CAPITOLI DEL PRINCIPE dal V al XXV

Capitolo V
Come si devono governare gli Stati o i principati che, prima della conquista, vivevano
secondo le proprie leggi.
Matteo e Andrea
Nel capitolo V, Machiavelli parla di diversi modi di gestire uno stato che è abituato ad essere libero, esplicitando poi una chiara differenza tra quelli che hanno sempre vissuto sotto a un principe. I modi sono tre: il primo è ruinarle, come fecero i romani con Capua, Cartagine e Numanzia, che per poter dominare la Grecia, le hanno
dovute distruggere insieme a molte altre città; il secondo è andarvi ad abitare personalmente, mentre l’ultimo è lasciarle vivere con le sua leggi e stabilire un gruppo di governanti che faccia in modo di mantenere il favore del popolo. La sua considerazione di questo terzo metodo, però, non è positiva. Infatti, anche se all’inizio cita quella spartana come civiltà che è riuscita a mantenere il potere in questo modo, spiega come in uno stato di questo tipo le ribellioni siano frequenti, perché nascono dal ricordo della libertà e degli ordini antichi. Come successe a Pisa che, dopo cento anni che era posta in servitù dei Fiorentini, si ribellarono. Spiega anche come i romani abbiano provato a imitare Sparta, fallendo e arrivando alla conclusione che distruggere le città fosse un metodo più efficace. Quindi, qualunque precauzione si prenda, è impossibile regnare lasciando agli abitanti le loro vecchie leggi senza aver prima distrutto i legami tra di loro. Descrive, poi, come sia molto diversa la situazione per i paesi dove, dopo aver vissuto per anni sotto a un principe, la dinastia di quest’ultimo è finita ed è arrivato un altro regnante. In questo caso, infatti, gli abitanti non sono in grado né di trovare un nuovo Principe per conto loro né di governarsi da soli e, quindi, tardi a pigliare  l’arte, si sottomettono a chi li ha conquistati. Conclude il capitolo esplicitando la sua preferenza verso i primi due metodi, come già si poteva intendere precedentemente.
Capitolo VI
Nuovi principati acquisiti con le armi e con l'abilità.
Matteo e Andrea
Il capitolo VI si apre con Machiavelli che interloquisce direttamente con il lettore scrivendo Non si maravigli alcuno se, nel parlare che io farò de’ principato al tutto nuovi e di principe e di stato, io adurrò a grandissimi esempli. Infatti, l’uomo prudente deve seguire le vie già battute da uomini più grandi di lui così che, anche se le sue abilità sono inferiori, almeno può seguirli con lo spirito. Per spiegare ancora meglio questo concetto, Machiavelli utilizza una similitudine, nella quale paragona l’uomo agli arcieri prudenti che, consci che il bersaglio sia troppo lontano per la virtù del loro arco, mirano più in alto, così da raggiungere il loro obiettivo. Poi, inizia a spiegare come mantenere il potere su un nuovo principato. Innanzitutto, la difficoltà nel mantenerlo dipende dall’abilità di chi ha acquisito lo stato: diventare da privato principe è segno o di grandi capacità o di grande fortuna, ma meno ci si affida alla fortuna meno rischi si corrono. Fa poi un elenco di principi diventati tali per le loro abilità, e il primo di questa lista è Mosè, su cui c’è poco da ragionare, perché, alla fine, era uno mero esecutore delle cose che gli erano ordinate da Dio, ma, malgrado ciò, di lui andava ammirato anche solo il fatto di essere investito di grazia, che lo rendeva in grado di conversare con Dio. Il discorso è diverso per principi come Ciro, Romolo e Teseo, che sono da ammirare perché hanno preso decisioni simili a quelle di Mosè anche senza essere guidati da un così gran precettore. Se esaminiamo le azioni e la vita di questi quattro, si nota come la fortuna abbia fornito loro solo un’occasione, che sono riusciti a sfruttare al meglio grazie alle loro capacità, senza le quali ciò che gli aveva concesso la fortuna sarebbe stato inutile: Mosè dovette trovare un popolo come quello d’Israele, ovvero schiavo e con il desiderio di uscire da questa loro condizione, così che lo seguissero; Romolo ha avuto la fortuna di essere esposto dopo la sua nascita e di voler diventare re di Roma; Ciro ha sfruttato il fatto che i persiani non apprezzassero i Medi e che questi ultimi fossero molli ed effeminati per la lunga pace; Teseo ha avuto la fortuna di trovare gli ateniesi divisi, facendo così valere le sue capacità. Chi diventò principe con le loro stesse capacità e azioni ebbe difficoltà nel conquistare il potere, ma non nel mantenerlo. La cosa più difficile da gestire nell’acquistare e mantenere il potere è inserire nuove regole e istituzioni, perché alcuni abitanti preferiranno sempre il sistema precedente. Altri, invece, spereranno nel successo del cambiamento. Questa incertezza sul successo deriva da due cause: la prima è che temono le leggi preesistenti che favoriscono i loro avversari; la seconda è che credono solo a quello di cui hanno esperienza. La difficoltà nell’inserire nuove istituzioni dipende anche dal fatto che il principe sia in grado di regnare da solo o abbia bisogno di appoggiarsi ad altri. Questi ultimi, infatti, finiscono sempre per non concludere nulla, mentre i primi corrono raramente dei
rischi. Esempi di questo genere sono proprio Mosè, Ciro, Teseo e Romolo, che sono riusciti a mantenere il loro potere per molti anni perché erano armati e, quindi, potevano condurre i loro affari utilizzando la forza. L'opposte accade nel caso di fra’ Gerolamo Savonarola, che andò presto in rovina quando i cittadini smisero di credere in lui. L’ultimo esempio riportato da Machiavelli è quello di Ierone di Siracusa, che faticò molto per ottenere il potere ma poi riuscì facilmente a conservarlo.

Cap VII “Nuovi principati acquisiti con le armi e la fortuna di altri”

Filippo G. e Jacopo


Machiavelli nel VII capitolo del Principe tratta le caratteristiche dei principati ottenuti tramite la forza o la fortuna. Sottolinea il fatto che anche dei semplici sudditi, se assistiti dalla fortuna, possono diventare principi con poco sforzo. I problemi sorgono nel mantenimento del potere, e quando il principato è ottenuto tramite il denaro o per volontà altrui.

