PER IL GIORNO DELLA MEMORIA

Pubblico qui  i testi che  gli  studenti del nostro liceo,  in occasione del giorno della memoria del 2016, avevano scelto e proposto per una lettura pubblica. 

Come si legge nella conclusione, l'ispirazione per il lavoro nel suo insieme è provenuta da una raccolta di scritti di Leonardo Sciascia intitolato A futura memoria, se la memoria ha un futuro, nel cui titolo risuona un monito di grande valore sempre, ma forse soprattutto in questo periodo. Era intenzione di tutti i partecipanti all'elaborazione, me compresa, proporre una riflessione che dal passato si spingesse fino alla nostra contemporaneità, considerando che il giorno della memoria svolga la sua migliore funzione educativa per tutti noi nel momento in cui riesca a promuovere una vigile attenzione al presente. I fili spinati non sono scomparsi ma si sono moltiplicati, come i muri visibili e invisibili e le guardie con fucili spianati fiancheggiate da cani allevati per mordere al collo e ammazzare. Memoria e attenzione sono strumenti fondamentali per non perdersi nelle chiacchiere e nella distrazione. Mantenerle attive, a qualunque costo, è un dovere civile e politico che possiamo riconoscere e condividere. 

 


INTRODUZIONE

Il 27 gennaio, anniversario della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz, si celebra il Giorno della Memoria.
La decisione e la scelta di questo giorno simbolico ed evocativo sono responsabilità dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, con una risoluzione del 1° novembre 2005.
In quel giorno di gennaio, nel 1945, le truppe sovietiche  arrivarono presso la città polacca di Auschwitz: la scoperta del campo e le testimonianze dei sopravvissuti (dapprima i pochi superstiti ritrovati nel campo e poi a poco a poco gli altri che furono liberati) rivelarono compiutamente per la prima volta al mondo l'orrore di quanto era accaduto.
Si tratta di una ricorrenza internazionale, una data importante, che non deve diventare per nessuno una mera commemorazione celebrativa e, tantomeno, un vacuo rituale. Tre anni dopo la chiusura di Auschwitz, il 10 dicembre 1948, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò e proclamò la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, per far sì che l’orrore della guerra appena finita non si ripetesse mai più. Nel preambolo della Dichiarazione si afferma che «il disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell'umanità» e che proprio per questo si vogliono affermare i diritti che appartengono a qualsiasi persona, diritti uguali e inalienabili, che costituiscono «il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo».
Si sperava che tutti i popoli e tutti gli Stati li avrebbero riconosciuti come un bene fondante e imprescindibile dell’umanità, e che la lezione dell’Olocausto avesse raggiunto una tragicità e una abiezione morale tali da rendere impossibile il suo ripetersi in qualsiasi forma.
Ma da quel giorno, e oggi forse più che mai, possiamo testimoniare che l’uomo non ha imparato la lezione della storia.
Per tale motivo abbiamo organizzato questo incontro che, partendo dalla ricorrenza e dal ricordo, affronti anche la situazione attuale, perché pensiamo che ricordare non sia sufficiente se non si è capaci di conoscere e capire il presente per provare a evitare quanto ogni giorno, in ogni parte del mondo, accade sotto i nostri occhi: siamo assuefatti, inermi, persino indifferenti, spesso non informati.
L’accostamento di passato e presente dovrebbe sottolineare, soprattutto, quanto nuove e vecchie forme di razzismo, di violenza, di genocidio, di violazione dei diritti umani, siano ancora oggi insite nella nostra realtà, e non relegate in un passato distante da noi.
È chiaro che non intendiamo fare analogie perché sarebbe impossibile: lo sterminio nazista presenta caratteri di unicità e tragicità incomparabili ad altro, ma vogliamo sottolineare possibili parallelismi che purtroppo esistono.
I dati sui deportati e sui morti nei campi di sterminio e di detenzione sono ancora adesso oggetto di ricerca e di studio: fino a oggi si è parlato di quasi sei milioni di ebrei e di altri sei milioni di persone, tra oppositori politici, prigionieri di guerra, omosessuali, zingari, malati di mente, portatori di handicap, secondo i dati forniti e documentati dall’International Institute for Holocaust Research. Ma l'Holocaust Memorial Museum di Washington ha annunciato per il 2025 la pubblicazione in sette volumi dei risultati di una ricerca secondo la quale potrebbero essere tra 15 e 20 milioni le persone imprigionate o uccise dai nazisti.
 Ci si rende conto così che siamo davanti a un fatto storico di portata inimmaginabile, non solo per i numeri, naturalmente.
 E questo fatto storico non può e non deve essere dimenticato. Per questo oggi siamo qui, e in migliaia e migliaia di altri luoghi altri ragazzi e altre persone stanno facendo quello che facciamo noi: ricordare, innanzitutto.
Ricordare è necessario perché un ritorno della barbarie non può essere escluso nel futuro ma anche perché, pur se non con le medesime modalità e obiettivi, continuano a esistere situazioni drammatiche, stragi, guerre e genocidi in ogni parte del mondo.
Per chi è tornato, raccontare non è stato facile. È stato sentito da un lato come un obbligo morale e civile, ma anche come un bisogno liberatorio; tuttavia per molti vi è stata la frustrazione drammatica di non essere ascoltati o capiti, e questa è stata un’offesa dolorosa che ha portato molti a credere che la scelta del silenzio fosse la più corretta, non essendoci la possibilità di essere ascoltati raccontando l’inaudibile, di essere creduti raccontando l’incredibile.
Ha scritto Primo Levi, nel 1986: “Siamo in molti (ma ogni anno il nostro numero diminuisce) a ricordare il modo specifico in cui laggiù temevamo la morte: se morremo qui in silenzio come vogliono i nostri nemici, se non ritorneremo, il mondo non saprà di che cosa l’uomo è stato capace, di che cosa è tutt’ora capace: il mondo non conoscerà se stesso, sarà più esposto di quanto non sia ad un ripetersi della barbarie nazionalsocialista o di qualsiasi altra barbarie equivalente, qualunque ne sia la matrice politica effettiva o dichiarata.”
 Per i ragazzi degli anni ‘50 e ‘60 i deportati potevano essere padri, zii, nonni; ma per noi giovani del 2000 non è più così.
Dobbiamo fare un passo in più, noi, per avvicinarci a loro, per non lasciare che il ricordo impallidisca, che la testimonianza sbiadisca o addirittura si annulli nel tempo.

Abbiamo raggruppato i testi che ora vi saranno letti scegliendo temi significativi sia per la memoria sia per l’attualità, dalla manomissione della verità alle donne, dal lavoro alla difficoltà di capire ed essere capiti, dal corpo che diviene oggetto alla resistenza.

