LAVORI DI GRUPPO "VITA DI DANTE" - COMPLETO

Vita di Dante attraverso focus

Focus 1 

Nascita, condizione della famiglia, Beatrice, Vita nuova  e stilnovismo. 

La data di nascita di Dante Alighieri, battezzato Durante di Alighiero degli Alighieri, non è conosciuta con esattezza, anche se solitamente viene indicata attorno al 1265. Tale data è ricavata da alcune annotazioni autobiografiche riportate nella Vita Nuova, nonché dal raffronto con il celebre verso iniziale  della Divina commedia,  nel mezzo del cammin di nostra vita, dal quale, ambientandosi nel 1300 il viaggio e essendo considerati i 35 anni la metà esatta dell’esistenza probabile di un essere umano, si evince appunto l’anno indicato; un ulteriore raffronto consente anche di approssimare il giorno di nascita, dato che  nella cantica Paradiso alcuni versi del XXII canto indicano che Dante sia nato sotto il segno dei gemelli, quindi tra il 21 maggio e il 21 giugno. 

Della madre, che morì presto, non sappiamo che il nome, Bella degli Abati. Il padre, Alighiero di Bellincione, che morì nel 1283 e  si dedicò ad attività mercantili, apparteneva a una famiglia della piccola nobiltà guelfa di Firenze. Le notizie sull’origine della famiglia ci sono note grazie al racconto di Cacciaguida, un trisavolo di Dante protagonista di tre canti centrali del Paradiso (XV; XVI e XVII), che partecipò alla I Crociata in Terra Santa, dove morì nel 1148.

Beatrice Portinari, detta Bice, nacque a Firenze nel 1265/66, figlia di Folco Portinari e moglie di Simone dei Bardi, e morì nel 1290 all’età di soli 24 anni. La data di nascita di Beatrice è stata ricavata per analogia con quella di Dante, mentre la data di morte è stata tratta dalla Vita Nuova, come molte delle altre notizie biografiche. È, secondo alcuni critici letterari, la donna che Dante trasfigura nel personaggio di Beatrice, ovvero la musa ispiratrice del poeta. Anche Giovanni Boccaccio, grande ammiratore di Dante e autore del Trattatello in laude di Dante, del 1362, nel commento alla Commedia fa esplicitamente riferimento alla giovane. I documenti certi sulla vita di Beatrice sono molto scarsi, portando perfino a dubitare della sua reale esistenza. L’unico che darebbe concretezza storica al personaggio è il testamento del padre Folco Portinari, datato al 1287, nel quale lascia del denaro alla figlia, di nome appunto Beatrice. Sempre in tema di scarne notizie cronachistiche, Beatrice andò in moglie, quando era appena un’adolescente, a Simone dei Bardi e sarebbe poi morta di parto. Naturalmente è possibile che Dante si sia inventato Beatrice, ma questo non influenza minimamente la natura dell’amore assoluto  che dura oltre i confini della morte, che pone al centro della sua ispirazione, a iniziare dalla Vita Nuova, concepita fra il  1292 e il 1295. In quest’opera Dante rievoca le occasioni reali in cui il poeta e la fanciulla prima, la donna poi, si sarebbero incontrati.  

