COMPITO 4 FEBBRAIO:VERBI/RIASSUNTO CORRETTI
COGNOME
I C 4
febbraio 2020
DIATESI,
MODO, TEMPO
- AVESSIMO
CONDOTTO ATTIVO CONG. TRAPASSATO
- AVREBBERO
DETTO ATTIVO CONDIZIONALE PASSATO
- SAREMMO
STATI ALLERTATI PASSIVO CONDIZIONALE PASSATO
- SARANNO
PORTATI PASSIVO FUTURO SEMPLICE
- FU ARRIVATO ATTIVO TRAPASSATO REMOTO
- ESSENDO
STATO RIDOTTO PASSIVO GERUNDIO PASSATO
- AVENDO COLTO ATTIVO GERUNDIO PASSATO
- PRODUCESSI ATTIVO CONGIUNTIVO IMPERFETTO
- CONSIDEREREI ATTIVO CONDIZIONALE PRESENTE
- FUI
PRESO PASSIVO INDICATIVO PASSATO REMOTO
- SEI
STATO CONVOCATO PASSIVO INDICATIVO PASSATO PROSSIMO
- ERA
STATO ADORNATO PASSIVO INDICATIVO TRAPASSATO PROSSIMO
- FOSSE
STATO GIUDICATO PASSIVO CONGIUNTIVO TRAPASSATO
- SIA LEGATO PASSIVO CONIUNTIVO PRESENTE
- ABBIANO
TOLTO ATTIVO CONGIUNTIVO PASSATO
- CONIUGHINO ATTIVO CONGIUNTIVO PRESENTE
- FOSSIMO
GIUNTI ATTIVO CONGIUNTIVO TRAPASSATO
- FOSSERO
STATI CITATI PASSIVO CONGIUNTIVO TRAPASSATO
- AVENDO SCALATO ATTIVO GERUNDIO PASSATO
- ESSENDO
CAPOVOLTO PASSIVO GERUNDIO PRESENTE
COGNOME NOME CLASSE I C
Torino, 4 febbraio 2020
RIASSUNTO IN 400
PAROLE
Luigi
Pirandello, Novelle per un anno, Una giornata (titolo della raccolta e
della novella sotto riportata; pubblicata per la prima volta nel 1935 sul “Corriere
della sera”)
Strappato dal
sonno, forse per sbaglio, e buttato fuori dal treno in una stazione di
passaggio. Di notte; senza nulla con me. Non riesco a riavermi dallo
sbalordimento. Ma ciò che più mi impressiona è che non mi trovo addosso alcun
segno della violenza patita; non solo, ma che non ne ho neppure un'immagine,
neppur l'ombra confusa d'un ricordo.
Mi trovo a
terra, solo, nella tenebra d'una stazione deserta; e non so a chi rivolgermi
per sapere che m'è accaduto, dove sono. Ho solo intravisto un lanternino cieco,
accorso per richiudere lo sportello del treno da cui sono stato espulso. Il
treno è subito ripartito. È subito scomparso nell'interno della stazione quel
lanternino, col riverbero vagellante del suo lume vano. Nello stordimento, non
m'è nemmeno passato per il capo di corrergli dietro per domandare spiegazioni e
far reclamo. Ma reclamo di che? Con infinito sgomento m'accorgo di non aver più
idea d'essermi messo in viaggio su un treno. Non ricordo più affatto di dove
sia partito, dove diretto; e se veramente, partendo, avessi con me qualche
cosa. Mi pare nulla. Nel vuoto di questa orribile incertezza, subitamente mi
prende il terrore di quello spettrale lanternino cieco che s'è subito ritirato,
senza fare alcun caso della mia espulsione dal treno. È dunque forse la cosa
più normale che a questa stazione si scenda così?
Nel bujo, non
riesco a discernerne il nome. La città mi è però certamente ignota. Sotto i
primi squallidi barlumi dell'alba, sembra deserta. Nella vasta piazza livida
davanti alla stazione c'è un fanale ancora acceso. Mi ci appresso; mi fermo e,
non osando alzar gli occhi, atterrito come sono dall'eco che hanno fatto i miei
passi nel silenzio, mi guardo le mani, me le osservo per un verso e per
l'altro, le chiudo, le riapro, mi tasto con esse, mi cerco addosso, anche per
sentire come son fatto, perché non posso più esser certo nemmeno di questo:
ch'io realmente esista e che tutto questo sia vero.