LA MANOMISSIONE DELLA VERITÀ

1) Bruno Bettelheim (1903-1990), psicoanalista ebreo viennese, fu rinchiuso per un anno (1938/39) nei campi di Dachau e Buchenwald, da cui uscì grazie a un’amnistia per il compleanno di Hitler del 20 aprile ’39; emigrò in America dove rimase ottenendo la cittadinanza. Nel 1960 ha pubblicato The informed heart, in italiano Il prezzo della vita, riflessione approfondita sui Lager nazisti analizzati minutamente nei loro meccanismi psicosociologici. Muore suicida nel 1990.
“Alcune parole sulla reazione del mondo ai campi di concentramento: dalla maggior parte delle persone civili gli orrori ivi commessi furono giudicati strani e incomprensibili. Venire a sapere che popolazioni ritenute civili potessero degradarsi al punto di commettere atti così inumani scosse profondamente il loro orgoglio. Il fatto che l’uomo moderno abbia sulla propria crudeltà un controllo così inadeguato fu sentito come una minaccia. Questa sensazione mise in moto tre meccanismi psicologici diversi: a) si negò che il fenomeno dei campi di concentramento potesse essere imputato all’uomo in generale, asserendo (contrariamente a tutti i dati che l’esperienza aveva reso disponibili) che gli atti di tortura erano stati commessi da una minoranza di persone pazze o perverse; b) si negò la veridicità delle notizie, attribuendole a una propaganda interessata; questa versione era accreditata dal governo tedesco che definiva propaganda tutte le notizie sugli orrori dei campi; c) si credette alle notizie, ma si represse al più presto possibile la conoscenza di quei terribili fatti”.
2) Primo Levi, nato a Torino nel 1919, di professione chimico, in Se questo è un uomo (1947) ha  narrato le sue esperienze di ebreo deportato ad Auschwitz tra il marzo 1944 e il gennaio 1945, mentre nel saggio I sommersi e i salvati (1986) ha condotto quella che è stata definita “una lunga arringa in favore della complessità, del rifiuto di accontentarsi di risposte facili” (Todorov, Prefazione) “in merito a uno degli avvenimenti più strazianti della storia europea”. Si è suicidato l'11 aprile 1987.
Questo brano è tratto da I sommersi e i salvati
 “[…] l’intera storia del breve Reich Millenario può essere riletta come guerra contro la memoria, falsificazione orwelliana della memoria, falsificazione della realtà, fino alla fuga definitiva dalla realtà medesima. Tutte le biografie di Hitler, discordi sull’interpretazione da darsi alla vita di quest’uomo  così difficile da classificare, concordano sulla fuga dalla realtà che ha segnato i suoi ultimi anni, soprattutto a partire dal primo inverno russo. Aveva proibito e negato ai suoi sudditi l’accesso alla verità, inquinando la loro morale e la loro memoria; ma in misura via via crescente fino alla paranoia del Bunker, aveva sbarrato la via della verità anche a se stesso. Come tutti i giocatori d’azzardo, si era costruito intorno uno scenario di menzogne superstiziose, in cui aveva finito col credere con la stessa fede fanatica che pretendeva da ogni tedesco. Il suo crollo non è stato soltanto una salvazione per il genere umano, ma anche una dimostrazione del prezzo che si paga quando si manomette la verità”.

3) Durante lo svolgimento del G8 di Genova, la sera del 21 luglio 2001, tra le ore 22 e mezzanotte, nelle scuole Diaz, Pertini e Pascoli, divenute centro del coordinamento del Social Forum, facevano  irruzione  i reparti mobili della polizia di stato con il supporto di alcuni battaglioni dei carabinieri. Furono fermati 93 attivisti e furono portati in ospedale 61 feriti, dei quali 3 in prognosi riservata e uno in coma. Finirono sotto accusa 125 poliziotti, compresi dirigenti e capisquadra.
Nick Davies, L’Internazionale del 7 aprile 2015
“Mancava poco a mezzanotte quando il primo poliziotto colpì Mark Covell con una manganellata sulla spalla sinistra. Covell cercò di urlare in italiano che era un giornalista, ma in pochi secondi si trovò circondato dagli agenti in tenuta antisommossa che lo tempestarono di colpi.
Mentre giaceva con la faccia a terra nel buio, contuso e spaventato, si rese conto che i poliziotti si stavano radunando per attaccare l’edificio della scuola Diaz, dove 93 ragazzi si erano sistemati per passare la notte.
A mezzanotte del 21 luglio 2001 i poliziotti occuparono i quattro piani della scuola Diaz imponendo il loro particolare tipo di disciplina ai suoi occupanti e riducendo i dormitori improvvisati in quella che in seguito un funzionario di polizia ha definito “una macelleria messicana”. Poi incarcerarono illegalmente le vittime in un centro di detenzione che diventò un luogo di terrore.
 […] Sette anni dopo, Covell e i suoi compagni aspettano ancora giustizia. Il 14 luglio 2008 quindici poliziotti, guardie penitenziarie e medici carcerari sono stati condannati per il loro ruolo nelle violenze. Ma nessuno sconterà la pena perché queste condanne cadranno in prescrizione.
[…]All’esterno arrivò una versione dei fatti molto distorta.
Le forze dell’ordine italiane raccontarono ai mezzi d’informazione una serie di menzogne.
Il giorno dopo tennero una conferenza stampa in cui annunciarono che tutte le persone presenti nell’edificio sarebbero state accusate di resistenza aggravata e associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio. Alla fine, i tribunali italiani hanno respinto tutti i capi di accusa contro ogni singolo imputato.

ISTITUZIONI CHIUSE

Levi, Se questo è un uomo
4)“Moltissime cose ci restano da imparare, ma molte le abbiamo già imparate. Già abbiamo una certa idea della topografia del Lager; questo nostro Lager è un quadrato di circa seicento metri di lato, circondato da due reticolati di filo spinato, il più interno dei quali è percorso da corrente ad alta tensione. È costituito da sessanta baracche in legno, che qui chiamano Blocks, di cui una decina in costruzione; a queste vanno aggiunti il corpo delle cucine, che è in muratura; una fattoria sperimentale, gestita da un distaccamento di prigionieri privilegiati; le baracche delle docce e delle latrine, in numero di una per ogni gruppo di sei od otto Blocks. […]. 
I comuni Blocks di abitazione sono divisi in due locali; in uno vive il capo baracca con i suoi amici: v’è un lungo tavolo, sedie, panche; ovunque una quantità di strani oggetti dai colori vivaci, fotografie, ritagli di riviste, disegni, fiori finti, soprammobili; sulle pareti, grandi scritte, proverbi e poesiole inneggianti all’ordine, alla disciplina, all’igiene; in un angolo, una vetrina con gli attrezzi del barbiere autorizzato, i mestoli per distribuire la zuppa e due nerbi di gomma, quello pieno e quello vuoto, per mantenere la disciplina medesima.
L’altro locale è il dormitorio; non vi sono che centoquarantotto cuccette a tre piani, disposte fittamente, come celle di alveare, in modo da utilizzare senza residui tutta la cubatura del vano, fino al tetto, e divise da tre corridoi; qui vivono i comuni prigionieri, in numero di duecento-duecentocinquanta per baracca, due quindi in buona parte delle cuccette, le quali sono di tavole di legno mobili, provviste di un sottile sacco a paglia e di due coperte ciascuna. I corridoi di disimpegno sono così stretti che a stento ci si passa in due; la superficie totale di pavimento è così poca che gli abitanti di uno stesso Block non vi possono soggiornare tutti contemporaneamente se almeno la metà non sono coricati nelle cuccette. Di qui il divieto di entrare in un Block a cui non si appartiene.
In mezzo al Lager c’è la piazza dell’Appello, vastissima, dove ci si raduna al mattino per costituire le squadre di lavoro, e alla sera per venire contati. Di fronte alla piazza dell’Appello c’è una aiuola dall’erba accuratamente rasa, dove si montano le forche quando occorre”.

