SCHEDE PERSONAGGIO VOSTRE

 Gertrude, la monaca di Monza (Lorenzo)

Le descrizioni dei vari personaggi che compaiono nel romanzo sono realizzate da Manzoni mediante descrizioni dirette, ovvero condotte attraverso lo sguardo del narratore onnisciente, che propone una sorta di fotografia del personaggio, con dettagli inerenti al volto, all’abbigliamento, al modo di muovere gli occhi o di camminare, o indirette, come quelle ricavabili dalle le situazioni in cui sono coinvolti. Per introdurre la figura della monaca di Monza, l’autore ricorre anche a un terzo metodo, quello della descrizione effettuata tramite le parole di altri personaggi interni al romanzo.  

Gertrude viene nominata per la prima volta nelle parti iniziali del nono capitolo. Agnese e Lucia arrivano accompagnate da un barocciaio al convento di Monza, dove il padre guardiano fa per primo menzione della monaca chiamandola signoranon c'è che la signora: se la signora vuol prendersi quest'impegno […]. Le due donne sono subito incuriosite da questo termine, signora, che la rende distante dalle persone comuni, e durante il tragitto verso il monastero vero e proprio pongono domande al barocciaio sul suo conto. La signora, è una monaca; ma non è una monaca come l'altre è la risposta dell’uomo. Appare quindi come avvolta in un’aura di mistero e con l’utilizzo di tale tecnica Manzoni vuole creare una forte aspettativa nel lettore. Questa  monaca fuori dall’ordinario viene chiamata signora pur essendo molto giovane, e sebbene non sia né badessa né priora. Cos’è allora che la rende così importante, viene spontaneo da chiedersi al lettore. Si cominciano allora a scoprire le sue origini, venendo a conoscenza del fatto che sia figlia di una nobile e potente famiglia proveniente dalla Spagna. I suoi d'adesso, laggiù a Milano, contan molto, son di quelli che hanno sempre ragione, e suo padre, nonostante non risieda a Monza, è talmente potente da avere il pieno controllo anche in quel territorio.  

Una volta giunti nei pressi del parlatorio, dove fanno la conoscenza della tanto attesa signora, si rende necessaria una descrizione diretta di Manzoni, poiché le due donne non potrebbero notare nulla di inusuale nel suo aspetto, non essendo pratiche dei monasteri, mentre  il padre guardiano è ormai abituato alla sua personalità.  
Si delinea così la figura di una giovane donna intorno ai 25 anni, che sedeva ritta dietro la grata di separazione delle  monache  dai visitatori. E se la prima sensazione che trasmetteva era quella di bellezza, Manzoni corregge subito questa affermazione, affiancando tre aggettivi in ordine crescente di negatività: sbattuta, sfiorita e scomposta, che si pongono in forte contrasto con il termine da connotare prescelto.  

Altro elemento in contrasto con l’iniziale aspetto da monaca è una ciocca di capelli che fa capolino da un angolo del velo, quasi un vezzo in contrasto con le prescrizioni del regolamento. L’ipotesi meno lesiva, per la sua morale monacale,  è quella che si tratti di una semplice dimenticanza, ma è decisamente peggiore la seconda possibilità, che si tratti di disprezzo della regola. Se lei che è la signora può permettersi di contravvenire ai comandi, allora anche le altre potrebbero essere corrotte dal modello negativo, dimostrando come l’esempio possa, nel bene e nel male, sortire potenti effetti.  L’ultima importante caratteristica riguarda gli occhi della monaca, che sembrano a volte chiedere affetto e pietà, mentre in altre occasioni trasmettono un che di minaccioso e feroce, come se nascondessero qualcosa di oscuro che non ha niente a che fare con la dignità di una suora.  

Una volta iniziato il discorso, la signora si dimostra particolarmente interessata alle parole di Lucia, specialmente quando il padre guardiano prende la parola e fa menzione di alcuni pericoli in cui questa si era, suo malgrado, imbattuta. Proprio in tale breve scambio di battute emerge ancor  più il suo lato caratteristico, e poco consono all’abito,  dato che si incuriosisce a udire la parola “pericoli”, perché intuisce l’allusione a una storia scabrosa. Tuttavia, quando chiede ulteriori approfondimenti, in risposta ottiene che tali storie all'orecchie purissime della reverenda madre devon essere appena leggermente accennate, e ciò la rende, momentaneamente, irritata. La particolare attrazione verso Lucia non si manifesta verso Agnese che, al contrario, infastidisce la signora. Questo perché l’ammirazione che sembra provare per la giovane contiene forse tanta invidia verso chi ha fatto scelte completamente diverse ed è l’opposto di sé. Invidia verso l’altro modo di pensare, che non si addice certamente a una monaca, e che è spiegabile solamente attraverso il racconto della sua vita. A questo quindi si dedica, con una lunga digressione, il narratore onnisciente. 

