POLITICA - DEFINIZIONE

Da vocabolario Treccani.it, voce politica

polìtica s. f. [femm. sostantivato dell’agg. politico (sottint. arte); cfr. gr. πολιτικ (τέχνη)]. – 1. a. La scienza e l’arte di governare, cioè la teoria e la pratica che hanno per oggetto la costituzione, l’organizzazione, l’amministrazione dello stato e la direzione della vita pubblica; le normei principîle regole della p.; scriveretrattarediscutere di politicab. Più concretam., l’attività svolta per il governo di uno stato, il modo di governare, l’insieme dei provvedimenti con cui si cerca di raggiungere determinati fini, sia per ciò che riguarda i problemi di carattere interno (p. interna), sia per ciò che riguarda le relazioni con altri stati (p. esterap. internazionale). Con riferimento alla natura dei varî problemi presi in considerazione: p. economica, lo studio dei diversi orientamenti che può assumere l’intervento statale nella vita economica e dei loro probabili effetti, e, in partic., l’analisi dell’attività economica statale e dei criterî a cui è ispirata: p. economica mercantilisticap. economica liberistap. economica bellicap. economica pianificatrice; con sign. concr., l’insieme dei provvedimenti economici adottati da determinati stati in determinati momenti storici o periodi di tempo: la p. economica italiana fra le due guerrela p. economica del new dealp. commerciale, comprendente tutti i provvedimenti diretti a regolare il commercio, soprattutto con l’estero più propriam. si parla di p. doganale, con riferimento a provvedimenti quali dazî, trattati commerciali, esportazioni e importazioni temporanee, porti e punti franchi, ecc.; relativamente ai suoi principali indirizzi, la politica commerciale può essere liberistamercantilistaprotezionista, ecc.; p. della congiuntura (o congiunturale), comprendente tutte le misure atte a evitare la crisi, o almeno ad attenuare le ondate del ciclo economico (perciò detta anche anticiclica), frenando l’espansione quando diviene troppo accentuata e arginando la depressione; pcreditizia, il complesso e il carattere dei provvedimenti del governo e della banca centrale miranti a disciplinare, espandere o contrarre il credito (può essere soltanto quantitativa o anche qualitativa, ed è detta pbancaria quando i provvedimenti suddetti si riferiscono soltanto all’attività creditizia delle banche); pfinanziaria, che considera l’assunzione dei compiti e relative spese da parte dello stato, e il reperimento delle entrate necessarie con conseguente riparto dell’onere tra i cittadini (si parla anche di pdi bilancio o fiscale e, in senso più ristretto, di ptributaria); pmonetaria, in genere, l’azione dei poteri pubblici nella sfera della moneta e del credito per fini di controllo economico; pdei redditi, v. redditopdemografica, in senso lato, l’insieme di misure aventi il fine di determinare nella popolazione mutamenti spec. in senso quantitativo, intesi cioè ad accrescerla o a limitarla; e ancora, sempre determinando i settori d’interesse: psocialepindustrialepagrariapsanitariapscolastica.

