MATERIALE VARIO PER SAGGI APULEIO

 Appunti per un'analisi di Metamorfosi, XI, 1-2

Le disavventure di Lucio asino sono giunte a un culmine con l'episodio dell'assassina condannata a morte con cui avrebbe dovuto esibirsi in un feroce amplesso pubblico, nell'anfiteatro di Corinto,  per poi essere presumibilmente sbranato con lei da belve feroci. Il protagonista si trova in uno stato di estenuazione psichica, dorme in prossimità del mare, quando d'improvviso si risveglia  di soprassalto e vede la luna piena, appena sorta dal mare, splendente come non mai. Due sono i simboli legati al femminino, l'eterno femminino, presenti in questa parte iniziale: il mare, luogo fecondato da Venere,  come si legge in  Lucrezio all'inizio del De rerum natura negli esametri che compongono il cosiddetto Inno a Venere [mare ...  concelebras: rendi fecondo il mare] e la luna, ovvero Semele, Diana-Artemide, Cynthia, divinità già sincretistica in sé, per via dei molteplici nomi che le assegna il pantheon greco-romano. La coscienza di Lucio, per quanto ancora prigioniero nella forma asinina, si risveglia da un torpore che è durato anche più del sonno appena interrotto: è subito conscio dell'immenso potere della suprema dea e del suo provvidenziale impero sulle umane cose. Prosa che si fa poesia, nella parte immediatamente seguente si sente anche più l'eco dei versi lucreziani: esseri animati e inanimati vivono in virtù di questo nume, e anche se non è di Venere che si sta trattando, il suo nome incalza nella memoria del lettore. L'introduzione alla preghiera di Lucio è così segnata da un allargamento d'orizzonte in direzione sincretistica, dato che la dea alla quale egli si rivolge è poi sicuramente Iside, quand'anche l'epiteto regina del cielo con cui esordisce non fosse esplicitamente riconducibile proprio alla protagonista dell'antico culto egizio, dato che è noto come la conditio sine qua non del ritorno a spoglie umane di Lucio è un tributo proprio a questa divinità. Il seguito, prevedibilmente in ragione di questa premessa, è poi tutto un tributo al sincretismo già accreditato, con qualche aggiunta che possiamo supporre sia un portato dell'epoca di Apuleio, della diffusione imponente dei culti misterici che entrano in competizione, per così dire, con le sette cristiane. Il tributo al sincretismo si serve dei nomi di Demètra o Cerere (greco/latino), rivela chiaramente il nome di Venere, della sorella di Febo Diana, quello di Proserpina, anch'essa associata o alla luna o alla stagionalità (alla primavera). A essere cantata, di là dall'evocazione dei singoli culti, è quindi palesemente la natura, la magna mater, il cui culto è ricostruibile anche storicamente, col contributo di uno straordinario antropologo inglese, James Frazer, autore del saggio Il ramo d'oro  (cit. a p. 564 di Nova Opera). Tra l'altro lo studioso mette in luce come, da un punto di vista ritualistico e iconografico, il culto della magna Mater abbia molti punti di contatto con il cristianesimo in via di definizione nello stesso periodo in cui, appunto, i culti misterici si diffondevano nell'impero romano. In particolare ricostruisce per sommi capi la diffusione del culto di Iside: dalla Campania, nel II secolo a. C., penetra a Roma nel I secolo a. C. per raggiungere poi le regioni del nord, le tribù germaniche tra la Svizzera attuale e il Norico. Quando il culto diventa concomitante alla diffusione del cristianesimo, si assiste a quella che è l'essenza del sincretismo: una sovrapposizione e un'influenza reciproca, per cui la figura della grande madre s'ingentilisce ulteriormente in direzione di una prevalenza di femminilità legata alla riproduzione, quando non alla fedeltà coniugale (mentre ad esempio nell'immaginario lucreziano, Venere è raffigurata intenta a placare i furori di Marte in un gioco amoroso). Poi sempre Frazer suggerisce un interessante nesso fra l'epiteto di Maria Vergine della tradizione cattolica Stella Maris e l'antica associazione di Iside al mare, in veste di protettrice dei marinai, a ulteriore riprova di come i processi mitici seguano percorsi affini a latitudini e in tempi differenti, corrispondendo forse, come ha suggerito, con i suoi saggi di psicologia e esoterismo, Carl Gustav Jung, in particolare nel Libro Rosso.

 

 

In tutti i libri c' è sempre un paragrafo, o anche solo una frase, leggendo la quale si ha improvvisamente l'impressione di aver "capito". Di aver trovato cioè la radice di quello che l'autore aveva in mente mentre scriveva. Spesso si tratta solo di un' illusione ma si sa, una volta usciti dalle mani dei loro autori, i libri divengono un alimento destinato ormai a chi li legge. Anche nell'ultimo libro di Pietro Citati (La luce della Notte. I grandi miti nella storia del mondo, Mondadori) esiste a mio parere quel fatidico paragrafo. Lo trascrivo, è a pagina 97: Non ho mai sognato di vivere ad Atene, nell' età di Pericle: o a Roma, negli ultimi decenni della repubblica, vicino a Lucrezio o a Catullo, a Virgilio o a Properzio, in una di quelle epoche tragiche e splendide in cui l' uomo fissa risolutamente gli sguardi in sé stesso o nel cielo. Amerei abitare in un tempo più discreto e meno geniale. Darei tutto quello che so, che penso e desidero per essere un modesto uomo di lettere, cultore di Platone, vissuto a Roma (o a Alessandria d' Egitto) tra la fine del primo e quella del secondo secolo dopo Cristo. Il retore Flavio Filostrato aveva dato un nome a quest' epoca culturale tanto cara a Citati: la chiamò seconda sofistica. Fu un periodo bellissimo. La cultura antica si era ormai consolidata da molto tempo sulle fondamenta che le avevano dato l'Atene classica e il mondo ellenistico, e adesso si dedicava in certo modo a goderne. Sospetto anzi che Citati ami tanto quel periodo della cultura antica perché mostra che cosa potrebbe essere, se fosse migliore, la nostra era presente. Ma non anticipiamo i tempi. Dunque c'erano dei classici, dei grandi testi da leggere e da studiare, e molte persone che, approfittando di questi esempi del passato, con arguzia, intelligenza e soprattutto straordinaria cultura si dedicavano a loro volta a scrivere. Queste persone furono Plutarco, colui che sta un po' sulla porta di quest' epoca, Luciano di Samosata, il più acuto dei satirici e degli ironisti, Apuleio, grande romanziere e straordinario conferenziere. C'erano poi tanti altri personaggi, minori ma non meno curiosi e interessanti, come Cornelio Frontone, il precettore di Marco Aurelio, che prendeva esclusivamente da Plauto e dagli scrittori latini arcaici tutte le parole che usava; e più tardi Claudio Eliano, un retore di Palestrina che scriveva in attico meglio dei greci e preferiva dedicarsi al favoloso mondo degli animali piuttosto che ad altri campi del sapere (i quali, come lui stesso diceva, gli avrebbero certo procurato più soldi e più fama...). Citati ha ragione, la seconda sofistica produsse una delle compagnie intellettuali più piacevoli e attraenti che si siano mai viste fiorire nel tempo. Ma perché desiderare addirittura di vivere con loro? Ormai ho cominciato, e vado avanti con la mia idea di aver "capito". In quel beato periodo della seconda sofistica fiorì soprattutto l'arte di narrare, non solo racconti, come fece Apuleio nelle sue Metamorfosi, ma tutto. La storia antica, la filosofia, gli usi, i costumi, qualsiasi cosa riguardasse un passato, prossimo o remoto, divenuto ormai serbatoio di esempi e di modelli culturali. Plutarco costituisce il rappresentante più esplicito di questo atteggiamento. Autore di Vite di uomini illustri destinate a segnare per secoli l' immagine della cultura classica, si occupò con la stessa passione delle consuetudini matrimoniali, dell' eccesso di pudore, del lutto, della curiosità, dell'amore, degli dei egizi e quant’altro la curiositas gli dettasse. La sua cultura e le sue letture erano sterminate, e la citazione di un poeta o il ricordo di un aneddoto gli servivano indifferentemente a costruire opere che, nella forma sempre amabile di un discorso o di un racconto, dessero forma alla sua passione conoscitiva. Ancora oggi può capitare agli editori di Plutarco di scoprire il verso di un poeta tragico o comico passato fin qui inosservato e scambiato per semplice prosa plutarchea: per il semplice motivo che Plutarco non sempre citava esplicitamente. Il dossier dei frammenti di autori classici recuperati attraverso Plutarco si accresce di continuo. Il fatto è che al saggio di Cheronea bastava sapere, e ancora di più piaceva raccontare. Non aveva bisogno di esibire. La seconda sofistica scoprì insomma un nuovo modo di guardare alla cultura del passato, trasformandola in mito. E come tale, si dedicò appassionatamente all'arte di raccontarla. Questo atteggiamento non escludeva certo la profondità, anzi, perché persino Apuleio, il narratore che aprì la strada a tante piccanti novelle del medioevo, seppe fare del suo romanzo (luogo a sua volta di ulteriori romanzi, che si incastrano nelle maglie dell'intreccio principale alla maniera di un sofisticato orologio narrativo) addirittura un'opera di iniziazione misterica e religiosa. La seconda sofistica, senza mai dirlo esplicitamente, elaborò una sua particolare idea di che cosa è il "mito": inteso come l'arte di tenere viva la grande cultura del passato leggendola, rielaborandola, e raccontandola in continuazione. Citati, ne La luce della notte, sa fare proprio questo. Raccontare la cultura, nella forma dei grandi "miti" che l'hanno animata nel corso dei secoli e in differenti parti del mondo. Per questo, io credo, ama tanto l' età di Plutarco e di Apuleio. All' inizio del libro non sta una definizione di che cosa è per Citati il "mito" (per fortuna, in un' epoca in cui si continuano a pubblicare libri che si intitolano addirittura L' essenza del mito: complimenti a questi autori, che la conoscono). I referenti interpretativi di Citati emergono in modo soltanto alluso, non esplicito, come Walter Otto o Karoly Kerényi quando si parla della Grecia. In questo libro il mito è raramente definito perché, in quanto racconto, è soprattutto praticato. Lettore instancabile, spesso davvero impressionante nella vastità di esplorazioni che le sue pagine rivelano, Citati spiega e racconta la cultura del passato rinchiudendola in un cerchio ideale che va dagli Sciti agli dei della Grecia, dal cristianesimo dei primi secoli all' Islam, alla Bibbia, alla Cina antica e moderna, all' America pre-colombiana, al Mozart del Flauto magico, a Leopardi. Come si legge un libro così? Si legge, e basta. In questo libro infatti Citati si presenta come uno di quei narratori di cultura ("Cosa darei per conversare con Apuleio, a casa sua, a Tripoli o a Cartagine!", La luce della Notte, p. 80...) che hanno la capacità di trasformare in racconto tutto, dal platonismo al pensiero di Paolo. Naturalmente, se il lettore ha voglia di giocare al gioco delle allusioni e del loro riconoscimento, può farlo. Per esempio, scoprendo Citati mentre attribuisce a Plutarco (guarda un po', proprio Plutarco) un'interpretazione della conoscenza mitica, ottenuta indossando "le vesti variopinte e sfumate di Iside", che richiama molto da vicino certe pagine sul cromatismo mitico di Lévi-Strauss: il cui nome, in effetti, discretamente compare citato nella medesima pagina. Questo gioco può essere ripetuto quante volte si vuole o, anche, quante volte si può. Ma se il lettore non vuol giocare non è obbligato a farlo. Può lasciarsi prendere dallo spirito del racconto, non ci saranno note o citazioni esplicite ad allontanarlo dalla via principale. La nostra età contemporanea rassomiglia molto alla seconda sofistica. Ha lo stesso interesse per scavare nel proprio passato culturale, lo stesso gusto per ciò che è diverso e inconsueto, lo stesso amore per la parola "parlata". Se quella fu un'era di grandi conferenze e di pubbliche recitazioni, infatti, la nostra è pure un' età in cui la parola scritta tende insensibilmente a trasformarsi in discorso orale e in racconto. Naturalmente della nostra età la seconda sofistica rappresenta una versione più colta, più varia e raffinata, di sicuro tanto meno volgare. Forse è per questo che ci sentiamo così attratti dall' età di Plutarco e di Apuleio? In ogni caso dimenticavo di dire una cosa. Il saggio che dà il titolo al volume di Citati, La luce della notte, e che certo è uno dei più belli della raccolta, è dedicato ad Apuleio. (l'autore di questo articolo di "laRepubblica", risalente al 1996, è Maurizio Bettini, antropologo e curatore, tra l'altro,  di svariate  letterature per la scuola. Significativamente per noi, che ci siamo di recente occupati del classico, che l'articolo s'intitoli Citati, contemporaneo di Apuleio)­­­­­­­­­­­­.­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­__________________________________________________________________

 

 

 

INIZIO E PRIMO RACCONTO, ASCOLTATO DA LUCIO DURANTE IL VIAGGIO VERSO IPATA

 

I Eccomi a raccontarti, o lettore, storie d'ogni genere, sul tipo di quelle milesie, e a stuzzicarti le orecchie con ammiccanti parole, solo che tu vorrai posare lo sguardo su queste pagine scritte con un'arguzia tutta alessandrina. E avrai di che sbalordire sentendomi dire di uomini che han preso altre fogge e mutato l'essere loro e poi son ritornati di nuovo come erano prima. Dunque, comincio.

 

Certo che tu ti chiederai io chi sia; ebbene te lo dirò in due parole: le regioni dell'Imetto, nell'Attica, l'Istmo di Corinto e il promontorio del Tenaro nei pressi di Sparta sono terre fortunate celebrate in opere più fortunate ancora. Di lì, anticamente, discese la mia famiglia; lì, da fanciullo, appresi i primi rudimenti della lingua attica, poi, emigrato nella città del Lazio, io che ero del tutto digiuno della parlata locale, dovetti impararla senza l'aiuto di alcun maestro, con incredibile fatica. Perciò devi scusarmi se, da rozzo parlatore qual sono, mi sfuggirà qualche barbarismo o qualche espressione triviale. Del resto questa varietà del mio linguaggio ben si adatta alle storie bizzarre che ho deciso di raccontarti.