Poco dopo,
inoltrandomi fin nel centro della città, vedo cose che a ogni passo mi farebbero
restare dallo stupore, se uno stupore più forte non mi vincesse nel vedere che
tutti gli altri, pur simili a me, ci si muovono in mezzo senza punto badarci,
come se per loro siano le cose più naturali e più solite. Mi sento come
trascinare, ma anche qui senz'avvertire che mi si faccia violenza. Solo che io,
dentro di me, ignaro di tutto, sono quasi da ogni parte ritenuto. Ma considero
che, se non so neppur come, né di dove, né perché ci sia venuto, debbo aver
torto io certamente e ragione tutti gli altri che, non solo pare lo sappiano,
ma sappiano anche tutto quello che fanno sicuri di non sbagliare, senza la
minima incertezza, così naturalmente persuasi a fare come fanno, che
m'attirerei certo la maraviglia, la riprensione, fors'anche l'indignazione se,
o per il loro aspetto o per qualche loro atto o espressione, mi mettessi a
ridere o mi mostrassi stupito. Nel desiderio acutissimo di scoprire qualche
cosa, senza farmene accorgere, debbo di continuo cancellarmi dagli occhi quella
certa permalosità che di sfuggita tante volte nei loro occhi hanno i cani. Il
torto è mio, il torto è mio, se non capisco nulla, se non riesco ancora a
raccapezzarmi. Bisogna che mi sforzi a far le viste d'esserne anch'io persuaso
e che m'ingegni di far come gli altri, per quanto mi manchi ogni criterio e
ogni pratica nozione, anche di quelle cose che pajono più comuni e più facili. Non
so da che parte rifarmi, che via prendere, che cosa mettermi a fare.
Possibile però
ch'io sia già tanto cresciuto, rimanendo sempre come un bambino e senz'aver
fatto mai nulla? Avrò forse lavorato in sogno, non so come. Ma lavorato ho
certo; lavorato sempre, e molto, molto. Pare che tutti lo sappiano, del resto,
perché tanti si voltano a guardarmi e più d'uno anche mi saluta, senza ch'io lo
conosca. Resto dapprima perplesso, se veramente il saluto sia rivolto a me; mi
guardo accanto; mi guardo dietro. Mi avranno salutato per sbaglio? Ma no,
salutano proprio me. Combatto, imbarazzato, con una certa vanità che vorrebbe e
pur non riesce a illudersi, e vado innanzi come sospeso, senza potermi liberare
da uno strano impaccio per una cosa - lo riconosco - veramente meschina: non
sono sicuro dell'abito che ho addosso; mi sembra strano che sia mio; e ora mi
nasce il dubbio che salutino quest'abito e non me. E io intanto con me, oltre a
questo, non ho più altro!
Torno a cercarmi
addosso. Una sorpresa. Nascosta nella tasca in petto della giacca tasto come
una bustina di cuojo. La cavo fuori, quasi certo che non appartenga a me ma a
quest'abito non mio. È davvero una vecchia bustina di cuojo, gialla scolorita
slavata, quasi caduta nell'acqua di un ruscello o d'un pozzo e ripescata. La
apro, o, piuttosto, ne stacco la parte appiccicata, e vi guardo dentro. Tra
poche carte ripiegate, illeggibili per le macchie che l'acqua v'ha fatte
diluendo l'inchiostro, trovo una piccola immagine sacra, ingiallita, di quelle
che nelle chiese si regalano ai bambini e, attaccata ad essa quasi dello stesso
formato e anch'essa sbiadita, una fotografia. La spiccico, la osservo. Oh! È la
fotografia di una bellissima giovine, in costume da bagno, quasi nuda, con
tanto vento nei capelli e le braccia levate vivacemente nell'atto di salutare.
Ammirandola, pur con una certa pena, non so, quasi lontana, sento che mi viene
da essa l'impressione, se non proprio la certezza, che il saluto di queste
braccia, così vivacemente levate nel vento, sia rivolto a me. Ma per quanto mi
sforzi, non arrivo a riconoscerla. È mai possibile che una donna così bella mi
sia potuta sparire dalla memoria, portata via da tutto quel vento che le
scompiglia la testa? Certo, in questa bustina di cuojo caduta un tempo
nell'acqua, quest'immagine, accanto all'immagine sacra, ha il posto che si dà a
una fidanzata.Torno a cercare nella bustina e, più sconcertato che con piacere,
nel dubbio che non m'appartenga, trovo in un ripostiglio segreto un grosso
biglietto di banca, chi sa da quanto tempo lì riposto e dimenticato, ripiegato
in quattro, tutto logoro e qua e là bucherellato sul dorso delle ripiegature
già lise. Sprovvisto come sono di tutto, potrò darmi ajuto con esso? Non so con
qual forza di convinzione, l'immagine ritratta in quella piccola fotografia
m'assicura che il biglietto è mio. Ma c'è da fidarsi d'una testolina così
scompigliata dal vento? Mezzogiorno è già passato; casco dal languore: bisogna
che prenda qualcosa, ed entro in una trattoria.
