CESARE: IL GRANDE IMPOSTORE - MATERIALI DI STUDIO PER 8 MARZO

INTRODUZIONE A CESARE (ispirata, ma non unicamente,  a Luciano Canfora, Giulio Cesare e a Ronald Syme, La rivoluzione romana)

Ricostruire la storia è, di per sé, un'operazione manipolatoria. La verità della storia è infatti una sorta di mito, un'aspirazione, un'ambizione, destinata a non essere coronata dal successo, ove con questo si voglia indicare appunto il raggiungimento della verità. La ricostruzione storica può avvicinare a essa, oppure può mirare decisamente ad altro. Nel novero delle alternative, si colloca l'attenzione al racconto che, occasionalmente, protagonisti della storia hanno prodotto. Cesare è uno di questi. Con i suoi Commentarii ha proceduto sulla via del racconto, inevitabilmente manipolatorio, della storia dal suo punto di vista, eccellente senza dubbio (in quanto interno, direttamente coinvolto negli eventi, con quanto di positivo e negativo questo comporta), ma pur sempre un punto di vista. 
Potremmo quindi intitolare, senza voler essere impietosi ma soltanto determinati nel fornire un'impostazione, questo nostro primo incontro con gli scritti di Cesare, Il diario di un impostore, uno dei tanti ma forse il primo che sia stato onorato da iterate letture scolastiche e da un'elezione nell'empireo di quelli che, in buona o cattiva fede, hanno cercato non solo di fare la storia ma anche di raccontarla come meglio piaceva loro. 

Il racconto di Cesare, la sua prospettiva storica, alla quale noi ci accostiamo con la consapevolezza del quid manipolatorio di cui si è detto, ha al proprio centro una carriera tutta rivolta al superamento della res publica, dell’ordinamento tradizionale dello Stato romano (da Introduzione a Giulio Cesare di Luciano Canfora).   Sempre intento a proclamare la propria fedeltà alla res publica, Cesare ricostruisce nitidamente il cammino che l'ha portato a smantellarla di fatto, aprendo la strada alla più fortunata carriera politica del suo secolo declinante, quella realizzata dal figlio adottivo Ottaviano. Sarà lui il Cesare numero uno, a dispetto degli errori (voluti) dei primi storiografi di stato romani (che denomineranno primo Cesare proprio lui, l'impostore del nostro discorso), quello che, scampato ai pugnali dei congiurati, condurrà a compimento il processo di svuotamento di senso delle istituzioni repubblicane convertite in poteri convergenti nelle mani dell'unico Imperatore
Per cominciare però, la vita prima dei Commentarii
La prima giovinezza di Cesare ci appare come la vicenda di un uomo braccato ma indomito, impegnato nella difesa dell’onore del partito “popolare”, sconfitto. Si scatena contro di lui l’ostilità di Silla dittatore, che vorrebbe eliminare fisicamente il nipote di Gaio Mario, rampollo di una delle più antiche famiglie patrizie, la gens Iulia, che vantava una mitica discendenza da Iulo figlio di Enea. Infierire sul giovanissimo figlio di Gaio Giulio Cesare (maior, morto nell’85, quando il futuro dittatore, nato probabilmente nel 101 a. C. a Roma,  aveva appena 16 anni) non sarebbe stato del tutto indolore. Silla tenta di umiliarlo, cercando di imporgli di lasciare la moglie, Cornelia, a sua volta figlia di Cinna, l’altro capo “popolare”, che Silla aveva sconfitto quando aveva marciato su Roma. Cesare  sperimenta cosa significhi rischiare tutto, in una situazione di strapotere dei nemici politici e cosa possa significare il dominio incontrollato della factio paucorum. Costretto a cambiare ogni notte nascondiglio,  a corrompere col denaro "la gente che gli dava la caccia", alla fine ottiene di essere risparmiato per intercessione delle Vestali, oltre che di Aurelio Cotta:  Silla ha dunque trovato resistenza nel suo stesso entourage contro l’iniziativa di liquidare Cesare. Il quale sceglie allora di scomparire da Roma per un poco. Nasce così la sua missione, come legatus di Marco Minucio Termo. Nell’81 Termo, subito dopo la pretura, o forse prima ancora della scadenza della magistratura, era stato inviato nella provincia d’Asia: ed aveva con sé Giulio Cesare. Era evidentemente un modo di portarlo via da Roma. In Asia Cesare fu incaricato da Termo di svolgere una missione presso Nicomede, re di Bitinia e buon amico della repubblica romana. Fu allora che sorse la grande amicizia tra