MATERIALE SU LUCREZIO DA RIELABORARE - LEZIONE DEL 18 GENNAIO
Materiali da rielaborare
INTRODUZIONE
A LUCREZIO
Scrive Calvino
nella sua prima lezione americana,
dedicata all’opposizione leggerezza-peso, di voler sostenere le ragioni della leggerezza. E non perché
quelle del peso siano meno valide, ma
per il fatto di avere, sulla leggerezza, più cose da dire. A partire dai contenuti, Calvino ha tolto peso alle figure
umane, ai corpi celesti, alle città, ma soprattutto alla struttura del racconto e
al linguaggio. La leggerezza per lui è un valore anziché un difetto, e il mondo contemporaneo è lì a dimostrarlo: il mondo si regge su entità
sottilissime come i messaggi del DNA,
gli impulsi dei neuroni, i quarks, i neutrini vaganti nello spazio dall'inizio
dei tempi... Poi, l'informatica: il software non potrebbe esercitare i poteri
della sua leggerezza se non mediante la pesantezza del hardware; ma è il
software che comanda, che agisce sul mondo esterno e sulle macchine, le quali
esistono solo in funzione del software, si evolvono in modo da elaborare
programmi sempre più complessi. La seconda rivoluzione industriale non si
presenta come la prima con immagini schiaccianti quali presse di laminatoi o colate
d'acciaio, ma come i bit d'un flusso d'informazione che corre sui circuiti
sotto forma d'impulsi elettronici. Le macchine di ferro ci sono sempre, ma
obbediscono ai bit senza peso. “È legittimo estrapolare dal discorso delle
scienze un'immagine del mondo che corrisponda ai miei desideri? Lo è, perché
questo concorre a mettere in luce la sottile, impercettibile, leggera eppure
profonda rispondenza fra passato e presente, la risonanza del sempre
nell’infinito, quello che non ha mai smesso di essere e che, finora, sarà.”
Il De
rerum natura di Lucrezio è la prima grande opera di poesia in cui la
conoscenza del mondo diventa dissoluzione della compattezza del mondo, percezione
di ciò che è infinitamente minuto e mobile e leggero.
Nulla si crea, nulla si
distrugge, tutto si trasforma. Questa l’espressione sintetica del materialismo
epicureo, nonché la base della cosmogonia di questa scuola filosofica. Il cosmo
è un sistema in perenne movimento e cambiamento: un flusso incessante di atomi
lo costituisce, in modo tale da determinare un concatenato ossimoro: unità
infinitesimali, indistruttibili ed eterne danno luogo alla molteplicità estesa
e continuamente mutevole, percettibile sin dall’osservazione della minuta
realtà, quella sulla quale il nostro sguardo riesce a posarsi, e da lì
estendibile al cosmo.
Nell’universo vuoto, ci
spinge a pensare l’epicureismo, si agitano invisibili corpuscoli, e il
risultato di questo sovrapporsi di invisibilità è una materia ribollente,
solida, sì da dar luogo a tutto il visibile, il tangibile nonché il pensabile.
Che meraviglioso alimento concettuale per un poeta! Che riserva di trovate
metaforicamente suggestive per lui! La sfida di trasmettere in poesia e in
latino una filosofia contraria alla poesia e espressa in greco, riceve da
questo un nuovo alimento: il poeta chiede molto al suo ingegno, ma la materia è
nobile, è duttile, e adatta a essere plasmata da lui di là dalle più rosee speranze.
Come scrive Calvino
(nelle Lezioni americane, il saggio
dedicato alla Leggerezza) Lucrezio ha
approfittato della filosofia epicurea per poter dimostrare, complice la poesia,
che la conoscenza del mondo diventa dissoluzione della compattezza del mondo,
percezione di ciò che è infinitamente minuto e mobile e leggero. Tale
percezione ha avuta Epicuro, così si esprime il poeta latino, guardando il
pulviscolo agitarsi alla luce del sole (II 114-224), ma anche osservando le
minute e diversissime conchiglie che l’onda spinge sulla battigia: procedendo
per analogia (come possono fare i poeti, ma anche gli scienziati) ha esteso il
fenomeno all’infinitamente grande, ottenendo per questa via la descrizione del
cosmo. Il poeta, ho appena detto, ha qualcosa in comune con lo scienziato. I
rapporti analogici stimolano la sua intelligenza, suggerendogli percorsi
inediti, azzardi che talora conducono alla verità. Non a caso Lucrezio dichiara
sin dall’inizio del suo poema di essere il portatore di una rivelazione, di rendersi
corifeo d’un grande eroe dello spirito umano: le intuizioni dell'epicureismo
sono state confermate dalle ricerche supportate da raffinati strumenti tecnici,
ai quali è stato possibile dimostrare che ciò ch’era stato semplicemente
supposto era vero. Almeno in parte, per quanto riguarda le questione del “nulla
nasce dal nulla”.