Per Dante la fortuna è un’intelligenza angelica, le cui azioni sono sempre dirette al bene, anche quando gli uomini non riescono a capirlo. Machiavelli, invece, ritiene che la fortuna sia una forza imprescindibile, perché anche gli esseri umani muniti di saggezza e capacità possono essere rovinati dalla sorte. Secondo Petrarca, proprio a causa del caso, uomini degni finiscono in miseria, mentre, di contro, persone malvage prendono il potere senza merito. Ironicamente, l’autore antropomorfizza la fortuna sotto forma di donna, poiché decide arbitrariamente contro chi sfogarsi, proprio come un soggetto incline a isteria, quale è nell'immaginario comune la donna.

Esempi di questa tipologia di principati sono riscontrabili negli stati greci in Ionia e nell’Ellesponto. Il re dei re persiano Dario fondò in quelle terre vari regni vassalli per garantirsi sicurezza e gloria, e con le stesse dinamiche sono saliti al potere i principi che si elevano grazie alla corruzione dei soldati. La sopravvivenza di questi regni dipende da due variabili incerte e instabili: la volontà e la sorte di coloro che gli hanno permesso di avere quello status. Inoltre, non conoscono né possono mantenere tale potere. Non lo conoscono perché, avendo vissuto come semplici sudditi, non sono avvezzi alle dinamiche del comando. Non lo possono mantenere perché non hanno le risorse amiche e fedeli sufficienti. E poi, dato l’ordine della natura, una cosa che nasce così velocemente cadrà con altrettanta celerità: le radici di quel regime non sono penetrate abbastanza nel territorio e nella popolazione e alla prima tempesta tutto verrà rovesciato. Non è però impossibile da mantenere se il novello principe ha la capacità di conservare la fortuna che l’ha elevato e di costruire subito solide fondamenta del suo potere al posto di effimere basi costruite da quelli che l’hanno incoronato. Dopo aver trattato di questi antichi regni, Machiavelli passa ad analizzare i principati di sovrani contemporanei, per dimostrare che la politica è una vera e propria scienza, le cui regole sono basate sulla vera natura del potere e rimangono affidabili e certe a prescindere dal periodo in cui ci si trovi.

Come esempio cita Francesco Sforza e Cesare Borgia. Il primo, capace e pieno di risorse, si fece Duca di Milano da sé. E le difficoltà incontrate per ottenerlo furono maggiori di quelle spese per mantenerlo. Al contrario il secondo, detto dalla plebe il Duca di Valentino, salì al potere grazie alla fortuna paterna, ma quando quest’ultimo la perse, anche lui perse di conseguenza il principato, benché fosse stato abile e prudente nel cercare di conservare il potere. Non è impossibile per i nuovi principi, ma costruire le fondamenta quando ormai l’intera costruzione è stata eretta è difficile e pericoloso. Se si osservano gli sforzi del Duca di Valentino, si nota che si è concentrato sul suo futuro e non si possono trovare esempi di migliore strategia in tal senso. La sua disgrazia è dovuta interamente alla sua mala sorte.

Suo padre, Papa Alessandro VI, desiderava far diventare suo figlio un gran signore. Capì subito che avrebbe governato sui domini dello stato della chiesa, ma che Milano e Venezia non gliel’avrebbero permesso. L’equilibrio andava rovesciato per costruirne un altro più favorevole. Così quando il re francese Luigi XII scese in Italia chiamato dai veneziani, lo aiutò. Indebolì i suoi oppositori e si legò a sé i più nobili della famiglia degli Orsini e dei Colonna, le due principali famiglie aristocratiche romane. Si sbarazzò dei Colonna con la forza, poi dei dissidenti Orsini successivamente. Per sconfiggerli definitivamente, usò l’astuzia, nascondendo i suoi piani a tal punto che si riappacificò con la famiglia romana. Ne fece uccidere i capi a tradimento a Senigallia. Aveva guadagnato l’amicizia dei partigiani della famiglia e il sostegno del popolo che stava conoscendo un periodo di miglioramento. 

Per Machiavelli, il buon politico che vuole regnare a lungo deve interessarsi dell’economia popolare: le persone con la pancia piena sono meglio governabili e meno disposte a ribellarsi. Si sofferma poi sul particolare approccio all’ordine che il Duca adottò. I precedenti signori della Romagna avevano pensato a tassare eccessivamente, per arricchirsi, i propri sudditi piuttosto che regnare, a dividere la cittadinanza al posto di unirla. Così in tutti i propri domini i reati e le malefatte diventarono largamente diffusi. Il Duca di Valentino decise di creare un buon governo. Affidò a Messer Ramirro d’Orco, un uomo crudele e risoluto, la giustizia delle sue terre e con pene esemplari intimorì i criminali, riducendone i soprusi. Quando la situazione divenne stabile cambiò rotta, in modo tale che quel potere così feroce non divenisse odioso, creò diversi tribunali e sparse sui suoi territori diversi avvocati. Per dimostrare poi al popolo la sua bontà, rese d’Orco l’unico vero artefice di quella crudele giustizia che aveva colpito il popolo originariamente, per suo ordine. Alla prima occasione dunque lo fece giustiziare pubblicamente, in mezzo alle acclamazioni del volgo.

Il Duca in quel momento era diventato potente e al riparo da pericoli immediati, così fece il punto della situazione per capire come aprire la strada del suo successo futuro. Per prima cosa dovette tenere a freno il re di Francia, date le sue espansioni in Italia. Dunque, in mezzo a tante scuse, non gli fornì aiuti militari nella sua campagna contro il regno di Napoli. Voleva avere un controllo sui francesi, ma gli sarebbe riuscito solo con l’attuale papa vivo. Questa era la sua preoccupazione riguardo al presente. Per il futuro invece temeva che il papa successivo non lo sostenesse. Per evitare ciò pensò a quattro strategie. La prima fu cancellare le famiglie dei precedenti signori romagnoli affinché non avvenissero restituzioni di territori in futuro. La seconda era mirata a controllare l'operato papale attraverso il favore delle famiglie aristocratiche romane. La terza fù mettere nel Collegio dei Cardinali quanti più possibili suoi uomini. La quarta fu aumentare talmente il suo potere prima della morte del papa, da poter resistere da solo ai primi attacchi. Quando Alessandro morì ne aveva completate tre.

