LEZIONE DEL 12 OTTOBRE - ETA' DELL'ORO E EUDAIMONIA - LAVORO DI GRUPPO
Materiali
Il mito dell’età dell’oro
Il mito delle età in Esiodo
Il mito dell’età dell’oro identifica la realtà come ripetizione di un archetipo divino. Ogni aspetto positivo della vita ha un prototipo in una sfera superiore. «Fiumi, montagne, territori, città presuppongono un archetipo ultraterreno che ne è forma, quando non venga addirittura concepito come un doppione esistente ad un livello cosmico più alto»1 . Esiodo (VIII-VII sec. a.C.) ci offre la prima rievocazione della stirpe dell’oro, che visse durante il regno di Crono, prima dell’avvento di Zeus: Gli dei immortali … fecero una stirpe aurea di uomini mortali, che vissero al tempo di Crono. Essi vivevano come numi, senza dolori, senza fatiche, senza pene. Non gravava su di loro la vecchiaia … si rallegravano in conviti in assenza di ogni male … avevano ogni sorta di beni: la terra fertile produceva spontaneamente frutti ricchi e copiosi. Benevoli e pacifici, abitavano nelle loro terre ricchi di greggi e amati dagli dei beati (Le opere e i giorni, 109 ss., trad. di G. Costa). All’aurea seguirono, con progressivo declino, la stirpe argentea, empia e bellicosa, sterminata da Zeus; la stirpe bronzea, violenta al punto da autodistruggersi; la stirpe degli eroi, annientati dalle guerre e i cui successori passarono nelle Isole dei beati; la stirpe ferrea, la peggiore di tutte, che vive nel dolore in un mondo abbandonato da Aidos (Pudore) e Nemesis (Giustizia). Platone Platone nel Politico compendia il mito in due cicli che eternamente si avvicendano: uno ascendente governato da una forza divina, uno discendente abbandonato a se stesso. L’età dell’oro corrisponde al ciclo ascendente, guidato da Dio e da divinità minori che, come pastori, si prendevano cura degli uomini divisi in vari greggi:
Esseri soprannaturali, di natura divina, s’erano divisi a guisa di pastori le creature viventi, distribuite in gruppi secondo la specie. Non c’erano animali selvatici, le creature non si divoravano l’una con l’altra, la guerra non c’era … non c’erano ordinamenti politici; nessuno possedeva donne e figli … godevano in abbondanza di frutta, dono di grandi alberi e vegetazione lussureggiante … non praticavano agricoltura; da sola, spontaneamente, la terra produceva ogni frutto; non conoscevano vesti, non uso di giacigli; sotto la guida del pastore vivevano all’aria aperta in una temperata armonia di stagioni (271b-d). Platone delinea un’età dell’oro in chiave pastorale, organizzata in forma di comunismo utopico, nella quale gli uomini vivono concordi, senza bisogno di lavorare, in piena armonia con gli dei e l’ambiente naturale. Il benessere materiale favorisce, in questo Paradiso terrestre, la possibilità di conversare e filosofare: «Gli alunni di Crono avevano possibilità, liberi da ogni occupazione, d’intrattenersi … per dedicarsi all’amore di sapienza» (272 b).
Arato (Arato di Soli IV-III sec. a.C.) e Cicerone, diversamente da Erodoto, non distinguono nei Fenomeni cinque stirpi differenti, ma affermano l’unità del genere umano attraverso le varie età, concepite come tappe del processo degenerativo di una medesima stirpe. L’età dell’oro ha in Arato una caratterizzazione eminentemente morale, che Cicerone sottolineerà nella sua traduzione latina. In un frammento degli Aratea ciceroniani (XVII Traglia) leggiamo che gli uomini aurei malebant tenui contenti vivere cultu, dove malebant sta a indicare una precisa e consapevole scelta di frugalità: nonostante la grande abbondanza di frutti, essi «preferivano» vivere secondo un tenore modesto, realizzando una loro semplice filosofia di vita. Teocrito, Ennio, Lucrezio In un idillio di Teocrito l’età dell’oro assume una connotazione erotica, che manterrà nei versi dell’elegia I 3 di Tibullo: «L’un l’altro si amarono in egual misura; e veramente allora vi erano di nuovo gli uomini dell’età dell’oro, quando l’amato riamava a sua volta!» (XII, 12 ss.). Negli Annali di Ennio (III-II sec. a.C.) il mito si romanizza. Crono è identificato con Saturno e l’età dell’oro diviene un periodo della storia italica. Alla leggenda si collega lo stesso nome di Lazio, fatto derivare da latere: in questa terra si sarebbe nascosto (latuisset tutus) Saturno inseguito dalle armi di Giove. Su un piano diverso si colloca il grandioso affresco dei primordi dell’umanità offerto da Lucrezio nel V libro del De rerum natura. In questa ricostruzione – forse il primo saggio di antropologia culturale della storia occidentale – non c’è idealizzazione dello stato di natura. Gli uomini primitivi non hanno origine divina, conducono un’esistenza ferina irta di difficoltà obbedendo a impulsi utilitaristici, vivono immersi nella solitudine di una natura tutt’altro che benigna dove non scorrono fiumi di latte e miele, ma vige la legge della selezione dei più forti. Tuttavia, come gli uomini aurei, sono esenti dalla brama insaziabile che avvelena i tempi moderni. Paghi dei poveri doni della natura, con la quale intrattengono un rapporto sobrio e armonico, vivono senza agricoltura in uno stato di innocenza originaria anteriore ai mali della società civilizzata, in una sorta di «smemorata felicità» su uno sfondo naturale di selvaggia grandiosità e di severa bellezza, che favoriva perfino la dimensione contemplativa: Né v’era alcun guidatore del curvo aratro … Quello che il sole, quello che davan le piogge e che la terra creava da sé, spontaneo, quel dono bastava a renderli paghi. Rifocillavano il corpo sotto le querce datrici di ghiande; quei corbezzoli che ora tu vedi tingersi di rosso e maturar nell’inverno li produceva la terra più numerosi e più grossi. E porse il florido giovane mondo oltre a ciò molti rozzi cibi, in quel tempo, bastevoli agli indigenti mortali. Ma li invitavano a togliersi la sete i fiumi e le fonti come oggi a sé, da lontano, l’acqua che scende dall’alte montagne chiama col chiaro scroscio le belve assetate. E ricordavano infine, nel loro errare, le grotte silvestri, asilo delle Ninfe, dove sapevan che il largo getto fuggevoli rivoli bagnavan gli umidi sassi, stillando sul verde muschio, e all’aperto ne scaturiva nel piano e ne sgorgava una parte (933 ss.). Virgilio e il modello dell’utopia politica Con Virgilio la leggenda è proiettata nel futuro, in prospettiva escatologica. Nella quarta egloga la nascita del figlio di Asinio Pollione, amico e protettore del poeta, è interpretata come segno del ritorno dell’età dell’oro: Già venne l’ultima età dell’oracolo cumano; la grande serie dei secoli rinasce dall’inizio; già torna la vergine [Astrea, dea della giustizia], torna il regno di Saturno (redeunt Saturnia regna); già la nuova progenie discende dal cielo … O casta Lucina [Diana], sii favorevole al bambino nascente, con il quale cesserà la prima generazione ferrea e sorgerà una generazione aurea in tutto il mondo … Proprio sotto il tuo consolato, o Pollione, inizierà questa età splendida … Per te o fanciullo la terra senza che nessuno la coltivi, effonderà i primi piccoli doni, l’edera errante qua e là con l’elìcriso e la colocàsia con il gaio acanto. Le capre da sole riporteranno gli uberi colmi di latte, e gli armenti non temeranno i grandi leoni. La stessa culla spargerà per te soavi fiori. Svanirà anche il serpente, svanirà l’erba insidiosa di veleno, e dovunque nascerà l’amomo di Assiria (4 ss.). Virgilio riprende il mito nell’Eneide (VIII 314 ss.) dove, come già aveva fatto Ennio, identifica il regno di Saturno con l’età dell’oro. Egli [Saturno] quel popolo barbaro per gli alti monti disperso, riunì, diede leggi e chiamar volle Lazio la terra ove latebre aveva trovato, sicure. L’età dell’oro, che dicono, fu sotto quel re: così in placida pace egli reggeva il suo popolo, finché via via peggiore e più pallido scorse il tempo, e nacque rabbia di guerra e brama d’avere. (trad. di R. Calzecchi Onesti) Virgilio attribuisce ad Augusto il merito di avere rinnovato il regno di Saturno: «Cesare Augusto … rifarà l’aureo secolo nel Lazio per le terre un tempo governate da Saturno» (VI 791-2). «Questa interpretazione dell’età dell’oro in termini politici, in cui confluiscono la tradizione greca del salvatore (sotèr) e quella latina del padre della patria (pater patriae), diventerà uno strumento della propaganda imperiale e avrà applicazioni nel Medioevo, nel Rinascimento e nell’età moderna» (G. Costa). L’idea che nel futuro tornerà la condizione primigenia diventa uno dei più diffusi