Dante nella sua Vita Nuova inserisce 31 liriche scritte da lui stesso nei precedenti dieci anni, sulle quali compie un'operazione di riordino e commento analitico, spiegandone genesi, significato e  struttura: un vero e proprio esercizio di critica letteraria che l’autore compie sulle sue stesse liriche,  riportate nel testo alternandole con parti in prosa, secondo un tecnica definita prosimetro. Dante inizia il racconto del suo amore per Beatrice dal giorno in cui gli apparve per la prima volta all’età di nove anni; nove anni più tardi Beatrice rivolge a Dante il suo primo saluto. Successivamente si ritira per meditare sulla sua amata, addormentandosi, e così gli appare in sogno Amore, che dopo aver fatto mangiare a Beatrice il cuore del poeta, piangendo si allontana verso il cielo insieme alla donna. Per avere una spiegazione della visione Dante invia ad alcuni trovatori del suo tempo il sonetto A ciascun’alma presa e gentil core. Tra le numerose risposte che riceve, una, da parte di Guido Cavalcanti, segna l’inizio di un’affettuosa amicizia tra i due poeti. Dante nasconde il suo amore per Beatrice, fingendo che il suo interesse fosse  rivolto ad un’altra donna (per questo definita donna-schermo), per la quale scrive alcune rime. Compone una lirica che elenca le sessanta più belle donne fiorentine, e al nono posto compare Beatrice. Dopo la partenza da Firenze della donna-schermo, Amore appare al poeta nelle sembianze di un pellegrino e gli indica il nome di un’altra donna da usare come schermo del suo sentimento. Questo atteggiamento espone Dante alla maldicenza della gente, tanto che Beatrice arriva a togliergli il saluto. Afflitto per esser stato privato del saluto dell’amata, Dante si isola da tutti e nel sonno ha una nuova visione di Amore, che lo invita a comporre un testo per confermare a Beatrice la sua fedeltà. In seguito Dante, condotto da un suo amico, incontra Beatrice ad un matrimonio. Alla vista di Beatrice, non riesce a nascondere l’amore per la donna, e per questo le altre donne presenti e lei medesima Beatrice cominciano a prendersi gioco di lui. Dante, umiliato, si ritira nuovamente e compone un sonetto. Nel frattempo muore il padre di Beatrice e il poeta chiede ad alcune donne cosa sia accaduto  per poi comporre altri sonetti. Poco tempo dopo la morte di Beatrice, Dante si ammala, e dopo nove giorni, indirizzato da Amore, descrive in un sonetto a Guido Cavalcanti un’apparizione di Beatrice preceduta da Giovanna-Primavera, la donna amata dal suo amico. Successivamente, descrive i benefici effetti prodotti dall’apparizione e dal saluto di Beatrice sugli uomini in generale e su di lui in particolare, in ulteriori  sonetti. Dopo aver illustrato ciò che lega Beatrice al numero nove e aver ricordato la lettera sulla condizione di Firenze da lui scritta, Dante riprende il filo del racconto della morte della sua amata. Più tardi durante il primo anniversario della morte di lei, Dante si accorge con stupore che ha cominciato a dimenticare Beatrice. Un giorno, però, gli ritorna in mente la donna com’era quando l’aveva incontrata per la prima volta, riprendendo così a pensare a lei. Nell’ultima pagina dell’opera, dopo aver fatto riferimento a un mirabile visione, con la quale sembra riferirsi al paradiso, e quindi al progetto di scrivere quella che diventerà la  Divina commedia, annuncia di non voler più scrivere di Beatrice se non nei termini di quella benedetta che contempla direttamente la gloria di Dio. 

Il Dolce Stil Novo, conosciuto anche come stilnovismo, stil novo o stilnovo, è un  movimento poetico sviluppatosi tra il 1250 e il 1310. Principale responsabile della ricostruzione della sua genesi è Dante, che indica come padre fondatore il poeta Guido Guinizzelli da Bologna, (morto nel 1276). Lo Stil Novo fiorirà ulteriormente, nell’ultimo scorcio del ‘200, a Firenze, per poi estinguersi ma influenzare ancora la poesia di Francesco Petrarca nel Trecento. Caratteristica peculiare dello stilnovismo è l’aver messo in secondo piano la  sofferenza dell'amante, per dare piuttosto centralità alla celebrazione delle doti spirituali dell'amata, a prescindere dalla corresponsione o meno del sentimento amoroso. L'origine della denominazione di questa corrente si rintraccia nella Divina Commedia di Dante Alighieri, precisamente nel canto XXIV del Purgatorio: l’anima del rimatore guittoniano Bonagiunta Orbicciani da Lucca definisce infatti la canzone dantesca Donne ch'avete intelletto d'amore con l'espressione dolce stil novo e al contempo rende note le caratteristiche del poetare di cui stiamo trattando. Con tale stile  si affermava un nuovo concetto di amore desiderato e pressoché impossibile, che non prescinde dalla tradizione culturale e letteraria trobadorica e siciliana, ma introduce una nuova concezione del femminile, spiritualizzato ovvero angelicato:  la donna, nella visione stilnovistica, ha la funzione di indirizzare l'animo dell'uomo verso la sua nobilitazione e sublimazione, raggiungibile nell'Amore assoluto, a sua volta identificato con la purezza attribuita al regno divino. La donna angelicata, che nello stilnovo è identificata da un più o meno parlante nome proprio (Beatrice che corrisponde a colei che rende beati), è oggetto di un amore  platonico e inattivo: non si tratta più, infatti, come avveniva nella letteratura cortese, di cercarla e conquistarla, dato che parlare di lei (poetare per lei) è pura ascesa e nobilitazione dello spirito, puro elogio e contemplazione descrittiva-visiva, che consente al poeta di mantenere sempre intatta e potente la propria ispirazione, in quanto diretta a un oggetto volontariamente cristallizzato e, appunto, irraggiungibile.  