Sulla quale restiamo
per fare qualche precisazione. Il poeta (nei versi del I libro, dal 146 al 214)
sostiene il principio dell’increazione (nulla mai nasce dal nulla per volere
divino), adottando il principio della dimostrazione per assurdo: pone infatti
una serie di ipotesi, che si verificherebbero solo nel caso impossibile in cui
il principio appena enunciato non fosse valido. Dal mare nascerebbero uomini,
dalla terra pesci, dall’aria uccelli; e ancora non sarebbero più rispettate le
stagioni e neppure i normali tempi di crescita delle specie. A provare
l’assurdità di questi casi, il fatto che essi non si verifichino mai, poiché in
natura esistono “semi” “germi” “principi” specifici per ogni cosa. Così, da un
certo seme nasce una certa pianta, e solo quella con le sue caratteristiche; da
un altro seme nasce un certo animale, e solo quello, con le sue prerogative, e
così via. Se il principio enunciato non tenesse, non ci sarebbe alcun bisogno
di questi semi particolari, ma tutto potrebbe derivare da tutto. Insomma in
natura, nessuna delle ipotesi sopra descritte si verifica. Rispetto al maestro
Epicuro, che aveva enunciato il principio “nulla nasce dal nulla”, Lucrezio di
suo aggiunge l’aggettivo “divinitus”, per volere divino, al fine di enfatizzare
la polemica antireligiosa: come al solito il suo primo intento è quello
allontanare dai lettori la paura degli dei, a cui l’uomo è sempre pronto ad
attribuire tutti i fenomeni di cui non riesce a spiegare le cause.
Dopo aver dimostrato il
principio dell’”in creazione” [sic] procedendo come detto per assurdo, Lucrezio
espone il secondo principio della fisica epicurea, “nulla ritorna al nulla”, e
per farlo precisa il concetto di atomo. Gli atomi sono particelle di
materia che sopravvivono alla
distruzione e alla morte dei corpi che hanno costituito: ciò è reso possibile
dal fondamentale concetto che Lucrezio spiegherà più tardi, cioè che in natura esistono
la materia e il vuoto. La prima è composta di atomi che, aggregandosi danno
luogo ai corpi, tra cui quelli animati; disgregandosi, invece, questi atomi
procurano la morte dei corpi costituiti in precedenza, ma essi possono
riaggregarsi per dare origini ad altri corpi, ad altre vite. Ciò avviene grazie
alla presenza del vuoto, realtà intangibile e immateriale che circonda la
materia o è frammista a essa: è il vuoto a permettere il movimento degli atomi
e le loro aggregazioni e disgregazioni. La natura disgrega ma non annienta,
visto che gli atomi per natura sono compatti (anche la denominazione lo
testimonia), indivisibili e indistruttibili. Solamente una forza straordinaria
potrebbe distruggere gli atomi, conclude Lucrezio, lasciando così trapelare
un’allusione alla fine del mondo consona con quelle alternanze di spirito che
rappresentano uno degli elementi poeticamente vitali del De rerum natura: il poeta scrive per liberare anche se stesso dalle
paure da cui vuole per sempre affrancare gli uomini. Il principale obiettivo
polemico di Lucrezio per quanto riguarda la tesi (mutuata da Leucippo e
Democrito) sul vuoto è Aristotele, che nella Fisica si illudeva di
spiegare il movimento prescindendo dal vuoto. L’intero universo aristotelico è
infatti corporeo, compresi i cieli e i loro astri, composti di un elemento
igneo chiamato “etere”. Per Aristotele infatti il movimento è determinato da
motori immobili di natura divina coordinati dal primo motore, Dio. Ma per gli
epicurei, torniamo a dire, ricorrere alle divinità per spiegare la realtà è quanto
di più erroneo si possa immaginare. Insomma a provare l’esistenza del vuoto e
la sua natura intangibile e immateriale sono la realtà del movimento, la
porosità dei corpi e infine la differenza del loro peso specifico.
