MICROSAGGI DI ETTORE, LORENZO, SERGIO

 Ettore

IL PERTURBANTE NEL FANTASTICO

Microsaggio inerente audio lezioni Gogol e Bulgakov (settembre 2020)

La fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento sono interamente occupate, dal punto di vista letterario, dall’imporsi della cosiddetta rivoluzione romantica. Si delineano, in ogni nazione europea in maniera anche autonoma, le caratteristiche di un movimento destinato a durare nel tempo, oltre il confine della metà del secolo. Tra i protagonisti di questa rivoluzione si annovera il tedesco Theodor Hoffmann, nato nel 1776, al quale si deve l’introduzione nella dimensione narrativa di una declinazione di fantastico molto originale, in cui immaginazione e realtà sono mescolate. Prima di trattarla, tuttavia, è importante tracciare una storia del genere fantastico a partire dal mondo antico.

Nelle rappresentazioni del fantastico antico, in romanzi come  il Satyricon di Petronio o   come L'asino d'oro di Apuleio, esso si  definisce per contrasto rispetto al mondo reale, e il confine tra ciò che esiste, la realtà e il bene, è ben separato dallo stregonesco  e dal male. Sempre nel mondo del fantastico antico, per entrare ad esempio nel regno dei morti, occorre possedere formule che sappiano aprire i varchi e li sappiano anche chiudere al momento giusto. Dunque viene data quasi per scontata l’esistenza di una vita, se non  di un giudizio, dopo la morte. In ogni caso, esistono dei confini ben precisi. 

Alla fine del 1700  Ernst Theodor Amadeus Hoffmann,  scrittore, compositore, pittore e giurista tedesco, nonché esponente del romanticismo, crea una variazione sul tema del fantastico che lo rende molto diverso da quello antico.  Nei racconti di Hoffmann, infatti, non viene stabilita e resa ferrea l’esistenza e l'opposizione tra il bene e il demoniaco, bensì  si determina fra l'uno e l'altro una strana confusione, in grado di alimentare  attesa, tensione e timore dell’ignoto anche, e soprattutto, a livello dei lettori. In tal modo il confine tra realtà e immaginazione diviene labile, o scompare del tutto, dando luogo a una sensazione d'incertezza.

Francesco Orlando, critico letterario, sintetizza la questione così: “Diversamente dalle fiabe, dove i personaggi si inoltrano in spazi separati dalla vita quotidiana e nei quali tutto è possibile, la prima scena di una narrazione che chiameremmo fantastica può essere perfettamente identica, per ambientazione, tipo di personaggi e gestione del racconto, alla prima scena di una storia realistica. Perché ci sia fantastico è necessario che dentro un contesto quotidiano si produca lo scandalo, la lacerazione, l’irruzione insolita”.

Una componente sicuramente essenziale di questo tipo di  fantastico è l’unheimlich, che coinvolge il lettore in un’opera di decifrazione del reale per così dire deviato, senza condurlo a una soluzione finale.

Il termine tedesco unheimlich è il contrario di heimlich (da heim, casa) che significa tranquillo, confortevole, fidato, appartenente alla casa. Un-heimlich significa quindi inconsueto, estraneo, non familiare. Solitamente suscita terrore e spavento ciò che non è familiare o conosciuto, però non tutto ciò che è insolito o nuovo provoca spavento e terrore e men che meno perturbamento. Il perturbante coincide quindi con una percezione di profonda incertezza. All’interno del fantastico di Hoffmann è dunque  molto presente la componente psicologica, da intendersi come attenzione da parte dell'Autore nei riguardi delle dinamiche interiori dei suoi personaggi. Questa è anche la ragione per cui, ai racconti di Hofmann s'interessa Freud, il padre della psicoanalisi, che nel 1919 definisce la categoria del perturbante, con un’espressione presa da Schelling: tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere nascosto e che è invece venuto alla luce. Per Freud, dunque, un oggetto (quindi anche un argomento letterario)  per essere perturbante deve avere una caratteristica particolare,  che non mette a proprio agio e che disorienta. I racconti di Hoffmann, ad esempio, procedono deformando  la realtà, ma in una meniera molto sottile: più precisamente, generano il dubbio che quanto viene narrato sia frutto di una mente alterata, che non distingue più il confine tra la realtà e immaginazione, anzi, ciò che apparentemente sembrerebbe la normalità in realtà è frutto della sua  immaginazione, mentre ciò che è reale, sembra assurdo. I racconti di Hoffmann non fanno percepire il salto in una realtà immaginaria, ed è per questo che il lettore, immedesimandosi nel protagonista del racconto, si trova in crisi. Il nascosto, il rimosso che torna in qualche modo al nostro cospetto attraverso l'oggetto o la situazione perturbante,  genera una sensazione di angoscia particolare, definita perturbamento. Il perturbamento è, in un’ultima analisi, il ritorno delle più ancestrali, originarie (infantili) paure di ogni uomo. Il perturbante dunque insorge quando viene mostrato ciò che era tenuto nascosto, quando il rimosso ritorna a ridestare complessi infantili inconsci. Il perturbante è anche tutto ciò che crea un desiderio interiore, col tempo represso, che non vogliamo accettare noi stessi per primi, né tanto meno renderlo pubblico. Analogamente,  i movimenti e i processi automatici, ripetitivi, meccanici sembrano essere prodotti al di fuori di un'attività mentale ordinaria e sono percepiti come perturbanti, paurosi, estranei, misteriosi, inspiegabili, spesso con connotati soprannaturali. Freud  utilizzò in particolare un racconto di Hoffmann, L’uomo della sabbia, per arrivare alla sua definizione di perturbante: in esso si ricostruiscono le vicende  di un uomo soggetto ad un’ossessione che può certo rientrare nell'ambito di una patologia paranoica, ma anche essere frutto di una interferenza del magico nella vita reale. 