5) Lidia Beccaria Rolfi, (1925-1996) italiana, entrò diciottenne nella Resistenza come staffetta. Fu arrestata nell’aprile del ’44 e deportata a Ravensbruck. Le sue memorie sono raccolte nel libro Le donne di Ravensbruck, pubblicato nel 1978, e da cui è tratto questo brano. È morta nel 1996.
“Quarantena, secondo il significato corrente della parola, vuol dire isolamento preventivo di persone o animali in arrivo da luoghi diversi come misura precauzionale volta a evitare epidemie e contagi a uomini o animali di un determinato luogo. Per la città concentrazionaria, quarantena non ha solo questo significato, anzi vuol dire soprattutto allenamento alle situazioni impossibili. È impossibile rimanere in piedi tutto il giorno e le deportate rimangono in piedi, una addosso all’altra, per tutto il giorno. È impossibile non dare sfogo ai bisogni fisiologici e le deportate imparano a “tenere” per ore e ore, fino a quando ricevono il permesso di accedere alle latrine. È impossibile bere l’acqua inquinata, mangiare la zuppa infetta, per di più leccandola, rifare i letti secondo i regolamenti del campo, capire gli ordini in polacco e in tedesco, è impossibile soprattutto capire gli ordini e i regolamenti impossibili. Le deportate si adeguano a queste situazioni impossibili. Fin dal primo giorno le deportate si adeguano non tanto per paura, quanto perché il pianeta su cui sono state catapultate è così lontano e così fuori da ogni abitudine di vita civile e anche da ogni condizione di vita coatta di cui hanno esperienze precedenti che non permette, almeno all’inizio, di riflettere, di pensare, di analizzare lucidamente la situazione. Vivono la prima giornata concentrazionaria in uno stato di ipnosi, svuotate di ogni volontà di reazione, soggiogate dall’atmosfera assurda e grottesca del blocco”.

6) Shin Dong-hyuk è un esule nordcoreano residente in Corea del Sud. Si tratta di una delle poche persone che siano riuscite a fuggire da un campo di concentramento nordcoreano e siano sopravvissute per raccontarlo.
Federica Seneghini, Corriere della Sera, 7 ottobre 2014
“Shin ha raccontato tutto ciò che sapeva a proposito del Campo 14, in cui era recluso fin dalla nascita, al giornalista statunitense Blaine Harden che ha pubblicato nel 2012  Fuga dal Campo 14. Il Campo 14 è grande quanto Los Angeles, eppure resta invisibile agli occhi del mondo. Il crimine che Shin ha commesso è avere uno zio che negli anni cinquanta fuggì in Corea del Sud. Non sa che esiste il mondo esterno ed è a tutti gli effetti uno schiavo. Solo a 23 anni riuscirà a fuggire, grazie all’aiuto di un compagno che tenterà la fuga con lui, ad arrivare a piedi in Cina e da lì in America.
“In questo paese non c’è alcun problema legato ai diritti umani. Tutti conducono una vita dignitosa e felice.“ (Agenzia stampa di Stato della Corea del Nord, marzo 2006)
Fino all’età di 22 anni, nella vita e nella testa di Shin non ci sono stati la tv, internet, gli hamburger, gli Stati Uniti o la Corea del Nord. Non sapeva nemmeno se la terra fosse piatta o rotonda. La sua esistenza, da quando era nato, era solo il Campo 14. I giorni tutti uguali. Fatti di violenza e regole da seguire. «Nessuno mi aveva mai spiegato perché stessi là dentro», racconta. «Pensavo semplicemente che ci fossero persone nate con le armi e persone nate prigioniere, come me. Che il mondo fuori fosse uguale a quello dentro. Forse per questo non ho mai pensato di fuggire».
Quando parla, la sua voce sembra non tradire nessuna emozione. Non gesticola. Sorride poco. Si muove appena. Senza fare rumore.  Da anni gira il mondo per raccontare la sua esperienza. Il regista
 Marc Wiese l'ha tradotta nel documentario Camp 14 il giornalista Blaine Harden nel libro Fuga dal Campo 14 (Codice Edizioni, 2014), diventato in breve tempo un bestseller tradotto in 27 lingue. 
 Le 10 regole del Camp 14:
1. Non provare a scappare
2. È vietato formare gruppi di più di due prigionieri.
3. Non rubare.
4. Agli ordini delle guardie bisogna obbedire incondizionatamente.
5. Chiunque avvisti un fuggitivo o una figura sospetta è tenuto a denunciarlo immediatamente.
6. I prigionieri devono tenersi sotto controllo a vicenda e denunciare immediatamente qualsiasi comportamento sospetto.
7. Ogni prigioniero deve portare a termine tutto il lavoro che gli viene assegnato quotidianamente.
8. Fuori dal luogo di lavoro non è ammessa interazione tra persone di sesso diverso per motivi personali.
9. I prigionieri devono pentirsi sinceramente dei propri errori.
10. I prigionieri che violano le regole e i regolamenti del campo verranno fucilati all’istante.

LAVORO
Levi, I sommersi e i salvati
7)“Sul lavoro nel Lager si è scritto molto. [… ]Il lavoro non retribuito, cioè schiavistico, era uno dei tre scopi del sistema concentrazionario; gli altri due erano l’eliminazione degli avversari politici e lo sterminio delle cosiddette razze inferiori. […] Nei primi Lager, quasi coevi con la conquista del potere da parte di Hitler, il lavoro era puramente persecutorio, praticamente inutile ai fini produttivi: mandare gente denutrita a spalare torba o spaccare pietre serviva solo a scopo terroristico. Del resto, per la retorica borghese, ‘il lavoro nobilita’, e quindi gli ignobili avversari del regime non sono degni di lavorare nel senso usuale del termine. Il loro lavoro deve essere afflittivo: non deve lasciare spazio alla professionalità, dev’essere quello delle bestie da soma, tirare, spingere, portare pesi, piegare la schiena sulla terra. Violenza inutile anche questa: utile forse solo a stroncare le resistenze attuali ed a punire le resistenze passate. Le donne di Ravensbruck raccontano di interminabili giornate trascorse durante il periodo di quarantena […] a spalare la sabbia delle dune: a cerchio, sotto il sole di luglio, ogni deportata doveva spostare la sabbia dal suo mucchio a quello della vicina di destra, in un girotondo senza scopo e senza fine, poiché la sabbia tornava da dove era venuta.”