Progettava di conquistare la Toscana, dopo aver già preso Perugia e Piombino ed essersi nominato prorettore di Pisa. Entrò poi come signore a Pisa, sapendo che i francesi, data la recente sconfitta inflitta dagli spagnoli, non sarebbero intervenuti. Lucca e Siena si sottomisero a lui sia per invidia verso Firenze sia per paura. Per il comune toscano non c’erano possibilità di vittoria. Se il piano fosse riuscito, e sarebbe dovuto riuscire lo stesso anno in cui Alessandro morì, avrebbe ottenuto abbastanza potere da diventare indipendente dalla fortuna, dalla volontà e dalle armi altrui. Ma il Papa trapassò troppo presto e il Duca di Valentino si trovò a governare un consolidato stato romagnolo e diversi territori in sospeso tra due grandissimi eserciti ed egli era ammalato mortalmente. Ma, essendo lui un uomo tutto d’un pezzo, conoscendo così bene l’arte (o la scienza) politica e avendo delle basi auto-costruitesi così robuste, sarebbe riuscito nel suo intento se non fosse stato per la sua salute e per le due armate.

Inoltre la solidità delle sue fondamenta è riscontrabile nell’attesa, più di un mese, della Romagna per ordire contro il suo potere; dal fatto che le famiglie romane non trovarono sostenitori per attaccarlo; e, inoltre, seppur moribondo riuscì quantomeno a non far eleggere chi non voleva. Se fosse stato sano tutto sarebbe stato diverso e facile per un così valido politico. Il Duca confidò a Machiavelli stesso, quando fu eletto Giulio II, di aver pensato a tutti gli scenari possibili del mondo post-Alessandrino, ma di non aver mai immaginato di trovarsi in pericolo di morte al momento della morte del padre. Machiavelli sottolinea poi il suo intento: non vuole criticare o moralizzare (nel suo studio della politica il moralismo classico è assente) ma vuole solo proporre un validissimo esempio. Esposte quindi tutte le azioni del Duca, Machiavelli non trova nulla da criticare, ma lo propone come modello a cui ispirarsi per tutti coloro che si trovino alla guida di un principato a causa della fortuna altrui. Era un uomo ambizioso che si è spento solo a causa della morte prematura di Alessandro e della sua malattia. Ogni principe dovrà trovare alleati e difendersi dai nemici, con la forza o con l’astuzia, farsi amare e temere dal volgo, avere un buon esercito così da distruggere chi volesse danneggiarlo, adattarsi continuamente alle situazioni, essere benevolo e severo, giusto e liberale, liquidare i traditori sostituendoli con uomini fedeli, coltivare amicizie con altri signori. Non esiste un recente caso migliore di quello del Duca di Valentino. L'unica cosa rimproverabile fu l’elezione di Giulio II, una scelta per lui fatale, in quanto era stato offeso dal signore della Romagna. Altri cardinali erano stati offesi dal Duca: San Piero ad Vincula, Colonna, San Giorgio, Ascanio Sforza. Gli altri ecclesiastici, se fossero divenuti Papi, sarebbero stati spaventati dal suo potere. Tutti tranne i clerici spagnoli e Roano, che avendo alle spalle il sostegno della Francia non lo temeva. Quindi decise di parteggiare per un Papa spagnolo, o quantomeno per il cardinale Roano. 

È un errore immaginare che, tra i grandi personaggi, i servizi recenti facciano dimenticare le vecchie offese. Il Duca, acconsentendo a questa elezione di Giulio II, fece quindi un errore che fu la causa della sua rovina finale. 

Cap. VIII “Di quelli che per scelleratezze sono venuti al principato

Filippo G. e Jacopo

Machiavelli, nell’incipit dell'ottavo capitolo, dichiara che esistono altri due modi, oltre a ricorrere alla fortuna o alla capacità, per riuscire ad ottenere il potere: elevarsi al potere tramite delitti e brutalità, o da privato, cioè con il sostegno dei propri concittadini.

Per argomentare riguardo alla primo sistema, Machiavelli cita due esempi, uno antico e uno moderno: Agatocle, uomo di basso rango e senza beni, riuscì a diventare il re di Siracusa. Agatocle era un furfante, figlio di un vasaio, che grazie alla sua prestanza fisica e e all'acutezza d'ingegno arrivò a ricoprire la carica militare di pretore di Siracusa. A questo punto della sua carriera, decise di voler diventare principe e di non dipendere da altri; per far ciò, prese accordi segreti con il cartaginese Amilcare, con il quale, radunato l’intero corpo senatoriale e i cittadini più ricchi della città, uccise i suoi principali oppositori. Liberatosi dei suoi avversari, prese e mantenne il principato senza resistenze interne. Durante il suo periodo di attività politica i Cartaginesi lo sconfissero due volte, ma una volta assediata la città non riuscirono a prenderla, anzi, grazie alle sue grandi abilità militari, Agatocle riuscì sia a difendere Siracusa, sia a mettere in seria difficoltà Cartagine nel suo territorio, attaccandola in segreto. Questa grave sconfitta di Cartagine la costrinse a ritirarsi e a patteggiare la resa. 

Successivamente alla storia del principe di Siracusa, Machiavelli sottolinea il fatto che, chi rifletta sulla condotta del tiranno non può ritenere che i suoi successi siano attribuibili alla fortuna, perché, per l’appunto, non è stato aiutato da nessuno nell’ottenere il potere, ma, invece, è solo grazie alla sua carriera militare e alle scelte coraggiose e pericolose. Machiavelli precisa che nell'infliggere dolore e male alla propria gente si può raggiungere il potere ma non la gloria. Però, pur non avendo ottenuto la gloria, Agatocle ha saputo affrontare ed eliminare pericoli con forza d’animo e astuzia, e perciò lo si può considerare alla pari dei migliori capitani. 