https://it.wikipedia.org/wiki/Il_perturbante#Il_perturbante_e_le_sue_relazioni_con_l'inconscio https://it.wikipedia.org/wiki/Il_perturbante#cite_note-9 https://ilcollezionistadiletture.com/2020/04/14/i-racconti-di-pietroburgo-nikolaj-gogol/


Lorenzo

Microsaggio da audiolezione estiva (Bulgakov) - settembre 2020

Il rapporto fra Gesù e Pilato

Il romanzo intitolato Il Maestro e Margherita è composto, oltre che dal racconto principale, dalla rivisitazione del mito cristiano in cui viene narrata la passione di Cristo. Questo romanzo nel romanzo, scritto dal Maestro del titolo, presenta varie differenze con i testi evangelici, ma, allo stesso tempo, sono rilevabili alcune interessanti analogie.

Ci troviamo nella cittadina di Yerusalaym, Gerusalemme, profondamente odiata dal protagonista del racconto: il procuratore romano Ponzio Pilato, uomo tormentato dall’emicrania e dall’odore dell’olio di rose. È rappresentato all'inizio con indosso un mantello bianco dai risvolti rosso sangue e ha ormai perso la capacità di provare affetto per gli uomini, essendo legato solo al suo cane di nome Banga.

Il personaggio di Gesù è denominato Yeshua Ha-Noshri; è un vagabondo originario della cittadina di Gamala e non ha ricordi dei suoi genitori. In contrasto con il racconto evangelico, non ha 12 apostoli, ma è seguito solamente da un uomo di nome Levi Matteo (il discepolo più fedele, la cui presenza è testimoniata nei Vangeli) che annota su una pergamena tutto ciò che dice il maestro.

Il “romanzo nel romanzo” inizia con la descrizione di una caldissima giornata culminante in un plenilunio. Viene introdotta innanzitutto la figura di Pilato, profondamente insoddisfatto e tormentato da forti dolori al capo che non accennano a diminuire. Egli è chiamato a esprimere il giudizio finale riguardo alla condanna emessa dal Piccolo Sinedrio nei confronti di Yeshua. L’incontro comincia in maniera brusca, con il procuratore che dà prova del grande potere di Cesare facendo frustare il povero condannato e pretendendo di farsi chiamare “egemone”.

I suoi sentimenti, però, di fronte a un uomo così poco ordinario e incapace di vedere il male, sono ambigui. Pilato viene presto affascinato dai discorsi di Ha-Noshri e la discussione, che inizialmente non era prevista, si sposta su altri piani non riguardanti le accuse verso il condannato. Pilato non riesce a sottrarsi al dialogo e continua ad ascoltare le giustificazioni di un uomo che potrebbe invece giustiziare senza crearsi problemi.