8) In Brasile, l’allevamento bovino e la produzione di ghisa sono tra i settori che generano più ricchezza nel Paese. E al tempo stesso, secondo il Ministero del Lavoro e dell’Occupazione (Mte) Brasiliano, sono le due attività produttive in cui si concentra il maggior numero di lavoratori schiavi.
Chiara Campione, L’Unità, 16 giugno 2013
Solo nel 2012, la Divisione per l’eradicazione del lavoro schiavile del Mte ha “liberato” un totale di 2750 lavoratori. Di questi, 1250 in Amazzonia. In testa gli allevamenti bovini con 497 lavoratori in condizioni schiavitù. Al secondo posto i forni a carbone per la produzione di ghisa dove sono state riscattati 452 lavoratori. La notizia è stata pubblicata dalla Ong Reporter Brasile. Un’indagine della Comisión Pastoral de la Tierra (Cpt) conferma questi dati e addirittura denuncia una realtà peggiore: il numero totali di schiavi in Amazzonia, nel 2012, sarebbe stato di 2.086. I lavoratori “liberati” dal Mte sono stati trovati in condizioni, come le definisce lo stesso Ministero, “degradanti”: alimentazione poverissima, mancanza di dormitori, assenza di servizi igienici e nessun accesso ad acqua pulita da bere. Per il cibo e qualsiasi altro loro bisogno questi nuovi schiavi sono costretti a pagare il proprio datore di lavoro, alimentando la spirale del debito che li tiene prigionieri. Per impedire loro di fuggire, vengono spesso confinati in baracche chiuse a chiave durante la notte e guardati a vista da uomini armati. Il Brasile è recentemente diventato la sesta più grande economia del mondo. Quello che viene spesso chiamato il paese del futuro continua a utilizzare forme di lavoro che riconducono a un passato ritenuto lontano.

TROVARSI NEL VUOTO, DISPERSI
Levi, I sommersi e i salvati
9) “Inoltre, sul piano dell’immediato, non capisci gli ordini e i divieti, non decifri le prescrizioni, alcune futili e derisorie, altre fondamentali. Ti trovi insomma nel vuoto e comprendi a tue spese che la comunicazione genera l’informazione,  e che senza informazione non si vive. La maggior parte dei prigionieri che non conoscevano il tedesco, quindi quasi tutti gli italiani, sono morti nei primi dieci-quindici giorni dal loro arrivo: a prima vista, per fame, freddo, fatica e malattia; ad un esame più attento, per insufficienza d’informazione. Se avessero potuto comunicare con i compagni più anziani, avrebbero potuto orientarsi meglio: imparare prima a procurarsi abiti, scarpe, cibo illegale; a scansare il lavoro più duro, e gli incontri spesso mortali con le SS; a gestire senza errori fatali le inevitabili malattie. Non intendo dire che non sarebbero morti, ma che sarebbero vissuti più a lungo, ed avrebbero avuto magari maggiori possibilità di riguadagnare il terreno perduto.”
Levi, Se questo è un uomo
10) “Dopo i primi giorni di capricciosi trasferimenti da blocco a blocco e da Kommando a Kommando, a sera tarda, sono stato assegnato al Block 30, e mi viene indicata una cuccetta in cui già dorme Diena. Diena si sveglia, e, benché esausto, mi fa posto e mi riceve amichevolmente. Io non ho sonno, o per meglio dire il mio sonno è mascherato da uno stato di tensione e di ansia da cuinon sono ancora riuscito a liberarmi, e perciò parlo e parlo. Ho troppe cose da chiedere. Ho fame, e quando domani distribuiranno la zuppa, come farò a mangiarla senza cucchiaio? e come si può avere un cucchiaio? E dove mi manderanno a lavorare? Diena ne sa quanto me, naturalmente, e mi risponde con altre domande. Ma da sopra, da sotto, da vicino, da lontano, da tutti gli angoli della baracca ormai buia, voci assonnate e iraconde mi gridano: - Ruhe, Ruhe! Capisco che mi si impone il silenzio, ma questa parola è per me nuova, e poiché non ne conosco il senso e le implicazioni, la mia inquietudine cresce. La confusione delle lingue è una componente fondamentale del modo di vivere di quaggiú; si è circondati da una perpetua Babele, in cui tutti urlano ordini e minacce in lingue mai prima udite, e guai a chi non afferra a volo. Qui nessuno ha tempo, nessuno ha pazienza, nessuno ti dà ascolto; noi ultimi venuti ci raduniamo istintivamente negli angoli, contro i muri, come fanno le pecore, per sentirci le spalle materialmente coperte.”

11) Durante l’anno scolastico 1997-1998 alcuni allievi delle scuole elementari e medie romane hanno partecipato al concorso “Racconti di immigrazione”: alcuni testi sono poi stati pubblicati nel libro Sconfiniamoci, Storie di giovani migranti a cura di Paola Gabbrielli (Nuove Edizioni Romane)
Arrivata in Italia, mi trovai in un mondo tutto diverso dal mio: la verità è che mi sembrava di essere nata allora e di dover apprendere tutto come un neonato che non sa niente del mondo che vede per la prima volta. Non capivo gli altri quando parlavano, non riuscivo a farmi capire dagli altri bambini; dovevo vestire in modo diverso sia per il clima sia per sembrare "uguale"; avevamo cambiato il modo di mangiare, perché il nostro cibo non si trovava, almeno in Sicilia; avevamo difficoltà a rispettare le nostre ricorrenze religiose perché non erano le stesse degli italiani.
Con cultura, lingua, religione diverse sicuramente si incontrano difficoltà, solo che qualcuno riesce a superarle facilmente, invece qualcuno no. Io ed i miei fratelli, anche se dovevamo ritornare in Bangladesh e avevamo portato i nostri libri per studiare, iniziammo a imparare la lingua italiana da un amico indiano di papà che stava da tempo in Sicilia. Sì, anche noi siamo stati per due anni in Sicilia, dove c'era qualche somiglianza con il Bangladesh: la mentalità delle persone non era del tutto diversa, forse perché i siciliani vivono ancora con culture originali, un po' antiche. Per mettere a posto tutti i documenti ci voleva un anno; quindi noi bambini fummo iscritti alla scuola italiana. Ero piccola e non riuscivo a distinguere bene gli italiani che erano contenti di avermi tra loro. Comunque, riuscii facilmente ad inserirmi nella classe, nonostante la difficoltà della comunicazione che spesso mi faceva stare in silenzio, ma ho avuto e continuo ad avere l'aiuto dei miei coetanei che non mi lasciano sola. Ormai mi trovavo bene, avevo fatto amicizia, però due anni sono pochi per creare un rapporto confidenziale con gli italiani perché le differenze possono generare diffidenze ed equivoci. Trasferirci dalla Sicilia a Roma per me è stata un'altra migrazione perché ho cambiato di nuovo il mio mondo; io non ero d'accordo, però ho dovuto, per stare vicino a papà che ha negozi a Roma. Una cosa molto particolare che non notavo all'inizio e che invece oggi noto, è che in Italia mi sento più a contatto con la mia famiglia, perché qua è l'unica cosa che ho. A questo proposito mi viene subito da pensare a tutte quelle persone straniere in Italia che non hanno con loro la propria famiglia e a quanto faticano per trovare un lavoro, e non tutti sono fortunati; ognuno non vede l'ora di tornare al proprio paese. Forse è falso, però devo dire che è molto difficile, all'età mia (oggi ho quindici anni), avere amici tra i coetanei perché dopo sei anni non ho ancora capito il modo di pensare degli italiani.

