SOGNI NEL PURGATORIO (IX, XVIII, XXVII) (con quattro audio)

AUDIO 1

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AUDIO 2

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AUDIO 3

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Audio 4

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 Questo terzo percorso si differenzia dai precedenti, in quanto prende in esame solo una cantica attraverso tre canti. Assicuro così, per cominciare, la permanenza della simbologia triadica alla quale mi attengo in questi nostri voli. Quanto al filo  conduttore, è talmente pregno di riferimenti, interni e esterni al testo, da assicurare di per sé una ricca ramificazione in svariate direzioni. Si tratta infatti del sogno, in greco ὄναρ o ὄνειρος (da cui il nostro onirico), quell’ancor oggi misteriosa attività cerebrale che, nemmeno con il supporto di sofisticati apparecchi di risonanza magnetica funzionale, si riesce a decifrare con esiti che portino a qualcosa di più che stabilire quanto i sogni siano essenziali per un corretto funzionamento della  nostra psiche e per l’igiene mentale. Partiamo da una serie di precisazioni che valgano a delineare la reale cronologia del viaggio: esso si compie nell’arco di sette giorni e mezzo, durante il periodo pasquale dell’anno giubilare 1300. Più precisamente, smarritosi nella selva oscura durante la notte del giovedì, Dante inizia il cammino nell’inferno con Virgilio al mattino del venerdì e lo prosegue sino al mattino successivo, sabato, quando riemergendo nell’emisfero australe dopo il passaggio nella natural burella guadagna quindi circa 12 ore; il passaggio attraverso il purgatorio, ovvero la salita fino al giardino dell’eden, dura tre giorni e tre notti, fino a mercoledì mattina, mentre il passaggio in paradiso si protrae all’incirca per un giorno e mezzo, fino a giovedì sera. La necessità di dormire (e dunque la possibilità di sognare) si presenta solo in purgatorio, il regno che ha caratteristiche terrene, in cui le giornate sono scandite dal sorgere e tramontare del sole, al quale fenomeno astronomico si connette un senso morale: quando il sole tramonta non è possibile muoversi (per le anime) in purgatorio, dal momento che la stella rappresenta la grazia divina, senza la quale nessun atto di pentimento e contrizione è possibile. Quando passa in purgatorio, dunque, l’agens è soggetto non solo alla legge fisica che impone al corpo di concedersi la pausa del sonno, ma anche a quella morale di non procedere senza la luce della grazia divina. Dopo questa necessaria spiegazione, che inerisce quindi alla dimensione del realismo dantesco, possiamo procedere invece nella direzione visionaria alla quale il sogno di per sé predispone, peraltro all’interno di una cornice  predisposta a essere intesa come un possibile sogno: non indugio sull’argomento, ma noto solo di passaggio che Dante, nel IX canto che ora leggeremo, racconta forse di aver sognato mentre sognava.

La concubina di Titone antico

già s’imbiancava al balco d’orïente,

fuor de le braccia del suo dolce amico;

di gemme la sua fronte era lucente,

poste in figura del freddo animale

che con la coda percuote la gente;

e la notte, de’ passi con che sale,

fatti avea due nel loco ov’eravamo,

e ’l terzo già chinava in giuso l’ale;

quand’io, che meco avea di quel d’Adamo,

vinto dal sonno, in su l’erba inchinai

là ’ve già tutti e cinque sedavamo.

Ne l’ora che comincia i tristi lai

la rondinella presso a la mattina,

forse a memoria de’ suo’ primi guai,

e che la mente nostra, peregrina

più da la carne e men da’ pensier presa,

a le sue visïon quasi è divina,

in sogno mi parea veder sospesa

un’aguglia nel ciel con penne d’oro,

con l’ali aperte e a calare intesa;

ed esser mi parea là dove fuoro

abbandonati i suoi da Ganimede,

quando fu ratto al sommo consistoro.

Fra me pensava: ’Forse questa fiede

pur qui per uso, e forse d’altro loco

disdegna di portarne suso in piede’.

Poi mi parea che, poi rotata un poco,

terribil come folgor discendesse,

e me rapisse suso infino al foco.

Ivi parea che ella e io ardesse;

e sì lo ’ncendio imaginato cosse,

che convenne che ’l sonno si rompesse.