Ancora un’ultima
considerazione sugli atomi: la prova della loro esistenza non può esser fatta
risalire ai sensi, giacché si tratta di particelle invisibili a occhio nudo, ma
Lucrezio sostiene che l’esperienza può allearsi all’induzione per persuaderci
della loro esistenza: adduce pertanto una lunga serie di esempi, quale quello
del vento, la cui sostanza invisibile ha la forza di distruggere e devastare,
l’odore, che per quanto invisibile colpisce l’olfatto, caldo e freddo, umido e
secco che analogamente sono percettibili. La dimostrazione si conclude con
l’osservazione del fenomeno cosmico dell’incessante e alterno processo di
crescita e perdita di tutto ciò che è.
NOZIONI BASILARI (ANCHE VITA) E UN BREVE COMMENTO
C’è rigore scientifico
e c’è coraggio nella scelta di Lucrezio di scrivere il De rerum natura.
Rigore, perché si
tratta di esporre al pubblico romano in modo chiaro, efficace e per la prima
volta a uditori per di più refrattari,
una filosofia come quella epicurea, comprensiva di tutte le sue parti, fisica,
antropologia, cosmologia [filosofia della natura come concezione scientifica
dell’universo]; coraggio perché appunto si trattava di infrangere una barriera,
opposta al sentire comune romano dell’epoca, ancora ostile all’epicureismo a
livello di percezione collettiva, di esprimere
per la prima volta in latino e poeticamente siffatti concetti.
La notizia più ampia su
Lucrezio si trova nel Chronicon di
San Girolamo, risalente al 347-420 d.C.: vi si fa riferimento alla pazzia, che
avrebbe colto il poeta per aver bevuto un filtro d’amore, e al fatto che, negli
intervalli concessigli dallo stato di alterazione, avrebbe scritto il De rerum natura, che Cicerone si sarebbe
poi curato di rivedere, per suicidarsi infine all’età di 43 anni (tra il 53 e
il 51 si collocherebbe appunto la morte, fra il 96 e il 94 la nascita). Probabile che la notizia della follia di
Lucrezio sia stata frutto di un’elaborazione avvenuta in età cristiana, nel
corso del IV secolo, funzionale a screditare Lucrezio per la sua polemica
antireligiosa. Anche alcuni critici contemporanei hanno dato credito a questa idea
dello stato di depressione bipolare di Lucrezio, sostenendo che sarebbe alla
base delle oscillazioni percepibili all’interno dell’opera fra ottimismo (della
ragione) e pessimismo (del sentimento).
Il De rerum natura è un poema in esametri, in sei libri, per un totale
di 7415 esametri. Probabilmente non finito, il poema riprende fedelmente il
titolo dell’opera più importante di Epicuro, Perì physeos, in 37 libri.
Il dedicatario è
l’aristocratico Memmio, probabilmente colui che fu amico e patrono anche di
Catullo. Per la datazione, ci si può affidare al fatto che il poeta nel I libro
dichiari di non poter venir meno alla cura del bene comune in un periodo tanto
difficile per la patria: si pensa quindi al 58-59, biennio di grandi disordini
nei quali fu coinvolto, in quanto pretore nel 58, anche Memmio. [Epicuro,
341-270, aveva fondato ad Atene una scuola denominata Képos, giardino, dove
insegnava il suo credo a uomini di qualsiasi estrazione, schiavi compresi, e
donne. Tema centrale, la ricerca della felicità: l’etica quindi è predominante
sulle altre branche, anche se la conoscenza della natura è fondamentale perché
libera la mente dalle superstizioni indotte dalla religione tradizionale. Il
cosiddetto tetra farmaco racchiude i
canoni essenziali dell’insegnamento di Epicuro, come filosofia che libera dalle
paure e, sotto questo profilo, pone rimedio alla vita: degli dei non bisogna
avere timore; della morte nemmeno, il piacere è facile da procurarsi, il dolore
facile da sopportarsi. Il piacere, edoné, voluptas) è il sommo bene cui l’uomo
può aspirare, purché si intenda cosa è davvero necessario cosa superfluo. I
piaceri si distinguono in naturali e necessari (mangiare, bere, dormire) e
naturali non necessari (mangiare in modo raffinato, praticare il sesso) e non
naturali e non necessari, che irretiscono l’uomo procurando ansie e dolori
(ambizione, desiderio di gloria, di ricchezze). Perciò il vero piacere non è un
volgare godimento, ma il risultato dell’autosufficienza, autàrkeia, possibile
solo se l’uomo si dedica a piaceri veri, che sono pochi e facili da soddisfare.