 

 Incomincio con una storiella alla greca. Stammi a sentire, lettore, ti divertirai.  Ero diretto in Tessaglia per affari (la mia famiglia per parte di madre, è originaria di quella regione e per il fatto che fra i suoi antenati vanta il celebre Plutarco e suo nipote, il filosofo Sesto, è per me titolo di gloria), dunque, ero diretto in Tessaglia e m'ero già lasciato alle spalle montagne ripide, valli impervie, umide pianure, campagne fertili e coltive e il bianco cavallo indigeno che montavo era stanchissimo. Così decisi di fare un po' di strada a piedi per sgranchirmi le gambe, stanco com'ero anch'io di star seduto in sella. Smontai, asciugai con cura la fronte del cavallo madida di sudore, gli accarezzai le orecchie, gli tolsi il morso e lo lasciai andar libero, al passo, perché smaltisse un po' la stanchezza e si svuotasse del peso naturale del ventre. E mentre quello a muso all'ingiù pascolava lento fra l'erba, io mi unii, come terzo, a due viandanti che in quel momento mi passavano accanto. Tesi l'orecchio per sapere di che cosa parlassero e sentii che uno dei due, scoppiando in una gran risata, diceva all'altro: «Ma la pianti di raccontar simili balle?» Io che sono sempre smanioso di novità, intervenni: «Non è per essere un ficcanaso, ma perché mi piace sapere un po' tutto o per lo meno quanto più è possibile, vi prego di mettermi a parte di quello che state dicendo; oltretutto ci vuol proprio qualche allegra storiella per farci sembrare meno scoscesa e impervia la strada che abbiamo davanti.»  «Sono frottole queste,» continuava, intanto, quello che aveva parlato per primo, «vere come quelle di chi vorrebbe far credere che basta una formuletta magica per fare andare i fiumi all'insù, rendere il mare una massa solida, impedire ai venti di soffiare, fermare il sole, far svaporare la luna, staccare le stelle dal cielo, oscurare il giorno e rendere eterna la notte.» Io, allora, incoraggiato, ripresi: «Ehi, tu, che evidentemente hai avviato il discorso, non prendertela, non badargli, continua il tuo racconto.» E all'altro: «In quanto a te fai male a tapparti le orecchie e a rifiutarti cocciutamente di credere a delle cose che potrebbero anche esser vere. Capita, sai, per una sciocca prevenzione però, di ritenere falso ciò che non si è mai visto o udito o che cade fuori della nostra comprensione; ma se poi ci pensi un po' su ti accorgi che tutto è spiegabilissimo, non solo, ma che è anche realmente possibile.

 

«Per esempio, l'altra sera, a tavola fra amici feci la bravata di mandar giù un boccone troppo grosso di polenta e formaggio e per poco non mi strozzavo, tanto quella roba molliccia mi s'era attaccata al palato e mi impediva di respirare. Eppure, non molto prima, proprio con questi occhi, ad Atene, davanti al portico Pecile, avevo visto un giocoliere infilarsi nella gola, per la punta, una spada affilata, di quelle che usano in cavalleria, e, per poche monete, ficcarsi fin giù nelle budella, una lancia da cacciatore, proprio dalla parte della punta mortale: ed ecco che al legno dell'asta, la cui punta di ferro introdotta nella gola sbucava dietro la nuca, si attaccò un ragazzino leggiadro e agilissimo e cominciò a far capriole e volteggi tali da parer tutto snodato e senz'ossa e noi lì a bocca aperta a guardarlo. Pareva il provvidenziale serpente che s'attorciglia al bastone nodoso di Esculapio. «Dài, allora, ti lascio la parola, riprendi il racconto che stavi facendo. Ti basti che sia soltanto io a crederti, anche per lui; in cambio, alla prima locanda che incontreremo, ti offrirò da mangiare, parola mia.»

 

«Mi va bene e ci sto» mi fece. «Avevo appena iniziato e, comunque, ricomincerò dal principio. Ma prima voglio giurarti, per questo dio sole che tutto vede, che le cose che sto per narrarti sono tutte vere e controllabilissime; del resto, voi stessi non avrete più dubbi una volta arrivati alla più vicina città della Tessaglia dove questi fatti sono accaduti alla luce del sole e tutti ancora ne parlano. «Ma prima lasciate che io vi dica da dove vengo e chi sono: mi chiamo Aristomene e sono di Egio. Mi guadagno da vivere vendendo miele e formaggio e prodotti simili, su e giù per le osterie della Tessaglia, dell'Etolia e della Beozia. «Fu così che venni a sapere che a Ipata, la città principale della Tessaglia, si vendeva formaggio fresco, di buona qualità e a un prezzo d'occasione. Subito mi ci precipitai per acquistarne l'intera partita. Ma si vede che partii sotto cattiva stella perché Lupo, il grossista, mi aveva preceduto e il giorno prima aveva fatto incetta di tutto. Così, sfumata la speranza del guadagno, innervosito e stanco per quel viaggio fatto in fretta e furia e per nulla, non mi restò, che andarmene alle terme.

 

Ma pensa un po' chi vidi: Socrate, un vecchio amicone. Se ne stava seduto per terra, ravvoltolato a mala pena in un mantellaccio sbrindellato, irriconoscibile, tanto era pallido e smagrito; pareva uno di quei poveri disgraziati perseguitati dalla malasorte che si riducono a chiedere l'elemosina alle cantonate. Nonostante la confidenza e la familiarità, mi avvicinai a lui con una certa titubanza: 'Ohilà, Socrate,' gli feci, 'cos'è questa storia? Com'è che sei in questo stato? Che t'è capitato? A casa ti piangono per morto e ai tuoi figli i giudici hanno già dato un tutore; con tua moglie, che t'ha fatto il funerale e che s'è consumata in lacrime e che per il pianto le si sono seccati gli occhi, i suoi parenti insistono perché si consoli della tua perdita e rallegri la tua casa con nuove nozze. E tu, intanto, te ne stai qui che mi sembri proprio un fantasma. È proprio un avvilimento!' 'Ah, Aristomene,' mi rispose, 'come si vede che non conosci i colpi mancini della fortuna, i suoi capricci, i suoi tranelli' e, arrossendo per la vergogna, si tirò sulla faccia quel suo mantello sbrindellato; ed io vidi che sotto era nudo dal ventre al pube. «Non reggendo alla vista di tanta miseria, gli tesi la mano e feci per tirarlo su.

 

Ma lui, col viso coperto: 'No, no, che la malasorte continui a godersela la sua vittoria.' Finalmente riuscii a tirarmelo dietro e intanto gli feci indossare uno dei miei indumenti per coprirlo alla meglio e me lo portai alle terme, rifornendolo di tutto l'occorrente per ungersi e asciugarsi; anzi io stesso lo strofinai ben bene per togliergli quel dito di sudiciume che aveva addosso. Dopo averlo ripulito, benché fossi stanco anch'io, lo portai di peso alla locanda, ché a mala pena si reggeva in piedi, e qui lo ficcai in un letto caldo, gli diedi da mangiare e da bere, lo tenni su con qualche storiella, tanto che in breve ritornò loquace e allegro e si lasciò perfino andare a qualche battuta. A un tratto, però, dette in un sospiro profondo, doloroso, e picchiandosi la fronte con una gran manata: 'Ma si può essere più iellati di me' cominciò a lamentarsi 'se soltanto per aver voluto correre dietro a uno spettacolo di gladiatori di cui, si dicevano meraviglie, mi sono ridotto in questo stato. Ricordi che ero andato in Macedonia per il mio lavoro? Ebbene gli affari m'erano andati a gonfie vele e così, dopo nove mesi, stavo tornando a casa, ben fornito di quattrini, quando poco prima di giungere a Larissa, mi venne in mente di fare una capatina a quel famoso spettacolo, ma, in una valle impervia e deserta, fui assalito da una banda di briganti ferocissimi che mi lasciarono completamente al verde: per fortuna non ci rimisi la pelle e riuscii a raggiungere la locanda di una certa Meroe, una donna matura ma ancora belloccia, alla quale raccontai dei miei lunghi viaggi, del mio desiderio di tornare a casa e, infine, della rapina subita. Ella fu molto gentile, mi preparò gratis una graditissima cena e, alla fine, andata in fregola, mi portò a letto con lei. Scalogna maledetta, perché bastò che dormissi una sola notte con lei per impegolarmi in una di quelle relazioni che poi ti tiri dietro per anni: le diedi quei pochi stracci che i briganti mi avevano lasciato addosso, e perfino gli spiccioli che, facendo il facchino (allora ero ancora in gamba) mi venivo guadagnando. Ed ecco in quale stato tu l'hai visto, quella buona donna e la mia cattiva stella, mi hanno ridotto.'

 

'Perdio, te la meriti proprio una fregatura simile, e anche di peggio se fosse possibile, dal momento che invece di pensare alla tua casa, ai tuoi figli, ti sei messo a fare il galletto, e con una vecchia baldracca.' 'Zitto, per carità, zitto' fece quello tutto spaventato, portando l'indice alle labbra e volgendo il capo all'intorno come per assicurarsi che nessuno ascoltasse 'non parlare male di quella donna perché è una maga; questa tua linguaccia potrebbe procurarti qualche guaio.' 'Ma che stai dicendo? Che razza di donna è costei, questa tua bellezza da taverna?' 'È una maga, un'indovina' insistette 'capace di tirar giù la volta celeste e di sollevare la terra, di far diventare le fonti di sasso e liquefar le montagne, di riportare alla luce gli dei dell'inferno e inabissare quelli del cielo, di spegnere le stelle, di illuminare perfino il Tartaro.' 'Ma piantala, dài, con questa messinscena da tragedia, smettila di recitare e parla chiaro e naturale.' 'Vuoi che te ne racconti una o due o anche molte delle cose che ha fatte? Che gli uomini delle nostre parti si innamorino pazzamente di lei, anzi tutti gli indiani e gli africani dell'uno e dell'altro oceano e perfino le genti che abitano agli antipodi, è solo un piccolo segno della sua magia, una bazzecola. Ma sta a sentire quello che ha fatto, testimone un sacco di gente. 'Con una sola parola ha mutato in castoro un suo amante che s'era messo con un'altra. E sai perché proprio in castoro? Perché questa bestia, quando è inseguita e teme di essere catturata, si stacca da sé i testicoli. Questo lei voleva che capitasse anche a quel suo amante che l'aveva piantata per un'altra. 'E ancora: ha trasformato un oste che era suo vicino e le faceva concorrenza, in un rospo: ora quel povero vecchio sguazza in una botte del suo vino immerso nella feccia fino alla gola e chiama con suoni rochi che vorrebbero essere amabili i suoi avventori di un tempo. 'Un altro l'ha trasformato in montone: era un avvocato che l'aveva calunniata e da montone ora difende le cause. 'Alla moglie di un suo amante che le aveva indirizzato una paroletta pepata ha tappato l'utero e poiché quella era incinta le ha bloccato il feto in corpo condannandola a una perpetua gravidanza. La gente ha fatto i conti, dice che sono otto anni ormai che la poveretta si porta dentro quel peso ed è gonfia come se dovesse partorire un elefante. 'Per queste e per tante altre vittime l'indignazione popolare crebbe a tal punto che un giorno venne deciso, senza tanti complimenti, di condannarla alla lapidazione. Ma lei con le sue arti magiche prevenne la sentenza; un po' come la famosa Medea che, ottenuta da Creonte una sola giornata di dilazione, con la fiamma sprigionata da una corona magica mise a fuoco tutta la reggia con dentro lui stesso e la figlia. Così questa Meroe, fatti alcuni sortilegi sopra un sepolcro (come mi confidò poco dopo tra i fumi del vino) ed evocando misteriose potenze soprannaturali, chiuse tutti nelle loro case tanto che per due interi giorni nessuno riuscì a sbloccare le serrature, a scardinare le porte, a sfondare le pareti. 'Questo finché, per consiglio comune, non la supplicarono ad una voce giurandole solennemente che non le avrebbero torto un capello, pronti, anzi, a proteggerla da chi avesse osato qualcosa contro di lei. 'Solo così' ella si rabbonì e liberò dall'incantesimo la città. Ma l'ideatore del complotto lo lasciò serrato in casa e questa, così com'era, pareti, pavimento, fondamenta, di notte tempo, fece volare cento miglia lontano, in un'altra città, posta in cima a una montagna dirupata e priva d'acqua. E poiché le case erano addossate le une alle altre e non c'era spazio per quella del nuovo venuto,  la scaraventò davanti a una porta della città e se ne andò.'

 

 'Certo, caro Socrate, che le cose che mi racconti hanno dello straordinario e fanno venire i brividi. M'hai messo un'agitazione addosso, anzi proprio un bello spavento. Altro che pulce nell'orecchio, questo è un colpo di lancia se penso che quella vecchia, valendosi delle sue arti divine può benissimo venire a sapere di questi nostri discorsi. 'Perciò ficchiamoci subito buoni buoni sotto le coperte e, appena ci siamo un po' tolti di dosso la stanchezza, prima che faccia giorno, filiamocela di qui, quanto più lontano è possibile.' Gli stavo ancora parlando per convincerlo, che quel buon Socrate già dormiva e russava di grosso, stanco della giornata e intontito dal vino cui non era più abituato. Così, chiusa la porta e bloccati i chiavistelli, anzi avvicinato il letto all'uscio e addossatovelo ben bene contro, mi coricai anch'io. All'inizio, per la paura, non riuscii a chiudere occhio, poi verso mezzanotte mi appisolai. Ma avevo appena preso sonno che con un fracasso tremendo, certo assai maggiore di quello che avrebbero potuto fare dei ladri, i battenti della porta si spalancarono, i cardini si spezzarono e volarono via. Il mio lettuccio, piccoletto com'era e traballante e tarlato per giunta, a quel gran colpo si ribaltò rovinandomi addosso e io, finito per terra, vi rimasi sepolto. Come è vero che certe impressioni, a volte, producono reazioni contrarie. Capita spesso, per esempio, di piangere per la gioia; così, nonostante il terribile spavento io non potetti trattenere il riso vedendomi da Aristomene mutato in tartaruga. Steso per terra, coperto dal provvidenziale lettuccio, sbirciavo cosa stesse accadendo ed ecco che vidi entrare due donne di età piuttosto avanzata: l'una reggeva una lucerna accesa, l'altra una spugna e una spada ignuda. Con quel loro armamentario si avvicinarono a Socrate che se la dormiva placidamente: «'Caro il mio Endimione' esclamò quella che portava la spada 'eccolo qui, sorella Pantia, il mio Ganimede, quello che giorno e notte ha abusato della mia innocenza e che ora non soltanto mi diffama vigliaccamente ma si accinge a squagliarsela. Ma io, allora dovrei fare la fine di Calipso abbandonata dallo scaltro Ulisse e piangere la mia eterna solitudine?' «Poi con la mano tesa indicò me a sua sorella Pantia 'Ma guardalo là, Aristomene, questo bel consigliere, che ha avuto la bella pensata della fuga e che ora se ne sta mezzo morto accucciato sotto il letto a guardare illudendosi di passarla liscia dopo che mi ha coperto di improperi. Costui te lo servirò dopo a dovere, anzi no, all'istante si dovrà pentire della sua linguaccia e della sua curiosità, questo impenitente ficcanaso.'