IL CORPO

12) Piero Caleffi (1901-1978), italiano, fin da giovanissimo prese parte alla vita politica italiana all’interno del Partito Socialista, venendo più volte arrestato per cospirazione contro il regime fascista. Durante la guerra fece parte del Partito d’Azione, entrò nella missione Law (organizzata dagli alleati inglesi) e, catturato, venne internato a Mauthausen nel 1944. Il suo libro di memorie di politico e deportato, Si fa presto a dire fame, è del 1954.
“A gruppi entriamo nel locale attiguo, molto ampio, dove l’acqua caldissima scende sibilando da lunghi tubi sospesi nel soffitto. Dopo la doccia dobbiamo metterci prima seduti e poi in piedi su sgabelli, per la depilazione. Veniamo tosati e rasati in ogni parte del corpo. Col rasoio ci tracciano sul capo, dalla fronte alla nuca, una striscia di due centimetri di larghezza. Ripassiamo nel primo locale dove vengono consegnate a ciascuno camicia e mutande: stracci di tela. Così caldi, fumanti della doccia e dell’ambiente, così seminudi, veniamo fatti uscire all’aperto, incolonnati, e marciamo –ein! zwei! drei! – per tutto il lunghissimo piazzale, sulla neve, nella rigida atmosfera di parecchi gradi sotto zero. Siamo trasformati, spersonalizzati, non abbiamo più fisionomia. Ancora non ci rendiamo conto che abbiamo sceso i primi gradini verso l’abisso nel quale sta affondando l’uomo che era ciascuno di noi. Ci guardiamo imbarazzati e quasi sorridenti. Ancora non ci rendiamo conto che più nulla ci appartiene, se non il nostro pensiero: sino a quando anche quello sarà dissolto dalla paura e dalla fame”.

13) Il campo di prigionia di Guantánamo è una struttura detentiva statunitense di massima sicurezza interna alla base navale di Guantánamo, sull'isola di Cuba. Nel gennaio 2002 l'Alto Commissario per i Diritti dell’Uomo dell’Onu, Mary Robinson, ha protestato contro le condizioni di detenzione dei prigionieri.
 Il 29 giugno 2006, in seguito all’appello di un detenuto, Salim Ahmed Hamdan, una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti ha stabilito la violazione della Convenzione di Ginevra e il Codice di Giustizia Militare statunitense dovuta alle modalità di detenzione dei prigionieri all'interno della base di Guantánamo e ai tribunali militari speciali istituiti per giudicarne i detenuti.
Articolo dal NEW YORK TIMES, 15 aprile 2013, traduzione di Gennaro Carotenuto

“Samir Naji al Hasan Moqbel, è prigioniero a Guantanamo dal 2002. Non è mai stato incriminato né processato. Al momento dell’intervista, era in sciopero della fame da 70 giorni e subiva alimentazione forzata. Ha raccontato la sua storia, attraverso un interprete arabo, agli avvocati di Reprieve, una ONG che offre assistenza legale a prigionieri che non hanno possibilità di difendersi. La sua testimonianza è stata pubblicata dal New York Times, traduzione italiana di Gennaro Carotenuto.
 “C’è un uomo qui che pesa solo 35 kg. Un altro 44. L’ultima volta che mi hanno pesato ero 59 kg. Ma è stato oltre un mese fa. Sono in sciopero della fame dal 10 febbraio e credo di aver già perso più di 30 chili. Non mangerò finché non ripristineranno la mia dignità. Sono detenuto a Guantanamo da 11 anni e tre mesi. Non sono mai stato incriminato di alcun delitto. Non sono mai stato processato.
Dovrei essere a casa da anni, ma resto qui. Anni fa i militari [USA] mi dissero che ero una “guardia” di Osama bin Laden. È un’accusa senza senso, una cosa da film americani di quelli che mi piaceva guardare. Neanche loro ci credono.
Lo scorso 15 marzo ero ricoverato nell’ospedale della prigione per le mie condizioni a causa dello sciopero della fame. Una squadra di otto agenti della polizia militare ha fatto irruzione, mi ha legato al letto e mi ha inserito nella mano un ago per alimentarmi forzosamente.
Da allora sono in alimentazione forzata. Ci sono così tanti di noi in sciopero della fame che non ci sono abbastanza membri dello staff medico per effettuare le alimentazioni forzate regolarmente. Così lo fanno quando possono. Io non voglio morire qui ma fino a quando il presidente Obama e il presidente dello Yemen non faranno qualcosa io rischierò di morire qui ogni giorno.
Tutti i detenuti qui stanno soffrendo profondamente e almeno 40 di noi sono in sciopero della fame. Ogni giorno ci sono svenimenti. Io vomito sangue. Ma non c’è fine in vista per la nostra prigionia. Rifiutare il cibo e rischiare la morte ogni giorno è la scelta che abbiamo fatto per la nostra dignità. Spero solo che tanto dolore serva a che gli occhi del mondo guardino a Guantanamo prima che sia troppo tardi.”