Virginia, Francesco, Giuseppe, Matteo  

Focus 2

Carriera politica a Firenze, partecipazione alle contese fra guelfi e ghibellini, ambasceria e tradimento di Bonifacio VIII 

Poco dopo il matrimonio con Gemma Donati, Dante cominciò a partecipare come cavaliere ad alcune campagne militari che Firenze stava conducendo contro i suoi nemici esterni, tra cui Arezzo e Pisa. In particolare prese parte, come il suo concittadino poeta Cecco Angiolieri, alla battaglia di Campaldino nel giugno del 1289, conclusasi con la sconfitta dei ghibellini da parte dei guelfi. Solamente nel 1295, quando furono promulgati gli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella,  che ridiedero diritto ai nobili di rivestire ruoli istituzionali, purché si registrassero alle Arti, Dante poté iscriversi all'Arte dei Medici e Speziali e iniziare a rivestire cariche nella repubblica fiorentina.  

A causa della perdita di un certo numero dei verbali delle assemblee cittadine, non è nota l’esatta serie dei suoi incarichi politici, ma grazie ad altre fonti è stato possibile ricostruire parte della sua attività: fu nel Consiglio del popolo dal novembre 1295 all'aprile 1296;  nel gruppo dei "Savi", che nel dicembre 1296 rinnovarono le norme per l'elezione dei priori, i massimi rappresentanti di ciascuna Arte che avrebbero occupato, per un bimestre, il ruolo istituzionale più importante della Repubblica; dal maggio al dicembre del 1296 fece parte del Consiglio dei Cento. Talvolta, inoltre, fu inviato fuori Firenze come ambasciatore, ad esempio nel maggio del 1300 a San Gimignano.  

Nel frattempo, all'interno del partito guelfo fiorentino si verificò una grave frattura tra guelfi neri, gruppo capeggiato dai Donati, fautori di una politica conservatrice e aristocratica, e guelfi bianchi, gruppo capeggiato dalla famiglia Cerchi, fautori di una politica moderatamente popolare. La scissione, dovuta anche a motivi di carattere politico ed economico, generò una sorta di guerriglia interna, in cui Dante, in quanto difensore dell’autonomia del Comune contro le mire di controllo da parte del papato e del re di Francia, si schierò dalla parte dei guelfi bianchi. 

Nel 1300, dopo essere stato in missione diplomatica a San Gimignano, Dante fu nominato uno dei sette priori di Firenze, carica che ricoprì per due mesi. Proprio in questo periodo la rivalità tra le due fazioni dei guelfi di Firenze, i cosiddetti "neri", che consideravano il papa come un alleato contro il potere imperiale, e i "bianchi", che intendevano rimanere indipendenti sia dal papa  sia dall'imperatore, diventò particolarmente intensa. Nonostante facesse parte del partito guelfo, Dante si oppose  sempre agli interventi di papa Bonifacio VIII,  da lui ritenuto responsabile primario della decadenza morale della Chiesa. Le decisioni appoggiate da Dante in questo periodo sortirono inizialmente l'effetto di ostacolare i piani di Matteo d'Acquasparta, mandato da Bonifacio per moderare la potenza dei guelfi bianchi. Col suo appoggio venne poi votata la decisione di esiliare alcuni esponenti dei guelfi di entrambe le fazioni, fra i quali l'amico Guido Cavalcanti (che morirà nello stesso anno), allo scopo di mantenere la pace nella città. Il provvedimento si mostrò tuttavia inutile, ma soprattutto procurò, nei confronti di tutti i patrocinatori dell'iniziativa, odio e diffidenza da parte dei guelfi, sia bianchi sia neri . Una conseguenza imprevista ne fu una sorta di colpo di stato dei guelfi neri, supportati da d'Acquasparta. La relazione tra Bonifacio VIII  e guelfi bianchi peggiorò ulteriormente,  quando fu revocato l’esilio di questi ultimi, e venne inviato nuovamente un “paciere” da Bonifacio, mandato di fatto come conquistatore, al posto di d'Acquasparta: a quel punto la Repubblica inviò a Roma un'ambasceria di cui faceva parte anche Dante, al fine di limitare le mire di conquista del papa. 