 

Come intesi quelle parole cominciai a sudar freddo e presi a tremare tutto fin nelle viscere, tanto che anche il letto mi si mise a traballar sulla schiena, mentre l'amabile Pantia continuava: 'Allora, sorella, cominciamo con questo? Facciamo come le Baccanti? Lo riduciamo a pezzettini, oppure lo leghiamo e poi gli tagliamo i testicoli?' «'Ma no,' replicò Meroe (a quel che me ne aveva detto Socrate, questo nome le si addiceva proprio), 'che resti vivo, invece, così getterà una manciata di terra sul corpo di questo miserabile' e, così dicendo, rovesciata la testa di Socrate da un lato, gli immerse la spada nel collo fino all'elsa; poi accostò alla ferita un piccolo otre e ne raccolse il sangue che sgorgava a fiotti, senza farne cadere nemmeno una goccia. Con questi occhi io vedevo tutta la scena. Poi l'ottima Meroe, per adempiere, credo, in tutto e per tutto al rituale di un sacrificio in piena regola, affondò la mano in quella ferita, frugò dentro fino alle viscere e trasse il cuore di quel povero amico mio che, dalla gola tutta squarciata per la violenza del colpo, ancora mandava una voce, un sibilo indistinto, un gorgoglio. «'O spugna nata dal mare' intanto cantilenava Pantia e tamponava con la spugna la ferita là dov'era più larga 'acqua di fiume non sorpassare.' «Compiuta ogni cosa se ne andarono; prima però mi tolsero il letto di dosso, si piazzarono sopra di me a gambe divaricate e mi pisciarono in faccia inondandomi tutto del loro fetore.

 

Avevano appena varcata la soglia che i battenti della porta si drizzarono e si rimisero intatti al loro posto, i cardini ciascuno nel loro buco, i chiavistelli negli infissi, i catenacci nei loro anelli, tutto come prima. Io solo, invece mi ritrovai disteso per terra senza fiato, nudo e gelato, fradicio per giunta di piscio come se fossi appena uscito dal ventre di mia madre, più morto che vivo, eppure, nonostante tutto, un sopravvissuto, un relitto di me stesso e un sicuro candidato alla croce. «'Che ne sarà di me' gemevo 'quando domani mattina troveranno quest'uomo scannato? Chi mi crederà quando racconterò per filo e per segno come sono andate le cose? Avresti per lo meno potuto gridare, mi ribatteranno, chiedere aiuto se ti mancava il coraggio, grande e grosso come sei, di tener testa a una donna. Ma come, si sgozza un uomo sotto i tuoi occhi e tu te ne stai in silenzio a guardare? E poi come mai delinquenti di tal razza non hanno fatto fuori anche te? Perché nella loro ferocia ti avrebbero risparmiato? Un testimone per giunta così compromettente del loro delitto? Comunque visto che sei scampato alla morte, va a fare compagnia all'amico tuo.' «Questi pensieri rimuginavo dentro di me e intanto cominciava a far giorno. La cosa migliore era quella di filarmela prima che venisse chiaro, fare della strada anche se le gambe mi tremavano. Così presi il mio sacco, infilai la chiave nella serratura e, gira e rigira, dovetti fare una fatica boia prima di riuscire ad aprire quella porta sicura e amica che durante la notte s'era spalancata da sé.

 

'Ohilà, dove sei?' cominciai a gridare, 'aprimi il portone, che voglio andarmene prima di giorno.' II portinaio che era disteso giusto dietro l'uscio della locanda, mezzo addormentato mi fece: 'Ma come? Vuoi metterti in cammino a quest'ora di notte? Non sai che le strade sono infestate dai briganti? Se hai scelto di morire perché hai la coscienza sporca io non sono mica tanto, grullo da fare la stessa fine per causa tua.' 'Tra poco è giorno,' gli risposi 'e poi, ché cosa possono prendergli i briganti a un viandante così al verde come me? Ma ti rendi conto, balordo che sei, che nemmeno dieci campioni di lotta possono spogliare uno che è già nudo?' Ma quello, voltandosi dall'altra parte, morto di sonno e intontito com'era, mi rimbeccò: 'E che ne so io se tu non hai scannato il tuo compagno di viaggio col quale sei giunto ier sera, ed ora cerchi di metterti in salvo?' Allora sì che la terra mi parve spalancarsi sotto i piedi e io precipitare giù fin nel Tartaro in bocca all'affamato Cerbero; e capii che la buona Meroe non per misericordia aveva risparmiato la mia gola ma per riservarmi, nella sua ferocia, alla croce.  Così tornai in camera pensando al modo più spiccio di darmi la morte. Ma non mettendomi la sorte a portata di mano alcuna arma mortale se non il mio letto, così a lui mi rivolsi: 'Caro lettuccio mio che dividesti con me tutti i miei guai, che sei stato testimone oculare di quanto è accaduto stanotte, tu che solo potrei citare a prova della mia innocenza, porgimi l'arma liberatrice che mi mandi alla svelta all'inferno.' Così dicendo sciolsi la reticella di corda che formava il piano del letto e legatone un capo a una trave che sporgeva sopra la finestra, feci con l'altra estremità un nodo scorsoio, salii sul letto ormai votato alla morte e infilai la testa nel cappio. Ma non appena, con una pedata, scaraventai lontano il sostegno che mi sorreggeva perché, per il peso del corpo, il cappio stringesse la gola e mi togliesse il respiro, la corda, marcia com'era, si spezzò ed io precipitai addosso a Socrate che giaceva lì accanto e con lui rotolai per terra.

 

In quel mentre irruppe in camera il portinaio, urlando: 'Dove diavolo sei tu che, in piena notte, avevi tanta furia di partire e ora te ne sei tornato a russare fra le coperte?' In quel momento, non so se per il mio ruzzolone o per il gran baccano di quell'uomo, Socrate saltò su esclamando: 'Quanta ragione hanno quei viaggiatori che non possono soffrire gli albergatori. Questo rompiballe ti vien dentro magari con l'intenzione di fregare qualcosa, e col suo blaterare mi sveglia, sfinito com'ero, proprio nel sonno migliore.' Anch'io balzai in piedi, preso da una gioia insperata: 'Eccolo, bravo portinaio, eccolo qui l'amico mio, il mio fratellino, quello che tu, stanotte, ubriaco fradicio com'eri, andavi insinuando che avevo assassinato.' E, intanto, baciavo e abbracciavo Socrate che però, protestando, mi respingeva con violenza schifato dal fetore di piscio che quelle streghe mi avevano lasciato addosso: 'Va via' mi diceva 'che puzzi peggio di un fondo di latrina.' Poi, scherzandoci su, mi chiese la ragione di quel fetore. Io, poveretto, gli inventai una frottola per sviare il discorso e con una manata sulle spalle: 'Che aspettiamo ad andarcene?' gli dissi 'Perché non approfittiamo del fresco del mattino?' Presi quel po' di roba che avevo, pagai il conto all'albergatore e ci mettemmo in cammino.

 

Avevamo già fatta un bel po' di strada e il sole, ormai alto, illuminava ogni cosa all'intorno. Io, intanto, non facevo che guardare con curiosità e apprensione la gola del mio compagno, là dove avevo visto penetrare la spada e mi dicevo: 'Ma guarda un po' che matto. Ne devi aver scolati di bicchieri ed essere stato ben sbronzo per fare sogni così assurdi. Eccotelo qua Socrate, sano e vegeto. E dov'è la ferita, dove la spugna e quell'orribile piaga sanguinante?' Poi rivolto a lui: 'Non hanno mica torto quei gran dottori quando dicono che chi mangia molto e alza troppo il gomito poi fa brutti sogni. Prendi me, per esempio ieri sera mi son lasciato andare alle libagioni e così ho passato una notte infernale, piena di incubi spaventosi, tanto che mi sembra ancora di esser tutto imbrattato di sangue umano.' Ma che sangue e sangue,' mi sogghignò, 'pieno di piscio sei. Però ho fatto un sogno anch'io mi pareva che mi sgozzassero; sentivo un gran dolore qui alla gola e come se mi strappassero il cuore; pure ora mi manca il respiro, mi tremano le ginocchia e mi par di cadere. Sento proprio il bisogno di mettere qualcosa sotto i denti per riprendere le forze.' 'Eccoti servita la colazione' e, detto fatto, mi tolsi il sacco dalle spalle e gli offrii del pane con del formaggio. 'Anzi,' gli feci, 'sediamoci la, sotto quel platano.'  Così facemmo e anch'io trassi fuori qualcosa da mangiare per me e intanto lo osservavo. Ed ecco che mentre mangiava avidamente lo vidi, tutto a un tratto, impallidire, farsi livido livido come uno stecco. Man mano che perdeva colore io rivedevo l'orribile scena della notte e, per lo spavento, il pezzo di pane che avevo messo in bocca, benché piccolo, mi si piantò nel gozzo, tanto che non riuscivo a mandarlo né su né giù. Non passava di lì molta gente e questo accresceva il mio terrore. Chi avrebbe creduto che di due compagni uno era morto senza che l'altro ne sapesse nulla? Socrate, intanto, che s'era ingozzato di pane e aveva fatto fuori quasi tutto il formaggio, ora si sentiva bruciare dalla sete. Poco lontano dal nostro platano scorreva un filo d'acqua ma così lento da formare una pozza limpida e chiara come argento o vetro. 'Eccoti là dell'acqua' gli dissi 'bianca come il latte.' Egli si alzò, s'accostò alla riva là dove questa era più bassa e fece per inginocchiarsi e bere con avidità ma non aveva ancora accostato le labbra all'acqua che il collo gli si aprì in un largo e profondo squarcio e ne venne fuori la spugna e un po' di sangue. Era morto, e sarebbe caduto in acqua se io, appena in tempo, afferrandolo prontamente per un piede, non lo avessi tirato su a fatica. E lì, su quella riva, come potetti, date le circostanze, piansi l'infelice compagno: scavai una fossa nella sabbia e ve lo chiusi per sempre. Ero pieno di paura, temevo guai peggiori e così mi misi a fuggire qua e là per luoghi desolati e deserti e, quasi avessi sulla coscienza un delitto, lasciai la mia patria, la mia casa e scelsi un volontario esilio. «Ora vivo in Etolia e mi sono fatta una nuova famiglia.

 

Questo il racconto di Aristomene, ma il suo compagno, che fin dall'inizio s'era rifiutato di credere a una sola parola, esclamò: «Non c'è storia più fantastica, più assurda di questa.» E rivolto a me: 'E tu che mi sembri una persona seria almeno dall'apparenza, ci credi a questa storia? 'Mah', feci io, 'veramente tutto è possibile a questo mondo e quello che capita agli uomini è scritto nel destino: a me, a te, a tutti possono succedere cose strabilianti, inaudite, che se le vai a raccontare a chi non ne è stato toccato, nessuno ti crede. Io invece ci credo a quello che ha raccontato l'amico, eccome, e per di più lo ringrazio perché con la sua storia, col suo fare piacevole ci ha un po' svagati e mi ha fatto sembrare meno noioso e lungo questo viaggio. Se n'è giovato anche il mio cavallo che non ha poi fatto una gran fatica, dal momento che sono arrivato alle porte della città non sulla sua schiena ma con le mie orecchie.»  Così finì il viaggio e anche la nostra conversazione. I due, infatti, svoltarono a sinistra, verso una casupola lì vicino, io, invece, tirai dritto e m'infilai nella prima taverna che vidi. 'È Ipata questa?' chiesi alla vecchia ostessa. E quando ella annuì: 'Conosci un certo Milone? Da queste parti dovrebbe essere tra le persone più in vista.' 'Certo,  fece lei ridendo, 'Milone è proprio uno ben in vista: sta di casa oltre il pomerio fuori di città.'

 

LA RELAZIONE DI LUCIO CON LA SERVETTA  FOTIDE DEL SUO OSPITE  MILONE E DI SUA MOGLIE, PANFILE, LA MAGA

 

Detto fatto mi avviai in camera mia e qui trovai tutto bell'apparecchiato per una cenetta intima. I letti della servitù erano stati spostati, messi il più lontano possibile dalla mia porta, immagino perché non sentissero i nostri notturni gemiti di piacere; accanto al mio letto era stato posto un tavolino con ciò che di meglio era rimasto della cena e coppe riempite a metà di vino, bell'e pronte ad accogliere la giusta porzione d'acqua; accanto, una brocca dall'imboccatura larga fatta a posta per le abbondanti bevute, insomma un gustoso aperitivo per una notte d'amore.

 

M'ero appena coricato che la mia Fotide, la sua padrona era già andata a letto, se ne venne da me tutta giuliva. Aveva una ghirlanda di rose fra i capelli e petali di rose anche sul florido seno. S'appressò e mi baciò lungamente, mi cinse il capo di fiori, altri ne sparse in torno. Poi prese una coppa di vino, vi mescolò dell'acqua tepida e me l'offrì da bere; ma dolcemente me la rubò dalle mani prima ch'io l'avessi del tutto vuotata, l'accostò alle sue labbra e bevve a piccoli sorsi, guardandomi. Una seconda coppa e una terza e poi altre ancora, così ci scambiammo. Io, tra i fumi del vino, non solo la mia fantasia ma tutti i sensi sentivo eccitati dalla libidine, bramosi, anelanti; allora, tirandomi su la tunica fino all'inguine e mostrandole quanto impellente fosse il mio desiderio d'amore: 'Per carità, esclamai, fa' presto, vedi come son tutto teso e pronto alla guerra che tu, alla brava, mi hai dichiarato. Da quando Amore crudele ha trafitto il mio cuore con la sua freccia, anch'io con tutto il vigore ho teso il mio arco ed ora ho paura che il nerbo troppo rigido mi si spezzi. Ma se tu vuoi veramente offrirmi proprio tutte le tue delizie, sciogli i capelli e abbracciami nell'onda delle tue chiome. Non se lo fece dire due volte. In fretta sgombrò piatti e vivande, si liberò delle vesti mostrandosi tutta nuda, si sciolse i capelli con maliziosa lascivia; bella, simile a Venere quando emerse dai flutti, più per civetteria che per pudore mi nascondeva il liscio pube con le sue dita rosate. 'Vieni' mi disse 'vieni all'assalto. Ti terrò testa, sai, non ti cederò. Drizzati, se sei uomo, e lotta corpo a corpo, trafiggimi, fammi morire perché anche tu morirai. È una battaglia questa che non avrà tregua.' Così dicendo entra nel letto e mi monta sopra, adagio; poi comincia a muoversi con voluttà, su e giù, veloce, inarca la schiena, vibra tutta di libidine e a me supino, dispensa tutti i doni di Venere. Questo finché ad entrambi resse il respiro, finché non cademmo esausti, l'uno sull'altro abbracciati. In cosiffatti assalti ci producemmo ben desti fino alle prime luci dell'alba, di volta in volta chiedendo al vino nuovo vigore, perché non scemasse in noi il desiderio e si rinnovasse il piacere. Così volemmo che molte altre notti fossero simili a questa.