DONNE

Bettelheim, Il prezzo della vita
14) Anche la corrispondenza commerciale di Auschwitz è simile a quella di qualsiasi altra industria, come mostra il seguente esempio tratto dalla corrispondenza tra Auschwitz e il gruppo chimico I.G. Farben.
 “In previsione di ulteriori esperimenti con una nuova droga soporifera, Vi saremmo grati se ci poteste procurare un certo numero di donne”;
Abbiamo ricevuto la Vostra risposta, ma consideriamo che il prezzo di 220 marchi per donna sia eccessivo. Vi proponiamo un prezzo non superiore a 170 marchi a testa. Se siete d’accordo sulla cifra, prenderemo possesso delle donne. Ce ne abbisognano circa 150”;
Accusiamo ricevuta dell’accordo. Preparateci 150 donne nelle migliori condizioni di salute: appena possibile le prenderemo a nostro carico”;
Ricevuta l’ordinazione di 150 donne. Nonostante l’aspetto emaciato, esse sono state giudicate soddisfacenti. A giro di posta vi terremo al corrente dei risultati dell’esperimento”;
“Gli esperimenti sono stati eseguiti. Tutti i soggetti sono morti. Ci metteremo in contatto con Voi per una nuova ordinazione”

15) Franca Rame, attrice teatrale italiana, moglie di Dario Fo, impegnata politicamente e sul fronte dei diritti delle donne, fu sequestrata, stuprata e picchiata nel marzo del 1973, da un gruppo di giovani di estrema destra. La vicenda fu da lei ricordata e messa in scena a distanza di tempo nell'opera Lo stupro, del 1981
Il puzzo della lana bruciata deve disturbare i quattro: con una lametta mi tagliano il golf, davanti, per il lungo… mi tagliano anche il reggiseno… mi tagliano anche la pelle in superficie. Nella perizia medica misureranno ventun centimetri. Quello che mi sta tra le gambe, in ginocchio, mi prende i seni a piene mani, le sento gelide sopra le bruciature…
Ora… mi aprono la cerniera dei pantaloni e tutti si danno da fare per spogliarmi: una scarpa sola, una gamba sola.
Quello che mi tiene da dietro si sta eccitando, sento che si struscia contro la mia schiena.
Ora quello che mi sta tra le gambe mi entra dentro. Mi viene da vomitare. Devo stare calma, calma.
“Muoviti, puttana. Fammi godere”. Io mi concentro sulle parole delle canzoni; il cuore mi si sta spaccando, non voglio uscire dalla confusione che ho. Non voglio capire. Non capisco nessuna parola… non conosco nessuna lingua. Altra sigaretta.
“Muoviti puttana fammi godere”.
Sono di pietra. Ora è il turno del secondo… i suoi colpi sono ancora più decisi. Sento un gran male. “Muoviti puttana fammi godere”.
La lametta che è servita per tagliarmi il golf mi passa più volte sulla faccia. Non sento se mi taglia o no. “Muoviti, puttana. Fammi godere”.
Il sangue mi cola dalle guance alle orecchie.
È il turno del terzo. È orribile sentirli godere dentro, delle bestie schifose.
“Sto morendo, – riesco a dire, – sono ammalata di cuore”.
Ci credono, non ci credono, si litigano.
“Facciamola scendere. No… sì…” Vola un ceffone tra di loro. Mi schiacciano una sigaretta sul collo, qui, tanto da spegnerla. Ecco, lì, credo di essere finalmente svenuta.

MY NAME IS OSCAR (musica)
Oscar Grant era un ragazzo afroamericano di 22 anni, di Oakland (California), un piccolo delinquente che nella notte di capodanno del 2009, dopo essere stato trascinato a forza fuori dal treno che lo stava portando a casa, pur disarmato e bloccato a terra, viene ucciso da un colpo di pistola al polmone sparato da un poliziotto intervenuto a sedare una rissa.
Il brano My name is Oscar è stato dedicato al ragazzo morto da Ambrose Akinmusire, trombettista jazz e compositore statunitense

IL PROBLEMA DEL RACCONTO

Levi, Se questo è un uomo
16) “Il mio sonno è molto sottile, è un velo, se voglio lo lacero. Lo farò, voglio lacerarlo, così potrò togliermi dai binari. Ecco, ho voluto, e ora sono sveglio: ma non proprio sveglio, soltanto un po' di più, al gradino superiore della scala fra l'incoscienza e la coscienza. Ho gli occhi chiusi, e non li voglio aprire per non lasciar fuggire il sonno, ma posso percepire i rumori: questo fischio lontano sono sicuro che è vero, non viene dalla locomotiva sognata, è risuonato oggettivamente: è il fischio della Decauville, viene dal cantiere che lavora anche di notte. Una lunga nota ferma, poi un'altra più bassa di un semitono, poi di nuovo la prima, ma breve e tronca. Questo fischio è una cosa importante, e in qualche modo essenziale: così sovente l'abbiamo udito, associato alla sofferenza del lavoro e del campo, che ne è divenuto il simbolo, e ne evoca direttamente la rappresentazione, come accade per certe musiche e certi odori. Qui c'è mia sorella, e qualche mio amico non precisato, e molta altra gente. Tutti mi stanno ascoltando, e io sto raccontando proprio questo: il fischio su tre note, il letto duro, il mio vicino che io vorrei spostare, ma ho paura di svegliarlo perché è più forte di me. Racconto anche diffusamente della nostra fame, e del controllo dei pidocchi, e del kapo che mi ha percosso sul naso e poi mi ha mandato a lavarmi perché sanguinavo. È un godimento intenso, fisico, inesprimibile, essere nella mia casa, fra persone amiche, e avere tante cose da raccontare: ma non posso non accorgermi che i miei ascoltatori non mi seguono. Anzi, essi sono del tutto indifferenti: parlano confusamente d'altro fra di loro, come se io non ci fossi. Mia sorella mi guarda, si alza e se ne va senza far parola. Allora nasce in me una pena desolata, come certi dolori appena ricordati della prima infanzia: è dolore allo stato puro, non temperato dal senso della realtà e dalla intrusione di circostanze estranee, simile a quelli per cui i bambini piangono; ed è meglio per me risalire ancora una volta in superficie, ma questa volta apro deliberatamente gli occhi, per avere di fronte a me stesso una garanzia di essere effettivamente sveglio. Il sogno mi sta davanti, ancora caldo, e io, benché sveglio, sono tutt'ora pieno della sua angoscia: e allora mi ricordo che questo non è un sogno qualunque, ma che da quando sono qui l'ho già sognato, non una ma molte volte, con poche variazioni di ambiente e di particolari. Ora sono in piena lucidità, e mi rammento anche di averlo già raccontato ad Alberto, e che lui mi ha confidato, con mia meraviglia, che questo è anche il suo sogno, e il sogno di molti altri, forse di tutti. Perché questo avviene? perché il dolore di tutti i giorni si traduce nei nostri sogni così costantemente, nella scena sempre ripetuta della narrazione fatta e non ascoltata?”