Cesare e Nicomede, su cui gli avversari infierirono con pesanti e insistenti allusioni all’aspetto sessuale di tale amicizia. Ancora 35 anni dopo, il tema era oggetto di scherzo anche nelle strofette che i soldati cesariani cantavano durante il trionfo sulla Gallia: Cesare sottomise le Gallie, Nicomede sottomise Cesare. La missione in Asia fu caratterizzata anche da eventi bellici:  Cesare si distinse nell’assedio di Mitilene – ultimo focolaio di resistenza anti-romana dopo la sconfitta di Mitridate;  nel 78 lo troviamo in Cilicia al servizio di Servilio Isaurico, il quale, dopo il consolato, era stato investito di un delicato comando contro i pirati. La Cilicia era il loro punto di forza, la loro base, il loro rifugio. Non conosciamo con esattezza i dettagli: sembra evidente che Cesare abbia continuato ad operare in Oriente: non è più ritornato a Roma, vivo Silla. Si è via via associato, con speciali incarichi, presso comandanti romani che sopraggiungevano in Asia Minore. La sua appartenenza al patriziato rendeva ciò possibile. C’è da dire, anche, che, evidentemente, magistrati pur graditi a Silla gli aprivano le porte: e questo ha contribuito non poco alla sua sopravvivenza e alla sua salvezza.
Solo alla notizia della morte di Silla e dell’insurrezione di Marco Emilio Lepido (console nel 78) contro l’ordinamento sillano, rientrò a Roma. È significativa l’intera vicenda del suo rientro. Quest’uomo di 22 anni, braccato, poi costretto a fuggire da Roma per salvarsi la vita, per nulla piegato dalla persecuzione, si mobilita prontamente non appena fu nota la scomparsa del dittatore. Si comporta come un leader che sa di essere riconosciuto come tale: valuta le proposte e le chances di Lepido e le rifiuta. Lepido, che è ben più anziano e autorevole, e in quell’anno riveste il consolato, lo invita calorosamente e con grandi promesse a condividere l’avventura della rivoluzione: riconosce in Cesare un capo popolare. Ma Cesare ha già l’occhio clinico del politico maturo, che gli consente di distinguere tra un avventuriero e un capo con prospettive di successo. Svetonio, che dà qui preziosi dettagli, precisa che Cesare rifiutò di schierarsi con Lepido per due ragioni: perché non aveva fiducia nell’indole di Lepido, e perché, guardando le cose da vicino, s’era subito reso conto che si trattava di un’iniziativa ben al di sotto delle aspettative. In questa prontezza di valutazione e di riflessi c’è già il politico fornito della dote massima secondo la politologia classica: la capacità di intuire gli sviluppi, di prevedere tra le varie possibilità ciò che più ragionevolmente sta per prodursi. L’insurrezione di Lepido, prematura e male organizzata, finì male. Dopo aver fomentato disordini nella Gallia Transalpina, ormai proconsole (77 a.C.), Lepido marciò su Roma, ma si fece liquidare da Catulo, quindi fuggì rovinosamente in Sardegna. Una parte dei suoi uomini si rifugiò presso Sertorio in Spagna.  Contro gli uomini del regime sillano Cesare sceglie una strada  prudente (e che talvolta risulta anche più produttiva): portare alcuni in tribunale per precisi reati. Così denuncia per concussione per la sua gestione come proconsole in Macedonia Gneo Cornelio Dolabella (console dell’81, e comandante, l’anno prima, della flotta di Silla), il quale non doveva essere rimasto un puro durante le proscrizioni. Dolabella fu difeso da avvocati di prima grandezza come Ortensio e la fece franca. Cesare, che non si era mai fatto illusioni sull’esito del processo, disse, nel corso del suo intervento contro l’imputato, che "la migliore delle cause gli veniva strappata dal patrocinio di Lucio Cotta". La sconfitta non fu indolore. Non va dimenticato che l’insuccesso di Lepido aveva, come accade in questi casi, rafforzato il regime che Lepido si proponeva invece di abbattere. La vittoria processuale di Dolabella fu un segnale di vitalità e di tracotanza della parte sillana, rimasta solidamente al potere. Certo è che, all’indomani di queste vicende politico-giudiziarie, Cesare ha scelto nuovamente di scomparire, per far assopire le ostilità accumulatesi contro di lui, commenta Svetonio. Si reca quindi in  viaggio d’istruzione a Rodi, luogo di raccolta e di pellegrinaggio per giovani romani delle classi elevate protesi a una buona formazione greca. 