Contrariamente a ogni previsione, egli, uomo colto e raffinato, è messo alltre strette dalle intuizioni folgoranti del condannato che sembra leggere nei suoi pensieri. Ha-Noshri cura il suo mal di testa e gli propone di fare una passeggiata nei dintorni del palazzo per parlare di alcune cose. Pilato, commettendo un errore di cui si renderà conto solo in seguito, non accetta. Quando però entra in gioco il concetto di potere, visto dal condannato come una forma di violenza di cui non c’è alcun bisogno, emerge la differente opinione del procuratore, che loda il potere del grande imperatore Tiberio. Lo fa, però, con una voce rotta e malata, senza il vigore di un comandante romano: appare quasi indeciso. La conversazione giunge tuttavia a un punto di non ritorno a causa della previsione di Yeshua riguardo al giorno della verità e della giustizia, quando, a suo dire, non ci saranno più né potere, né Cesari, né altre forme di autorità. Di fronte a tali affermazioni, Pilato reagisce con violenza, dandogli del criminale, e ratifica la condanna a morte rivedendo la sua precedente posizione.

Successivamente all’interrogatorio, Pilato incontra il sommo sacerdote giudeo Giuseppe Caifa. Come da consuetudine, in onore della festa di Pasqua, uno dei quattro condannati a morte (Dismas, Gestas, Bar Abba e Yeshua) ha il diritto di essere liberato. Il procuratore chiede a Caifa quale sia la sua scelta (finge sorpresa anche se intuisce già la risposta) e conferma il suo sospetto: sarà Bar Abba ad essere graziato. Il procuratore suggerisce a Caifa di rivedere la sua opinione, in quanto i crimini commessi da Bar Abba (incitamento alla sommossa e omicidio di una guardia) risultano essere particolarmente gravi rispetto a quelli di Ha-Noshri, di fatto quasi inesistenti. All’ennesima negazione di Caifa, Pilato non si contiene e, cercando di privarsi di ogni responsabilità, lo accusa con le seguenti parole: “Ti ricorderai di aver liberato Bar Abba e ti pentirai di aver giustiziato il filosofo che predicava la pace. (capitolo 2 posizione 595)

Per il procuratore è ormai tutto finito: Yeshua se ne sarebbe andato per sempre e nessuno avrebbe più curato il suo mal di testa (capitolo 2 posizione 562); restava davvero solo la morte come unica soluzione. Si sente impotente e vinto dal rimorso di non aver saputo fare la giusta scelta: avrebbe dovuto parlare ancora con lui. Improvvisamente viene pervaso da uno strano pensiero sull’immortalità che lo angoscia.

Sul fare della sera Pilato riceve Afranio, il capo dei servizi segreti, con cui mangia e discute a lungo. L’ospite racconta dell’esecuzione e di come Ha-Noshri, prima di morire avesse detto che non accusava nessuno per la sua morte e che la viltà fosse il peggiore dei vizi. L’egemone chiede ad Afranio di far seppellire i corpi dei tre crocifissi e di sorvegliare Giuda di Qiryath. Il procuratore possiede a tale proposito delle informazioni provenienti da fonti che non può rivelare. È convinto che quella sera stessa Caifa consegnerà a Giuda una somma di denaro come ricompensa per aver accolto cordialmente Yeshua in casa sua e che dei seguaci di Ha-Noshri uccideranno l’uomo di Qiryath per vendicare il loro maestro. Gli assassini, sempre secondo i suoi presentimenti, avrebbero poi consegnato i soldi al sommo sacerdote lasciando scritto su un biglietto: “Restituisco i denari maledetti”.

Afranio si dirige verso la città dove confabula con una ragazza di nome Nisa. Quest’ultima poco dopo attira Giuda nei campi dove viene accoltellato da due uomini incappucciati di cui Afranio è complice. Nel frattempo, quando finalmente si addormenta, Pilato sogna di compiere quella passeggiata che tanto avrebbe voluto fare prima e si ritrova con Ha-Noshri e Banga lungo un fascio lunare. Il sogno è rassicurante perché l’esecuzione non è avvenuta e Pilato esprime la sua gioia. Si accende una discussione molto interessante e stimolante, in cui si confrontano punti di vista diversi; tuttavia, all’affermazione di Yeshua che etichetta la viltà come uno dei vizi peggiori, Pilato replica confermando che sia il peggiore in assoluto.