modelli dell’utopia politica, perdurante fino all’età moderna. Nelle Georgiche Virgilio descrive – con accenti che richiamano la storia lucreziana del progresso umano – il passaggio dal regno di Saturno al regno di Giove, segnato dall’avvento del labor improbus: Prima di Giove non v’erano agricoltori a lavorare la terra, e neanche si poteva sognare i confini dei campi e spartirli; tutti gli acquisti erano in comune, la terra da sé donava, senza richiesta, con grande liberalità, tutti i prodotti. Egli aggiunse il pericoloso veleno ai tetri serpenti, e volle che i lupi predassero, che il mare si agitasse, e scosse il miele delle foglie e nascose il fuoco e fermò il vino che fluiva sparso in ruscelli, affinché il bisogno sperimentando a poco a poco esprimesse le varie arti e cercasse le piante del frumento nei solchi e facesse scoccare il fuoco nascosto nelle vene della selce … Allora nacquero le diverse arti. Tutto vince il faticoso lavoro e il bisogno che incalza nelle avversità (I 125 ss., trad. di L. Canali). Il pessimismo oraziano Tra i poeti augustei, trattano il mito aureo Orazio, il cui epodo XVI, scritto negli stessi anni in cui Virgilio componeva l’egloga quarta, rivela molte corrispondenze con questa, al punto che è probabile che uno dei due autori abbia scritto suggestionato dall’altro. La visione antitetica suggerisce che un componimento sia la risposta all’altro: all’ottimismo di Virgilio che profetizza una nuova età dell’oro si contrappone il pessimismo de repubblicano deluso Orazio, che preannuncia l’imbarbarimento della romanità (vv. 10-14).
Ovidio Oltre che negli Amores (VIII 35 ss.), Ovidio riprende nelle Metamorfosi il mito, riecheggiando il quadro lucreziano: Ovidio, Metamorfosi I, vv. 89-112; Aurea prima sata est aetas, quae vindice nullo, sponte sua, sine lege fidem rectumque colebat. 90 poena metusque aberant, nec verba minantia fixo aere legebantur, nec supplex turba timebat iudicis ora sui, sed erant sine vindice tuti. Per prima fiorì l'età dell'oro, che senza giustizieri o leggi, spontaneamente onorava lealtà e rettitudine. Non v'era timore di pene, né incise nel bronzo si leggevano minacce, o in ginocchio la gente temeva i verdetti di un giudice, sicura e libera com'era. Anche Ovidio insiste sull’assenza della navigazione, della guerra, del lavoro: Nondum caesa suis, peregrinum ut viseret orbem, montibus in liquidas pinus descenderat undas, 95 nullaque mortales praeter sua litora norant; nondum praecipites cingebant oppida fossae; non tuba derecti, non aeris cornua flexi, non galeae, non ensis erat: sine militis usu mollia securae peragebant otia gentes. 100 ipsa quoque inmunis rastroque intacta nec ullis saucia vomeribus per se dabat omnia tellus,
contentique cibis nullo cogente creatis arbuteos fetus montanaque fraga legebant cornaque et in duris haerentia mora rubati 105 et quae deciderant patula Iovis arbore glandes. Reciso dai suoi monti, nell'onda limpida il pino ancora non s'era immerso per scoprire terre straniere e i mortali non conoscevano lidi se non i propri. Ancora non cingevano le città fossati scoscesi, non v'erano trombe dritte, corni curvi di bronzo, né elmi o spade: senza bisogno di eserciti, la gente viveva tranquilla in braccio all'ozio. Libera, non toccata dal rastrello, non solcata dall'aratro, la terra produceva ogni cosa da sé e gli uomini, appagati dei cibi nati spontaneamente, raccoglievano corbezzoli, fragole di monte, corniole, more nascoste tra le spine dei rovi e ghiande cadute dall'albero arioso di Giove. I tratti descrittivi dello sfondo naturale sono quelli del Paradiso terrestre: Ver erat aeternum, placidique tepentibus auris mulcebant zephyri natos sine semine flores; mox etiam fruges tellus inarata ferebat, nec renovatus ager gravidis canebat aristis; 112 flumina iam lactis, iam flumina nectaris ibant, flavaque de viridi stillabant ilice mella.. Era primavera eterna: con soffi tiepidi gli Zefiri accarezzavano tranquilli i fiori nati senza seme, e subito la terra non arata produceva frutti, i campi inesausti biondeggiavano di spighe mature; e fiumi di latte, fiumi di nettare scorrevano, mentre dai lecci verdi stillava il miele dorato. Con l’arrivo di Giove inizia il processo degenerativo, che attraversa