La sua vita a questo punto diventa avventurosa, a seguito di un imprevisto: i sanguinari e feroci pirati della Cilicia tendono un agguato alla sua imbarcazione e lo fanno prigioniero. In attesa di raccogliere la cifra cospicua richiesta come riscatto, Cesare si intrattiene con questi barbari raccontando loro storie, come documentato da Plutarco e Svetonio: è difficile immaginare che altri se non Cesare stesso sia all’origine della tradizione su questo episodio. A lui sarà dovuto il tono di baldanza ironica con cui l’intera vicenda viene riferita. Appena liberato, Cesare si impegna nella punizione dei suoi rapitori. A Mileto arma delle navi, e si  muove sorprendendo i pirati mentre si trovano all’ancora nei pressi dell’isola. Si verifica uno scontro navale: una parte delle navi piratesche fugge, un’altra parte è affondata, altre sono catturate. In quel momento il propretore della provincia d’Asia, Iunco, con imperium proconsolare, si trova in Bitinia, per le operazioni attuative del testamento di Nicomede III (il quale, morendo, aveva lasciato in eredità il regno di Bitinia al popolo romano). Perciò Cesare da Pergamo si sposta in Bitinia col suo bottino umano di pirati prigionieri, pretendendo che il propretore provveda alla loro esemplare punizione. 
Tornato a Roma, con un viaggio che Velleio immagina pur sempre insidiato dai pirati padroni dei mari, Cesare ottiene  un primo successo elettorale: l’elezione al tribunato militare, nel 72 per l’anno seguente. Proprio la campagna elettorale del 71, quando Crasso aspira al consolato (e vi giunge mettendosi d’accordo con Pompeo) e Cesare è tribuno dei soldati, rappresenta l’occasione per un avvicinamento tra i due sulla base di una reciproca convenienza. L’anno 70 è epocale per la costituzione e per la politica romana. I due consoli, che erano anche i due maggiori potentati, si accordano, già nella campagna elettorale, e poi nell’azione di governo, per la demolizione dell’impalcatura costituzionale sillana, e in particolare per la restituzione ai tribuni delle loro prerogative. Il clima è  ormai mutato. Lo si vede ben presto quando, entrato in carica come questore il 5 dicembre del 70 a. C., Cesare mette in opera una serie di gesti dal chiaro valore emblematico, di restituzione, in forma ufficiale, alla parte mariana, dell’onore politico. Pronuncia dinanzi ai rostri, nel Foro, secondo l’antico costume, l’elogio funebre di sua zia paterna, Giulia, vedova di Gaio Mario, e quello di sua moglie Cornelia, figlia di Cinna, morte entrambe nel 69 a. C.. Durante il trasporto funebre, fa esporre in prima fila le immagini di Gaio Mario e di suo figlio Mario il giovane, esibite in pubblico allora per la prima volta dal tempo della vittoria sillana. Alle proteste di alcuni, risponde l’entusiasmo popolare per quella iniziativa: il popolo lo accolse con applausi, come se avesse riportato dall’Ade in città i gloriosi ricordi di Mario. Consapevole dell’efficacia dei simboli, e forte del successo ottenuto, quando sarà edile, quattro anni più tardi, farà rimettere in piedi anche i trofei di Mario. 