Se al mattino l’aveva giustiziato, adesso, di notte, avrebbe sacrificato la sua carriera per un uomo colpevole di un crimine contro Cesare. Avrebbe dato la vita e affrontato qualsiasi cosa pur di strappare alla morte quel pazzo sognatore e guaritore, privo della minima colpa. (capitolo 26 posizione 5484). Il procuratore piange ride e allo stesso tempo dalla gioia di vedere Ha-Noshri vivo e gli promette che staranno sempre insieme. All’improvviso, però, fa il suo ingresso nella stanza Afranio, Banga abbaia e Pilato si sveglia bruscamente rendendosi conto che l’esecuzione è ormai avvenuta ed esclama: “Neppure di notte ho pace, neppure con la luna. Oh Numi! Il mio è proprio un compito ingrato.”

Il capo dei servizi segreti si presenta chiedendo di essere consegnato al tribunale per non essere riuscito a proteggere Giuda di Qiryath ma l’egemone non ritiene necessario tale provvedimento. Ripete più volte di non possedere informazioni riguardo alla dinamica dell’omicidio ma finge di ipotizzare una ricostruzione (con tanto di luogo del delitto) identica a quella che aveva previsto Pilato, che sembra essere convinto. Allora Afranio passa al resoconto della sepoltura e spiega come siano stati rinvenuti sul Calvario i corpi di Dismas e Gestas, mentre quello di Ha-Noshri sarebbe stato preso da un certo Levi Matteo. Quest’ultimo voleva seppellire personalmente il suo maestro e gli era stato pertanto concesso di assistere alla sepoltura dei tre. Il procuratore loda ugualmente Afranio per la sua fedeltà nell’adempiere gli incarichi assegnati e gli dona un anello in suo ricordo.

Fa la sua comparsa al cospetto di Pilato Levi Matteo, al quale l’egemone chiede di poter vedere la pergamena dove era solito annotare tutti gli insegnamenti di Yeshua. Fra le varie frasi legge: “Il peggior vizio è la viltà.” Sapendo di avere davanti l’uomo che più era stato fedele ad Ha-Noshri, cerca di ripagare il debito verso il filosofo che ha condannato stringendo un rapporto con il suo unico discepolo e proponendogli di lavorare per lui nella sua grande biblioteca. Levi afferma che sarebbe troppo difficile per Pilato guardarlo in faccia dopo aver ucciso il suo maestro e non accetta la proposta. Il procuratore cerca di fargli cambiare idea: rifiutando la sua offerta Matteo dimostra di non aver appreso nulla degli insegnamenti di Yeshua poiché quest’ultimo avrebbe invece accettato qualcosa da lui. Levi però è irremovibile; promette anzi che per vendicare il suo maestro ucciderà Giuda di Qiryath. Pilato coglie quest’occasione ed informa il discepolo del fatto che Giuda sia già morto, ucciso proprio dal procuratore. Convince così l’uomo che ha davanti di combattere per gli stessi ideali e Matteo decide infine di lavorare nella biblioteca.

Passiamo adesso al finale di questo racconto contenuto in uno dei capitoli riguardanti la storia del Maestro e Margherita. La scena ha luogo su un’altura: Woland mostra alla compagnia riunita Ponzio Pilato che da oltre 2000 anni dorme per scontare la sua pena. Solo nelle notti di luna piena è tormentato dall’insonnia e si lamenta di non essere riuscito a dire tutto ad Ha-Noshri. Condivide il suo destino con Banga, anche se questo non è un vile (la sua unica paura è infatti il temporale), ma chi ama deve essere disposto a condividere la sorte dell’oggetto del suo amore. (capitolo 32 posizione 6542) . Margherita, tuttavia, ha pietà di lui e chiede a Woland di liberarlo. Il maestro ha così l’occasione di terminare il suo romanzo con una sola frase: “Libero! Sei libero! Lui ti aspetta!” Pilato ottiene in tal modo il perdono e percorre il tanto bramato fascio lunare insieme al suo cane per raggiungere Yeshua Ha-Noshri.

 

 

Sitografia

·        https://imalpensanti.it/2018/01/maestro-margherita-la-ri-scrittura-del-mito-parte/

·        https://www.lacooltura.com/2016/03/ponzio-pilato-michail-bulgakov/

·        http://www.ispf-lab.cnr.it/system/files/ispf_lab/documenti/pilato_sanna.pdf

 

Sergio 

Microsaggi da Audiolezioni estive (Gogol e Bulgakov)

 

Il totalitarismo nel Novecento

 

Il termine totalitarismo è utilizzato dagli storici per indicare le caratteristiche di un tipo di regime politico nato nel XX secolo, alla cui organizzazione e metodi si possono ricondurre il nazismo, il  fascismo e lo stalinismo. Uno stato totalitario ha come obiettivo il controllo capillare dell’organizzazione sociale, in tutti i suoi aspetti, e l'imposizione di  un'unica ideologia.  Totalitarismo è infatti una parola che si forma a partire dall’aggettivo latino totus che significa tutto intero, con riferimento al fatto che un potere centrale molto forte miri appunto a controllare (rendere un’unità, un tutto)  sia la sfera pubblica sia quella privata, riducendo molto o abolendo completamente gli spazi di libertà dei singoli e della collettività.