Non altrimenti Achille si riscosse,

li occhi svegliati rivolgendo in giro

e non sappiendo là dove si fosse,

quando la madre da Chirón a Schiro

trafuggò lui dormendo in le sue braccia,

là onde poi li Greci il dipartiro;

che mi scoss’io, sì come da la faccia

mi fuggì ’l sonno, e diventa’ ismorto,

come fa l’uom che, spaventato, agghiaccia.

Dallato m’era solo il mio conforto,

e ’l sole er’alto già più che due ore,

e ’l viso m’era a la marina torto.

"Non aver tema", disse il mio segnore;

"fatti sicur, ché noi semo a buon punto;

non stringer, ma rallarga ogne vigore.

Tu se’ omai al purgatorio giunto:

vedi là il balzo che ’l chiude dintorno;

vedi l’entrata là ’ve par digiunto.

Dianzi, ne l’alba che procede al giorno,

quando l’anima tua dentro dormia,

sovra li fiori ond’è là giù addorno

venne una donna, e disse: "I’ son Lucia;

lasciatemi pigliar costui che dorme;

sì l’agevolerò per la sua via".

Sordel rimase e l’altre genti forme;

ella ti tolse, e come ’l dì fu chiaro,

sen venne suso; e io per le sue orme.

Qui ti posò, ma pria mi dimostraro

li occhi suoi belli quella intrata aperta;

poi ella e ’l sonno ad una se n’andaro".

Il poeta si avvale per cominciare di un’immagine mitica, evocando la coppia Aurora-Titone (la prima si scordò di chiedere per l’amato mortale, principe troiano,  oltre all’immortalità l’eterna giovinezza, causandone l’eterno invecchiamento) per dire che nell’emisfero boreale, dove risiede l’auctor e dove risediamo noi, l’aurora sta sbiancando,  mentre in purgatorio, dove si trova l’agens, sono le otto e tre quarti di sera e questi, colto dal sonno, com’è naturale per uno che si porti il corpo nell’aldilà,  si addormenta sul prato dove si trovava ancora con Virgilio, Sordello, Corrado Malaspina e Nino Visconti. Un’altra evocazione mitica, quella della favola (anche ovidiana) di Progne, moglie infanticida di Tereo trasformata in rondine, veicola il tema del sogno divinatorio (quello appunto ripreso, come vedremo, nel XVIII e XXVII canto del Purgatorio), secondo gli antichi quello che si fa in prossimità dell’alba, ovvero poco prima del risveglio,  durante il quale a Dante sembra di veder sospesa in aria un’aquila dalle penne d’oro, e di avere l’impressione di  trovarsi  nel medesimo luogo in cui si trovò Ganimede (altro principe troiano) dopo esser stato rapito per la sua bellezza da Giove; l’aquila quindi discende su di lui e lo rapisce fino alla sfera del fuoco, dove entrambi  s’incendiano. Il calore sveglia Dante, che si sente come Achille  quando si ritrovò nell’isola di Sciro per essere stato trafugato durante il sonno dalla madre Teti al centauro Chirone (poi i greci lo ritroveranno lì e lo porteranno con sé): spaesato e spaventato. Accanto a lui è rimasto solo Virgilio, gli altri son scomparsi, e il sole è già alto. Virgilio lo rassicura: ormai sono arrivati in purgatorio, l’entrata è finalmente visibile. Racconta che all’alba, mentre Dante dormiva sul prato, è arrivata una donna, che ha dichiarato di essere Lucia e di aver ricevuto l’incarico di portarlo fino al luogo in cui ora sono, per agevolargli il cammino. Virgilio non ha fatto che seguirla. Prima di andare via ha mostrato la porta, poi se n’è andata e Dante si è svegliato. Dunque abbiamo appena letto la trascrizione di  un sogno, e pure la sua interpretazione, e allora è il momento giusto per divagare un po’. Riprendendo, ad esempio, la suggestione shakespeariana, ma anche di Calderòn de la Barca,  del tessuto di cui sono fatti i sogni, cangiante e sfuggente alla presa quant’altri mai. I sogni, a volerli almeno un po’ catalogare, vanno da quelli ispirati a materia del passato, a quelli totalmente irrelati (almeno in apparenza) dalle proprie esperienze, a quelli che preconizzano il futuro. Si può persino sognare di sognare e contemporaneamente,  come suggerisce qui Dante, si può sognare quello che sta accadendo, ovviamente trasfigurato o espresso con regole sintattiche diverse da quelle che valgono nella realtà, con regole che si rifanno alla sintassi dei sogni. Virgilio svolge, nei versi appena letti, nei confronti del sogno del pellegrino, il ruolo di un analista prefreudiano, capace di decifrare senza margini d’errore il sogno del proprio assistito. L’agens, che  si trova di fronte all’ostacolo insormontabile della montagna, così impervia da negarsi  agli argomenti umani, necessita di aiuti angelici o divini, e pertanto il suo sogno, come ci si attende da un poeta,  veste miticamente l’aiuto donatogli dal cielo: l’aquila dorata è Giove e Dante è Ganimede, eletto fra gli dei per meriti riconosciuti (la bellezza, nel caso del principe troiano, le virtù cardinali e teologali nel caso del pellegrino). Nella realtà (se così la si può definire) l’aquila è l’aiuto provvidenziale di Lucia che, grazia illuminante, porta il pellegrino fino alla porta del purgatorio e, per assicurarsi che non vengano commessi errori, o meglio, per fornire un salvacondotto di cui in effetti Virgilio si serve coll’austero angelo portinaio, la indica con gli occhi luminosi. Questo primo sogno, insomma, dà conto di quello che ancor oggi la neuropsichiatria s’ingegna a studiare: come e perché avvenga, non sempre, non per tutti, il passaggio da un piano di realtà a uno onirico, se per via di stimolazioni ambientali determinate, o del tutto autonomamente a quel livello che, utilizzando il termine psichico, si cerca di determinare riconducendolo alla matrice che la parola rivela, il greco ψυχή che significa anima.