 

LA METAMORFOSI IN ASINO DI LUCIO: L'ERRORE

 

Così alle prime ore di notte mi condusse ella stessa, con ogni circospezione, in punta di piedi, fino a quella stanzetta lì in alto e mi disse di guardare attraverso una fessura dell'uscio che cosa stava succedendo lì dentro. Panfile si era spogliata di tutte le vesti, poi, aperto uno scrigno cominciò a estrarne parecchi vasetti; tolse il coperchio ad uno di essi, prese dell'unguento e stropicciandolo a lungo nelle mani se lo spalmò su tutto il corpo, dalla cima dei capelli alle unghie dei piedi. Dopo che ebbe sommessamente parlato con la lucerna, le sue membra cominciarono ad essere scosse da un tremito, poi a ondeggiare lievemente e a coprirsi d'una fitta peluria. Nacquero, infine, delle robuste penne, il naso s'incurvò e s'irrigidì, le unghie si mutarono in artigli adunchi. Panfile era diventata un gufo. Emise un querulo strido, provò a saltellare ancora incerta delle sue possibilità, infine, levatasi in alto se ne volò via ad ali spiegate.  Panfile si era trasformata, grazie alle sue arti magiche e di sua volontà. Io, di fronte a un simile prodigio, ero come impietrito per lo stupore e senza bisogno di scongiuri mi sentivo di essere tutto tranne che Lucio: ero fuori di me, imbambolato come uno che abbia perso la ragione, sognavo ad occhi aperti e me li venivo stropicciando continuamente per vedere se ero davvero sveglio. Finalmente tornai alla realtà e afferrata la mano di Fotide e portatamela agli occhi: 'Ti supplico' esclamai 'ora che si presenta l'occasione, dammi la prova suprema, unica, dell'amor tuo, dammi solo un filino di quell'unguento, te ne scongiuro, dolcezza mia, per queste tue mammelline tutto miele, che sono mie, incatenami per sempre a te con questo favore eccezionale, fa che diventi un Cupido alato per volare in braccio alla mia Venere.' 'E bravo il mio furbacchione innamorato. Vorresti, eh, che io mi dessi da me la zappa sui piedi. Faccio già fatica, così come sei, a sottrarli a queste bagasce di Tessaglia, figuriamoci poi dove andrei a cercarti e quando ti rivedrei se diventassi un uccello!' 'Che il cielo mi liberi da una simile carognata. Anche se io potessi volare in alto, dappertutto nel cielo, come l'aquila, e diventare il fidato messaggero di Giove e il suo augurale scudiero, dopo tanta gloria di voli, non tornerei sempre al mio piccolo nido? Ti giuro per queste deliziose trecce dei tuoi capelli con cui mi hai incatenato il cuore, che io non preferirò mai nessun'altra alla mia Fotide. E poi, adesso che ci penso, una volta che sarò tutto bello spalmato d'unguento e trasformato in un uccello simile, dovrò starmene alla larga dalle case. Che allegria, infatti, e come potranno goderselo, le signore, un amante gufo. La sappiamo, no? la fine che fanno questi uccelli notturni quando entrano in qualche casa: li prendono e li inchiodano alle porte perché con la loro morte atroce facciano penitenza delle disgrazie che il loro volo infausto reca alle famiglie. Ma quasi quasi mi dimenticavo di chiederti qual è la formula, il gesto magico con cui potrò togliermi quelle penne di dosso e tornare di nuovo il Lucio di prima?' 'Non ti preoccupare riguardo a questo' mi assicurò. 'La mia padrona mi ha mostrato tutto quanto occorre per restituire l'aspetto umano a quelli che hanno preso altra forma. Non credo però che l'abbia fatto per bontà d'animo ma solo perché, così, quand'ella torna io possa apprestarle i rimedi efficaci. Inoltre devi sapere che bastano erbette da nulla per ottenere un simile prodigio: un po' di semi di aneto, delle foglie di lauro mescolate in acqua di fonte ed ecco bell'e pronto il bagno e la bevanda.'  Dopo avermi ripetuto più volte tali assicurazioni, entrò tutta emozionata in quella stanzetta e prese dallo scrigno il vasetto. Come io l'ebbi fra le mani me lo strinsi al petto e cominciai a baciarlo pregando che mi facesse fare voli felici, poi, liberatomi in fretta di tutti i vestiti, immersi avidamente le dita nel barattolo e preso un bel po' di unguento me lo spalmai su tutto il corpo. Poi, agitando le braccia su e giù mi misi a fare l'uccello, ma niente: penne non ne spuntavano e nemmeno piume; piuttosto i peli cominciarono a diventare ispidi come setole, la pelle, delicata com'era, a farsi dura come il cuoio, alle estremità degli arti le dita si confusero, riunendosi in una sola unghia e in fondo alla colonna vertebrale spuntò una gran coda. Poi eccomi con una faccia enorme, una bocca allungata, le narici spalancate, le labbra penzoloni, mentre smisuratamente pelose mi erano cresciute le orecchie. Nulla in quell'orribile metamorfosi di cui potessi per qualche verso compiacermi, se non per il mio arnese diventato grossissimo, ma proprio quando, ormai, non potevo più tener Fotide tra le mie braccia.

 

Guardandomi tutte le parti del corpo e vedendomi diventato asino e non uccello sentii d'essere rovinato. Mi venne voglia di prendermela con Fotide per questo bel guaio, ma privo ormai del gesto e della voce, feci quel che potevo: chinai il muso e guardandola di traverso con gli occhi umidi mi raccomandai a lei in silenzio. Quand'ella, intanto, mi vide in quello stato, cominciò a picchiarsi il viso e:  'Disgraziata che sono' cominciò a gridare 'l'emozione e la fretta mi hanno tradita e mi ha ingannata la somiglianza dei vasetti. Meno male che per questa trasformazione è presto trovato il rimedio. Basta che tu mastichi delle rose e subito ti toglierai di dosso questo aspetto d'asino e tornerai il mio Lucio. Peccato che ieri sera non ho preparato per noi le solite coroncine di rose perché allora non avresti dovuto aspettare nemmeno una notte. Appena spunta l'alba, però avrai subito la medicina.'

 

LA FABULA AL CENTRO: AMORE E PSICHE

 

LA PRIMA PROVA INFLITTA DA VENERE A PSICHE E L'AIUTO DELLE FORMICHE

 

Venere la prese per i capelli e la trascinava, mentre lei non opponeva la minima resistenza. Appena Venere se la vide davanti trascinata in quel modo scosse il capo, si grattò l’orecchio destro e scoppiò a ridere rabbiosamente. Poi disse: “Ti sei degnata finalmente dì venire a salutare tua suocera? O sei venuta qui a cercare tuo marito, che è in pericolo di vita per la ferita che gli hai procurato? Ma stai tranquilla, ti darò l’accoglienza che si merita una buona nuora!”. Poi soggiunse: “Dove sono le mie ancelle Angoscia e Tristezza?”. E così, dopo averle chiamate, gliela consegnò perché la torturassero. Quelle obbedirono subito al comando della loro padrona, e dopo averla fustigata con le fruste e sottoposta a ogni genere di sevizie la riportarono davanti alla padrona. Allora Venere ricominciò a sghignazzare ed esclamò: “Ecco, ora crederà di muovermi a compassione e di intenerirmi con quel suo ventre gonfio, per cui io diventerò nonna, certo di una stirpe assai gloriosa! Sarò proprio felice di sentirmi chiamare nonna mentre sono ancora nel fiore della giovinezza, soprattutto quando si saprà che il nipote di Venere è figlio di una sgualdrina! Ma che sciocchezze vado dicendo chiamandolo figlio? Le nozze fra persone di diverso rango e fatte per di più tra i campi e senza testimoni e senza il consenso del padre non possono certo essere valide: quindi tuo figlio sarà un bastardo, ammesso che io ti consenta di metterlo al mondo!”.

 

 Così dicendo, Venere  si avventò contro Psiche, le stracciò la veste, le strappò i capelli e la riempì di botte, scuotendola per la testa. Poi si fece portare grano, orzo, miglio e semi di papavero e ceci e lenticchie e fave, li mescolò insieme facendone un grande mucchio e poi volgendosi a Psiche le disse: “Mi sembri una schiava così brutta che puoi acquistare la benevolenza dei tuoi amanti solo con dei piccoli servizi che richiedono un’estrema pazienza. Ebbene, anch’io voglio mettere a prova la tua abilità.  Dovrai scegliere da questo confuso ammasso di grani quelli appartenenti a ciascuna specie: separali e riordinali dividendoli a mucchietti uno per uno, e fammi trovare il lavoro terminato prima di sera”. Così la lasciò davanti a tutto quel mucchio di semi e se ne andò a un pranzo di nozze. Psiche però, dinanzi a quell’ammasso inestricabile di semi non ebbe neppure il coraggio di metterci le mani, e costernata per l’enormità del lavoro che doveva svolgere, rimase lì stupita come una scema. Allora la formichina che ha nei campi la sua piccola casa, ben sapendo quanto fosse penoso quel lavoro e piena di compassione per le disgrazie capitate alla compagna del gran dio, biasimando la crudeltà della suocera, si diede da fare a radunare da ogni parte tutte le schiere di formiche che abitavano in quel paese, dicendo: “Abbiate pietà, operose figlie della madre Terra, abbiate pietà e correte presto in aiuto di questa bella ragazza in pericolo, che è la moglie di Amore!”.

 

E allora una dopo l’altra si precipitarono le schiere di quel popolo a sei zampe, e mettendocela tutta divisero grano dopo grano tutto il mucchio di sementi, separando e distribuendo con ordine tutte le specie. Poi se ne andarono di corsa. Al calar della notte Venere ritornò dal pranzo nuziale, mezza ubriaca, tutta profumata e inghirlandata di splendide rose. Vide la straordinaria diligenza di quel lavoro ed esclamò: “Brutta delinquente! Questo lavoro non è opera tua, e non certo delle tue mani! Qui c’è entrato di sicuro colui al quale tu sei piaciuta, per la tua, anzi per la sua rovina”. E detto questo gettò a Psiche un tozzo di pane e se ne andò a dormire. Intanto Cupido se ne stava tutto solo, chiuso e controllato, in una camera isolata all’interno della casa, sia perché non aggravasse la sua ferita con la sua sfrenata intemperanza, sia perché non potesse incontrarsi con la sua bella. E così i due amanti trascorsero una notte tristissima, divisi e separati sotto lo stesso tetto.

 

EPIFANIA DI ISIDE DOPO LA PREGHIERA DI LUCIO

 

“Dovevano essere le prime ore della notte quando, per un’improvvisa sensazione di paura, io mi svegliai […]  ero come immerso nel misterioso silenzio della notte profonda e sentivo lo strano fascino dell’eccelsa dea che esercita il suo potere sovrano su tutti gli esseri viventi […] così pregai l’onnipotente divinità.