Da Enciclopedia Treccani.it, voce politica

politica Il complesso delle attività che si riferiscono alla ‘vita pubblica’ e agli ‘affari pubblici’ di una determinata comunità di uomini. Il termine deriva dal greco pòlis («città-Stato») e sulla scia dell’opera di Aristotele Politica ha anche a lungo indicato l’insieme delle dottrine e dei saperi che hanno per oggetto questa specifica dimensione dell’agire associato.
L’esercizio della p. in una comunità di cittadini è da ricondursi alle pòleis greche, sorte tra l’8° e il 7° sec. a.C. I due maggiori teorici antichi della p. furono Platone, fautore di un ordine politico fortemente unitario, fondato su una rigida gerarchia sociale in grado di evitare conflitti distruttivi, e Aristotele, che individuò nell’uomo «un animale politico» e analizzò le forme di governo e le loro degenerazioni.
L’Età moderna fu caratterizzata in Europa dal primato delle monarchie assolute, nelle quali il potere del sovrano era l’ultima legittimazione della legge (rex legibus solutus). Le rivoluzioni inglesi e francesi contro l’assolutismo (17°-fine del 18° sec.) condussero a un profondo mutamento delle basi della p. e dei soggetti in essa coinvolti: aristocrazia e ceti borghesi, sostenuti da settori popolari, posero fine all’assolutismo monarchico dando origine a regimi liberali e parlamentari, caratterizzati dalla divisione dei poteri, dal sistema rappresentativo-parlamentare, dalle libertà civili e politiche. Con la rivoluzione industriale e con l’affermarsi di istituzioni liberali si verificò (fine del 18°-inizio del 20° sec.) un progressivo spostamento della capacità di influenza politica dalla nobiltà alla borghesia; le masse lavoratrici, formatesi a seguito della rivoluzione industriale, si dotavano, dal canto loro, di organizzazioni sindacali e partitiche. Il suffragio andò mano a mano allargandosi, mentre le istituzioni parlamentari progressivamente diventavano le sedi preminenti della competizione per il potere. Si è così gradualmente imposta la p. di massa, che ha i suoi attori principali nei partiti di massa (➔ partito). Alla fine del 20° sec. risalgono le teorie della cosiddetta ‘fine della p.’, che alludono alla crisi del potere politico, in particolare nel contesto del declino della funzione dello Stato nazionale e a fronte della progressiva affermazione di forme di potere diverse da quello politico (per es. il potere economico e mediatico) nella società.
La p. in generale è stata di volta in volta concepita in modi molto diversi: come ricerca del bene comune, come strumento per la realizzazione della vita buona e virtuosa del cittadino, come arte della conquista e della conservazione del potere, come leva per la neutralizzazione dei conflitti tra individui e gruppi, come luogo della contrapposizione regolata di una pluralità di interessi ideali e materiali divergenti, radicati nella società civile, oppure ancora come relazione ‘amico-nemico’.
In modi altrettanto differenti è stato interpretato il grande tema dei rapporti tra etica e p., anche se nella tradizione dell’Occidente moderno e contemporaneo è risultata per lo più dominante l’idea tipicamente realistica – fissata da N. Machiavelli e poi riformulata da M. Weber – della p. come sfera autonoma e autonormativa dell’agire, indipendente cioè da qualsiasi precetto etico o religioso, e dotata piuttosto di una propria specifica ‘etica’ (la weberiana «etica della responsabilità»).
Soprattutto nella sua dimensione più propriamente statuale, la p. è stata complessivamente intesa come lo strumento per realizzare all’interno un saldo ‘ordine’ politico e per confrontarsi all’esterno con il ‘disordine’ generato dall’esistenza di altre entità politiche sovrane. In entrambi i casi la p. ha sempre fatto ricorso in ultima istanza, come suo specifico strumento d’azione, alla forza, che in casi estremi, nei confronti di altri Stati, si esprime attraverso la guerra. Al tempo stesso, sul piano interno la sfera della p. è venuta progressivamente a coincidere con la sfera di un agire consensuale, in cui è il ‘pubblico’ stesso a decidere, in modo diretto o indiretto, sugli ‘affari pubblici’. In questo quadro gli attori fondamentali della p. sono profondamente mutati nel corso del tempo, insieme alla generale e irresistibile trasformazione della p. da esclusivo campo di azione di individui e di ristrette oligarchie a terreno su cui agiscono più o meno consapevolmente, e comunque contano, grandi masse di uomini. Questo processo non ha annullato il ruolo delle élite politiche, ma le ha costrette ad agire in contesti in cui il consenso popolare è diventato essenziale per la produzione di decisioni politiche. È in questo quadro che i partiti organizzati hanno assunto un ruolo di primo piano tra il 19° e il 20° sec., soprattutto, ma non solo, all’interno dei regimi democratici. Essi, infatti, hanno costituito per lungo tempo, e costituiscono in gran parte ancora oggi, gli unici soggetti in grado di mobilitare e dirigere quelle masse che in vario grado stanno comunque al centro di ogni sistema politico e sociale contemporaneo.
I modelli tradizionali della p. sono sottoposti a profonde tensioni nel mondo attuale per almeno due ragioni. Da un lato, perché l’ambito da secoli consolidato dell’impresa politica, lo Stato, sta progressivamente perdendo – sotto la spinta dei processi di globalizzazione – quel ruolo centrale che ha detenuto negli ultimi cinque secoli, sia sul piano della costruzione dell’ordine interno sia su quello delle relazioni internazionali. Dall’altro lato, perché anche i partiti stanno perdendo la loro centralità in quanto soggetti della produzione del consenso politico e, quindi, della decisione politica, di fronte all’emergere di nuovi mezzi di comunicazione di massa, e dunque di formazione del consenso, quali innanzitutto la televisione, che sempre più sta trasformando la p. in ‘videopolitica’. In questo duplice contesto, si producono, a diversi livelli, profondi e sempre più visibili mutamenti. Tra i più importanti, la crescente dipendenza della p. interna degli Stati – un tempo luogo per eccellenza della sovranità e dello stesso consenso democratico – dai condizionamenti vieppiù pressanti e ineludibili di istituzioni e organizzazioni sovranazionali e, soprattutto, dei mercati economici e finanziari globali; quindi, la trasformazione delle dinamiche strutturali della p. internazionale e del loro fenomeno più drammatico, la guerra, che non si manifesta più nelle forme tradizionali della guerra tra Stati, bensì attraverso forme più o meno inedite di guerra civile, di guerre umanitarie, di operazioni di polizia internazionale, di terrorismo transnazionale; e, ancora, una crescente disaffezione per la p. e la democrazia ‘dei partiti’, che in diverse realtà nazionali sta alimentando un diffuso sentimento ‘antipolitico’. È in questo quadro che si parla sempre più spesso di ‘crisi’ o addirittura di ‘fine della politica’. Altrettanto significativo è l’emergere dei fondamentalismi religiosi i quali, fuori dall’Occidente ma anche al suo interno, mettono radicalmente in discussione quei processi di secolarizzazione della p. che tanta parte hanno avuto nel definire, quanto meno nel mondo occidentale moderno, la natura e i caratteri della p. stessa.

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