***

Il seguito del canto è dedicato a un evento che mi limito a riassumere, per non perdere il filo conduttore del nostro discorso: il superamento del varco purgatoriale, che si è fatto attendere dato che la permanenza in antipurgatorio è resa prolungata dalla necessità di creare nell’anima una condizione adeguata a iniziare il vero e proprio cammino espiatorio. Quest’ultimo è simbolicamente raffigurato in questo canto dai tre gradini d’accesso alla porta del purgatorio: sono tre scalini di diverso colore,  presidiati da un silenzioso angelo portinaio, il cui volto promana una luce che lo rende impossibile da guardare a Dante. Egli ha spada in mano e anche da essa proviene  una luce insopportabile. Il portinaio li interpella: cosa vogliono e dov’è l’autorizzazione? Il tono è quasi minaccioso, quando aggiunge che potrebbero essere danneggiati dalla loro venuta. Virgilio risponde subito evocando la donna del cielo che ha appena indicato loro la porta. Il portinaio allora li esorta a procedere. Il primo gradino è d’un bianco che riflette l’immagine, il secondo è nero più che rosso sangue e contiene varie screpolature, il terzo è rosso sangue. Su quest’ultimo poggia i piedi l’angelo portinaio, davanti alla soglia che sembra fatta di diamante. Su indicazione di Virgilio, Dante si prostra ai piedi dell’angelo e si batte il petto in segno di contrizione per tre volte. L’angelo gli incide sulla fronte sette P e lo esorta a sanare queste piaghe durante il passaggio in purgatorio. Dante nota il suo abbigliamento: indossa un abito color della cenere, da sotto il quale tira fuori due chiavi, una d’oro e l’altra d’argento, aprendo la porta prima con la seconda e poi con la prima, precisando che, se una delle due non funziona la porta non si apre, e che una delle due è più preziosa, ma l’altra difficile da usare, poiché richiede particolare ingegno per esser fatta funzionare, ed è lei che sblocca il congegno della porta. Pietro stesso gliele ha consegnate, suggerendogli di esser comunque più disposto ad aprire la porta che a tenerla chiusa, purché le anime si prostrino ai suoi piedi. Infine apre l’uscio e fa un’ultima raccomandazione: che non si guardino alle spalle, una volta entrati. All’apertura si ode un suono, verso il quale l'agens tende l’orecchio, e gli pare di intendere l’inno ambrosiano in ringraziamento e lode di Dio intitolato Te Deum laudamus. L’ingresso in purgatorio è quindi sottolineato da una musica, che Dante dice simile a quella di un canto accompagnato da organo. Veniamo ora ai significati simbolici di cui Dante riempie profusamente il testo. Il primo  gradino rappresenta la contritio cordis, la contrizione che rende la coscienza netta e limpida, disposta alla confessione; il secondo la confessio oris, l’esteriorizzazione attraverso le parole del processo interiormente avvenuto: un’operazione che procura dolore, che evoca il nero del sangue venoso; il terzo la satisfactio operis, che coincide con la penitenza, alla quale si procede come ultimo pegno da pagare per l’avvenuto pentimento, del rosso del sangue vivo che zampilla nelle arterie. L’abito dell’angelo guardiano è color cenere,  evoca l’umiltà, essenziale in un processo di pentimento; la porta del purgatorio sembra fatta di diamante, evocativo della solidità ed inalterabilità dei progetti di Dio sull’uomo, senza  i quali quest’ultimo non potrebbe nulla. Le chiavi con le quali si apre la porta alludono alla doppia prerogativa che la Chiesa conferisce ai confessori: la potestas ligandi atque solvendi, ossia la facoltà discrezionale di assolvere dai peccati, è assegnata a quella d’oro, più preziosa; invece  la scientia discernendi, la dottrina e l’intelligenza psicologica necessarie al confessore per sciogliere i drammi della coscienza dei penitenti e riconoscere il vero pentimento, risalgono a quella d’argento, essenziale perché la porta si apra. Infine il monito dell’angelo a non voltarsi indietro è evocativo di due luoghi testuali, l’uno pagano e l’altro cristiano. Il primo è l’episodio, riportato anche da Virgilio nelle Georgiche, di Orfeo ed Euridice, l’altro è la biblica vicenda della moglie di Lot trasformata in una statua di sale per essersi voltata a vedere cosa stesse succedendo alle città di Sodoma e Gomorra dalle quali erano appena stati lasciati fuggire prima della punizione divina. Il senso è scoperto: una volta intrapresa la strada della salvezza, sarebbe peccato  mortale lasciarsi nuovamente tentare.