‘O regina del cielo,  […] Liberami da quest’orrendo aspetto di quadrupede, rendimi agli occhi dei miei cari, fammi tornare il Lucio che ero. E se poi qualche divinità che ho offesa mi perseguita con una crudeltà così accanita, mi sia almeno concesso di morire se non mi è lecito vivere. Così pregai versando lacrime e lamenti da far pietà, finché nuovamente il sonno non vinse il mio animo spossato ed io non ricaddi là dove m’ero steso poc’anzi. Ma avevo appena chiusi gli occhi, quand’ecco che sulla superficie del mare apparve una divina immagine, un volto degno d’esser venerato dagli stessi dei. Poi la luminosa parvenza sorse a poco a poco con tutto il corpo fuori dalle acque e a me parve di vederla, ferma, dinanzi a me. Mi proverò a descrivervi il suo aspetto mirabile se la povertà della lingua umana mi darà la possibilità di farlo o se quella stessa divinità mi concederà il dono di un’efficace e facile eloquenza. Anzitutto i capelli, folti e lunghi, appena ondulati, che mollemente le cascavano sul collo divino. Una corona di fiori variopinti le cingeva in alto la testa e proprio in mezzo alla fronte un disco piatto, a guisa di specchio ma che rappresentava la luna, mandava candidi barbagli di luce. […] Indossava una tunica di bisso leggero, dal colore cangiante, che andava dal bianco splendente al giallo del fiore di croco, al rosso acceso delle rose […] . Quei lembi e tutto il tessuto erano disseminati di stelle scintillanti e in mezzo ad esse una luna piena diffondeva la sua vivida luce [..] Tale e così maestosa, spirante i profumi felici d’Arabia, si degnò di parlarmi la dea. <Eccomi o Lucio, mossa alle tue preghiere, io la madre della natura, la signora di tutti gli elementi, l’origine e il principio di tutte le età, la più grande di tutte le divinità, la regina dei morti, la prima dei celesti, colei che in sé riassume l’immagine di tutti gli dei e di tutte le dee, che col suo cenno governa le altezze luminose del cielo, i salubri venti del mare, i desolati silenzi dell’oltretomba, la cui potenza, unica, tutto il mondo onora sotto varie forme, con diversi riti e differenti nomi. Per questo i Frigi, i primi abitatori della terra, mi chiamano Pessinunzia, Madre degli dei, gli Autoctoni Attici Minerva Cecropia, i Ciprioti circondati dal mare Venere Pafia, i Cretesi arcieri famosi Diana Dittinna, i Siculi trilingui Proserpina Stigia, gli antichi abitatori di Eleusi Cerere Attica, altri Giunone, altri Bellona, altri Ecate, altri ancora Ramnusia, ma i due popoli degli Etiopi, che il dio sole illumina coi suoi raggi quando sorge e quando tramonta e gli Egizi, così grandi per la loro antica sapienza, venerandomi con quelle cerimonie che a me si addicono, mi chiamano con il mio vero nome, Iside regina. Eccomi, sono qui, pietosa delle tue sventure, eccomi a te, soccorrevole e benigna. Cessa di piangere e di lamentarti, scaccia il dolore, grazie ai miei favori ormai già brilla per te il giorno della salvezza. Sta’ ben attento, invece, agli ordini che ti do: il giorno che sta per nascere da questa notte, come vuole un’antica tradizione, è consacrato a me. In questo giorno cessano le tempeste dell’universo, si placano i procellosi flutti del mare, i miei sacerdoti, ora che la navigazione è propizia, mi dedicano una nave nuova e mi offrono le primizie del carico. Dunque, con animo puro e sgombro da timore, tu devi attendere questo giorno a me sacro. Infatti ci sarà un sacerdote  in testa alla processione, che per mio volere porterà intrecciata al sistro una corona di rose. Senza esitare tu fatti largo tra la folla e segui la processione, confidando in me, poi avvicinati a lui come per baciargli devotamente la mano e afferrargli le rose. Vedrai che in un attimo ti cadrà questa brutta pelle d’animale che anch’io già da tempo detesto. Non aver paura, ciò che ti dico di fare non è difficile, perché in questo stesso istante in cui ti sono davanti, sono presente anche altrove e al mio sacerdote sto dicendo in sogno le cose che deve fare. Per mio comando la folla assiepata ti farà largo e a nessuno, in questa lieta ricorrenza e nell’allegria della festa, ripugnerà quest’orribile aspetto che hai o giudicherà male la tua metamorfosi interpretandola addirittura come un fatto sinistro. Ma ricordalo e tienlo bene a mente una volta per tutte, che la tua vita, fino all’ultimo giorno, è ormai consacrata a me. Del resto mi pare sia giusto che tu dedichi la tua esistenza a colei che per sua grazia ti ha fatto tornare uomo fra gli uomini. E tu vivrai felice, vivrai glorioso sotto la mia protezione, e quando il tempo della tua vita sarà compiuto e scenderai agli Inferi, anche allora, in quel mondo sotterraneo, nei campi Elisi, dove tu abiterai, vedrai me, come in questo momento, risplendere fra le tenebre dell’Acheronte, regina delle dimore Stigie e continuerai ad adorare il mio nume benigno […]  Posto fine all’augusta profezia l’invitta divinità scomparve. Quanto a me mi ritrovai in piedi che il sonno era a un tratto scomparso, pieno di spavento e di gioia insieme tutto madido di sudore e, ancora stupefatto per l’apparizione così netta di quella potente dea ”

Epifania di Iside (italiano, Zanichelli con note)

Testo latino XI, 2

"Regina caeli, sive tu Ceres alma frugum parens originalis, quae, repertu laetata filiae, vetustae glandis ferino remoto pabulo, miti commonstrato cibo nunc Eleusiniam glebam percolis, seu tu caelestis Venus, quae primis rerum exordiis sexuum diversitatem generato Amore sociasti et aeterna subole humano genere propagato nunc circumfluo Paphi sacrario coleris, seu Phoebi soror, quae partu fetarum medelis lenientibus recreato populos tantos educasti praeclarisque nunc veneraris delubris Ephesi, seu nocturnis ululatibus horrenda Proserpina triformi facie larvales impetus comprimens terraeque claustra cohibens lucos diversos inerrans vario cultu propitiaris, ? ista luce feminea conlustrans cuncta moenia et udis ignibus nutriens laeta semina et solis ambagibus dispensans incerta lumina, quoquo nomine, quoquo ritu, quaqua facie te fas est invocare: tu meis iam nunc extremis aerumnis subsiste, tu fortunam collapsam adfirma, tu saevis exanclatis casibus pausam pacemque tribue; sit satis laborum, sit satis periculorum. Depelle quadripedis diram faciem, redde me conspectui meorum, redde me meo Lucio, ac si quod offensum numen inexorabili me saevitia premit, mori saltem liceat, si non licet vivere."

O regina del cielo, o sia pure tu l'alma Cerere, l'antichissima madre delle messi, che per la gioia d'aver ritrovata la figlia, offristi all'uomo un cibo pi? dolce che non quello bestiale delle ghiande, e fai pi? bella con la tua presenza la terra di Eleusi; o anche la celeste Venere che all'inizio del mondo desti la vita ad Amore e accoppiasti sessi diversi propagando la specie umana con una discendenza ininterrotta, onorata ora in Pafo, circondata dal mare; o la sorella di Febo, che alleviando con dolci rimedi il dolore del parto, hai dato la vita a tante generazioni ed ora sei venerata nei santuari di Efeso; o che tu sia Proserpina, la dea che atterrisce con i suoi ululati notturni, che nel tuo triplice aspetto plachi le inquiete ombre dei morti e chiudi le porte dell'oltretomba e vaghi per i boschi sacri, venerata con riti diversi, tu che con la tua virginea luce illumini tutte le citt?, che nutri con i tuoi umidi raggi le sementi feconde, e nei tuoi giri solitari spandi il tuo incerto chiarore, sotto qualsiasi nome, con qualsiasi rito, sotto qualsiasi aspetto sia lecito invocarti, soccorrimi in queste mie terribili sventure, sostienimi nella mia sorte infelice, concedimi un po' di pace, una tregua dopo tanti terribili eventi, che cessino gli affanni, che cessino i pericoli. Liberami da quest'orrendo aspetto di quadrupede, rendimi agli occhi dei miei cari, fammi tornare il Lucio che ero. ?E se poi qualche divinit? che ho offesa mi perseguita con una crudelt? cos? accanita, mi sia almeno concesso di morire se non mi ? lecito vivere.?

3

 Ad istum modum fusis precibus et adstructis miseris lamentationibus rursus mihi marcentem animum in eodem illo cubili sopor circumfusus oppressit. Necdum satis conixeram, et ecce pelago medio venerandos diis etiam vultus attollens emergit divina facies; ac dehinc paulatim toto corpore perlucidum simulacrum excusso pelago ante me constitisse visum est. Eius mirandam speciem ad vos etiam referre conitar, si tamen mihi disserendi tribuerit facultatem paupertas oris humani vel ipsum numen eius dapsilem copiam elocutilis facundiae subministraverit. Iam primum crines uberrimi prolixique et sensim intorti per divina colla passive dispersi molliter defluebant. Corona multiformis variis floribus sublimen destrinxerat verticem, cuius media quidem super frontem plana rotunditas in modum speculi vel immo argumentum lunae candidum lumen emicabat, dextra laevaque sulcis insurgentium viperarum cohibita, spicis etiam Cerialibus desuper porrectis multicolor, bysso tenui pertexta, nunc albo candore lucida, nunc croceo flore lutea, nunc roseo rubore flammida et, quae longe longeque etiam meum confutabat optutum, palla nigerrima splendescens atro nitore, quae circumcirca remeans et sub dexterum latus ad umerum laevum recurrens umbonis vicem deiecta parte laciniae multiplici contabulatione dependula ad ultimas oras nodulis fimbriarum decoriter confluctuabat.

Così pregai versando lacrime e lamenti da far piet?, finch? nuovamente il sonno non vinse il mio animo spossato ed io non ricaddi l? dove m'ero steso poc'anzi. Ma avevo appena chiusi gli occhi, quand'ecco che sulla superficie del mare apparve una divina immagine, un volto degno d'esser venerato dagli stessi dei. Poi la luminosa parvenza sorse a poco a poco con tutto il corpo fuori dalle acque e a me parve di vederla, ferma, dinanzi a me. Mi prover? a descrivervi il suo aspetto mirabile se la povert? della lingua umana mi dar? la possibilit? di farlo o se quella stessa divinit? mi conceder? il dono di un'efficace e facile eloquenza. Anzitutto i capelli, folti e lunghi, appena ondulati, che mollemente le cascavano sul collo divino. Una corona di fiori variopinti le cingeva in alto la testa e proprio in mezzo alla fronte un disco piatto, a guisa di specchio ma che rappresentava la luna, mandava candidi barbagli di luce. Ai lati, a destra e a sinistra, lo stringevano le spire irte e guizzanti di serpenti e, in alto, era sormontato da spighe di grano. Indossava una tunica di bisso leggero, dal colore cangiante, che andava dal bianco splendente al giallo del fiore di croco, al rosso acceso delle rose, ma quello che soprattutto confondeva il mio sguardo era la sopravveste, nerissima, dai cupi riflessi, che girandole intorno alla vita le risaliva su per il fianco destro fino alla spalla sinistra e, di qui, stretta da un nodo, le ricadeva sul davanti in un ampio drappeggio ondeggiante, agli orli graziosamente guarnito di frange.

4

Per intextam extremitatem et in ipsa eius planitie stellae dispersae coruscabant earumque media semenstris luna flammeos spirabat ignes. Quaqua tamen insignis illius pallae perfluebat ambitus, individuo nexu corona totis floribus totisque constructa pomis adhaerebat. Nam dextra quidem ferebat aereum crepitaculum, cuius per angustam lamminam in modum baltei recurvatam traiectae mediae paucae virgulae, crispante brachio trigeminos iactus, reddebant argutum sonorem. Laevae vero cymbium dependebat aureum, cuius ansulae, qua parte conspicua est, insurgebat aspis caput extollens arduum cervicibus late tumescentibus. Pedes ambroseos tegebant soleae palmae victricis foliis intextae. Talis ac tanta, spirans Arabiae felicia germina, divina me voce dignata est:

Quei lembi e tutto il tessuto erano disseminati di stelle scintillanti e in mezzo ad esse una luna piena diffondeva la sua vivida luce: lungo tutta la balza di questo magnifico manto, per quanto esso era ampio, correva un'ininterrotta ghirlanda di fiori e di frutti d'ogni specie. Gli attributi della dea erano poi i più diversi: nella destra recava, infatti, un sistro di bronzo la cui la mina sottile, piegata come una cintola, era attraversata da alcune verghette che al triplice moto del braccio producevano un suono argentino. Dalla mano sinistra invece, pendeva un vasello d'oro a forma di barca dai manico ornato da un'aspide con la testa ritta e il collo rigonfio. Ai suoi piedi divini calzava sandali intessuti con foglie di palma, il simbolo della vittoria. Tale e cos? maestosa, spirante i profumi felici d'Arabia, si degn? di parlarmi la dea.

5

"En adsum tuis commota, Luci, precibus, rerum naturae parens, elementorum omnium domina, saeculorum progenies initialis, summa numinum, regina manium, prima caelitum, deorum dearumque facies uniformis, quae caeli luminosa culmina, maris salubria flamina, inferum deplorata silentia nutibus meis dispenso: cuius numen unicum multiformi specie, ritu vario, nomine multiiugo totus veneratus orbis. Inde primigenii Phryges Pessinuntiam deum matrem, hinc autochthones Attici Cecropeiam Minervam, illinc fluctuantes Cyprii Paphiam Venerem, Cretes sagittiferi Dictynnam Dianam, Siculi trilingues Stygiam Proserpinam, Eleusinii vetusti Actaeam Cererem, Iunonem alii, Bellonam alii, Hecatam isti, Rhamnusiam illi, et qui nascentis dei Solis inlustrantur radiis Aethiopes utrique priscaque doctrina pollentes Aegyptii caerimoniis me propriis percolentes appellant vero nomine reginam Isidem. Adsum tuos miserata casus, adsum favens et propitia. Mitte iam fletus et lamentationes omitte, depelle maerorem; iam tibi providentia mea inlucescit dies salutaris. Ergo igitur imperiis istis meis animum intende sollicitum. Diem, qui dies ex ista nocte nascetur, aeterna mihi nuncupavit religio, quo sedatis hibernis tempestatibus et lenitis maris procellosis fluctibus navigabili iam pelago rudem dedicantes carinam primitias commeatus libant mei sacerdotes. Id sacrum nec sollicita nec profana mente debebis opperiri.

Eccomi o Lucio, mossa alle tue preghiere, io la madre della natura, la signora di tutti gli elementi, l'origine e il principio di tutte le et?, la pi? grande di tutte le divinit?, la regina dei morti, l? prima dei celesti, colei che in s? riassume l'immagine di tutti gli dei e di tutte le dee, che col suo cenno governa le altezze luminose del cielo, i salubri venti del mare, i desolati silenzi dell'oltretomba, la cui potenza, unica, tutto il mondo onora sotto varie forme, con diversi riti e differenti nomi. ?Per questo i Frigi, i primi abitatori della terra, mi chiamano Pessinunzia, Madre degli dei, gli Autoctoni Attici Minerva Cecropia, i Ciprioti circondati dal mare Venere Pafia, i Cretesi arcieri famosi Diana Dittinna, i Siculi trilingui Proserpina Stigia, gli antichi abitatori di Eleusi Gerere Attica, altri Giunone, altri Bellona, altri Ecate, altri ancora Ramnusia, ma i due popoli degli Etiopi, che il dio sole illumina coi suoi raggi quando sorge e quando tramonta e gli Egizi, cos? grandi per la loro antica sapienza, venerandomi con quelle cerimonie che a me si addicono, mi chiamano con il mio vero nome, Iside regina. ?Eccomi, sono qui, pietosa delle tue sventure, eccomi a te, soccorrevole e benigna. ?Cessa di piangere e di lamentarti, scaccia il dolore, grazie ai miei favori ormai gi? brilla per te il giorno della salvezza. ?Sta' ben attento, invece, agli ordini che ti do: il giorno che sta per nascere da questa notte, come vuole un'antica tradizione, ? consacrato a me. In questo giorno cessano le tempeste dell'universo, si placano i procellosi flutti del mare, i miei sacerdoti, ora che la navigazione ? propizia, mi dedicano una nave nuova e mi offrono le primizie del carico. ?Dunque, con animo puro e sgombro da timore, tu devi attendere questo giorno a me sacro.

