo monarchico (da Pallante al ratto delle Sabine a Lucrezia), diciannove per passare attraverso la storia repubblicana e imperiale fino a Carlo Magno. A un certo punto compare anche la parola vendetta, iterata tre volte: prima in occasione del riferimento alla morte di Cristo avvenuta nel 33 sotto il terzo imperatore, ovvero Tiberio (secondo il calcolo antico, che indicava Cesare come primo), poi con quella allusione alla vendetta di una vendetta perpetrata da Tito con la distruzione del tempio di Gerusalemme nel 70 d. C. A questo reticolo di vendette approda, salvo l’aggiunta della terzina che consacra Carlo Magno salvatore del sacro romano impero, il volo attraverso la storia di Giustiniano, e vale allora la pena indugiare un po’ nell’analisi. Che i versi in questione siano degni di particolare attenzione è reso evidente dal ricorso al verbo ammira con cui Giustiniano richiama l’attenzione dell’agens in ascolto: si tratta di cogliere un mirum ossia un evento meraviglioso, detto altrimenti un kairòs metafisico, ovvero il prodursi di una circostanza unica e irripetibile in cui si manifesta qualcosa di analogamente unico e irripetibile. Il peccato originale, che Dio si riservava di vendicare o prima o poi, ottiene la sua vendetta con la morte fisica di Cristo, morto in quanto uomo e Figlio  che doveva morire per giusta vendetta del Padre che si è servito del terzo Cesare (del potere dell’impero) per condannare con errate motivazioni ma giustamente il peccato commesso dall’umanità; subito dopo, a distanza di poco più di trent’anni, sopraggiunge però la seconda vendetta (di una vendetta) che consiste nella distruzione del tempio che colpisce il popolo ebraico resosi colpevole della condanna a morte del Figlio. S’inaugura così un circolo vizioso nel quale nessun interprete nel tempo è riuscito a districarsi. Atteniamoci per cominciare alla lettera: Dante esprime qui l’idea che il Dio, al quale si sta sempre più avvicinando nel suo viaggio visionario,  sia pur sempre quello dell’Antico Testamento. Un Dio sanguinario e vendicativo, violento e spargitore di sangue. Un Dio che non dimentica le offese e non le patisce, nel senso di sopportarle, ma le trasforma in strumenti educativi. Un Dio che incute timore sia quando si manifesta sia quando, apparentemente, tace. E il senso di questa dura istruzione sulla natura profonda  di Dio viene esplicitato dai versi successivi, che passano direttamente all’attualità dantesca, alle furiose, sanguinarie, vendicative lotte fra guelfi e ghibellini.

 

Omai puoi giudicar di quei cotali

ch’io accusai di sopra e di lor falli,

che son cagion di tutti vostri mali.

 

L’uno al pubblico segno i gigli gialli

oppone, e l’altro appropria quello a parte,

sì ch’è forte a veder chi più si falli.

 

Faccian li Ghibellin, faccian lor arte

sott’ altro segno, ché mal segue quello

sempre chi la giustizia e lui diparte;

 

e non l’abbatta esto Carlo novello

coi Guelfi suoi, ma tema de li artigli

ch’a più alto leon trasser lo vello.

 

Molte fïate già pianser li figli

per la colpa del padre, e non si creda

che Dio trasmuti l’armi per suoi gigli!

 

Questa picciola stella si correda

d’i buoni spirti che son stati attivi

perché onore e fama li succeda:

 

e quando li disiri poggian quivi,

sì disvïando, pur convien che i raggi

del vero amore in sù poggin men vivi.

 

Ma nel commensurar d’i nostri gaggi

col merto è parte di nostra letizia,

perché non li vedem minor né maggi.

 

Quindi addolcisce la viva giustizia

in noi l’affetto sì, che non si puote

torcer già mai ad alcuna nequizia.

 

Diverse voci fanno dolci note;

così diversi scanni in nostra vita

rendon dolce armonia tra queste rote.

 

E dentro a la presente margarita

luce la luce di Romeo, di cui

fu l’ovra grande e bella mal gradita.

 

Ma i Provenzai che fecer contra lui

non hanno riso; e però mal cammina

qual si fa danno del ben fare altrui.