IL SENSO DI COLPA DEL SOPRAVVISSUTO
Levi, La tregua
17) La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. […]: quattro uomini armati, ma non armati contro di noi; quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo.
Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa.
Così per noi anche l'ora della libertà suonò grave e chiusa, e ci riempì gli animi, ad un tempo, di gioia e di un doloroso senso di pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie della bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai più sarebbe potuto avvenire di così buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni dell'offesa sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne, e nei racconti che ne avremmo fatti. Poiché, ed è questo il tremendo privilegio della nostra generazione e del mio popolo, nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell'offesa, che dilaga come un contagio. È stolto pensare che la giustizia umana la estingua. Essa è una inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l'anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia.
Queste cose, allora mal distinte, e avvertite dai più solo come una improvvisa ondata di fatica mortale, accompagnarono per noi la gioia della liberazione.”
L’ANGOSCIA DEL RITORNO
LEVI, I sommersi e i salvati
18) “Nella maggior parte dei casi, l’ora della liberazione non è né stata lieta né spensierata: scoccava per lo più su uno sfondo tragico di distruzione, strage e sofferenza. In quel momento, in cui ci si sentiva ridiventare uomini, cioè responsabili, ritornavano le pene degli uomini: la pena della famiglia dispersa o perduta; del dolore universale intorno a sé; della propria estenuazione, che appariva non più medicabile, definitiva; della vita da ricominciare in mezzo alle macerie, spesso da soli. Non ‘piacer figlio d’affanno’; affanno figlio d’affanno. L’uscir di pena è stato un diletto solo per pochi fortunati, o solo per pochi istanti, o per animi molto semplici; quasi sempre ha coinciso con una fase d’angoscia.”

RESISTENZA

19) Vasilij Grossman nasce il 12 dicembre 1905 a Berdicev (Ucraina) dove vive la più grande comunità ebraica dell'Europa dell'Est. Inizia ben presto a scrivere opere realistiche sulla vita dei minatori e nel 1933 si trasferisce definitivamente nella capitale dove conosce Gorkij. Nel giugno 1941, allo scoppio della “Grande guerra nazionale”, è inviato al fronte come corrispondente di guerra per il giornale dell'Armata Rossa, Stella rossa. Grossman è quindi testimone diretto delle disastrose disfatte dei primi anni, della strenua resistenza a Stalingrado e del contrattacco sovietico. Seguendo l'avanzata dell'Armata Rossa fino a Berlino, è uno dei primi a rendersi conto della tragedia dell'Olocausto. Celebre è il suo racconto L'inferno di Treblinka, la prima cronaca dei fatti avvenuti in un campo di sterminio nazista, da cui è tratto questo brano.
“Alla fine di luglio l’afa divenne soffocante. Quando si aprivano le fosse il vapore che ne esalava pareva uscire da immensi calderoni. Il lezzo tremendo e il terribile calore dei forni fecero diversi morti. Gli addetti ai trasporti dei cadaveri finivano per cadere anch’essi stremati sulle graticole. Miliardi di mosche grosse e grasse strisciavano sulla terra e ronzavano nell’aria. Ormai restavano da bruciare solo gli ultimi centomila cadaveri. La rivolta venne fissata per il due di agosto. Il segnale fu un colpo di pistola. La sacra impresa fu coronata da successo. Nel cielo si levò alta una nuvola fiamma che non era quella greve e grassa di fumo dei cadaveri che ardevano, ma il fuoco vivido, ardente e impetuoso degli incendi. Il lager bruciava, e per gli insorti fu come se il sole stesse ardendo proprio sopra Treblinka per celebrare il trionfo della libertà e dell’onore. Spari a singhiozzo, e poi raffiche di mitragliatrici sulle torrette conquistate dai rivoltosi. […] Treblinka era in fiamme; dopo aver salutato in silenzio le ceneri del proprio popolo, gli insorti fuggirono oltre la recinzione di filo spinato: SS e polizia si lanciarono all’inseguimento. Centinaia di cani fiutarono le loro tracce. I tedeschi chiamarono in soccorso l’aviazione. Si combattè nei boschi e nelle paludi, e gli insorti che oggi possono raccontarlo sono giusto un pugno.” “Due mesi e mezzo dopo, il 14 ottobre 1943, scoppiò una rivolta anche nella fabbrica della morte di Sobibor: a ordirla fu un prigioniero di guerra sovietico, l’istruttore politico Aleksandr Pecerskij di Rostov. E anche a Sobibor accadde ciò che era accaduto a Treblinka: uomini distrutti dalla fame ebbero la meglio su centinaia di carogne delle SS sporche di sangue innocente. Gli insorti affrontarono i carnefici brandendo asce che si erano fabbricati da soli, forgiandole nelle fucine del lager; altri erano armati solamente della sabbia di cui Pecerskij aveva ordinato loro di riempirsi le tasche per accecare le guardie…”
20) Istituiti nel 1998 dalla legge sull’immigrazione Turco Napolitano i Centri di Permanenza Temporanea, oggi denominati CIE (Centri di identificazione ed espulsione) sono strutture detentive dove vengono reclusi i cittadini stranieri sprovvisti di regolare titolo di soggiorno. Nonostante i cittadini stranieri si trovino all’interno dei CIE con lo status di trattenuti o ospiti, la loro permanenza nella struttura corrisponde di fatto a una detenzione, in quanto sono privati della libertà personale e sono sottoposti ad un regime di coercizione che impedisce loro di ricevere visite e di far valere il diritto alla difesa legale
Articolo del Corriere della Sera online del 22 dicembre 2013
Roma- Protesta choc al Cie di Ponte Galeria, nella periferia della Capitale: in mattinata quattro tunisini ospiti della struttura - di diversa età, tra i 20 e i 40 anni - si sono cuciti la bocca per protestare contro il protrarsi della permanenza coatta nel centro - in particolare contro la lunga detenzione (fino a 18 mesi) prevista dalla legge Bossi-Fini - e contro la prospettiva di un rimpatrio forzato. Alla scoperta del fatto sono intervenuti i medici di servizio nel centro e gli addetti alla sicurezza: inizialmente non sono stati trovati gli strumenti con cui i quattro si sono feriti, poi si è capito che avevano modellato la parte metallica di un accendino per fare l’ago e avevano usato il filo preso da una coperta di fortuna. Nel pomeriggio, poi, i feriti sono saliti a nove, quando cinque immigrati marocchini hanno emulato i primi e si sono anche loro cuciti la bocca. Secondo il Garante dei detenuti del Lazio, i nove sono assistiti nel Cie e non è stato necessario il trasporto in ospedale.