6

Nam meo monitu sacerdos in ipso procinctu pompae roseam manu dextera sistro cohaerentem gestabit coronam. Incunctanter ergo dimotis turbulis alacer continuare pompam mea volentia fretus et de proximo clementer velut manum sacerdotis osculabundus rosis decerptis pessimae mihique iam dudum detestabilis belvae istius corio te protinus exue. Nec quicquam rerum mearum reformides ut arduum. Nam hoc eodem momento, quo tibi venio, simul et ibi praesens, quae sunt sequentia, sacerdoti meo per quietem facienda praecipio. Meo iussu tibi constricti comitatus decedent populi, nec inter hilares caerimonias et festiva spectacula quisquam deformem istam quam geris faciem perhorrescet vel figuram tuam repente mutatam sequius interpretatus aliquis maligne criminabitur. Plane memineris et penita mente conditum semper tenebis mihi reliqua vitae tuae curricula adusque terminos ultimi spiritus vadata. Nec iniurium, cuius beneficio redieris ad homines, ei totum debere, quod vives. Vives autem beatus, vives in mea tutela gloriosus, et cum spatium saeculi tui permensus ad inferos demearis, ibi quoque in ipso subterraneo semirutundo me, quam vides, Acherontis tenebris interlucentem Stygiisque penetralibus regnantem, campos Elysios incolens ipse, tibi propitiam frequens adorabis. Quodsi sedulis obsequiis et religiosis ministeriis et tenacibus castimoniis numen nostrum promerueris, scies ultra statuta fato tuo spatia vitam quoque tibi prorogare mihi tantum licere."

Infatti ci sarà un sacerdote. in testa alla processione, che per mio volere porterà intrecciata al sistro una corona di rose. Senza esitare tu fatti largo tra la folla e segui la processione, confidando in me, poi avvicinati a lui come per baciargli devotamente la mano e afferrargli le rose. Vedrai che in un attimo ti cadrà questa brutta pelle d'animale che anch'io già da tempo detesto. Non aver paura, ciò che ti dico di fare non è difficile, perché in questo stesso istante in cui ti sono davanti, sono presente anche altrove e al mio sacerdote sto dicendo in sogno le cose che deve fare. Per mio comando la folla assiepata ti farà largo e a nessuno, in questa lieta ricorrenza e nell'allegria della festa, ripugnerà quest'orribile aspetto che hai o giudicherà male la tua metamorfosi interpretandola addirittura come un fatto sinistro. Ma ricordalo e tienlo bene a mente una volta per tutte, che la tua vita, fino all'ultimo giorno,è ormai consacrata a me. Del resto mi pare sia giusto che tu dedichi la tua esistenza a colei che per sua grazia ti ha fatto tornare uomo fra gli uomini. E tu vivrai felice, vivrai glorioso sotto la mia protezione, e quando il tempo della tua vita sarà compiuto e scenderai agli Inferi, anche allora, in quel mondo sotterraneo, nei campi Elisi, dove tu abiterai, vedrai me, come in questo momento, risplendere fra le tenebre dell'Acheronte, regina delle dimore Stigie e continuerai ad adorare il mio nume benigno. Che se poi con l'assidua devozione, lo zelo religioso, la castit? rigorosa tu avrai ben meritato della mia protezione, sappi che a me è anche possibile prolungarti la vita di là del tempo stabilito dal tuo destino.

A sentire Telifrone (Apuleio reloaded)

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di Franco Pezzini

locandina_apuleio ridotta[Si propone qui un brano dai testi di L’importanza di essere Lucio. ‘L’asino d’oro’ di Apuleioun ciclo di incontri sul celebre romanzo latino in corso di presentazione a Torino. L’antieroe Lucio, giovanotto di belle speranze ed eccessiva curiosità, si trova a Ipata, nella Tessaglia delle streghe, dove intreccia una vivace relazione sessuale con la servetta Fotide e reincontra Birrena, la brava signora che l’ha allevato. Per la traduzione utilizzo quella di Gabriella D’Anna, dell’edizione Newton Compton 1995.]

Ipata, nel medioevo chiamata Neopatria e per più di un secolo capitale di un Ducato poi caduto sotto i Turchi, è attualmente Ypati, ex-comune nella periferia della Grecia Centrale, in Ftiotide, ormai compreso (dopo l’accorpamento della riforma degli enti locali nota come piano Kallikratis) nel più grande comune di Lamia. Suggestivo che il toponimo cui si trova oggi aggregato richiami proprio l’orchessa mitica il cui nome è poi usato genericamente per le streghe. Certo l’atmosfera oggi non colpisce per atmosfera arcana: sembra un villaggio del Cuneese, casette bianche tra montagne verdiscure, il bar della piazza col pergolato, cortili… Molto diversa doveva essere in passato; anche se la città evocata da Apuleio è trasfigurata letterariamente, per cui resta difficile attribuire alle sue descrizioni un’effettiva concretezza storica.
Una sera Birrena pretende che Lucio vada a cena da lei, così il giovanotto si trova costretto a malincuore a rinunciare al solito frizzante intrattenimento con Fotide – che gli dà il permesso, avvisandolo però di non tirare troppo tardi. C’è infatti una squadraccia di figli di papà, ragazzi ricchi che a tarda ora impazzano per le vie giungendo a uccidere senza che nessuno li fermi, e uno straniero rischia anche di più. Lucio la tranquillizza, non farà tardi – in modo da poter continuare la sera con lei – e comunque girerà armato.
Da Birrena trova un party elegante, con invitati di rango: e a un certo punto la padrona di casa domanda come gli sembri Ipata, città superiore alle altre (almeno della zona) per templi, terme e costruzioni, con un vivace giro di affari e un traffico simile a quello di Roma (qui sta esagerando), ma capace di garantire anche una vita tranquilla come in campagna. Il giovanotto la asseconda, risponde che “in nessun altro luogo del mondo mi sarei sentito più libero che qui” – appunto le libertà con Fotide – ma aggiunge sornione:

Però ho un grande timore dei tenebrosi e invincibili misteri delle pratiche magiche. Infatti si dice che neppure i sepolcri dei morti possano qui stare al sicuro, e che perfino dai crematori e dai roghi funerari si cerchino residui e frammenti di cadaveri per farne incantesimi per i vivi. E che vecchie streghe incantatrici proprio nel momento in cui si appresta un funerale riescano con rapidità incredibile a prevenire l’opera dei seppellitori portando via il cadavere.

A quel punto interviene un commensale che nota come neppure i vivi siano al sicuro. E butta lì che “un tale, non so chi, […] ha subìto una simile avventura, ed è rimasto col viso sfigurato e mutilato in ogni parte”. Risata generali, tutti fissano un tipo seduto da parte, che fa per andarsene brontolando ed è fermato da Birrena: per favore, chiede, racconti anche al figlioccio la sua avventura. Telifrone – il nome significherebbe “che pensa (phronein) alle donne (thelys, femminile)”, e vedremo in che senso – borbottando contro l’insolenza di alcuni, cede però alla cortesia della padrona, e con una certa prosopopea da oratore inizia il racconto. Che, a seconda di come interpretiamo l’opera di Apuleio, rappresenta in termini generici una nuova prova della sorprendente imprevedibilità delle cose, o invece, in più stretto riferimento a un itinerarium simbolico e iniziatico, costituisce un nuovo immergersi nel sogno.
Partito da Mileto ancora ragazzo per andare ad assistere alle gare di Olimpia, Telifrone ha la cattiva idea di visitare la Tessaglia, arrivando a Larissa. È una sorta di doppio ruspante di Lucio, il bullo che lui non sa essere e a differenza di lui senza soldi: così cerca un lavoretto per sbarcare il lunario. Quando però un vecchio allampanato in piedi su un sasso dichiara di cercare chi faccia la guardia a un morto, il ragazzo divertito domanda a un passante se da quelle parti i morti scappino. Quello risponde serio che, giovane e forestiero com’è, certo non sa di trovarsi in Tessaglia, “dove le streghe hanno l’abitudine di prendere a morsi il viso dei morti, e quello che riescono a staccarne è per loro nuova materia per le pratiche magiche” – una necessità per procurarsi “materiale umano” prima dell’incinerazione. Poi, alla domanda di lui su quale sarebbe il lavoro, spiega che occorre vegliare per una notte

“[…] con gli occhi spalancati e fissi sul cadavere e non volgere mai altrove le pupille, anzi non girarle neppure, dal momento che quelle malefiche streghe vanno strisciando di nascosto dopo essersi trasformate in un qualsiasi animale, tanto da sfuggire perfino agli occhi del Sole e della Giustizia. Infatti prendono l’aspetto di uccelli e di cani e di topi, e perfino di mosche. Poi con spaventosi incantesimi immergono nel sonno le guardie. Nessuno si può immaginare i sotterfugi che quelle donne infami sanno inventarsi per le loro perversioni. E tuttavia in compenso di un lavoro così pericoloso non si riesce mai a guadagnare più di quattro o sei monete d’oro. Ah, stavo dimenticando di dire che se l’indomani il corpo del morto non viene restituito intero, si è costretti a risarcire con pezzi tagliati dal proprio viso tutto ciò che ne è stato portato via o tolto.”

Il tema della veglia funebre insidiata da streghe o altre creature sovrannaturali è estremamente arcaico e sedimenta forse timori del passato neolitico. Di una veglia funebre minacciata dalle streghe Petronio fa parlare Trimalchione durante la famosa scena del banchetto (Satyricon 63, 2-10); e sarebbe anzi intrigante cogliere traccia di un’ispirazione per Apuleio laddove l’arciricco di Petronio – un Paperon de’ Paperoni idealmente a monte anche della figura di Milone, ospite di Lucio – annuncia che lui pure narrerà una “rem horribilem”, una cosa che fa rabbrividire di stranezza, “Asinus in tegulis”. Cioè quanto farebbe un asino sul tetto: e il tema di Lucio che vorrebbe metamorfizzare in uccello per magia e finirà per sbaglio (concediamoci uno spoiler) mutato in asino sembra sintetizzare visionariamente proprio l’espressione di Trimalchione. In seguito, in un mondo ormai cristianizzato, racconti di veglie funebri a streghe vedranno la minaccia venire dal diavolo (la storia della strega di Berkeley riportata da Guglielmo di Malmesbury, Gesta regum anglorum II, 204) o da altre creature sovrannaturali (Vij di Nikolaj Vasil’evič Gogol’, 1835).
Insomma, Telifrone si offre chiedendo al banditore quale sia il compenso, e quello parla di una cifra significativa, mille nummi (cioè quaranta aurei, contro i “quattro o sei” menzionati dal passante), trattandosi del figlio di uno dei cittadini più importanti. Ma che badi a quelle “malis Harpyis” e vegli con molta attenzione; al che il bulletto risponde di stare tranquo, e che davanti a lui ha un “hominem ferreum et insomnem” più attento dei mitici Linceo e Argo.
Insomma, viene condotto a una casa con la porta principale sbarrata, passano dal retro e da una porticina (la classica porta dei morti) giungono in una stanza buia innanzi alla vedova piangente – una donna molto bella e in apparenza molto addolorata che gli raccomanda attenzione. Si preoccupi solo di pagarlo, risponde il bulletto: si accordano, poi la donna lo introduce nella stanza accanto dove il cadavere è velato da un lenzuolo. Lì, davanti a sette testimoni – “boni Quirites”, li chiama, secondo l’uso latino anche se qui siamo in Grecia – provvede a far redigere l’inventario delle parti del viso (naso, occhi, orecchie, labbra, mento – sembra non interessino altre membra); poi sta per andarsene, quando Telifrone la ferma. Gli fornisca una lampada, chiede, con olio sufficiente fino al mattino; ma in più anche “acqua calda, brocche di vino, un bicchiere e un piatto pieno degli avanzi della cena”. La donna s’indigna, hanno avuto un lutto e c’è un morto in casa, da giorni non hanno “neppure il fumo” (nel senso che il focolare non veniva acceso nei giorni tra decesso e funerale), e lui pensa a trincare e strafocarsi? Comanda dunque al personale di dargli lucerna e olio, e poi di chiuderlo nella stanza col morto.
Inizia la veglia, ed ecco che il bulletto deve, secondo il nome che porta, “pensare alle donne”, le streghe: cerca di canticchiare, ma con lo scivolare delle ombre verso la notte fonda monta la paura. Ed è a quel punto che appare una donnola, si ferma e prende a guardarlo fisso con una sicurezza che lo mette a disagio… Ovviamente anche l’animale predatore che insidia i pollai rappresenta un’eventuale forma di mutazione streghesca: all’inizio dell’età moderna le donnole verranno considerate possibili spiriti famigli delle streghe dal witch-hunter general Matthew Hopkins, e ancora Anatole France in Thaïs, 1890, menzionerà la donnola come epifania del diavolo che tenta i padri nel deserto. Telifrone la scaccia, ma poi subito piomba in un sonno profondissimo; e quando viene svegliato dal chiasso dei soldati, corre preoccupato a controllare la faccia del morto.
Nel frattempo arriva anche la vedova con i testimoni, viene condotto l’esame del viso. Sospiro di sollievo: va tutto bene, la donna ordina che paghino Telifrone e spiega che a questo punto lo considerano un amico. Il giovanotto non trova di meglio che dichiararsi disponibile per ogni volta che desidererà la sua opera: una gaffe micidiale (come ad augurare tanti decessi alla casa) per cui i servi iniziando gli scongiuri gli danno una saccagnata di botte e lo buttano fuori.
Il Nostro si ritira dunque in piazza, rammaricandosi tutto rotto delle proprie parole infelici, e poco dopo arriva il corteo del funerale pubblico per l’importante defunto che proprio lui ha vegliato: ma ecco farsi avanti lo zio del morto e chiedere a gran voce l’intervento dei cittadini. Suo nipote sarebbe stato infatti ucciso col veleno dalla moglie tanto carina, intenzionata a godersi l’eredità con l’amante… Le accuse scaldano la gente, c’è chi vorrebbe bruciare o lapidare la vedova che invece giura (ovviamente) sulla falsità delle accuse; e infine lo zio propone un’indagine necromantica grazie alla presenza in città di un “propheta primarius” (cioè “profeta – nel senso di rappresentare la volontà divina – di prim’ordine”), l’egiziano Zatchlas. In precedenza nel romanzo era apparso un indovino caldeo, Diofane, ora c’è un altro straniero esotico ed esoticamente abbigliato, a continuare insomma la mappatura di un proliferare di specialisti dell’esoterico persino in questo profondo entroterra greco. Un proliferare piuttosto sospetto, e anche qui tale da porre domande.