 

Quattro figlie ebbe, e ciascuna reina,

Ramondo Beringhiere, e ciò li fece

Romeo, persona umìle e peregrina.

 

E poi il mosser le parole biece

a dimandar ragione a questo giusto,

che li assegnò sette e cinque per diece,

 

indi partissi povero e vetusto;

e se ’l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe

mendicando sua vita a frusto a frusto,

 

assai lo loda, e più lo loderebbe».

 

Gli uni e gli altri approfittano dei simboli, se non del simbolo, per condurre bieche e avventurose operazioni di conquista del potere con tutti i suoi annessi, e la condanna di entrambi, una volta arrivato a questo punto del viaggio, è totale e senza riserve. Si può dire che il poeta che lascia erompere dalla penna questi versi sdegnati è sicuramente quello che, dopo il naufragio di qualsiasi speranza di rientro e di riordino del martoriato territorio italiano, non crede più nel bene operare della politica. Un po’ come se avesse definitivamente squarciato il velame che fino a quel momento aveva impedito anche a lui di capire cosa fosse e dove si situasse il vero bene. Il quale ultimo, inopinatamente, si manifesta proprio nelle  terzine conclusive del canto di Giustiniano, in cui il sommo imperatore reca un omaggio appunto inatteso a un personaggio del tutto oscuro, un’ombra della storia si potrebbe dire, non fosse per la volontà del poeta di farne un altro simbolo, quasi antagonista a quello pur prezioso dell’aquila. Ma occorre qualche spiegazione in merito. Romeo di Villanova, si legge nelle enciclopedie dantesche,  è esistito veramente: era un siniscalco, ovvero funzionario di alto grado, del conte Berengario di Provenza, che si avvalse variamente dei suoi servigi. Non morì certo ramingo e umile come Dante lo trasfigura, può essere (secondo alcuni dantisti) in base a una leggenda,  in queste terzine. Né sarebbe rimasto nella memoria del tempo, se ciò non fosse avvenuto, dal momento che, di funzionari fedeli che si siano dedicati a sostenere e promuovere i propri sovrani, sono pur piene le cronache di storia. Allora perché Dante, nel canto politico della terza cantica, in cui si serve della voce potente di un imperatore e del simbolo imperiale con la sua forza astratta, e perciò difficilmente intaccabile, lo onora in modo tale da renderlo indimenticabile, Nella  presente margarita, canta il poeta, luce la luce di Romeo, di cui fu l’ovra grande e bella mal gradita. In questi versi è contenuta la sintesi che ci permette di tornare al principio di tutto, alle fondamenta del pensiero di Dante sui poteri che derivano direttamente dal peccato originale e sulla scelta agostiniana di essere interiormente schierato per i valori della civitas terrena o per quelli della civitas Dei. L’operato di Romeo, il Romeo che dipinge Dante sottolineo di nuovo, è stato grande e bello come ha ben visto l’occhio di Dio, che l’ha quindi riconosciuto degno di essere una perla nella margarita celeste. Non così gli è accaduto sulla Terra, dove il bene è mal gradito e può rendere poveri e vetusti, costretti a mendicare frusto a frusto. E qui, con un tocco iperbolico che vale però a rendere efficacemente uno stato d’animo, l’auctor inevitabilmente lascia trasparire il suo sentimento delle cose, delle sue in quel momento, dopo tutta la trasfigurazione dei versi precedenti: quello che resta di tanta passione e impegno politico, dedizione e forse anche sacrificio, è il sentore di una lode più che meritata, di quelle che non si devono affannosamente ricercare (in questo consiste l’inganno della città terrena), ma che riscattano ogni sofferenza silenziosamente patita. Il frastuono e il sangue che risuonano nell’agone politico, e che il canto non ha mai smesso di evocare, alla fine dunque lasciano spazio ad altro, di segno opposto: da quella mischia, senza diventare indifferenti, ci si può allontanare dignitosamente e senza venir meno a quello che si desidera essere, ovvero al sogno o alla visione che si ha di sé. Così è il  Dio iroso e vendicativo del Vecchio Testamento, illuminato dalla  luce di Romeo, a diventare un’ombra e quasi scomparire.

 

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