le fasi canoniche dell’argento, del bronzo e del ferro. L’avvento del caldo e del freddo impone l’uso di abitazioni, cominciano le fatiche agricole: «Allora sorsero le prime case … Per la prima volta i semi sacri a Cerere furono coperti nei solchi diritti, e i bovi gemettero sotto il peso del giogo». Dopo il periodo dell’argento e del bronzo, l’età del ferro rappresenta il punto più basso della decadenza, della quale la navigazione e la proprietà privata sono i segni più evidenti: «Il nocchiero scioglieva le vele ai venti … l’attento misuratore segnò con lunghi confini la terra, che prima era comune come l’aria e la luce del sole». La smodata avidità (amor sceleratus habendi) fece estrarre dalla terra il ferro, per costruire armi, e l’oro, causa dei peggiori delitti. Tra i poeti augustei, oltre a Virgilio, Orazio e Ovidio, trattano il topos anche Properzio (Eleg. III 13, 25 ss.) e Tibullo (I, 3). Gli sviluppi nella filosofia stoica In ambito filosofico il mito dell’età dell’oro si connetteva alle scuole pitagorica, platonica, stoica. Seneca ci offre la versione stoica della leggenda. La felicità del secolo aureo è dovuta al comunismo, all’assenza di avarizia, al rapporto armonico con la natura: Gli uomini godevano in comune i prodotti della natura … e perfettamente tranquillo era il possesso delle comuni ricchezze … Gioivano guardando le costellazioni … quale intimo godimento doveva essere quel libero vagare fra tante meraviglie sparse nell’ampio universo! Ma l’innocenza e l’ignoranza del male precludevano a quei beati la vera saggezza: «Essi non possono essere considerati sapienti … L’ignoranza li lasciava in condizione di innocenza … Ma c’è una grande differenza tra il non volere e il non sapere peccare». Spetterà alla nuova età dell’oro stoica, di cui Seneca auspica l’avvento, coniugare innocenza e consapevolezza. Si tratta di una prospettiva di ascesi spirituale che influenzerà il pensiero cristiano. Dall'Antico testamento agli autori cristiani Già in ambito biblico era già presente questa immagine, come testimonia la profezia di Isaia:Isaia, Libro dell’Emmanuele 11, 6-8 Il lupo dimorerà insieme con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncino pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà. La mucca e l’orsa pascoleranno insieme; si sdraieranno insieme i loro piccoli. Il leone si ciberà di paglia, come il bue. Il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide; il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi. È in ambito cristiano, però, che l’età dell’oro, in una lettura figurale dei classici, è interpretata con la permanenza dell’uomo nell’Eden, mentre con il peccato originale inizia il processo degenerativo culminante nel fiorire del politeismo. Scrive Lattanzio: «Durante il regno di Saturno, non essendoci il culto degli dei, Dio era venerato assolutamente. Non c’erano contese, né inimicizie, né guerre. Tolta la religione di Dio, persero la scienza del bene e del male». Ma l’avvento del cristianesimo ha reintegrato l’uomo nella purezza originaria: Ma Dio … mandò un inviato a ricondurre quel vecchio secolo … Tornò quindi l’aspetto di quella famosa età dell’oro: essa non è altro che il culto pio e rispettoso dell’unico Dio … Allora la terra aprirà la sua fecondità, e darà spontaneamente ricchissimi raccolti: le rocce dei monti trasuderanno miele e i ruscelli saranno di vino, i fiumi traboccheranno di latte. Finalmente il mondo godrà liberato … dall’errore. La connessione tra il mito aureo e il Paradiso Terrestre è esplicitata da Dante (Purg. XXVIII 139-141): «Quelli ch’anticamente poetaro/ l’età dell’oro e suo stato felice,/ forse in Parnaso esto loco sognaro»
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GRUPPO 1
Ettore, Federico, Sara, Elena, Matteo: riscrittura del materiale sopra riportato.
GRUPPO 2
Francesco, Filippo M., Martina, Andrea T.: riscrittura del materiale sopra riportato
GRUPPO 3
Giuseppe, Virginia, Eleonora, Lisa, Alberto: commenti morfosintattici e contenutistici inerenti ai versi dalle Metamorfosi.
GRUPPO 4
Lorenzo, Andrea S., Jacopo, Tommaso, Filippo C.G.: commenti morfosintattici e contenutistici inerenti ai versi delle Metamorfosi.
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