Con maraviglia,
anche qui mi vedo accolto come un ospite di riguardo, molto gradito. Mi si
indica una tavola apparecchiata e si scosta una seggiola per invitarmi a
prender posto. Ma io son trattenuto da uno scrupolo. Fo cenno al padrone e,
tirandolo con me in disparte, gli mostro il grosso biglietto logorato. Stupito,
lui lo mira; pietosamente per lo stato in cui è ridotto, lo esamina; poi mi
dice che senza dubbio è di gran valore ma ormai da molto tempo fuori di corso.
Però non tema: presentato alla banca da uno come me, sarà certo accettato e
cambiato in altra più spicciola moneta corrente.Così dicendo il padrone della
trattoria esce con me fuori dell'uscio di strada e m'indica l'edificio della
banca lì presso.Ci vado, e tutti anche in quella banca si mostrano lieti di
farmi questo favore. Quel mio biglietto - mi dicono - è uno dei pochissimi non
rientrati ancora alla banca, la quale da qualche tempo a questa parte non dà
più corso se non a biglietti di piccolissimo taglio. Me ne danno tanti e poi
tanti, che ne resto imbarazzato e quasi oppresso. Ho con me solo quella
naufraga bustina di cuojo. Ma mi esortano a non confondermi. C'è rimedio a
tutto. Posso lasciare quel mio danaro in deposito alla banca, in conto
corrente. Fingo d'aver compreso; mi metto in tasca qualcuno di quei biglietti e
un libretto che mi dànno in sostituzione di tutti gli altri che lascio, e
ritorno alla trattoria. Non vi trovo cibi per il mio gusto; temo di non poterli
digerire. Ma già si dev'esser sparsa la voce ch'io, se non proprio ricco, non
sono certo più povero; e infatti, uscendo dalla trattoria, trovo una automobile
che m'aspetta e un autista che si leva con una mano il berretto e apre con
l'altra lo sportello per farmi entrare. Io non so dove mi porti. Ma com'ho
un'automobile, si vede che, senza saperlo, avrò anche una casa. Ma sì, una
bellissima casa, antica, dove certo tanti prima di me hanno abitato e tanti
dopo di me abiteranno. Sono proprio miei tutti questi mobili? Mi ci sento
estraneo, come un intruso. Come questa mattina all'alba la città, ora anche
questa casa mi sembra deserta; ho di nuovo paura dell'eco che i miei passi
faranno, movendomi in tanto silenzio. D'inverno, fa sera prestissimo; ho freddo
e mi sento stanco. Mi faccio coraggio; mi muovo; apro a caso uno degli usci;
resto stupito di trovar la camera illuminata, la camera da letto, e, sul letto,
lei, quella giovine del ritratto, viva, ancora con le due braccia nude
vivacemente levate, ma questa volta per invitarmi ad accorrere a lei e per
accogliermi tra esse, festante. È un sogno?
Certo, come in
un sogno, lei su quel letto, dopo la notte, la mattina all'alba, non c'è più.
Nessuna traccia di lei. E il letto, che fu così caldo nella notte, è ora, a
toccarlo, gelato, come una tomba. E c'è in tutta la casa quell'odore che cova
nei luoghi che hanno preso la polvere, dove la vita è appassita da tempo, e
quel senso d'uggiosa stanchezza che per sostenersi ha bisogno di ben regolate e
utili abitudini. Io ne ho avuto sempre orrore. Voglio fuggire. Non è possibile
che questa sia la mia casa. Questo è un incubo. Certo ho sognato uno dei sogni
più assurdi. Quasi per averne la prova, vado a guardarmi a uno specchio appeso
alla parete dirimpetto, e subito ho l'impressione d'annegare, atterrito, in uno
smarrimento senza fine. Da quale remota lontananza i miei occhi, quelli che mi
par d'avere avuti da bambino, guardano ora, sbarrati dal terrore, senza
potersene persuadere, questo viso di vecchio? Io, già vecchio? Così subito? E
com'è possibile? Sento picchiare all'uscio. Ho un sussulto. M'annunziano che
sono arrivati i miei figli. I miei figli? Mi pare spaventoso che da me siano
potuti nascere figli. Ma quando? Li avrò avuti jeri. Jeri ero ancora giovane. È
giusto che ora, da vecchio, li conosca. Entrano, reggendo per mano bambini, nati
da loro. Subito accorrono a sorreggermi; amorosamente mi rimproverano d'essermi
levato di letto; premurosamente mi mettono a sedere, perché l'affanno mi cessi.