***

Tra il IX e il XVIII canto, accomunati dal tema del sogno, accadono molti eventi, di cui offro una minima campionatura. Subito dopo l’ingresso nel purgatorio vero e proprio, l’agens deve abituarsi a una sorta di nuovo linguaggio metafisico: Dio si manifesta attraverso sculture viventi (il canto X, dedicato alla cornice dei superbi, scolpita con arte così sopraffina che non pur Policleto, ma la natura lì avrebbe scorno, si legge ai versi 32-33), voci nell’aria che lanciano ammonimenti (canto XIII, seconda cornice che ospita gli invidiosi), ma prevede anche forme di espiazione che rammentano quelle infernali, sempre traducibili secondo il contrappasso (i superbi sono schiacciati a terra da enormi massi, gli invidiosi hanno le palpebre cucite, mentre nel canto XV, nella terza cornice destinata agli iracondi, si soffoca nei fumi dell’ira, e nel canto XVIII, cornice degli accidiosi, questi ultimi sono costretti a correre senza fermarsi mai, spronati come mai riuscirono a essere nella vita alla ricerca del bene. Il tema del sogno viene introdotto, per simmetria pure sempre connessa al simbolismo triadico, ancor più pregnante nella sua versione al quadrato che qui si manifesta, proprio alla fine del XVIII, ma il sogno vero e proprio è al principio del XIX che si manifesta e viene poeticamente dipinto.

Mancano ancora tre cornici all’approdo in paradiso terrestre (quelle degli avari, dei golosi e dei lussuriosi, gli ultimi e minori vizi capitali con cui era invece iniziata la discesa nei gironi infernali), e siamo alla seconda necessità di dormire (e sognare) per Dante.

Ne l’ora che non può ’l calor dïurno

intepidar più ’l freddo de la luna,

vinto da terra, e talor da Saturno

- quando i geomanti lor Maggior Fortuna

veggiono in orïente, innanzi a l’alba,

surger per via che poco le sta bruna -,

mi venne in sogno una femmina balba,

ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta,

con le man monche, e di colore scialba.

Io la mirava; e come ’l sol conforta

le fredde membra che la notte aggrava,

così lo sguardo mio le facea scorta

la lingua, e poscia tutta la drizzava

in poco d’ora, e lo smarrito volto,

com’amor vuol, così le colorava.

Poi ch’ell’avea ’l parlar così disciolto,

cominciava a cantar sì, che con pena

da lei avrei mio intento rivolto.

"Io son", cantava, "io son dolce serena,

che ’ marinari in mezzo mar dismago;

tanto son di piacere a sentir piena!