Per quanto riguarda la logica, l’empirismo è un metodo assolutamente
affidabile, dato che le sensazioni sono determinate dal contatto materiale fra
l’oggetto e l’osservatore: le immagini percepite dagli occhi sono infatti
prodotte da sottili membrane atomiche, eidola o simulacra, in latino, che
conservano la struttura del corpo da cui si staccano e consentono una visione
chiara dell’oggetto. La fisica epicurea si richiama a Democrito: l’universo è
infinito e eterno, perché costituito di materia infinita e vuoto illimitato,
all’interno del quale si muove la materia; questa non si crea né si distrugge,
ma si aggrega e disgrega sempre i nuovi corpi visibili; elementi indivisibili della
materia sono gli atomi, i quali si incontrano e si uniscono per effetto del clinamen (declinazione, deviazione), un
movimento spontaneo che li fa deviare imprevedibilmente dalla linea retta in
cui si stavano muovendo. Il clinamen
è anche un principio etico, nel senso che spiega la libertà del volere umano e
riscatta le vicende umane dal rigido determinismo. L’uomo deve dunque avere il
coraggio di guardare in faccia la realtà e di agire, senza temere né gli dei,
che in quanto perfetti si disinteressano delle faccende umane, né la morte, perché
essa è, per definizione, uno stato di assenza di sensibilità conseguente a alla
disgregazione degli atomi. Se c’è lei non c’è coscienza né sofferenza.
L’opera è articolata in tre gruppi di due libri ciascuno (diadi), che passano dall’infinitesimale al cosmico: atomi (fisica) I e II; uomo (antropologia) III e IV, fenomeni cosmici (cosmologia) V e VI. Una opposizione racchiude l’intero poema, che però potrebbe non essere stato concluso dal suo autore: all’inizio la nascita della dea venere, il diffondersi della primavera nel mondo, alla fine l’apocalittica rappresentazione della terribile peste di Atene del 430 a. C. (già narrata dallo storico Tucidide), con cui il poema si chiude bruscamente. Sono rispettivamente il principio di aggregazione, il principio del piacere, e il principio di distruzione, di disgregazione e morte. Gli stessi, peraltro, sui quali a un certo punto si sofferma, culminando, l’inno a Venere iniziale (31-37):
Nam tu sola
potes tranquilla pace iuvare
mortalis,
quoniam belli fera moenera Mavors
armipotens
regit, in gremium qui saepe tuum se
reicit aeterno
devictus vulnere amoris,
atque ita
suspiciens tereti cervice reposta
pascit amore
avidos inhians in te, dea, visus,
eque tuo pendet
resupini spiritus ore.
Infatti solo tu puoi donare ai mortali la pace,
perché a detenere il controllo delle opere
distruttrici del mondo
è il bellicoso Marte, che spesso si abbandona nel
tuo grembo,
vinto dall’eterna ferita d’amore, e così,
col capo reclinato,
pasce d’amore i suoi sguardi, anelando a te, o dea,
e il respiro del dio è sospeso alla tua bocca.
Il principio del lepos è nell’inno a Venere dominante (v. 15, “ita capta lepore, /te sequitur cupide quo quamque inducere pergis”): designa la brama sensuale, la voluptas, la forza vitale, ma è anche una qualità formale che Lucrezio rivendica per la sua opera (il passaggio all’invocazione personale avviene per questa via: come Venere anima la natura, così può essere socia, alleata, nello scrivere versi). Il lepos, il fascino che Venere sa garantire ai versi, è un potente mezzo psicagogico per attrarre il lettore. Analogamente suavis, dolci, sono le parole con cui Venere deve convincere Marte a garantire la pace ai mortali (versi seguenti a quelli riportati sopra): suavis è parola chiave nel lessico lucreziano ispirato all’epicureismo, giacchè riprende il greco hedys ed evoca il sommo bene di Epicuro, con evidente connessione etimologica con hedoné, voluptas. Vitalismo e principio del piacere richiamano i loro opposti, dato che anche nel mondo fisico così avviene, che la materia sia soggetta alle leggi dell’aggregazione e della separazione: distruzione e principio di morte. Nell’immagine poetica, però, i due opposti trovano un’inopinata congiunzione nell’abbraccio fra Venere e Marte, con cui il secondo pone provvisoriamente fine ai trambusti e alla morte nel mondo (quello romano in particolare, dato che la pace è richiesta dal poeta perché il suo “lettore-discepolo” Memmio possa dedicarsi alla filosofia). Lucrezio evidentemente compie delle operazioni di mediazione fra cultura romana e cultura greca: ove esse potevano entrare in conflitto ideologico, per via ad esempio di una richiesta sostanziale di estraniamento dalle vicende politiche, il poeta introduce il correttivo di una richiesta di pace che consenta a chi voglia conoscere la verità di dedicarsi allo studio, all’otium, pur previsto nella più rigida osservanza del mos.