Come si debbano interpretare la vicenda e la figura del profeta egizio Zatchlas non è affatto chiaro: lo sviluppo della storia non ci permette di stabilire infatti se si tratti di un impostore o di un vero profeta. [Nicolini: 27]

Qui non si tratta solo di trarre informazioni dalla natura, cioè da stelle, interiora o voli d’uccello: e se Lucano nella Pharsalia (VI, 507-830) aveva mostrato un morto ridestato dalla maga tessala Eritto o Eritone, ora alle donne di Tessaglia viene contrapposto un occultista maschio, proveniente dall’Egitto terra paradigmatica di sapienza esoterica e di misteri, e specificamente di conoscenze arcane sul rapporto coi morti. In un’altra opera di Apuleio, De Platone et eius dogmate (I, 3) si cita la tradizione per cui i sacerdoti egizi sarebbero capaci di resuscitare i morti; e qui Zatchlas ha fatto un patto con il vecchio “di richiamare quest’anima dall’Averno e farla entrare nel corpo anche dopo morto”. All’apparire del giovane vestito all’egiziana, lo zio del morto prende a supplicarlo (notiamo questa serie di riferimenti)

“[…] per le stelle del cielo, per gli dèi dell’inferno, per gli elementi naturali, per i silenzi notturni e per i santuari coptici e per le piene del Nilo e per i misteri di Menfi e per i sistri di Faro. Fa’ che egli possa godere di un po’ di sole, e infondi un po’ di luce nei suoi occhi chiusi in eterno. Noi non vogliamo rifiutarci di restituire alla terra quello che è suo, ma chiediamo soltanto un breve istante di vita per il conforto della vendetta”.

Poi, posta “una certa erbetta” sulla bocca e un’altra sul petto del morto, Zatchlas invoca in silenzio il sole divino verso oriente. Ed ecco “che il petto del morto si solleva gonfiandosi, la vena del polso si mette a battere, il corpo si gonfia per il respiro, il cadavere si solleva e il giovane parla”: lamentando di essere stato ricondotto “agli affanni di una vita temporanea” quando già aveva bevuto l’acqua del Lete e stava passando nelle paludi dello Stige che avrebbero segnato la cesura definitiva. Supplica dunque d’essere lasciato al suo riposo; al che Zatchlas mellifluo gli chiede di riferire in dettaglio, illuminando l’enigma della sua morte – altrimenti, minaccia, potrebbe evocare le Furie a tormentarlo anche nella presente situazione. Certo c’è differenza tra la reviviscenza sinistra posta in atto dalla strega tessala di Lucano e quella circonfusa di preghiera solare attivata dal mago egizio: eppure la soave e spietata costrizione ad opera di quest’ultimo riesce a risultare persino più equivoca. Si è osservato che l’episodio apparentemente inutile di questo santone egizio anticipa

[…] invece gli avvenimenti alla fine del romanzo, quando tutto questo mondo sotterraneo, che ora appare soltanto in questa storia oscura, inquietante e crudele, diventa per Lucio il ponte verso l’iniziazione alla religione egizia. Già ora quindi cominciano a tessersi i fili del destino. Il nome di Zatchlas è stato collegato alla parola Sôlalas che nell’antico Egitto era usata come nome oppure per esprimere il concetto “Thoth è colui che lo conosce”. Secondo altri il nome indica Saclas, un demone collegato con la “sapienza” egizia. [von Franz: 47-48]

Per chi si interroga sulle tracce isiache nel corso del romanzo ecco un elemento d’interesse: e lo stesso centone di riferimenti egizi evocato poco prima dallo zio del morto richiamerebbe, secondo un filone interpretativo, a specifici luoghi e oggetti del culto isiaco. Per contro l’ambiguità del personaggio Zatchlas potrebbe flirtare con la ciarlataneria e la costruzione d’illusioni (un ventriloquo?), non dissimilmente dal caso del collega caldeo in precedenza apparso. Del resto tutta questa storia ci viene raccontata e non vi assistiamo direttamente, per cui Apuleio ci lascia nel dubbio – e sulla questione dovremo tornare.
A quel punto comunque, con un gemito, il morto accusa la giovane moglie di averlo avvelenato liberando il letto al proprio amante; e al clamore che segue – lei che nega tutto spergiurando, i presenti divisi sull’attendibilità delle parole – aggiunge con un altro lamento “qualcosa che nessuno sa”. E indica il povero Telifrone: le streghe, non riuscendo a ingannarlo con trasformazioni “in varie forme” (in realtà conosciamo solo quella in donnola), l’hanno avvolto in una nube di sonno profondo. Poi hanno preso a chiamare il morto per nome, per attrarlo tra le loro grinfie (nel pensiero magico il nome è l’essenza della persona, e chi lo usi in modo adeguato può esercitare su questa, viva o morta che sia, un potere tremendo), così che il corpo freddo stava per obbedire. Peccato che il custode abbia lo stesso nome del defunto, Telifrone, per cui alla fine si è alzato lui che dormiva come un morto, “e camminando come un’ombra, nonostante le porte della camera fossero diligentemente chiuse, attraverso un certo foro prima ebbe il naso tagliato e poi le orecchie, sicché subì al mio posto questa mutilazione”. Le streghe poi gli sostituiscono orecchie e naso mozzati con elementi di cera: e insomma il poveretto guadagna la ricompensa non per il suo impegno professionale ma in funzione di risarcimento.

“Atterrito da queste parole comincio a tastarmi il viso. Mi tocco, prendo il naso: mi rimane in mano; tasto le orecchie: cadono. Tutti mi segnano a dito e mi beffeggiano, scoppiano le risate: io mi sento gelato di sudore freddo e me la svigno tra le gambe della gente.
In seguito, così mutilato e ridicolo, non potei più tornare a casa mia e nella mia patria, e allora con i capelli lunghi giù ai due lati della testa ho nascosto le orecchie tagliate e ho cercato di camuffare la bruttura di questo naso coprendolo con questa striscia di lino”.

Non sappiamo, perché Telifrone non lo dice, cosa accada alla vedova assassina (probabilmente linciata dalla gente) e cosa al cadavere reviviscente (probabilmente riportato al riposo eterno dal mago): con quella fuga di Telifrone il sipario cala sull’episodio come su un sogno al risveglio, e anche in seguito troveremo episodi chiusi in termini altrettanto elusivi.
Un racconto comunque grottesco, e insieme sottilmente inquietante; un racconto fantastico nel senso pieno, dove la forza affabulatoria della soluzione preternaturale è circonfusa d’uno sghembo imbarazzo. La combinazione di fiaba di streghe e finale macabro inatteso richiama la sorpresa macabra della precedente vicenda di Aristomene [un’altra storia streghesca del romanzo], cui questa narrazione ancora una volta incontrollabile offre un ideale contrappunto; anche qui trionfa una dimensione non naturalistica e fortemente onirica; anche qui la vicenda termina con una fuga precipitosa e uno sradicamento del narratore cui è inibito il ritorno – a evocare un mondo di viaggiatori ed esuli senza radici, di Ulissi straniti incapaci di riprendersi dal faccia-a-faccia col sovrannaturale. Se nel primo racconto-sogno Socrate [il protagonista dell’episodio narrato da Aristomene] tenta di sfuggire al Femminile e ne muore, nel secondo Telifrone vi si misura e resta segnato a vita: il doppio bullesco di Lucio – o la sua Ombra, nella lettura di von Franz – gli offre cioè un nuovo avvertimento sulla minaccia che lo attende ove non sia sufficientemente cauto. Ma Lucio, che a sua volta pensa solo alle donne, cioè a Fotide, non sa valorizzare il caveat.
In effetti, nel caso di Telifrone la messa in dubbio della storia non è condotta con un teatrino dialettico come nell’altro episodio (il narratore, l’incredulo e l’ascoltatore), non ve n’è più bisogno, tuttavia lo spazio per dubitare resta. E non tanto per dettagli strani ma radicati nel folklore come il misterioso foro da cui avviene la mutilazione (attraverso pertugi di vario tipo passano o operano da sempre creature sovrannaturali, come i vampiri che filtrano fuori dalle bare); o per l’irriconoscibile sostituzione in cera di parti del viso, che restano al loro posto persino con la saccagnata di botte da parte dei servi (e si staccano solo dopo il racconto del morto, che sembra “disattivare” il relativo incantesimo). Più curioso è senz’altro il fatto che il morto menzioni esplicitamente di aver “bevuto l’acqua del Lete”, quella cioè per dimenticare la vita terrena: è vero che poi sembra rivelare dettagli univoci su quanto è accaduto, ma il particolare pare inserito per rendere la testimonianza inaffidabile e insomma lascia un po’ perplessi. Del resto, mutilazioni di naso e orecchie sono state nel tempo inflitte come sanzioni per reati o colpe di vario genere: fino a che punto possiamo dunque fidarci della versione di Telifrone che ascrive quei connotati a un evento sovrannaturale? E l’ambiguità è suggellata dalle stesse risate che alla fine del racconto esplodono tra i convitati brilli, quasi a specchio di quelle echeggiate tra la folla di Larissa dopo il prodigio – tanto più che gli eventi burleschi che seguiranno al racconto getteranno a posteriori sul tutto una luce strana.
D’altra parte quella di Telifrone è definita fabula: un termine utilizzato all’inizio dell’episodio, nella richiesta rivoltagli da Birrena, e alla fine del medesimo, dalla voce narrante. Lo stesso termine, si noti, che nel solo libro primo è tornato dodici volte, oltretutto all’apertura (nel preambolo dell’opera dove si annunciava di voler raccontare “varias fabulas”) e poi alla chiusura del libro; un termine che “si impone all’attenzione del lettore e non permette di dimenticare che tra i suoi significati possono convergere quello di finzione e quello di aspetto teatrale” [Gianotti: 20]. La sensazione è insomma di spiazzamento, nel continuo gioco di sorprese/metamorfosi in cui Apuleio gode a far smarrire i suoi lettori.

 

Gianotti: Gian Franco Gianotti, Spettacoli e spettatori in Petronio e in Apuleio: spunti teatrali nella narrativa latina, Acc. Sc. Torino, Quad. 18 (2009), I Mercoledì dell’Accademia, XIV, 2009, Accademia delle Scienze, Torino 2010;

Nicolini: Lara Nicolini, Introduzione a: Apuleio, Le metamorfosi o L’asino d’oro, BUR, Milano 2005;

Von Franz: Marie-Louise von Franz, Die Erlösung des Weiblichen im Manne. Der goldene Esel von Apuleius in tiefenpsychologischer Sicht, Insel, Frankfurt 1980; L’asino d’oro, Bollati Boringhieri, Torino 1985.

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LIBRO NONO, paragrafi 1-14

I  Così quell'infame carnefice armava contro di me l'empia sua mano. Ma di fronte a un pericolo simile che non ammetteva esitazioni, senza star lì a pensarci due volte, decisi di sfuggire al macello dandomi alla fuga e, spezzata con uno strattone la fune cui ero legato, sparando calci e sgroppando per aprirmi un varco verso la salvezza, schizzai via con tutta la velocità delle mie gambe. Attraversato come un fulmine il portico, piombai nella sala dove il padrone stava celebrando il banchetto rituale insieme con i sacerdoti della dea e nel mio slancio fracassai tutto, buttai all'aria stoviglie, lampade, la stessa mensa già bell'e imbandita. A tutto quel disastro il padrone agitatissimo, gridò a un servo di mettermi al sicuro in modo che non potessi più turbare la serenità del banchetto, dal momento che mi ero rivelato una bestia così bizzarra e insolente. Ma intanto io con la mia furba pensata l'avevo fatta franca, ero sfuggito alle mani di quel macellaio e anzi ero tutto contento di finire al chiuso sotto custodia perché questo significava la mia salvezza. Ma è inutile, non c'è niente che vada per il verso giusto a chi è nato sotto cattiva stella, e non c'è saggia decisione, non c'è accorgimento per quanto geniale che possa mutare o spostare d'un filino i disegni della provvidenza divina. Tant'è vero che quella stessa trovata che al momento sembrava avermi ridato la vita, proprio quella, mi cacciò in un nuovo pericolo, anzi addirittura in un guaio ancora più grave, a tu per tu con la morte. 

II Infatti, all'improvviso, mentre i commensali se ne stavano pacifici a chiacchierare, si precipitò in sala un ragazzetto con la faccia terrea dallo spavento e annunciò al suo padrone che, pochi momenti prima, da un vicolo vicino, una cagna rabbiosa, tutt'a un tratto, era entrata in casa, come una furia, per la porta di servizio, e s'era prima avventata contro i cani da caccia, poi aveva preso la via della stalla e qui, con la stessa ferocia, aveva assalito parecchi giumenti e, per ultimo, non aveva risparmiato nemmeno gli uomini Mirtilo il mulattiere, il cuoco Efestione, il cameriere Ipatafio, il medico Apollonio e molti altri schiavi, che avevano tentato di scacciarla, s'eran beccati infatti anche loro diverse zannate e molte bestie, si vede contagiate da quei morsi avvelenati, davan segni d'aver presa anch'essi la rabbia. Il fatto spaventò moltissimo tutti, i quali subito arguirono dalle mie bizze di prima che anch'io fossi stato colto dal contagio e così afferrarono ogni sorta di armi ed incoraggiandosi l'un con l'altro ad allontanare il comune pericolo, si misero a corrermi dietro, quando erano proprio loro che sembravano sconvolti dal contagio della pazzia. Con tutte quelle lance, quegli spiedi e quelle scuri finanche, di cui i servi premurosamente li avevano riforniti, mi avrebbero senza dubbio ucciso se, resomi conto della tempesta che mi s'era scaricata addosso, io non mi fossi rifugiato nella camera dove erano stati ospitati i miei padroni. Quelli allora chiusero e sprangarono la porta alle mie spalle e si posero di guardia, tranquillamente aspettando, senza alcun pericolo di contagio per loro, che quel mortale, inesorabile male che mi s'era attaccato addosso; lentamente mi consumasse e m'uccidesse. Così fu ch'io riacquistai la libertà e cogliendo l'occasione propizia d'esser rimasto finalmente solo, mi buttai lungo sul letto già sprimacciato e dopo tanto tempo potetti dormire come un uomo. 