Politicamente, l’esperienza più rilevante della questura sono i mesi trascorsi in Spagna Ulteriore – nell’estrema regione meridionale della Spagna di fronte al Marocco – nel seguito di Gaio Antistio Vetere, pretore nel 70 e governatore l’anno seguente appunto in quella regione. Cesare ricordava ancora anni dopo, e in tutt’altra situazione, quando nell’anno 45 aveva dovuto affrontare proprio nella Spagna Ulteriore i figli di Pompeo, che quella regione l’aveva scelta con particolare entusiasmo all’inizio della sua questura, che l’aveva preferita tra tutte le altre province, e che aveva fatto di tutto, all’epoca, per gratificare quella provincia con la sua generosità. Conosciamo queste parole dall’anonimo autore del Bellum Hispaniense. Nel discorso, che l’anonimo parafrasa, Cesare ricorda anche il bene da lui fatto successivamente a quella provincia nel corso della pretura (l’aveva liberata da pesi fiscali imposti da Metello) e poi del primo suo consolato. Tutto questo significa – e lo apprendiamo dalle parole dello stesso Cesare – che egli ha cercato  di costruirsi dei rapporti in quella provincia: la formazione di una rete di clientele nelle varie regioni dell’impero gli è ben presente come veicolo principale della crescita di un politico. Così, dovendo scegliere la provincia da amministrare dopo la pretura (rivestita nel 62), Cesare opterà proprio per la Spagna Ulteriore, dispiegandovi nell’anno 61 una vasta azione di governo. Della sua alacre attività in Spagna durante la questura, dà un quadro sommario Svetonio, che ce lo rappresenta impegnato in una frenetica attività giudiziaria nei vari centri del paese, tra cui Cadice (Gades).  È con l’edilità, da lui rivestita nell’anno 65 con Marco Bibulo, che Cesare, dall’anno 68, terminata la questura, ormai membro del Senato, si afferma finalmente come capo riconosciuto: fa una sua politica e si impone all’attenzione della grande politica. Peraltro in questa sua marcia – in cui spesso si è trovato al fianco di Crasso – non ha mai perso di vista Pompeo, il vero dominatore  della politica romana di quegli anni, al quale si riavvicina e con cui conclude un accordo politico-programmatico.
Una delle mosse politiche meglio riuscite è quella che lo porta a sorpresa a conquistare, nell’anno 63, il ruolo di pontefice massimo. Su sua pressione, il pontificato massimo era ridiventato una carica elettiva,  altro colpo alle innovazioni costituzionali sillane. Il peso di tale carica sacrale era nella politica romana grandissimo. Lo scettico Cesare, molto vicino ai convincimenti epicurei, non  esita un solo istante a battersi per conquistare quel ruolo di massimo garante della religione di Stato. Una carica per sua natura al riparo dalla contesa politica quotidiana. Proprio in quanto epicureo per simpatia intellettuale, Cesare sa quanto sia potente quell’instrumentum regni. Sa benissimo che le false idee sugli dei creano la paura, e che essa   genera  una religione falsa, un culto incentrato su  un rapporto mercantile con gli dei. Apprezza gli epicurei – militanti e simpatizzanti – i quali diffondevano la pericolosa dottrina secondo cui Dio non ha dimora nei templi, anche se è lo Stato che li ha fatti innalzare. E sa che scrittori politici greci, ormai pienamente coinvolti nella realtà romana sino a farsene realpolitici esaltatori, scrivevano, come Polibio nel suo programmatico libro VI: Quello che presso gli altri popoli è oggetto di biasimo, cioè la superstizione religiosa, è ciò che mantiene la coesione dello Stato romano .
Saltiamo qualche anno e arriviamo alla scelta politica di lungo periodo: imbarcarsi per un consistente periodo di tempo  in una grande campagna di conquista e “colonizzazione” con un esercito di vaste proporzioni (un numero di legioni necessariamente proporzionato all'ampiezza della campagna) significava sostituire man mano alla sua angusta “base” tradizionale “urbana” una imponente massa militare: un soggetto politico sempre più ingombrante e capace di contare nelle decisioni dei potentati (come aveva egli stesso esperimentato quando aveva dovuto battersi, da console, per le necessarie, indilazionabili, gratificazioni alle legioni di Pompeo). Incomincia così, con il lungo impegno militare in Gallia, una nuova fase della biografia politica cesariana, in cui il fatto più importante è il costituirsi man mano di una sua nuova base politica: anche se ciò non comporta la rottura con il retroterra popolare lasciato a Roma, giacché a Roma  ci sono i suoi uomini, e continua, comunque, a funzionare, in condizioni più rischiose, il patto triumvirale.