TRADUZIONE CB | |
Aeneadum genetrix, hominum divumque voluptas, alma Venus, caeli subter labentia signa quae mare navigerum, quae terras frugiferentis concelebras, per te quoniam genus omne animantum concipitur visitque exortum lumina solis: 5 te, dea, te fugiunt venti, te nubila caeli adventumque tuum, tibi suavis daedala tellus summittit flores, tibi rident aequora ponti placatumque nitet diffuso lumine caelum. Nam simul ac species patefactast verna diei 10 et reserata viget genitabilis aura favoni, aeriae primum volucris te, diva, tuumque significant initum perculsae corda tua vi. inde ferae pecudes persultant pabula laeta 15 et rapidos tranant amnis: ita capta lepore te sequitur cupide quo quamque inducere pergis. denique per maria ac montis fluviosque rapacis frondiferasque domos avium camposque virentis omnibus incutiens blandum per pectora amorem efficis ut cupide generatim saecla propagent. 20 Quae quoniam rerum naturam sola gubernas nec sine te quicquam dias in luminis oras exoritur neque fit laetum neque amabile quicquam, te sociam studeo scribendis versibus esse, quos ego de rerum natura pangere conor 25 Memmiadae nostro, quem tu, dea, tempore in omni omnibus ornatum voluisti excellere rebus. Quo magis aeternum da dictis, diva, leporem, effice ut interea fera moenera militiai per maria ac terras omnis sopita quiescant; 30 nam tu sola potes tranquilla pace iuvare mortalis, quoniam belli fera moenera Mavors armipotens regit, in gremium qui saepe tuum se reiicit aeterno devictus vulnere amoris, atque ita suspiciens tereti cervice reposta 35 pascit amore avidos inhians in te, dea, visus eque tuo pendet resupini spiritus ore. Hunc tu, diva, tuo recubantem corpore sancto circum fusa super, suavis ex ore loquellas funde petens placidam Romanis, incluta, pacem; 40 nam neque nos agere hoc patriai tempore iniquo possumus aequo animo nec Memmi clara propago talibus in rebus communi desse saluti. [...] Humana ante oculos foede cum vita iaceret in terris oppressa gravi sub religione, quae caput a caeli regionibus ostendebat horribili super aspectu mortalibus instans, 65 primum Graius homo mortalis tollere contra est oculos ausus primusque obsistere contra; quem neque fama deum nec fulmina nec minitanti murmure compressit caelum, sed eo magis acrem inritat animi virtutem, effringere ut arta 70 naturae primus portarum claustra cupiret. Ergo vivida vis animi pervicit et extra processit longe flammantia moenia mundi atque omne immensum peragravit mente animoque, unde refert nobis victor quid possit oriri, 75 quid nequeat, finita potestas denique cuique qua nam sit ratione atque alte terminus haerens. Quare religio pedibus subiecta vicissim obteritur, nos exaequat victoria caelo. Illud in his rebus vereor, ne forte rearis 80 impia te rationis inire elementa viamque indugredi sceleris. Quod contra saepius illa religio peperit scelerosa atque impia facta. Aulide quo pacto Triviai virginis aram Iphianassai turparunt sanguine foede 85 ductores Danaum delecti, prima virorum. Cui simul infula virgineos circum data comptus ex utraque pari malarum parte profusast, et maestum simul ante aras adstare parentem sensit et hunc propter ferrum celare ministros 90 aspectuque suo lacrimas effundere civis, muta metu terram genibus summissa petebat. Nec miserae prodesse in tali tempore quibat, quod patrio princeps donarat nomine regem; nam sublata virum manibus tremibundaque ad aras 95 deductast, non ut sollemni more sacrorum perfecto posset claro comitari Hymenaeo, sed casta inceste nubendi tempore in ipso hostia concideret mactatu maesta parentis, exitus ut classi felix faustusque daretur. 