Io volsi Ulisse del suo cammin vago

al canto mio; e qual meco s’ausa,

rado sen parte; sì tutto l’appago!".

Ancor non era sua bocca richiusa,

quand’una donna apparve santa e presta

lunghesso me per far colei confusa.

"O Virgilio, Virgilio, chi è questa?",

fieramente dicea; ed el venìa

con li occhi fitti pur in quella onesta.

L’altra prendea, e dinanzi l’apria

fendendo i drappi, e mostravami ’l ventre;

quel mi svegliò col puzzo che n’uscia.

Io mossi li occhi, e ’l buon maestro: "Almen tre

voci t’ ho messe!", dicea, "Surgi e vieni;

troviam l’aperta per la qual tu entre".

 

Il sogno questa volta ha le parvenze dell’incubo, tanto, per così dire, nella trama, quanto nei dettagli. L’auctor si premura di precisare che si tratta comunque di un sogno profetico, in quanto avviene pur sempre nell’ora canonicamente destinata a simili visioni. Appare all’agens una donna balbuziente, con gli occhi storti, gli arti inferiori deformi e così pure quelli superiori, nonché pallidissima. Una creatura che suscita repulsione, e che l’agens prende a mirare:  sotto il suo sguardo lei si trasforma, inizia a cantare con voce di sirena, ovvero in grado di irretire pericolosamente, forse mortalmente insegna l’antica esperienza ulissica,  chi ascolta (con pena da lei avrei mio intento rivolto, ricorda il poeta). E proprio al canto udito dall’eroe omerico fa riferimento il suo, che conclude con una nota al contempo allettante e minacciosa: e qual meco s’ausa, rado sen parte; sì tutto l’appago!, che corrisponde  alla promessa di un piacere infinito. Per confondere una simile sirena, non bastan le forze (nemmeno quelle oniriche) di Dante: appare allora velocemente (presta)  una donna santa che, dopo aver chiesto conto a Virgilio della presenza molesta, lo induce a  accostarlesi, strapparle le vesti e mostrare a Dante il suo ventre, da cui promana un fetore disgustoso che ne promuove il  risveglio. Il maestro sostiene di aver chiamato ben tre volte l’agens, prima di riuscire a smuoverlo dal sonno, e solo dopo aver proceduto un po’ nel cammino mostra anche in questa occasione di essere perfettamente al corrente del sogno patito dal suo discepolo: la sirena incantatrice  è da lui definita laconicamente quell’antica strega che sola sovr’a noi omai si piagne, con riferimento al fatto che il suo potere si manifesti ormai solo sui tre peccati che rimangono da espiare nelle cornici superiori del purgatorio. L’unica ulteriore considerazione riguarda  come l’uom da lei si slega, ovvero come possano le persone affrancarsi dalla sua malìa, con riferimento alla necessità di ricorrere alla ragione (Virgilio) per vedere la realtà, ovvero il ventre putrido dell’ammaliatrice. In questo sogno che è un incubo, si possono notare, oltre a ovvi simbolismi (la natura attraente dei beni ma la loro sostanziale inanità e caducità), alcune raffinatezze compositive, legate anche solo alla rappresentazione. Contrariamente alle aspettative, quella  che canta io son dolce serena, pur mutando sotto lo sguardo mirante dell’agens, è inizialmente un essere ributtante, dalla natura contorta o rovesciata (nel senso di impedita nella comunicazione e nel movimento). In quanto chiamata, a livello simbolico e in base alla  breve spiegazione virgiliana, a rappresentare la seduzione dei beni terreni rivela, con l’ausilio del linguaggio onirico qui adottato,  che tali beni non sono mai essenzialmente tali, ma lo diventano per via di una mistificazione promossa dagli stessi soggetti predisposti all’inganno da un annullamento della facoltà raziocinante. Una  volta di più una rappresentazione di quello che produce il sonno (non sogno) della ragionemostri che qualcuno deve pur avere il coraggio di rivelare, consapevole del fatto che la sola rivelazione è sufficiente a sbaragliargli.