Luisa, Lisa, Tommaso, Jacopo, Martina

Focus 3

Inizio dell'esilio, condanne

Era il 10 marzo del 1302 quando il non ancora sommo poeta (qualifica che conquistò dopo aver scritto la Divina commedia) fu condannato a morte a Firenze e costretto all'esilio dai guelfi neri, a qual punto detentori del potere. Quando i Neri rientrarono a Firenze, con l'appoggio di Bonifacio VIII, si diedero al saccheggio e scagliarono pesanti accuse contro gli esponenti della fazione opposta, i Bianchi. A seguito della vittoria dei Neri, accusato di baratteria e condannato in contumacia alla pena di morte nonché alla confisca di tutti i beni, Dante non tornò più nella sua città e cominciò a essere ospitato presso diverse corti, dove fu ben accetto grazie alla sua già consolidata fama di poeta. Per quanto concerne la condanna per baratteria, si trattava di una delle scuse più comuni usate contro gli avversari politici: il reato si configurava come trascuratezza dei pubblici uffici per denaro o altra ricompensa o, più in generale, come azione contraria agli interessi della cosa pubblica.

Tra le corti che lo ospitarono durante il lungo esilio, si segnala quella di Verona di Bartolomeo della Scala, quella di Treviso presso Gherardo da Camino, poi Padova, il Casentino e i Malaspina in Lunigiana.

Oltre all’esigenza di protezione ed accoglienza Dante sentiva la necessità di consolidare la propria fama di eccellente studioso, così da aumentare il proprio prestigio agli occhi di chi lo ospitava e per tenere viva la speranza di un ritorno a Firenze, in virtù dei suoi meriti. Si dedicò, quindi, alla redazione di varie opere, alcune rimaste incompiute, come il Convivio e il De vulgari eloquentia, e ovviamente alla Divina Commedia.

Nel 1308, con l’elezione come imperatore del sacro romano impero di Arrigo VII di Lussemburgo, si ravvivò la speranza di Dante che la situazione dell’Italia migliorasse, nella direzione di un superamento delle lotte interne, delle sanguinose contese che travagliavano la maggior parte dei territori. Possibile, naturalmente, che nutrisse anche la speranza di poter fare ritorno a Firenze. Il trattato politico De monarchia risale proprio a questo periodo, in cui per l'ultima volta il poeta pensò che fosse possibile pervenire a una sistemazione politica della situazione italiana.

Filippo C., Andrea, Sergiu, Ettore

GRUPPO 4: la speranza riposta nella discesa di Arrigo VII, il trattato De Monarchia

Arrigo VII di Lussemburgo, anche noto come Enrico, nasce nel 1275 e viene eletto imperatore del Sacro Romano Impero nel 1309. Appena un anno dopo, Papa Clemente V lo invita a scendere in Italia per risolvere i ripetuti e insanabili contrasti tra ghibellini, guelfi e le ulteriori fazioni interne ad essi. Nella città di Firenze, come in molte zone d’Italia, i ghibellini erano stati sconfitti e la lotta si era ridotta ai contrasti interni fra i quelfi. I cosiddetti guelfi neri sostengono pienamente il papa come unico detentore dei poteri, compresi quelli socio-economici. Quelli bianchi, invece, con i quali si schiera Dante, preferiscono che il papa si occupi delle questioni spirituali e non disdegnano un possibile ritorno del potere imperiale in Italia. Dietro a ciascuna delle fazioni si celano interessi sociali ed economici facilmente riconoscibili: nobiltà e borghesia finanziaria (banchieri in particolare) si identificano con gli interessi papali (essendo fra l’altro fra i principali finanziatori del papato medesimo), mentre commercianti e artigiani (economicamente più deboli) si sentono rappresentanti dai bianchi e con loro si schierano.  

Nel 1302 Dante, mentre è fuori dalla città di Firenze, viene condannato in contumacia al rogo e alla distruzione delle sue proprietà. Per Dante, costretto all’esilio, la notizia della discesa in Italia di Arrigo rappresenta la speranza di un ritorno al potere dei guelfi bianchi e, quindi, per lui, di una remissione della pena inflittagli.   