Se il padre di Gertrude era molto ricco e potente, è la prima informazione biografica fornita da Manzoni, non aveva però alcuna intenzione di dividere il suo patrimonio fra tutti i suoi figli e, confortato anche dalla legge sul maggiorascato, aveva deciso di assegnare tutta l’eredità al primogenito, destinando tutti gli altri al chiostro. Quando ancora non era nata, quindi, il suo futuro era già scritto, nella totale incuranza dei suoi desideri e delle sue possibili scelte. Tutta la sua educazione è infatti impostata in modo da predisporla alla destinazione del chiostro: partendo dal nome, Gertrude, appartenuto a una celebre santa, fino ai primi regali,  bambole vestite da monaca. La famiglia aveva cercato dunque in ogni modo di imprimere nella sua mente l’idea di diventare madre badessa, senza altre possibilità di scelta. Era stata instradata alla vocazione fin da piccola, senza tenere conto del fatto che la vocazione non sia trasmissibile a qualcuno, ma debba essere propria di quella persona, intesa come punto di arrivo di un percorso interiore e profondo di ricerca. Le era stato fatto credere che il ruolo che avrebbe assunto all’interno del monastero, anche grazie al potere della sua famiglia, avrebbe fatto invidia a tutti. Quando però fece conoscenza con altre compagne del convento, scoprì che non tutte avrebbero trascorso lì la loro intera esistenza, ma molte sarebbero ritornate alla cosiddetta vita del secolo, si sarebbero sposate e avrebbero avuto una famiglia. Proprio in tale momento emerge la violenza psicologica alla quale era stata sottoposta fin da piccola: indotta a credere di essere superiore a tutte e da tutte invidiata, si ritrovava ad essere lei a provare invidia verso le proprie compagne, che avrebbero potuto sperimentare la vita vera al di fuori del convento.  

Secondo il regolamento monacale, prima di prendere definitivamente il velo, le ragazze dovevano trascorrere un periodo di un mese all’interno della propria casa. Poco prima di rientrare, pertanto, presso la propria famiglia, Gertrude scrisse una lettera al padre nella quale esprimeva la sua volontà di abbandonare la vita claustrale. Aspettandosi che una volta tornata a casa qualcuno le chiedesse cosa avrebbe voluto fare, prevedeva di scegliere di non ritornare al convento. In contrasto con le sue ingenue aspettative, però,  nessuno, né servitori né parenti, una volta giunta a casa, la accolse con affetto e, men che meno, le rivolse domande. La malvagia strategia del padre consisteva nel farle provare la “vera vita” in questi termini, in modo che si convincesse delle buone condizioni che offriva, a confronto, la vita da monaca. Il culmine della cattiveria paterna emerse nel momento in cui venne alla luce un innocente bigliettino di Gertrude indirizzato a un giovane paggio. Il padre, indignato, la fece rinchiudere in una piccola stanza in compagnia di una sorta di carceriera e la minacciò di una punizione futura ben più grave. Il padre riuscì così nel suo intento, poiché Il solo castello nel quale Gertrude potesse immaginare un rifugio tranquillo e onorevole, e che non fosse in aria, era il monastero, quando si risolvesse d'entrarci per sempre. Una tal risoluzione (non poteva dubitarne) avrebbe accomodato ogni cosa, saldato ogni debito, e cambiata in un attimo la sua situazione. Grazie alle manipolazioni del padre, il fatto che potesse essere trattata come una persona dai familiari sembra quasi un gentile favore, e non un ritorno alla normalità.  

Gli atti malvagi del padre non hanno fine: egli dà immediatamente per scontato che, con le sue scuse, la figlia intenda accettare il ritorno nel convento. E Gertrude, non riuscendo a ribellarsi, da quel momento in poi faceva tristemente il conto delle occasioni che le rimanevano ancora di dir di no. Aveva messo in moto una machina che, appena attivata, andava precipitosamente e senza verso di fermarla.  

Come se la sua situazione non fosse già abbastanza complicata, la badessa e le monache di Monza, pur potendo intuire che Gertrude non possedesse alcuna vocazione né volontà di prendere il velo, guardarono al vantaggio arrecato a loro stesse grazie alla protezione del suo potente padre, agevolando e riducendo a pure formalità tutti i processi che precedevano l’accesso alla vita monacale.  

Ne conseguì così la definitiva destinazione alla vita del convento; dopo essere passata per tante occasioni in cui avrebbe potuto cambiare il proprio futuro senza essere stata abbastanza forte per farlo. Atteggiamenti simili si manifestano in situazioni come la stesura della lettera di rinuncia alla vita da monaca indirizzata al padre, che cgli fa consegnare, anche se subito dopo s’era già pentita d’averla sottoscritta. Si pentiva poi d’essersi pentita, passando così i giorni e i mesi in un’incessante vicenda di sentimenti contrari. Risulta insomma essere profondamente combattuta e inquieta.  

Sono varie le situazioni in cui elabora delle strategie, ma non riesce a metterle in pratica: "O mi vorranno forzare", pensava, "e io starò dura; sarò umile, rispettosa, ma non acconsentirò: non si tratta che di non dire un altro sì; e non lo dirò. 

Nell’animo, l’infelice, provava un rammarico incessante della libertà perduta, l’abborrimento dello stato presente, un vagar faticoso dietro a desideri che non sarebbero mai soddisfatti. Rimane così per sempre una persona inquieta, frustrata, costretta a vivere in una dimensione che non le appartiene: vorrebbe osare ma è impotente ed incapace di ribellarsi al proprio destino. Lo farà poi nel peggiore dei modi, attraverso il tradimento dei voti e, soprattutto, con la più irreversibile delle scelte, quella di decretare la morte di una persona. 

Anche nell’assolvere il ruolo di maestra delle educande si palesa l’irrisolta contraddizione della sua vita: spesso infatti ritorna alla sua mente il pensiero che molte di loro eran destinate a vivere in quel mondo dal quale essa era esclusa per sempre, e prova quasi un desiderio di vendetta.  

Nel concludere questa presentazione di Gertrude, l’Autore dimostra che tutte le vicissitudini subite durante la sua vita non avrebbero potuto che culminare con gli ultimi eventi:  rompere il voto di castità a causa di un giovane signorotto di nome Egidio, che caso voleva abitasse vicino al convento, e macchiarsi del sangue di un’innocente che minacciava di raccontare a tutti del suo grave comportamento.  

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