Come esempio moderno, propone Oliverotto Firmiano che, rimasto orfano durante l’infanzia, venne allevato dallo zio materno Giovanni Fogliani, il quale lo fece crescere fin da subito con lo scopo di raggiungere alti gradi nell’esercito. Inizialmente venne addestrato da Paolo Vitelli e, dopo la sua morte, dal fratello Vitellozzo. Grazie al suo talento, la sua forza e il suo coraggio divenne subito uno dei migliori nella milizia e, coltivando appunto l'idea di essere il migliore, decise di volersi impossessare della città di Fermo con l’aiuto di alcuni cittadini e soldati. Per raggiungere il suo obiettivo, scrisse a Giovanni Fogliani, il suo tutore, dicendogli che gli sarebbe piaciuto tornare dopo tanto tempo nella dimora dell'infanzia per salutarlo e per occuparsi della sua eredità. Nella lettera a Fogliani sottolinea il fatto che verrà con un seguito di cento cavalieri, per far vedere ai suoi concittadini che nel corso degli anni si è dato da fare, e lo prega di chiedere ai Firmiani di riceverlo con onore. Giovanni fece tutto ciò che gli venne chiesto dal nipote, lo fece ricevere dai Firmiani e lo ospitò nei suoi appartamenti. Dopo qualche giorno da ospite Oliverotto organizzò un convito a cui parteciparono tutte le persone più importanti di Fermo. Finito il banchetto, Firmiano iniziò ad arte a parlare di cose importanti, come la grandezza del papa Alessandro e del figlio Cesare e delle loro imprese. Mentre gli invitati discutevano, Oliverotto si alzò dicendo che era il caso di discutere di questi argomenti in stanze più riservate e si spostò in una camera, seguito da Giovanni e dagli altri commensali. Una volta giunti nella seconda stanza, uscirono dai loro nascondigli i suoi soldati che uccisero tutti. Dopo l’omicidio, Oliverotto costrinse, sempre col sostegno di armati, il supremo magistrato della città a obbedirgli e a formare un governo ponendone a capo lui stesso.  Durante il suo anno da principe, Oliverotto si fece temere non soltanto dai suoi cittadini ma anche dai nemici esterni, che non lo attaccarono mai. Dopo un anno di potere venne strangolato assieme a Vitellozzo, per decisione del duca di Valentino.

A questo punto del capitolo, Machiavelli si domanda come mai chi sale al potere con atti di tradimento e di crudeltà riesca a regnare a lungo e al sicuro nel loro principato, a discapito di altri che, se pur crudeli, non riescono a restare a capo e in vita né in tempo di guerra né in tempo di pace. Machiavelli su questo argomento esprime un giudizio, e sostiene che il motivo per cui succede risale all’uso buono o cattivo della crudeltà. Le crudeltà, dice Machiavelli, sono bene usate quando vengono commesse tutte in una volta, con lo scopo di provvedere alla sicurezza dei cittadini, ma poi diminuiscono e sono utilizzate solo con lo scopo di provvedere al bene dei sudditi sul lungo periodo. Invece sono male usate quelle che all’inizio sono quasi inesistenti ma aumentano nel corso del principato. I governanti, come Agatocle, che utilizzano bene le crudeltà, riescono a mantenere il potere, gli altri, invece, sono destinati a crollare in breve tempo. 

Nell’ultima parte del capitolo Machiavelli sottolinea il fatto che chiunque voglia impossessarsi del potere deve calcolare che le azioni violente devono essere fatte, per forza di cose, tutte in una volta. Chi dovesse agire diversamente sarà costretto a brandire sempre la spada e non potrà contare sui suoi sudditi, che saranno costantemente preoccupati dalla possibilità di ulteriori violenze. La concentrazione della violenza è funzionale a farla pesare meno ai sudditi; i benefici, al contrario, devono essere concessi poco alla volta in modo tale che vengano gustati maggiormente. In ogni caso, il principe deve comportarsi con i suoi sudditi in modo che nessun evento, buono o cattivo, mostri che che egli stia cambiando la sua condotta. In conclusione, Machiavelli sostiene che un buon governante, se vuole commettere delle atrocità, è costretto, se vuole mantenere il potere, a commetterle tutte in una volta e se in un futuro vorrà utilizzarle nuovamente è indotto a intraprendere un altro metodo.


Principe 

CAPITOLO X  

Come valutare le forze di ogni tipo di principato 

Martina, Carlotta, Filippo M. 

Nel capitolo X, i principati sono distinti tra quelli in grado di difendersi da soli, in quanto dispongono in abbondanza di fondi e di soldati, e quelli che, al contrario, necessitano sempre del supporto di qualcuno. Sorvola sui primi per potersi soffermare maggiormente su coloro che definisce più deboli, che dovrebbero abbandonare ogni altro impegno per riparare e migliorare la situazione nella quale si trovano. Nel caso in cui ciò venga compiuto con successo, i nemici intenti ad attaccarli, esiteranno perché gli uomini sono sempre nimici delle imprese, dove si venga difficultà e secondo Machiavelli non c'è strategia migliore per riuscire a intimidire il nemico.  

Successivamente l’autore fornisce l’esempio di un’eccellente gestione della difesa dello Stato: la Germania, in particolare le città. I cittadini all'interno del territorio, infatti, non provano timore nei confronti dell’imperatore, né tantomeno verso i loro possibili nemici. I sudditi sono soddisfatti del lavoro svolto e della sua organizzazione, e l'imperatore si prende cura anche degli addestramenti militari e del reclutamento. Le provviste abbondano, così come la presenza di legna da ardere l'artiglieria.  L'ammirazione di Machiavelli sembra essere rivolta soprattutto alla grande efficienza di questo apparato germanico, che concilia la centralità del potere imperiale con una relativa autonomia delle città.

Ritornando al tema della città fortificata, Machiavelli considera che se il principe non è odiato dai suoi sudditi, non teme di essere da essi attaccato. E nel caso in cui qualcuno obiettasse dicendo che gli abitanti le cui case sono situate al di fuori delle mura della città possono essere vittime di attacco nemico, e ribellarsi successivamente, Machiavelli risponde dicendo che un principe forte e coraggioso sarà in grado di superare tali insidie, infondendo timore al nemico, controllando il comportamento degli altri principati, o confortando i propri sudditi, i quali non perderanno fiducia in lui.  Seppure, per disgrazia, il nemico producesse la rovina di ogni cosa, il principe non deve temere di poter essere abbandonato dai propri sudditi, poiché, una volta calmati gli animi di questi ultimi, che si troverebbero a non avere nient’altro, essi sarebbero comunque costretti a chiedere aiuto al principe, aspettandosi tra l'altro un risarcimento da parte sua.  

 

 

Principe 

CAPITOLO XII  

Quanti tipi di milizie e truppe mercenarie ci sono 

Martina, Carlotta, Filippo M. 

 

Nel capitolo XII del Principe, Machiavelli propone delle possibili operazioni di offesa e difesa che, secondo lui, i vari principati dovrebbero compiere, cominciando il suo discorso dalle forze armate. Mercenari, ausiliari e un misto tra i due sono i differenti tipi di truppe che un principe può avere, ma Machiavelli rimarca il fatto che i mercenari, oltre ad una perdita di tempo, sono anche un pericolo, portando svantaggi non solo in guerra ma anche in tempo di pace. Hanno una paga molto scarsa e questa non li motiva a servire la loro città con valore. L’utilizzo dei mercenari è infatti causa dell’attuale rovina dell’Italia, insiste Machiavelli. I pochi capitani mercenari che sono eccellenti, hanno a cuore esclusivamente la propria gloria, e quindi sono comunque poco collaborativi, o meglio, poco propensi alla collaborazione nei confronti del loro padrone, dei suoi piani e della sua volontà, in quanto disposti a servire il miglior offerente e non ad abbracciare una causa per fede nella medesima.  