Io, l'affanno? Ma sì, loro lo sanno bene che non posso più stare in piedi e che
sto molto molto male. Seduto, li guardo, li ascolto; e mi sembra che mi stiano
facendo in sogno uno scherzo. Già finita la mia vita? E mentre sto a osservarli,
così tutti curvi attorno a me, maliziosamente, quasi non dovessi accorgermene,
vedo spuntare nelle loro teste, proprio sotto i miei occhi, e crescere,
crescere non pochi, non pochi capelli bianchi.
- Vedete, se non
è uno scherzo? Già anche voi, i capelli bianchi.
E guardate,
guardate quelli che or ora sono entrati da quell'uscio bambini: ecco, è bastato
che si siano appressati alla mia poltrona: si son fatti grandi; e una, quella,
è già una giovinetta che si vuol far largo per essere ammirata. Se il padre non
la trattiene, mi si butta a sedere sulle ginocchia e mi cinge il collo con un
braccio, posandomi sul petto la testina. Mi vien l'impeto di balzare in piedi.
Ma debbo riconoscere che veramente non posso più farlo. E con gli stessi occhi
che avevano poc'anzi quei bambini, ora già così cresciuti, rimango a guardare
finché posso, con tanta tanta compassione, ormai dietro a questi nuovi, i miei
vecchi figliuoli. (1976 parole)
RIASSUNTO
RIASSUNTO
Il narratore interno della novella si
trova, improvvisamente e senza darsene una ragione, in una stazione che non
riconosce. È notte, il luogo è deserto, e il protagonista pensa di essere stato buttato giù dal treno,
anche se non reca segni di violenza e non ha memoria di nulla. Decide di uscire
dalla stazione e si aggira in una città che sembra deserta, sul far dell’alba,
dubitando di star sognando.
Avanzando nel centro
cittadino, passa di stupore in stupore, incontrando persone che non sembrano
badare a quello da cui lui è invece sbalordito. Soprattutto si sente costretto
a fare qualcosa, anche se non saprebbe dire di che cosa si tratti, pur essendo determinato
a scoprirlo.
Il narratore si
sorprende a pensare di essere rimasto ignaro, come un bambino, di quello che
gli è successo. Viceversa, tutti quelli che incontra sembrano essere al
corrente di quanto egli ignora: alcuni addirittura, con sua sorpresa, lo
salutano e lo riconoscono, mentre da parte sua continua a nutrire il sospetto
di non esistere.
A un certo punto
scopre di avere, nella giacca, una bustina che contiene, insieme ad altre cose,
la fotografia di una giovane donna bellissima. Il narratore si sforza, ma non
ricorda nulla di lei. Oltre alla fotografia trova un biglietto di banca,
rovinato dal tempo. Si convince che il denaro possa essere suo e, essendo
affamato, entra in una trattoria.
Lì tutti fanno
mostra di conoscerlo e si danno da fare per lui: gli rivelano che la banconota
non è più corrente, ma gli suggeriscono di andarla a cambiare in banca, dove
analogamente tutti lo trattano con rispetto e gli danno moltissimi soldi. Il
narratore scopre di possedere un’automobile e anche una casa, molto bella e
antica, in una delle cui stanze c’è ad attenderlo proprio la bellissima giovane
della foto. Si riaffaccia in lui il sospetto di star sognando.
Effettivamente al
risveglio la donna è scomparsa e sembra essere trascorso molto tempo, come se
la casa si fosse riempita di polvere. Guardandosi allo specchio il narratore,
sempre più smarrito, scopre di essere un vecchio. Entrano poi nella stanza
quelli che gli vengono annunciati come suoi figli e, quando la narrazione volge
al termine, tutti invecchiano molto velocemente, mentre si affacciano sulla
soglia nuovi arrivati, bambini e giovani suoi nipoti. La novella si conclude in
questa stanza affollata di generazioni, dove lo sguardo del narratore è colmo
di compassione per tutti. 400
parole
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