***

I nove canti che separano dall’ultimo sogno, pongono quindi ancora di fronte a forme di espiazione non necessariamente minori come sono minori i peccati trattati.  Gli avari (e i prodighi) devono mantenere una posizione prona che li lega alla terra senza potersi alzare: tra loro si trova il poeta latino del I secolo d. C. Stazio, che porta a compimento la sua espiazione proprio alla fine del XX canto. Da notare che    l’evento è segnalato da un forte terremoto,  da cui Dante è molto spaventato:  da quel momento, poi,  Stazio accompagna i due viaggiatori, fino all'ascesa al paradiso terrestre. I golosi, nella penultima cornice dei canti XXII, XXIII e XXIV, sono ridotti a scheletri ambulanti (Parean l’occhiaie anella sanza gemme: chi nel viso de li uomini legge ’omo’ ben avria quivi conosciuta l'emme), mentre i lussuriosi (ultima cornice, canti XXV e XXVI) sono avvolti da fiamme. Queste ultime, peraltro, rappresentano  una sorta di unica e ultima prova per l’agens prima di ottenere la ricompensa dell’arrivo al paradiso terrestre e, soprattutto, all’incontro con Beatrice. Nel XXVII canto, infatti, oltre a essere presente l’ultima visione della triade onirica di cui ci stiamo occupando, avviene anche un passaggio attraverso al fuoco che non uccide ma purifica. A fornire la spiegazione in  merito è Virgilio, che deve però ricorrere, per vincere le resistenze alla prova da parte di Dante, a un altro allettamento:

"Figliuol mio,
qui può esser tormento, ma non morte.

21


Ricorditi, ricorditi! E se io
sovresso Gerïon ti guidai salvo,
che farò ora presso più a Dio?

24


Credi per certo che se dentro a l’alvo
di questa fiamma stessi ben mille anni,
non ti potrebbe far d’un capel calvo.

27


E se tu forse credi ch’io t’inganni,
fatti ver’ lei, e fatti far credenza
con le tue mani al lembo d’i tuoi panni.

30


Pon giù omai, pon giù ogne temenza;
volgiti in qua e vieni: entra sicuro!".
E io pur fermo e contra coscïenza.

33


Quando mi vide star pur fermo e duro,
turbato un poco disse: "Or vedi, figlio:
tra Bëatrice e te è questo muro".

 Superato il cimento, ovvero sperimentato un calore che suggerisce all’agens  di gettarsi  in un bogliente vetro pur di rinfrescarsi, tant’era ivi l’incendio sanza metro, i tre pellegrini si trovano a percorrere una scala, sui gradini della quale si preparano a riposarsi per una nuova notte. E questo predispone all’ultimo sogno l’unico tra loro che abbia, davvero, bisogno di dormire.

 

Ne l’ora, credo, che de l’orïente

prima raggiò nel monte Citerea,

che di foco d’amor par sempre ardente,

giovane e bella in sogno mi parea

donna vedere andar per una landa

cogliendo fiori; e cantando dicea:

"Sappia qualunque il mio nome dimanda

ch’i’ mi son Lia, e vo movendo intorno

le belle mani a farmi una ghirlanda.

Per piacermi a lo specchio, qui m’addorno;

ma mia suora Rachel mai non si smaga

dal suo miraglio, e siede tutto giorno.

Ell’è d’i suoi belli occhi veder vaga

com’io de l’addornarmi con le mani;

lei lo vedere, e me l’ovrare appaga".

E già per li splendori antelucani,

che tanto a’ pellegrin surgon più grati,

quanto, tornando, albergan men lontani,

le tenebre fuggian da tutti lati,

e ’l sonno mio con esse; ond’io leva’ mi,

veggendo i gran maestri già levati.