La soluzione proposta da Machiavelli è un principe che si occupi di comandare personalmente le truppe oppure un cittadino, incaricato dalla repubblica, che svolga quel determinato compito. I risultati mostrano che questa iniziativa funziona, dato che principi e repubbliche armate ottengono successo, mentre chi recluta mercenari corre il rischio che questi sottomettano la città e tradiscano la fiducia del principe o del governo che li ha arruolati.  

Machiavelli poi sostiene la sua tesi ricordando alcuni esempi di città che, dopo la guerra, sono state oppresse dai soldati mercenari che precedentemente l’avevano servita, come stava per succedere ai cartaginesi dopo la prima guerra contro Roma, o come accadde a Francesco Sforza che, una volta vinti i veneziani, si alleò con essi, rivoltandosi contro i propri padroni. Machiavelli racconta anche cosa è successo a Firenze poco prima che scrivesse il Principe: i fiorentini misero a capo dell'esercito Paolo Vitelli, un uomo molto capace che guadagnò un’ottima reputazione tra i cittadini, ma se questi avesse conquistato Pisa, essi sarebbero dovuti essere molto scaltri a dargli appoggio, altrimenti, sarebbe potuto succedere come ai cartaginesi e agli Sforza.  

Per quanto riguarda i veneziani, le loro campagne andarono perfettamente fino a quando combatterono per mare con le proprie forze, ma quando spostarono il campo di battaglia su terra ci fu una decadenza. In principio non avevano da temere la poca fedeltà dei loro capitani perché il territorio era piuttosto ridotto, ma quando si espansero con il controllo di Carmagnola, dovettero ammazzarlo per assicurarsi le terre. Con i successivi comandanti, di sicuro non ci fu il problema di una loro presa di potere in seguito ad una vittoria, poiché quella non si riusciva neanche a raggiungere. Vailà, a capo di un esercito di mercenari, fece perdere in un giorno gli sforzi fatti in ottocento dai veneziani. Tutte queste testimonianze mostrano la rovina che ha portato in Italia la moda degli eserciti mercenari, un’organizzazione nata con Alberigo da Como e la sua scuola. La chiesa in quel periodo stava estendendo il suo potere e i cittadini si ribellavano ai nobili, i quali erano gli unici a conoscere l’arte della guerra. Il clero e il popolo così si trovarono a dover prendere forestieri per costruire un esercito. La scuola di Alberigo fu la causa di tanta rovina in Italia, lì si istruirono i capitani Sforza e Braccio, da cui poi arrivarono tutti i seguenti  fino a quando scrive Machiavelli; nelle loro mani l’Italia è diventata preda degli Aragona, di Luigi XII e Carlo VIII. I capitani denigravano la fanteria perché non vi era ricchezza sufficiente per assicurarsene un buon numero, e pochi non sarebbero serviti al loro scopo. Inoltre un’altra pecca degli eserciti in Italia era la mancanza d’audacia: questi capitani facevano di tutto per risparmiare se stessi e propri soldati, non rafforzavano il campo, alcuni in campagna non montavano le tende, i turni di notte erano saltuari e d’inverno il campo veniva spesso lasciato. Il poco interesse e la mancata disciplina hanno reso la penisola Italiana schiava e malfamata. Sono pagine in cui emerge in modo chiaro il fine ultimo della composizione del Principe: offrire ai regnanti e governanti contemporanei in Italia uno strumento d'analisi per capire come risolvere i problemi di questo territorio travagliato, al quale Machiavelli tiene moltissimo e che vuole a ogni costo servire, anche quando viene respinto dalle stanze del potere, come avviene nel periodo in cui scrive il suo opuscolo. Un argomento fondamentale è infatti proprio quello delle milizie, della cui fedeltà al territorio (e non al denaro) occorre assicurarsi prioritariamente.

Il principe, Capitolo XV

Cose per le quali gli uomini, e specialmente i principi, sono elogiati o criticati.

Elena

Nelle prime righe del XV capitolo de Il Principe, Machiavelli dichiara che le sue indicazioni si discostano dalla tradizione precedente, affermando sendo l’intento mio scrivere cosa utile a chi la intende: la sua intenzione è infatti quella di scrivere cose utili per coloro che sono in grado di capirlo nella realtà contemporanea, per cominciare. Pertanto gli è parso più conveniente andare dietro alla verità effettuale della cosa, che alla immagine di essa; tale verità effettuale consiste nella realtà concreta delle cose, oggetto della politica machiavelliana che, per assumere validità e utilità, deve ricostruire esse (le cose) così come sono e non come si vorrebbe che fossero. Questa amara riflessione sulla distanza tra realtà e immaginazione e utopia porta Machiavelli anche a teorizzare l’assoluta indipendenza della politica dalla morale. Alla prima risalgono il perseguimento del bene dello Stato, il suo mantenimento e la gestione del potere, alla seconda egli riconduce gli altri campi, ad esempio quello etico e spirituale. La particolarità del capolavoro machiavelliano sta proprio nel discostare come si vive da come si dovrebbe vivere. Lasciando da parte le considerazioni immaginarie e utopistiche, Machiavelli scrive delle cose concrete che un buon politico deve fare. Sarebbe lodevole, e appunto ideale, che nel principe si racchiudessero tutte le qualità buone ma, considerando la malvagità presente nell’uomo, egli, per perseguire il bene dello stato, deve essere prudente tanto da fuggire i difetti che potrebbero fargli perdere il potere, senza però avere l’obbligo morale di seguire le virtù. Nonostante ciò, non dovrebbe nemmeno temere di essere criticato per tali difetti perché, se ben si considerano le cose, ciò che sembra buono potrebbe non esserlo e ciò che sembra un difetto potrebbe giovare al benessere e al mantenimento dello Stato.


CAPITOLO XVII

Crudeltà e misericordia, e se è meglio essere amati che temuti o piuttosto temuti che amati

Virginia, Lisa, Federico

Nel capitolo XVII dell’opera il Principe di Machiavelli, l’autore tratta l’argomento del comportamento migliore che un principe deve adottare per riuscire a detenere il potere. 