100 Tantum religio potuit suadere malorum. | Madre degli Eneadi, principio del piacere per esseri umani e divini, Venere generatrice che, sotto le stelle in moto nei cieli, riempi di vita il mare solcato di navi, riempi di vita le terre feconde, poiché sei tu a determinare il concepimento di ogni essere animato, ed è grazie a te che le creature vedono la luce del sole: ti fuggono i venti, fuggono te e il tuo arrivo le nubi del cielo, per te la terra fa germogliare i dolci fiori, per te sorridono le acque del mare e il cielo, rasserenato, risplende di luce diffusa. Infatti non appena si disvela l’aspetto primaverile del giorno e, libero, prende vigore il soffio del favonio fecondatore, per primi gli uccelli del cielo annunciano te, o dea, e il tuo avvento, colpiti al cuore dalla tua forza. Poi gli animali di terra, selvaggi e domestici, balzano lieti per i pascoli e attraversano a nuoto torrenti rapinosi: similmente tutti, preda del tuo fascino, ti seguono ovunque li voglia sospingere. E infine, per mari e monti, fiumi vorticosi, frondose dimore di uccelli, campi verdeggianti, insinuando nei petti un dolce sentire, fai in modo che le stirpi, figlie del desiderio, si perpetuino specie per specie. E poiché tu sola governi la natura delle cose, senza di te niente di bello giunge alle spiagge della luce e non accade niente di piacevole e rallegrante, ti chiedo di assistermi nella composizione di questi versi che io tento di dedicare alla natura delle cose per il nostro discendente di Memmio che tu, o dea, hai voluto eccellesse in ogni tempo adorno di tutte le virtù. Conferisci, o dea, grazia eterna alle mie parole, fai in modo che nel frattempo le crudeli operazioni militari, sedate, cessino ovunque, per mare e per terra; infatti solo tu puoi gratificare i mortali con una rasserenante pace, visto che a governare le feroci imprese guerresche è il bellicoso Marte, che spesso si abbandona sul tuo seno ferito d’amore eterno, e così reclinato nutre d’amore i suoi sguardi avidi rivolti a te, e le sue labbra pendono dalle tue. Tu, o dea, abbracciandolo con le tue sacre membra mentre giace sotto di te, parlagli dolcemente chiedendo benigna pace per i Romani: infatti io non posso dedicarmi serenamente a questo poema in un momento difficile per la patria e nemmeno l’illustre progenie di Memmio può sottrarsi ai doveri militari in simili circostanze. [...] In un tempo in cui la vita umana giaceva a terra, con un effetto sgradevole, piegata sotto il giogo opprimente della superstizione, che incombeva sui mortali dalle regioni celesti con aspetto orribile, per la prima volta un mortale, un Greco, osò sollevarle gli occhi in viso e, per primo, opporle resistenza; non lo frenarono le dicerie sugli dei, e nemmeno i fulmini e i tuoni del cielo, che tanto più ne stimolano l’ingegno al punto da indurlo, per primo, a disserrare gli stretti catenacci delle porte della natura. Dunque la sua potente forza d’animo ebbe la meglio, egli avanzò lungo le mura fiammeggianti del mondo e penetrò con la profondità del pensiero tutto ciò che esiste, per riferirci, vittorioso, che cosa possa nascere, cosa non possa, per quale legge ogni cosa abbia un fine determinato e un limite profondamente infisso. E così la superstizione, posta a sua volta sotto i piedi, viene calpestata, e la vittoria ci innalza al cielo. Ho paura che dalle mie parole si possa pensare che ti voglia introdurre ai principî di una filosofia empia, additare una via delittuosa. Viceversa, si è verificato più spesso che la superstizione dettasse atti scellerati e empi. Fu questo il caso in Aulide: comandanti scelti dei Danai, fior fiore di eroi, profanarono l’altare di Diana col sangue di Ifianasse. Non appena la benda ricadde da due lati sulle sue chiome virginee, ed ella percepì la mestizia del padre accanto a lei davanti all’altare, che per lui i sacerdoti nascondevano la spada e i concittadini piangevano a vederla, muta per il terrore, si prostrava alle sue ginocchia. Ma non poteva giovarle, poveretta, in una simile circostanza, essere stata la prima a chiamarlo padre; infatti, venne sollevata da mani maschili e fu portata all’altare, non perché, compiuto il rito matrimoniale, ottenesse l’accompagnamento dello splendido Imeneo, ma perché, turpemente casta, nel momento deputato per le nozze, venga immolata, triste vittima, dal padre, perché sia concessa una fausta partenza alla flotta. A un simile abominio poté indurre la superstizione. |
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