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STILE DI CESARE
Commentarii, sia i sette libri  dedicati al bellum Gallicum sia i tre  dedicati al bellum civile,  per quanto Libri di memorie ovvero Appunti, furono considerati modelli di stile a cominciare da Cicerone, che nel 46 a. C., nel suo dialogo Brutus dedicato all'oratoria, li descrive come testi limpidi e brevi, privi di ornamenti, come devono essere, secondo l'oratore, i testi storici. Cicerone ammette che lo stile degli storici possa essere di vario genere e che in alcuni casi volga positivamente in direzione della magniloquenza e della tragicità della rappresentazione. Tuttavia sembra prediligere quello in cui è maestro Cesare, rispetto a opere storiche in cui l'attenzione sia concentrata su un unico personaggio, reso eroico protagonista di scene drammatiche. 
Lo stile cesariano è dunque moderato, privo di ampollosità, di pathos, di coloriture retoriche e nemmeno mira continuamente a sortire effetti didascalici, di ammaestramento morale. Il suo modello sono i rapporti dei comandanti militari e lo stile cancelleresco, come si può facilmente dimostrare dall'ampio ricorso agli ablativi assoluti e al discorso indiretto, caratteristici di testi che mirino all'essenzialità della comunicazione per restituire in primo luogo la realtà dei  fatti. Anche la scelta di parlare di sé in terza persona, invece che in prima persona come potrebbe autorizzare la circostanza di essere autore e protagonista delle vicende, sarebbe da indicare come scelta stilistica mirante a determinare un effetto di oggettività.

A dispetto di ciò, anche fra i primi lettori di Cesare vi fu chi attribuì viceversa ridotta obiettività all'autore. Fra tutti spicca Asinio Pollione, politico, oratore e storico vissuto a cavallo fra il I secolo a.C. e il I sec. d. C, coevo di Cesare, per quanto a lui sopravvissuto, il quale si pone in contrasto col giudizio ciceroniano. A suo parere, ad esempio, la scelta di esprimersi in terza persona sarebbe un mero artificio, che non riesce minimamente a eludere il problema sostanziale di una ricostruzione degli eventi del tutto tendenziosa, inficiata dal fatto che alcuni avvenimenti siano stati riportati dall'autore che li aveva uditi da altri e che anche quelli vissuti da lui in prima persona risultino alterati dalla memoria. 
A sostegno di queste critiche di Asinio Pollione, si può anche addurre il fatto che la materia dei Commentarii non sia disposta nell'ordine in cui i fatti si svolsero, ma abbia subito una risistemazione da parte dell'autore: le esigenze della finzione artistica (pur presente anche in un'opera storica) sono in evidente contrasto con quelle della realtà, dato che discostandosi dall'ordine reale dei fatti l'autore può suggerire connessioni che determinano una comprensione globale degli eventi impregnata della suo giudizio. Insomma, ritorniamo al filo conduttore del nostro ritratto di Cesare: in questo caso l'impostore è tale in quanto storico che si dedica a una forma di finzione artistica. La parola stessa finzione, fictio, fa riferimento per etimologia a fingere ossia dare forma (ne deriva il nome figulus che significa vasaio, colui che dà forma alla creta per forgiare un vaso) e Cesare compie un'operazione sui fatti che è tecnicamente richiesta dal genere in questione, quello storiografico, pur sempre appartenente all'ambito dell'arte, una techne come quella del vasaio che plasma materie grezze trasformandole in meravigliosi e utili oggetti.
Insomma, l'operazione di manipolazione dei fatti compiuta da Cesare, per quanto ispirata da una volontà di narrazione oggettiva perseguita anche con precisi strumenti tecnici, è autorizzata in radice dal genere stesso della storiografia: per questo motivo come lettori non dobbiamo perdere di vista il nostro duplice obiettivo: rivivere attraverso la ricostruzione i fatti avvenuti davvero e intendere la direzione in cui vuole volgere la nostra attenzione l'autore, animato dal proposito di persuadere (forse anche se stesso) di aver compiuto se non le scelte giuste certo quelle migliori per il benessere suo e di Roma. 

 

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