Machiavelli presenta come primo esempio quello di Cesare Borgia, la cui crudeltà ristabilì l’unione e l’ordine in Romagna, al fine di dimostrare che l’attributo crudele non sia negativo per un principe quando si tratta di tenere i suoi sudditi uniti e fedeli.

Nel primo paragrafo compare la citazione Res dura et regni novitas me talia cogunt. Moliri, et late fines custode tueri, (la difficile situazione e il regno appena costituito mi costringono a fare tali cose, e a difendere i confini con molti difensori), che è attribuita a Diomede nell’Eneide di Virgilio e con la quale l’autore introduce il tema principale del capitolo. 

Per Machiavelli è auspicabile che il governante aspiri alla clemenza, ma al contempo sappia gestirla. Infatti, non è difficile da credere che, basando il proprio dominio su qualcosa di imprevedibile come l’amore, questo venga prima o poi a mancare, facendo cedere le basi del potere; perchè degli uomini si può dire questo generalmente, che sieno ingrati, volubili, simulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno; e mentre fai loro bene sono tutti tuoi, ti offeriscono il sangue, la roba, la vita, ed i figliuoli, come di sopra dissi, quando il bisogno è discosto; ma, quando ti si appressa, si rivoltano. Per l’autore, l’ideale sarebbe essere sia temuti che amati, ma poiché è difficile essere entrambi, arriva alla conclusione, dopo aver presentato svariati esempi, che sia meglio essere temuti piuttosto che amati, perché la paura del popolo dipende dal comportamento del principe e un principe saggio deve fare affidamento da ciò che dipende da sé stesso e non da ciò che dipende dagli altri. 


CAPITOLO XVIII

Come i principi devono mantenere la parola data.

Federico, Lisa, Virginia

Nel XVIII capitolo Machiavelli tratta l’argomento del rapporto che un buon principe dovrebbe avere con la lealtà:  quando,  come,  se e  perché ricorrervi e rispettare la parola data.

L’autore afferma che, teoricamente parlando, un principe dovrebbe essere sempre onesto. Ma siccome l’uomo ha una natura simulatrice, cattiva ed egoista,  mentire è una cosa più che normale, che fanno tutti.  Poco dopo Machiavelli afferma che il sovrano dev’essere capace di comportarsi da bestia, nello specifico saper usare la forza del leone, ma soprattutto, la furbizia della volpe. Deve assolutamente apparire pietoso, affidabile, umano, timoroso di Dio, sincero, così da riscontrare consenso e farsi piacere. Eppure non deve per forza possedere tutte le qualità elencate, anzi, spesso deve metterle da parte per salvare la situazione, o evitare di essere danneggiato.

Machiavelli procede poi citando un esempio di furbizia e inganni e del loro funzionamento: Io non voglio degli esempi freschi tacerne uno. Alessandro VI non fece mai altro che ingannare uomini, nè mai pensò ad altro, e trovò soggetto di poterlo fare; e non fu mai uomo che avesse maggiore efficacia in asseverare, e che con maggiori giuramenti affermasse una cosa, e che l’osservasse meno; nondimanco gli succederono sempre gl’inganni, perchè cognosceva bene questa parte del mondo.

Egli conclude dicendo che il popolo conoscerà il sovrano sempre e solo in maniera totalmente superficiale: Ognuno vede quel che tu pari; pochi sentono quel che tu sei, e quelli pochi non ardiscono opporsi alla opinione de’ molti. Quindi,  per non perdere il rispetto dell'opinione pubblica, è necessario che egli sia solo apparentemente onorevole.



CAPITOLO XIX

Come si evita di essere disprezzati e odiati 

Ettore, Giuseppe 

Il capitolo XIX dipinge svariati metodi e tecniche che un buon principe dovrebbe praticare affinché non si creino antagonisti tra il popolo e la nobiltà.  

Per cominciare, un buon principe deve evitare tutto ciò che può farlo disprezzare o odiare; se riesce nell’intento non corre il rischio di ricevere alcun tipo di accusa di infamia o altro genere. Un aspetto che sicuramente lo rende fastidioso è quello di essere avido e di cercare di appropriarsi delle donne altrui.  

Dalla figura del governante, non deve trasparire l’immagine di una persone mutevole, facilona, effemminata, vigliacca o irrisoluta. Deve piuttosto mostrarsi come un soggetto grandioso, coraggioso, serio e fermo nelle sue decisioni: queste devono essere irrevocabili, nessuno deve pensare di poterle raggirare. In questo modo farà sì che la sua figura sia vista come forte. Un esempio emblematico di un imperatore che è crollato a causa della sua natura imbelle è Alessandro Severo. Costui era assai benevolo, forse fin troppo (alcuni glielo rinfacciarono), al punto che era stato lodato poiché in quattordici anni di regno non aveva fatto uccidere nessuno senza prima una dovuta sentenza dei giudici. Severo però fu disprezzato perché era ritenuto effemminato e alcuni del suo tempo spargevano voce sostenendo che si lasciasse dirigere dalla madre. Egli finì così per essere ucciso da una congiura. Un altro imperatore destinato a fallire, ovvero a finire malamente, che Machiavelli descrive è Commodo, che presentava caratteristiche peraltro opposte a quelle dell’imperatore appena descritto. Egli infatti mostrava un’indole molto crudele e un’insaziabile avidità. Per soddisfare i soli soldati non risparmiò al popolo alcun tipo di oppressione o insulto, e per questo motivo, nemmeno a lui verrà riservata una fine felice 

In generale, spiega Machiavelli, un principe deve avere due paure: una volta all'interno, ovvero la paura delle ribellioni dei sudditi, e una all'esterno, la paura di attacchi stranieri. Per quanto riguarda questi ultimi, è necessario avere un buon armamento e dei buoni alleati; in tal caso, e se in più il principe ha sempre governato con forza e rigore, il suo regno reggerà ad ogni possibile pericolo. Invece, per quanto riguarda la paura dei sudditi, se il principe ha evitato di essere odiato o disprezzato, questi non dovrebbero causargli problemi. Secondo Machiavelli, la garanzia più sicura per evitare le cospirazioni interne è appunto quella di non essere odiato. Chi decide di organizzare una congiura, è convinto di avere poi il sostegno e l’appoggio del popolo, ma di fatto se il popolo non è oppositore al principe, i congiurati dovranno affrontare non solo le conseguenze della legge, ma anche l'ira suscitata tra i sudditi. Non possono esserci oppositori interni al principe, poiché il coraggio del cospiratore viene frenato dalla paura della punizione e, inoltre, il prestigio del sovrano, la protezione degli amici e dell'istituzione lo tutelano. Al contrario, se un principe è odiato ed è nemico del popolo, allora deve temere di tutto e di tutti.  