In uno stato totalitario  il potere viene quindi  concentrato nelle mani di un unico partito o di un gruppo ristretto. L'unico partito, o il dittatore unico,  che controlla lo stato non si limita a imporre delle direttive, ma mira a orientare  il modo di pensare e di vivere della società stessa.

L'Unione Sovietica assunse le caratteristiche di un regime totalitario dominato dal partito comunista nel giro di un ventennio, dopo lo scoppio della rivoluzione bolscevica nel 1917. Uno dei protagonisti dell’operazione di consolidamento del totalitarismo in Unione Sovietica fu Stalin, che nell’intento di rendere la nazione una potenza economica di rilievo mondiale,  impose con metodi autoritari e violenti i propri programmi e la dittatura del Partito Comunista.

Con l'ascesa al potere di Stalin, l'Unione Sovietica passò tra l’altro a realizzare integralmente il collettivismo, prevedendo la totale abolizione della proprietà privata. Coloro che si opponevano alle nuove disposizioni, erano vittime di violenza e deportazioni: milioni di persone furono deportate e uccise nei gulag (campi di lavoro forzato).

Anche dal punto di vista culturale il totalitarismo si manifesta pretendendo un controllo ad esempio della produzione artistica. Nel periodo staliniano, lo stesso Bulgakov fu più volte censurato dallo stato. La pubblicazione della prima versione de Il Maestro e Margherita fu impedita dalla censura sovietica nel 1930 (Bulgakov aveva iniziato a scriverlo due anni prima, nel 1928). In un impeto di disperazione Bulgakov bruciò sia il manoscritto del romanzo che quelli di altre sue opere, e poi chiese al governo dell’Unione Sovietica di poter espatriare, dato che Il Maestro e Margherita non era il primo dei suoi lavori che subiva la censura. Gli rispose Stalin in persona, offrendogli un impiego al Teatro Accademico dell’Arte di Mosca e gli disse, a parole, che aveva il permesso di andare all’estero, anche se non gli fu mai davvero concesso.

Negli anni successivi Bulgakov continuò a lavorare su Il Maestro e Margherita: lo fece fino alla morte, nel 1940. Non lo finì mai e per questo a rimettere insieme il manoscritto per renderlo pubblicabile  fu la sua terza moglie.

La filosofa e storica tedesca, Hannah Arendt sosteneva che una dittatura totalitaria non mira  solo a ottenere l’obbedienza assoluta dei cittadini, privati di ogni libertà,  ma vuole conquistare la loro anima, vuole convertirli a un credo totalitario come una religione, una religione laica di cui i cittadini devono diventare i fedeli. E’ una dittatura liberticida e violenta che perseguita  le opposizioni condannandole al carcere e all’esilio.

Arendt parla genericamente di movimenti totalitari e semitotalitari sparsi nell’Europa dopo la Grande guerra, ma alla fine dalla sua analisi emerge che il nazionalsocialismo sarebbe stato l’unico vero movimento totalitario.

Invece fu Stalin, sostiene la studiosa, che trasformò « la dittatura di partito unico in un regime totalitario », e soltanto a Stalin la Arendt attribuisce la responsabilità di aver predisposto le condizioni per instaurare il totalitarismo, pienamente sviluppato con il terrore di massa.

Nel caso della Germania, sostiene invece che il nazionalsocialismo fu un movimento totalitario fin dalle origini, ma divenne un regime totalitario soltanto dopo il 1938, anzi, precisa la studiosa, lo divenne soltanto durante la Seconda guerra mondiale, ma neppure allora fu un « totalitarismo pienamente sviluppato » perché, soltanto « se la Germania avesse vinto la guerra avrebbe conosciuto una dittatura totalitaria pienamente sviluppata ». Così, neppure il nazionalsocialismo, che secondo la Arendt fu l’unico movimento veramente totalitario prima della conquista del potere, divenne mai un totalitarismo pienamente sviluppato.

 

 


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