Ad accomunare i sogni, ormai possiamo affermarlo, sono sicuramente le presenze femminili. Da Lucia/aquila alla femmina balba/sirena/strega a Lia (e Rachele sullo sfondo) di quest’ultimo, non possiamo trovare altri elementi di affinità che non siano questo, ma è comunque significativo segnalarlo, visto che tutti e tre possono poi essere fatti culminare con la quarta donna, la più attesa se non quella per cui l’intero canto della Divina commedia dichiara di essere potuto esistere, di aver visto (giocando un po’ con le parole e i significati) la luce. Ma adesso mi soffermo sul terzo sogno. L’ora è pur sempre l’alba, dato che Venere (qui evocata come Citerea, dall’isola ionica di Citere di cui era ritenuta regina) sta sorgendo in purgatorio dove anticipa di poco il sorgere del sole, e il sogno è quindi sicuramente veritiero e presago. Protagonista è Lia, figlia maggiore di Labano e prima moglie di suo cugino Giacobbe, col quale avrà sei figli (da cui discendono le tribù d’Israele) e una figlia. Lia è descritta nel Vecchio Testamento come una  donna non particolarmente avvenente ma appunto feconda, a differenza della sorella Rachele, seconda moglie di Giacobbe, bella ma, almeno fino alla nascita di Giuseppe, seguito poi anche da Beniamino, sterile. Nella tradizione esegetica, che Dante riprende con le sue immagini poetiche,  Lia è associata alla vita attiva (coglie fiori e intreccia ghirlande) mentre Rachele a quella contemplativa (si guarda allo specchio). Nessuna spiegazione supplementare conforta questo sogno, dato che il resto del canto è occupato da un evento deflagrante per l’agens, al quale tra poco dedicherò anche la mia attenzione, sicché è necessario esercitare un po’ di attività critica per dar luogo a qualche approfondimento interessante. Possibile, come hanno scritto nel Novecento critici stilistici della Divina commedia, che Dante abbia voluto qui proporre un elegantissimo esercizio di stilnovismo, superando persino se stesso, se possibile, in tale stilizzazione. Di là da questo, però, si può pensare a che cosa volesse esprimere con il riferimento a due maniere tanto opposte, eppur complementari, di vivere la vita in grazia di Dio. Ad esempio, una doppia aspirazione che lui stesso percepiva, contraddittoriamente, in sé stesso, consapevole che la loro compresenza rappresenti un ostacolo esistenziale. I contemplativi, in particolare, possono rischiare di dover giustificare di fronte agli altri la propria inclinazione a assegnare un maggior valore alle preghiere e al contatto diretto con la divinità rispetto al ben operare nella vita quotidiana e a vantaggio diretto degli altri. Irresolubile, se trasposta all’esistenza terrena, la questione di una conciliazione fra le due propensioni, mentre nella perfezione della civitas Dei (ecco ciò di cui è presago il sogno) vita attiva e vita contemplativa riescono davvero e manifestarsi nella loro complementarietà. Come già visto nel caso di Giustiniano che parla nel VI canto del Paradiso in nome di tutti gli spiriti attivi, occorrono doti sia nell’una sia nell’altra dimensione per poter essere e agire vantaggiosamente per sé e per gli altri nel mondo e, successivamente, meritarsi la permanenza eterna nella città di Dio. Dunque il sogno di Lia e Rachele può essere considerato come un presagio di quel paradiso al quale ormai l’agens si sta sicuramente dirigendo.

E ora, per concludere, quello che ho denominato evento deflagrante. Alludo al congedo di Virgilio, definitivo e eterno, quant’altri mai si possa immaginare nei territori sconfinati dell’invenzione poetica. 

Come la scala tutta sotto noi

fu corsa e fummo in su ’l grado superno,

in me ficcò Virgilio li occhi suoi,

e disse: "Il temporal foco e l’etterno

veduto hai, figlio; e se’ venuto in parte

dov’io per me più oltre non discerno.

Tratto t’ ho qui con ingegno e con arte;

lo tuo piacere omai prendi per duce;

fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ de l’arte.

Vedi lo sol che ’n fronte ti riluce;

vedi l’erbette, i fiori e li arbuscelli

che qui la terra sol da sé produce.

Mentre che vegnan lieti li occhi belli

che, lagrimando, a te venir mi fenno,

seder ti puoi e puoi andar tra elli.

Non aspettar mio dir più né mio cenno;

libero, dritto e sano è tuo arbitrio,

e fallo fora non fare a suo senno:

per ch’io te sovra te corono e mitrio".