Tra il 1310 e il 1313 Dante scrive, col fine di incoraggiare la discesa dell’imperatore, dando una precisa veste teorica al progetto politico in questione, un trattato intitolato De Monarchia. La scelta della prosa latina risale alla volontà di comunicare con gli intellettuali, i quali ancora rifuggivano il ricorso al volgare come lingua dei dotti (e lo faranno ancora per trecento anni, fino alla coraggiosa scelta di Galileo). Il De Monarchia, dedicato alla forma politica della monarchia ovvero al potere detenuto da uno solo, è l'unica opera in prosa e di argomento teorico ad essere stata completata dall'autore. 

Nel primo libro egli spiega l'esigenza dell'istituzione imperiale, in quanto per garantire la pace universale è necessaria un'autorità superiore. Nel secondo libro, spiega che fu diritto proprio e inalienabile del populus romanus  esercitare l'autorità imperiale, fornendo così una giustificazione provvidenziale all’imperialismo. Infine nel terzo libro sostiene che l'autorità imperiale deriva direttamente da Dio. 

Dante afferma che, in armonia con la visione teologica del dio unico, la migliore forma di governo sia la monarchia che, però, deve conciliarsi con il potere papale. Per mantenere l’equilibrio è necessario spartire i territori di interesse, lasciando all’imperatore la sfera temporale e al papa quella spirituale, per quanto, o a patto che, ambedue i poteri siano rivolti  ai medesimi fini, che sono da una parte la felicità terrena dell'uomo e dall'altra la sua salvezza ultramondana. 

La morte improvvisa di Arrigo VII nel 1313,  spegne ogni residua speranza di Dante che si possano risolvere i problemi di quella che, nel VI canto del Purgatorio, definirà la serva Italia, di dolore ostello, non donna di provincie, ma bordello.  

Sara, Lorenzo, Alberto, Andrea T.

Focus 5

La battaglia a favore del volgare, il De vulgari eloquentia

Il termine “vulgari” da vulgus cioè popolo, significa proprio del popolo, mentre eloquentia fa riferimento a un utilizzo a livello alto della lingua.​ Questa opera, quindi, contiene una riflessione teorica che ha come fine l'identificazione di un volgare, per uso parlato e scritto, ovvero ideale. ​ 

 

Dante scrisse il De vulgari eloquentia, in tre libri, tra il 1304 e il 1307, per persuadere gli intellettuali, in maggioranza refrattari all'accettazione del volgare come lingua dotta, della possibilità di individuare quello che il poeta definisce volgare illustre. Il trattato è scritto in lingua latina, il che può sembrare contraddizione, ma è giustificato dal fatto che l’opera sia principalmente rivolta alle persone colte, che devono persuadersi di quanto Dante sostiene: che il volgare debba essere impiegato per argomenti degni, trattando di imprese belliche, passioni amorose e questioni morali e dottrinali. Si trattava insomma di vincere la resistenza dei dotti a ritenere che il termine eloquentia, intesa come uso eccellente della lingua, si applicasse solamente al latino. 

 

L’opera segue un'impostazione geografica, per quanto riguarda la distribuzione delle lingue (dialetti) sul territorio italiano e europeo.

Dante intuisce che i volgari parlati in Europa si dividono in 3 grandi gruppi, corrispondenti al greco, alle lingue germano-slave e a quelle dell’Europa occidentale; queste ultime si dividono ancora in lingua d’oil, lingua d’oc e lingua del sì, ovvero l’insieme dei volgari d’Italia. A questo punto Dante divide i volgari italiani in due gruppi di 7 lingue ciascuno, distribuiti a est e a ovest dell’Appennino.  

Per Dante la lingua ha un'enorme importanza anche a livello politico. Infatti egli crede che le tante frammentazioni della lingua in Italia, concorrano e consolidino le divisioni politiche maturate nel tempo. Di qui la ricerca di una lingua comune, un italiano che tutti possano comprendere. Perviene così alla teorizzazione di un volgare ideale (ancora inesistente), che per lui doveva configurarsi come illustre (provvisto della stessa dignità del latino, sublime, alto), cardinale (in quanto cardine al quale fanno riferimento tutti gli altri volgari), aulico/regale (ossia adeguato al palazzo imperiale, che purtroppo peraltro non esiste ancora, o più) e curiale (anche in questo caso, adeguato alle stanze del potere e dell'amministrazione che dovrebbero esistere in una monarchia). 

Carlotta, Eleonora, Filippo M., Federico

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