21) Il 30 ottobre del 2015 si è svolto in Italia uno sciopero generale dei lavoratori della logistica, 24 ore di lotta organizzata per passare dalla fase della “resistenza” nei confronti dello sfruttamento nel settore a quella della richiesta dei diritti, per tutte e tutti.
G. Cremaschi, Dignità e conflitto, impariamo dalle lotte dei facchini, dal blog di MicroMega
Mohammed è laureato in giurisprudenza e lavora in un magazzino all'Interporto di Bologna. Non stupisca il titolo di studio, molti degli immigrati che lavorano nella logistica hanno studi molto elevati. Quasi sempre ne sanno più di chi li comanda, che fino a poco tempo fa li trattava con durezza e disprezzo; ma da quando sono cominciate le lotte, nella logistica le cose sono cambiate. Erano un migliaio almeno i facchini di tante nazioni che hanno completamente bloccato il 30 ottobre 2015 l'Interporto di Bologna, un centro logistico enorme, dove si smistano le merci tra autocarri e capannoni che fanno venire in mente quelli di Mirafiori o dell’Ilva, per l'estensione e le migliaia di persone che vi lavorano. L'Interporto era deserto, salvo i picchetti degli scioperanti e qualche crumiro incallito dipendente. Il facchino è l'ultimo anello di una catena di smistamento e vendita delle merci sulla quale si organizzano colossali impianti in mano ad aziende sempre più grandi. Le merci, prodotte in tutti gli  angoli della terra, devono arrivare al consumatore sempre più in fretta. Si impiantano così grandi centri logistici dove affluiscono i prodotti che vengono scaricati, smistati, impacchettati grazie al lavoro di migliaia di operaie e operai, in gran parte immigrati, assunti con salari di fame e turni massacranti, sotto la minaccia di tutti i ricatti possibili a partire da quello sul posto di lavoro ed il permesso di soggiorno. Ma […] tante persone messe assieme prima o poi si ribellano alla sopraffazione e allo sfruttamento e con l’aiuto di un sindacato di base (Sicobas) un vasto movimento di lotta e rivendicativo ha toccato centri logistici e grandi mercati all'ingrosso, aziende committenti e cooperative in appalto. I salari han cominciato a crescere, i diritti anche e con essi il bene più prezioso, la dignità.

CONCLUSIONE

È rimasto volutamente nell’ombra un altro ispiratore di questo nostro percorso odierno, ma ora, in conclusione, lo presento. A futura memoria, se la memoria ha un futuro, è il titolo di una raccolta di scritti di Leonardo Sciascia, pubblicata nel 1989, poco prima della sua morte. Lo scrittore siciliano interviene su temi importanti e difende la sua posizione di critico intransigente del proprio tempo e della propria terra. Ribadisce in tante occasioni che, se si vuole dare un contributo dal posto che si occupa nella società, per impedire che vengano calpestati gli innocenti e trionfino i colpevoli, è necessario tenere desti l’attenzione e il senso critico, non rinunciare a sentire, in noi e fuori di noi, il pungolo dell’onestà intellettuale. Il punto è, scrive Sciascia, non smettere mai di educarsi. Così il pensiero si volge a noi studenti, e a quello che facciamo qui, quotidianamente, in questa scuola pubblica, nell’istituto Gobetti-Segrè. Veniamo educati alla cittadinanza attiva, al pensiero critico, alla collaborazione, a riconoscere il male. Come scrive Todorov nell’introduzione a I sommersi e i salvati di Levi, che oggi abbiamo ripetutamente ascoltato, “la semplice memoria del male non è […] sufficiente a prevenirne il ritorno; bisogna che il richiamo del male sia sempre accompagnato da un’interpretazione e da istruzioni per l’uso; ed è proprio quello che ci offre Levi nei Sommersi e i salvati. Levi non si accontenta di rievocare gli orrori del passato, ma si interroga – a lungo e con pazienza – sui significati che tali orrori hanno oggi per noi; ed è proprio in questo atteggiamento verso il passato che sta la sua lezione più preziosa.  È proprio in quest’ottica che si trova in compagnia di altri grandi rappresentanti del nuovo umanesimo europeo (quello del dopo Auschwitz  e del dopo Kolyma) come Vassilij Grossman o Germaine Tillon: quegli umanisti, cioè, a cui l’aver dovuto scandagliare il fondo del male non ha impedito di mantenere opinioni moderate; che la follia del mondo non ha cioè portato a rinunciare alla ragione.
Non si può “concludere” un discorso così articolato e coinvolgente, così profondo per tutti noi. Non sarebbe nemmeno in armonia con l’impostazione che abbiamo cercato di dare: noi non vogliamo concludere, ma continuare. Continuare a ricordare e a interrogarci, a porre domande, a riconoscere continuità, discontinuità, eterni ritorni. Noi crediamo che la famiglia, la scuola, ma anche i mezzi di comunicazione e le istituzioni siano responsabili della nostra educazione: a tutti loro, a tutti voi, chiediamo di ricordare questo, perché la nostra memoria possa avere un futuro. Allora, rinunciando a concludere, lascio ancora la parola a Levi. Scrisse quanto verrà letto ora poco prima di morire, e suona come un ammonimento. Se lo può permettere, lui, di ammonirci tutti, a qualsiasi  generazione apparteniamo, in questo oggi ammantato di ipocrisia e  in cui le parole vengono manomesse  e violentate.

Levi, I sommersi e i salvati
TUTTO PUÒ SEMPRE RIPETERSI

22) “L'esperienza di cui siamo portatori noi superstiti dei Lager nazisti è estranea alle nuove generazioni dell'Occidente, e sempre più estranea si va facendo a mano a mano che passano gli anni. Per i giovani degli anni '50 e '60, erano cose dei loro padri: se ne parlava in famiglia, i ricordi conservavano ancora la freschezza delle cose viste. Per i giovani di questi anni '80, sono cose dei loro nonni: lontane, sfumate, "storiche". Essi sono assillati dai problemi d'oggi, diversi, urgenti: la minaccia nucleare, la disoccupazione, l'esaurimento delle risorse, l'esplosione demografica, le tecnologie che si rinnovano freneticamente ed a cui occorre adattarsi [...] Si affaccia all'età adulta una generazione scettica, priva non di ideali ma di certezze, anzi, diffidente delle grandi verità rivelate; disposta invece ad accettare le verità piccole, mutevoli di mese in mese sull'onda convulsa delle mode culturali, pilotate o selvagge.

Per noi, parlare con i giovani è sempre più difficile. Lo percepiamo come un dovere, ed insieme come un rischio: il rischio di apparire anacronistici, di non essere ascoltati. Dobbiamo essere ascoltati: al di sopra delle nostre esperienze individuali, siamo stati collettivamente testimoni di un evento fondamentale ed inaspettato, fondamentale appunto perché inaspettato, non previsto da nessuno. È avvenuto contro ogni previsione; è avvenuto in Europa; incredibilmente, è avvenuto che un intero popolo civile, appena uscito dalla fervida fioritura culturale di Weimar, seguisse un istrione la cui figura oggi muove al riso; eppure Adolf Hitler è stato obbedito ed osannato fino alla catastrofe. È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire. Può accadere, e dappertutto [...] Molti nuovi tiranni tengono nel cassetto la “Battaglia” di Adolf Hitler: magari con qualche rettifica, o con qualche sostituzione di nomi, può ancora venire a taglio.” 

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