Parafraso, ma non secondo le regole di scuola, per cui questa, volendo, è una parafrasi non parafrasi, il mio genere preferito. Finito di percorrere la scala, così lunga da rendere necessario  ai tre (a un di sicuro) di dormire un poco, scegliendosi ciascuno un gradino (su cui l’agens è pure riuscito a sognare), proprio arrivato all’ultimo gradino Virgilio ficca gli occhi in quelli dell’agens, les yeux dans les yeux come due amanti rigorosamente parigini seduti in un bistrot, e inizia a parlare. Il tempo di vedere la luce (l’eden, Beatrice) è arrivato e non c’è tempo da perdere: cinque terzine possono bastare a racchiudere, una volta di più e una volta per sempre, tutto. Dobbiamo predisporci (l’avevo detto che non era una parafrasi canonica) a questo tipo peculiare di aleph. Una specie sentimentale di aleph, uno in cui appunto sono soprattutto tanti sentimenti a rapprendersi in un unico punto. Provo ad andare per ordine. Virgilio evoca i due fuochi che ha condotto il suo discepolo a vedere: l’ordine, come spesso accade, è rovesciato, e un’anastrofe avverte che prima s’incontra l’eterno, il fuoco infernale, poi il temporal, quello purgatoriale, che dura solo fino al giudizio universale. Poi dichiara la sua (di Virgilio) sopraggiunta ultima soglia: la parte a cui è arrivato il suo discepolo non si addice invece al maestro, che oltre non discerne. D’altronde, è pur vero che i maestri migliori sono quelli che si fanno superare dagli allievi, anche (ma non solo) grazie a quello che hanno saputo insegnare loro. In questa prima parte del discorso, nell’aleph sentimentale di cui dicevo, si fondono e confondono aspettative, coronamenti delle medesime, fiducia, rispetto, nonché l’affetto affidato a quel vocativo figlio, che ricorre in questo canto tre volte. Se ci sono voluti, prosegue il poeta latino, ingegno arte, ossia intelligenza e capacità pratiche, per arrivare fino a questo punto, ora il magistero passa a Dante medesimo, e il nuovo maestro, il duce, il dittatore (riprendendo un’allegoria che risale addirittura alla Vita nuova) è lo tuo piacere. da intendersi come quella naturale inclinazione al bene che a questo punto è libera di manifestarsi perché il percorso di purificazione è completo. Mentre gli indica il paesaggio edenico, un locus amoenus di fiori e erbette inondati dal sole, invitandolo a entrarvi, in attesa dell’arrivo degli occhi belli che piangendo lo hanno fatto accorrere, sei giorni prima, alla salvezza di Dante, gli annuncia (senza essere subito inteso, come vedremo) la sua prossima scomparsa per sempre dalla vita del discepolo. Momento fatale, momento deflagrante, ma è un’esplosione ritardata, perché per dare luogo alla  solennità occorre che ci sia soprattutto un grande silenzio ad accogliere le uniche parole che vale la pena udire: libero, dritto e sano è tuo arbitrio, e fallo fora non fare a suo senno. E  poi,  te sovra te corono e mitrio. L’impegno del maestro è stato questo: rendere l’arbitrio libero e sano e posare sul capo del discepolo una corona doppia, temporale e sacerdotale, favorendo addirittura la ricongiunzione dei poteri cosiddetti assoluti. Avendo assolto un compito così, è chiaro che non ci sia più niente da fare. Il sentimento dominante è la riconoscenza, che qui viene lasciata manifestarsi nella sua purezza, senza l’inquinamento che potrebbe produrle ad esempio la pena dell’abbandono. Il quale ultimo ha pure modo di manifestarsi, ma al di fuori dello spazio sacrale venuto a crearsi qui. Solo al verso 43 del XXX canto, quando a fronte dell’apparire di Beatrice, Dante sente i morsi dell’antica fiamma e come un fantolin cerca il conforto del genitore, erompe l’atteso grido di dolore per il distacco: Ma Virgilio n’avea lasciati scemi di sé, Virgilio dolcissimo patre, Virgilio a cui per mia salute die’ mi; né quantunque perdeo l’antica matre, valse a le guance nette di rugiada che, lagrimando, non tornasser atre. L'iterazione del nome, usato pochissimo prima, per ben tre volte, vale a sillabare il dolore. Nemmeno essere in paradiso, paradiso terrestre, e nemmeno avere finalmente vicino (a pochi passi) Beatrice, impedisce a Dante di prorompere in un pianto di lacrime scure (atre). Ma l’intensa commozione, nemmeno questa volta è destinata a durare molto. L’ultimo colpo di scena con il quale concludo questa carrellata attraverso il purgatorio consiste nella visione di Beatrice come ammiraglio che in poppa e in prora viene a veder la gente che ministra per li altri legni, e a ben far l’incora. Una visione militare, gerarchica,  che predispone a un interrogatorio in piena regola di quello che era stato appena incoronato signore di sé, il quale  viene aspramente redarguito e svergognato di fronte a una quantità di soggetti (potenze angeliche, saggi dell’Antico Testamento) prima di poter, alla fine, bere l’acqua dell’Eunoé, la mitica fonte della dimenticanza (secondo i pagani, della vita precedente) per poter diventare  puro e disposto a salire a le stelle.

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