Il modo corretto per governare è quello di lasciar amministrare le faccende più sgradevoli agli altri, tenendo per sé tutto ciò che è ben visto dal popolo; se la classe di soggetti in stato di bisogno è corrotta, conviene al principe seguire i loro umori per soddisfarli, poiché le buone azioni potrebbero addirittura danneggiarlo. Il principe infatti ha come scopo quello di acquistare il potere e mantenerlo; per farlo è necessario ricorrere a mezzi anche considerati scorretti dalla moralità comune, in base al principio per cui a dettare i comportamenti più opportuni debba essere una precisa cognizione della realtà.

Esistono dunque delle virtù prettamente politiche, che da alcuni vengono considerate come vizi, mentre per Machiavelli rappresentano l'espressione di una morale autonoma, applicata alla sola dimensione della politica e soprattutto laica.   

Machiavelli nel Principe distingue gli uomini che conquistano il potere in coloro che lo ottengono ereditariamente e quelli che invece lo assumono ex novo. Tra questi ultimi, esiste unulteriore suddivisione, tra coloro che sono principi totalmente nuovi e quelli che sono frutto di annessione a uno stato già esistente per via ereditaria.  

I principi moderni non hanno la necessità di soddisfare le proprie milizie durante il loro governo; senza dubbio devono avere il loro riguardo, tuttavia i governanti non hanno eserciti coinvolti da tempo nell’amministrazione delle province, cosa che invece avveniva durante l’impero romano. Se a quel tempo era necessario soddisfare i soldati piuttosto che il popolo, era perché i primi era più potenti. Ma Machiavelli riconosce che nella sua epoca invece i principi debbono ragionare al contrario: conviene accontentare il popolo, che essendo in grandissima maggioranza ha più rilevanza dei soldati.  


 

CAPITOLO XXI

Come dovrebbe comportarsi un principe per essere stimato 

Ettore, Giuseppe

Questo capitolo illustra come dovrebbe comportarsi un principe per essere stimato. Indubbiamente compiere imprese e gesta nobili e memorabili è la via migliore per conquistare la stima  del popolo. Un esempio di imperatore stimabile fu Ferdinando d' Aragona, considerabile quasi un principe nuovo, benché discendente d'una dinastia, per via della grandissima capacità dimostrata nel diventare il re cristianissimo; infatti, attraverso le sue imprese che furono straordinarie, diventò il primo della sua stirpe per importanza e gloria. Condusse azioni rapide e ravvicinate: assaltò Granada, scacciò i Marrani dal suo regno, attaccò l’Africa e l’Italia per passare in fine alla Francia. Una via intelligente per mantenere il potere è dunque quella di realizzare imprese una di seguito all’altra, dato che così facendo il principe riesce a impedire ai potenti degli altri stati di organizzarsi contro di lui. Sempre al fine di guadagnarsi la stima, può essere virtuoso per il Principe, compiere azioni mirabili anche nell’amministrazione interna; assicurandosi ad esempio che ogni sua scelta lo faccia apparire grande ed eccellente, premiando, anche, chiunque compia azioni straordinarie nella vita civile. Un fattore che sicuramente suscita stima nei confronti di un principe è la coerenza nelle prese di posizioni: scegliere di essere un fedele alleato fino alla fine, oppure al contrario, una volta dichiarata guerra, mantenere la posizione nemica ad ogni condizione 

Infatti, rimanendo neutrale si rischia di diventare la prossima preda del vincitore, e inoltre, nel caso in cui il vincitore muovesse guerra, non sarebbe possibile ritrovare rifugio nel vinto poiché esso non aveva ricevuto aiuto nel momento del suo bisogno. Accadde per esempio che gli Achei volessero restare neutrali nello scontro tra Romani e gli Etoli, ma i primi dissero ai secondi Quod autem isti dicunt non interponendi vos bello, nihil magis alienum rebus vestris est; sine gratia, sine dignitate, praemium victoris eritis [trad. il consiglio che questi vi danno di non prendere parte alla guerra è del tutto contrario ai vostri interessi, Tito Livio nell’Ab urbe condita]; nessuno dovrà ringraziarvi e diventerete preda del vincitore, senza alcuna gloria. Come affermato in precedenza, il principe deve sempre schierarsi, ma restando attento a non allearsi ad uno più forte di lui per attaccarne un terzo, poiché in caso di vittoria si può cadere nelle sue mani. Questo tipo di errore fu commesso dai veneziani che si allearono ai Francesi contro Milano. E’ bene ricordare che per uno stato è impossibile fare una scelta sicura, di conseguenza una persona prudente è colei che, conoscendo vantaggi e svantaggi, saprà valutare al meglio quale decisione prendere. Dimostrare reverenza al principe, fa sì che egli permetta ai sudditi liberi di esercitare ogni loro attività. Il premiare i cittadini e organizzare momenti di svago, come feste e spettacoli, sicuramente predispone una visione migliore del governante. Il principe, infine, deve mostrarsi di fronte alla popolazione come esempio di umanità e generosità, senza venire meno alla propria maestà e dignità, che devono essere sempre rispettate e tutelate. 

 

 

 CAPITOLO XXIV

Perchè i Principi d’Italia abbino perduto i loro Stati.

Francesco, Alberto, Tommaso

Il XXIV capitolo del trattato Il Principe di Machiavelli, scritto all’inizio del 1500 durante il periodo di esilio all’Albergaccio, ha come pilastri gli insegnamenti di cui il principe deve disporre affinché possa comandare e mantenere il potere dello Stato. L’autore si serve di uno stile diretto, utilizzando esempi e stabilendo confronti. Inizialmente, dopo aver trattato i motivi per i quali un principe riesce a fondare uno Stato, applicando leggi buone e mettendo insieme un esercito forte e organizzato, Machiavelli si sofferma sui motivi per i quali alcuni principi hanno perso il proprio potere. A riguardo, l’autore propone due esempi riguardanti due figure autoritarie come il re di Napoli, che venne spodestato dal suo incarico, e il duca di Milano, il quale fu cacciato dalla sua città natale. Machiavelli associa a questi due eventi le medesime cause: il mancato appoggio del popolo e la mancanza di un rapporto fiduciario con le forze militari.