III Mi svegliai ch'era giorno fatto ben riposato della stanchezza grazie a quel morbido letto e rimesso completamente in forze. Tesi le orecchie e sentii che quelli che avevan vegliato a turno tutta la notte per farmi la guardia stavano parlando di me: «Chissà se quel povero asino è ancora in preda ai suoi furori?» «Io credo invece che il veleno giunto al massimo della violenza l'ha già ammazzato.» Finalmente per troncarla con tutte quelle ipotesi decisero di dare una sbirciatina all'interno e così, da una fessura, videro che io ero sano e salvo e che me ne stavo lì pacifico. Allora spalancarono la porta per meglio assicurarsi ch'io mi fossi veramente ammansito e uno di loro, inviato certamente dal cielo in mio soccorso, suggerì agli altri: «Facciamo questa prova, se vogliamo sapere sicuramente come sta: mettiamogli davanti un recipiente colmo d'acqua fresca; se beve tranquillamente come al solito vuol dire che è guarito e non ha più niente, se invece la rifiuta, se se ne allontana e ne ha ripugnanza, allora sicuramente ha ancora la rabbia e di quelle maligne. Questa,» aggiunse; «è la prova che si è soliti fare, riportata anche nei libri degli antichi.» 

IV L'idea piacque e, così, corsero subito a riempire a una fontana lì vicino una gran tinozza d'acqua fresca e non senza una certa diffidenza me la misero davanti. Io, con tutta quella sete che avevo, senza esitare, mi feci sotto e immergendovi tutto il capo bevvi quell'acqua veramente ristoratrice. Poi cominciarono a darmi delle pacche, a piegarmi le orecchie, a tirarmi per la cavezza, insomma a sottopormi a non so che altre prove che io sopportai docilmente finché convinsi tutti, a dispetto delle loro sciocche supposizioni, che effettivamente ero mansueto. Così fu che io scampai a un doppio pericolo. Il giorno dopo, di nuovo col mio sacro carico sulla schiena, fui risospinto per le strade a far l'accattone ambulante al suono dei crotali e dei cembali. Dopo aver toccati parecchi cascinali e villaggi ci fermammo a un paese venuto su fra le rovine di una città un tempo ricca, come ci dissero i suoi abitanti, e nella locanda dove prendemmo alloggio, ci fu riferita la storiella spassosa di un povero gramo fatto cornuto che ora voglio raccontare anche a voi. 

V Dunque, quest'uomo che lavorava da fabbro faceva la miseria nera e, con quel che guadagnava, appena appena riusciva a vivere. Anche sua moglie, come lui, non aveva il becco d'un quattrino ma, in compenso, era libidinosa al massimo, e tutti lo sapevano. Un giorno, di buon'ora, appena il marito se ne uscì per andare al lavoro, subito un amante, con estrema sfacciataggine, s'infilò in casa. Ma ecco che mentre i due s'azzuffavano alla bell'e meglio sul letto, l'ignaro marito, senza sospettare di nulla, tornò sui suoi passi e, trovando la porta chiusa e sprangata, fra sé compiacendosi dell'onestà della moglie, picchiò all'uscio e le dette anche un fischio per farsi riconoscere. La moglie, furba e pratica in imbrogli di questo genere, si staccò dall'uomo che teneva stretto fra le braccia e, come se niente fosse, lo nascose in una botte vuota, seminterrata in un angolo; poi, aperta la porta, aggredì il marito che ancora nemmeno era entrato: «Ah, è così? Ora mi vai anche a spasso, con le mani in tasca, come uno sfaccendato, buono a nulla. Perché non sei andato a lavorare? Alla famiglia non ci pensi, no? Cos'è che mangeremo oggi? E io, disgraziata, che me ne sto notte e giorno a rompermi le braccia filando lana perché in questa stanzetta almeno ci sia accesa la lampada. Guarda Dafne, quella qui vicino invece, com'è più fortunata di me: mangia e beve da prima mattina e si rivoltola ora con uno ora con un altro.» 

VI E il marito, dopo una simile strapazzata: «Ma che ti prende?» le fece. «Il padrone aveva una causa in tribunale e ci ha fatto far festa. Però io ci ho pensato lo stesso alla nostra cenetta. La vedi quella botte?: sempre vuota, occupa tanto spazio per nulla, anzi sempre lì tra i piedi è più un impiccio che altro in casa. Ebbene, l'ho venduta a un tale per sei denari; tra poco sarà qui con i quattrini e se la porterà via. Perciò dammi una mano a tirarla fuori, così gliela consegneremo subito.» La moglie, pronta anche in una situazione come questa, scoppiò in una risata insolente e: «Ma che gran d'uomo che è mio marito; ha proprio il bernoccolo degli affari: mi va a vendere a un prezzo inferiore della roba che io, povera donna, sempre chiusa in casa, ho già venduto per sette denari.» «E chi te l'ha comprata a così tanto?» fece lui tutto contento di quell'aumento di prezzo. E lei: «Ah scemo! È già da un po' ch'è lì dentro, per vedere se è sana!» 

VII Dal canto suo l'amante non fu da meno della donna e, spuntando fuori: «Vuoi sapere la verità, buona donna?» le fece. «Questa tua botte è troppo vecchia e sgangherata. Ha certe crepe che paion fessure,» e rivolgendosi come se nulla fosse al marito: «E tu buon uomo, chiunque sia, fammi il favore di darmi una lanterna; voglio toglierci tutto lo sporco per vedere se può ancora servire. Non crederai mica che io li vada a rubare i miei soldi!» E quell'intelligentone, quella perla rara di marito, tutto premuroso senza sospettare di nulla, acceso il lume: «Tirati su di lì, amico mio, e stattene quieto e comodo. Ci penserò io a farlo e te la mostrerò quand'è pulita.» E così dicendo, toltisi gli abiti, si calò dentro con il lume e cominciò a raschiare tutta la gromma che con il tempo s'era formata in quella vecchia giara. Dal canto suo l'amante, un pezzo di ragazzo, si lavorava di gusto, dal di dietro, la moglie del fabbro che se ne stava appoggiata e curva sulla giara e che anzi, da vera puttana, sporgendo il capo all'interno, si prendeva gioco del marito dicendogli: «Pulisci qui, c'è ancora sporco lì, e qua e là,» finché portato a termine ciascuno il suo lavoro, e avuti i suoi sette denari, quel disgraziato fabbro fu costretto a caricarsi in spalla la giara e a portarla fino a casa del suo rivale. 

VIII Quei veneratissimi sacerdoti si trattennero lì un po' di giorni e benché fossero ingrassati generosamente dalla pubblica munificenza e ricavassero lauti proventi con le loro profezie, ti escogitarono un nuovo sistema per far quattrini. Inventarono un unico responso che andava bene per un gran numero di casi e così riuscirono a gabbare un sacco di gente che li consultava sulle questioni più svariate. Il responso diceva così:

Perché liete domani germoglino le messi
arano i buoi la terra al giogo sottomessi.

Così, se uno, per caso, voleva combinare un matrimonio e veniva a chiedere il loro responso, quelli dicevano che l'oracolo era chiarissimo: occorreva mettersi sotto il giogo del matrimonio per avere una messe di figlioli; se veniva un tizio che voleva comprare un terreno, i buoi, il giogo, i campi seminati e le messi verdeggianti cadevano proprio a proposito; se poi un altro, preoccupato per un viaggio, veniva a chiedere il parere della dea, ecco che gli si indicavano i buoi, già belli e pronti e aggiogati, i più mansueti fra tutti gli animali, mentre le messi stavano a significare che avrebbe fatto ottimi affari; se infine un tale doveva partire per la guerra o inseguire una banda di briganti e veniva a chiedere se l'impresa si sarebbe favorevolmente conclusa, affermavano che il responso garantiva la vittoria in quanto i nemici avrebbero chinata la testa sotto il giogo e dal saccheggio si sarebbe ricavato un bottino ricco e abbondante. Così, con questo sistema truffaldino della profezia, quelli riuscirono a intascare non pochi quattrini. 

IX Ma con tutte quelle continue richieste, a un certo punto, non seppero più trovare argomenti validi e allora, di nuovo, dovettero rimettersi in viaggio, per una strada, però, la peggiore di quante ne avevamo per corse di notte. Certo! tutta buche e crepacci, in certi punti sommersa dall'acqua stagnante, in altri sdrucciolevole per la fanghiglia. Finalmente con le zampe tutte contuse per le continue inciampate e i numerosi scivoloni, stanco morto, riuscii a raggiungere un sentiero di campagna. Ma ecco che, improvvisamente, ci piombò alle spalle una schiera di cavalieri armati che, trattenendo a stento la foga dei loro cavalli, si gettarono su Filebo e soci e afferratili per la collottola, cominciarono a chiamarli spudorati e sacrileghi, prendendoli di quando in quando a pugni e a calci. Alla fine li ammanettarono tutti pretendendo che tirassero fuori una coppa d'oro, il frutto del loro misfatto, dicevano, che avevano rubata proprio dall'altare della madre degli dei, quando avevano finto di celebrare in segreto un rito solenne, per poi svignarsela dalla città alla chetichella che ancora non era giorno, sperando così di farla franca, come se fosse possibile dopo un simile sacrilegio. 

X Uno mi mise le mani addosso e frugando ben bene nella veste della stessa dea, tirò fuori, davanti a tutti, la coppa d'oro. Ma nemmeno dinanzi all'evidenza della loro empietà quegli svergognati si intimorirono o provaron vergogna, anzi con un risolino di circostanza se ne uscirono con una battuta: «Ma guardate che infamia! Succede sempre così: a rimetterci sono le persone per bene. Per un piccolo calice che la madre degli dei ha offerto a sua sorella Siria come dono d'ospitalità, ecco che si trattano i ministri del culto come dei malfattori e li si accusa di delitto capitale!» Ma inutilmente essi continuarono a ripetere panzane di questo genere: gli abitanti del paese se li trascinarono dietro, e, ben legati, li gettarono in carcere. Poi riconsacrarono la coppa e anche la statua che trasportavo e le restituirono al tesoro del tempio; il giorno dopo mi presero e mi portarono al mercato dove mi vendettero all'asta. Mi comperò il mugnaio del vicino villaggio, pagando sette sesterzi in più di quelli che aveva sborsati Filebo e poiché aveva acquistato anche del grano, quello subito mi caricò a dovere e per una strada tutta sassi e sterpi mi spinse fino al suo mulino. 

XI Lì c'erano molti animali da tiro che, girando sempre torno torno, muovevano delle macine di varia grandezza. E non soltanto di giorno ma anche di notte, ininterrottamente, facevano girare quegli ordigni e la loro veglia produceva farina. A me, però, il nuovo padrone, per non farmi spaventare, subito, all'inizio, di quel genere di lavoro, generosamente mi dette un comodo giaciglio e, anzi, per quel primo giorno, mi fece far vacanza lasciandomi davanti a una mangiatoia stracolma. Ma l'ozio beato e le belle mangiate non durarono a lungo perché il giorno dopo, di prima mattina, m'attaccò a una macina che mi parve enorme e, bendatimi gli occhi, mi spinse lungo un solco circolare in modo che io, camminando sempre dentro quel cerchio, fossi obbligato a passare e a ripassare sui miei stessi passi e a rifare continuamente lo stesso giro. Ma io che non avevo ancora perduto la mia furbizia la mia perspicacia, non mi assoggettai tanto facilmente a un servizio di quel genere e, benché avessi già veduto altre volte girare simili arnesi quand'ero uomo, me ne rimasi lì fermo immobile fingendo di essere confuso e di non saperne nulla di quel lavoro. Credevo, infatti, che mostrandomi incapace o non adatto a quel mestiere, sarei stato impiegato per qualche lavoro più leggero o meglio ancora sarei rimasto lì senza far niente, a mangiare a sbafo. Idea sprecata, anzi a mio svantaggio quando la misi in pratica, perché subito mi piombarono addosso in parecchi, armati di bastoni, e mentre me ne stavo lì fiducioso, con gli occhi bendati, a un segnale convenuto e cacciando un urlo tutti insieme, mi dettero tante di quelle legnate da spaventarmi al punto che io, lasciati perdere tutti i miei calcoli, mi misi a tirare la corda di sparto e a fare molto opportunamente e alla svelta i miei bravi giri. Questo mio repentino ravvedimento fece ridere tutta la compagnia. 

XII Era trascorsa quasi l'intera giornata ed io ero stanco morto quando quelli mi staccarono dalla macchina e mi legarono alla mangiatoia. Ma benché fossi sfinito e affamato, benché avessi proprio estremo bisogno di mangiare per ritemprare le forze, preso dalla mia solita curiosità che mi rendeva addirittura ansioso, lasciai perdere il cibo, a dir la verità abbondante, e mi misi a osservare con interesse come funzionava quell'odiosa baracca. Santo cielo! Com'eran ridotti lì dentro quegli uomini: avevano la pelle tutta a chiazze livide, le spalle piagate e, sopra, soltanto l'ombra di un cencio che non le copriva neppure; anzi alcuni avevano un pezzo di straccio soltanto all'inguine; insomma tutti, per quei poveri panni che portavano, era come se fossero nudi. Avevano un marchio inciso sulla fronte, i capelli rasati e anelli ai piedi, erano sfigurati dal pallore e con le palpebre bruciate dal nerofumo e dal denso vapore che li aveva resi quasi ciechi; come i pugili che quando combattono si spargono il corpo di sabbia fine, così quelli erano tutti bianchi e sporchi di polvere di farina. 

XIII E che dire poi degli animali, dei miei compagni? Che muli decrepiti e che ronzini cadenti! Eran tutti là con il muso affondato nella mangiatoia a masticare montagne di paglia, il collo pieno di piaghe infette, le narici cascanti e fiaccate da incessanti colpi di tosse, il petto ulcerato per il continuo sfregare della corda di sparto, le costole messe a nudo dalle numerose bastonature, gli zoccoli larghi e piatti per l'ininterrotto girare, la pelle, infine, rinsecchita e coperta di croste. Allo spettacolo pietoso di quei miei compagni temetti anche per me e ripensando alla fortuna di quand'ero Lucio, ora che mi vedevo precipitato nel fondo della sventura, chinai il capo e piansi. Nessun conforto in questa vita di tormenti se non quello di poter soddisfare la mia innata curiosità dal momento che, non dando alcun peso alla mia presenza, ognuno parlava e agiva liberamente. Aveva, infatti, ragione il divino creatore dell'antica poesia greca quando volendo descrivere un uomo di somma saggezza cantò che costui aveva acquistato tutte le virtù visitando città e conoscendo i costumi di molte genti. 

XIV Anch'io, del resto, conservo un ricordo riconoscente dell'asino che fui perché, nascosto sotto quelle spoglie, affrontai le situazioni più diverse e, se non più saggio, divenni almeno esperto delle cose del mondo. Ma via, ora ho deciso di raccontarvi una storiella proprio graziosa, la più simpatica e divertente di tutte.

 

 

 

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