Si sofferma anche a spiegare le azioni che deve compiere un buon principe affinché non perda l’autorità sul popolo e il potere politico. Per far ciò, propone un ulteriore esempio: Filippo il Macedone. Il re macedone, infatti, era a capo di uno stato molto più piccolo rispetto a quello dei Romani e dei Greci, che decisero di attaccarlo ma, tuttavia, riuscì a gestire il popolo e a scendere a compromessi con gli oppressori, cedendo solo alcune città. 

A proposito degli esempi forniti, lo scrittore afferma che i principi, che hanno perso il loro regno dopo un lungo periodo, hanno un atteggiamento sbagliato poiché, piuttosto che comprendere i propri limiti, sono soliti colpevolizzare il destino. Per spiegare al meglio il proprio pensiero, utilizza la similitudine per la quale gli uomini, spesso, non si preoccupano della tempesta quando viene la bonaccia così come non si preoccupano nemmeno del principato quando questo governa in modo corretto.  Secondo Machiavelli, cadere e in seguito sperare che ci sia qualcuno pronto a rialzarti è stupido, poiché l’unica difesa sicura è quella che dipende dalle proprie capacità, dai propri mezzi.



CAPITOLO XXV 

Quale peso abbia la fortuna nelle cose umane e come possiamo resisterle

Eleonora, Lorenzo, Sara  

Nel capitolo XXV Machiavelli spiega la sua elaborazione filosofica, già anticipata nella lettera al Vettori, riguardante l’argomento della fortuna. L’autore si dice consapevole delle credenze umane legate a quest’ultima, spesso contrarie alla ragione: se, come si pensa, l’andamento delle cose del mondo fosse governato solo da dio e dalla fortuna, allora l’uomo non avrebbe alcun potere su di esse, e di conseguenza risulterebbe più conveniente lasciare che il destino faccia il suo corso.

Machiavelli stesso ammette di essere stato contagiato da tali superstizioni, sempre più diffuse nella Firenze del 1500 a causa della difficoltà di spiegare con la ragione i numerosi cambiamenti politici avvenuti. Tuttavia sostiene l’esistenza del libero arbitrio e giunge alla conclusione che vede la fortuna governare metà delle azioni umane, lasciando la competenza delle altre alle decisioni ai singoli. 

Per chiarire la sua prospettiva, utilizza un’immagine decisamente suggestiva mettendo a confronto la fortuna con uno di questi fiumi rovinosi, che, quando s’adirano, allagano e’ piani, ruinano li arberi e li edifizii, lievono da questa parte terreno, pongono da quell’altra, senza lasciare possibilità di salvezza a chi si trova nelle loro vicinanze. Nonostante questa forza sia incontrastabile una volta scaturita, nulla impedisce all’uomo di organizzarsi in modo da prevenirne gli effetti la volta successiva, attraverso la costruzione di canali e dighe. Allo stesso modo quell’entità superiore che governa gli uomini dimostra la sua potenza irresistibile quando non viene arginata, ma può essere indirizzata a proprio vantaggio. Machiavelli procede nell’associazione della Fortuna a fenomeni naturali e fa riferimento all’Italia stessa, individuando la causa dei numerosi cambiamenti occorsi di recente  nella mancanza di protezioni e argini, quindi di prevenzione, al contrario di quanto accade nei paesi stranieri. A prima vista ci si può certamente interrogare riguardo la natura dei cambiamenti ai quali fa riferimento, ma l’entità politica del trattato in generale e il periodo successivo permettono di capire come si tratti di variazioni politiche. Infatti, come tipico nella struttura del Principe, inserisce una constatazione per poi approfondirla negli sviluppi successivi del testo. Questa riguarda quei principi che, nel giro di un giorno, passano dall’essere prosperi alla rovina, spesso senza subire variazioni caratteriali o qualitative. 

L’autore ritiene che all’origine di queste improvvise sciagure ci sia un esagerato affidamento alla fortuna, che porta a dipendere completamente da essa. Infatti descrive come sia fortunato quel principe che adatta il suo modo di procedere alle caratteristiche dei tempi, e viceversa come sia destinato a soccombere chi non si adatta.

Procede descrivendo le differenti strade utilizzate dagli uomini per tentare di raggiungere i propri scopi, come fama o ricchezza, poiché spesso si può notare come due persone che applicano lo stesso metodo non sempre pervengano entrambe al risultato voluto, come due persone caratterialmente differenti possono giungere analogamente alla stessa conclusione. La differenza nei risultati ottenuti sarebbe dovuta unicamente alla natura dei tempi, che può accordarsi o meno con la loro condotta. 

Quindi risulta chiaro come si debba saper modificare la propria condotta in vista della situazione in atto, ma la difficoltà consiste proprio nel comprendere quando sia il momento di adattarsi poiché spesso gli uomini non possono cambiare il loro atteggiamento o se la sono sempre cavata seguendo un metodo che risulta difficile da abbandonare. Funziona allo stesso modo per le decisioni, che bisogna avere il coraggio di saper prendere. 

A questo punto Machiavelli, poiché i ragionamenti che porta avanti sono basati sia sullo studio delle fonti che sulla sua esperienza diretta, decide di fare riferimento a fatti di cronaca per dimostrare come l’unica attenuante all'imperscrutabilità della fortuna possa essere la capacità di adeguamento della propria natura alle circostanze. Si dedica quindi a esaminare l’operato di Papa Giulio II, noto per aver sempre proceduto con impeto, ma soprattutto con successo, poiché evidentemente tale modo di agire era in armonia con i tempi. In particolare si concentra sulla sua prima impresa, a Bologna, quando il Papa si gettò impetuosamente nella spedizione contro i Veneziani, anticipando l’intervento degli spagnoli e guadagnandosi il supporto del re di Francia. Naturalmente, anche lo strapotere di Giulio II non sarebbe potuto durare per sempre: infatti, se fosse vissuto abbastanza per sperimentare un cambiamento di tempi che avesse richiesto maggiore cautela, sarebbe certamente caduto in rovina.  

Per concludere, ribadisce la mutabilità della fortuna e l’ostinazione degli uomini nel continuare imperterriti a seguire il percorso già sperimentato, senza provare ad adattarsi. Machiavelli inserisce un punto di vista personale, che vede l’impetuosità prevalere sull’avvedutezza a causa delle caratteristiche della fortuna, personificata come una donna che è necessario, volendola tenere sotto, batterla et urtarla. Infatti si lascerebbe conquistare più facilmente in questa maniera rispetto ad un atteggiamento più freddo, motivo per il quale i giovani sono più propensi a conquistarla a causa della loro maggiore aggressività e audacia nel comandare. 





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