LEZIONE DEL 15 FEBBRAIO DA OVIDIO A VINDICES

Nel libro VI delle Metamorfosi di Ovidio si trova il mito di Procne, Tereo e Filomela, i cui temi conduttori sono tradimento e vendetta.  Dopo una sintesi della vicenda nel suo insieme, riporto la parte conclusiva dell'episodio, vv. 571-674,   nella traduzione di G. Paduano (Zanichelli) e il testo ovidiano relativo al massacro di Iti da parte di Procne e Filomela.

Procne, figlia di Pandione re di Atene, sposa Tereo, re di Tracia. Procne ha nostalgia di sua sorella Filomela, e prega il marito di andare a prenderla ad Atene. Ma Tereo si innamora della cognata e la violenta; poi per assicurarsi il suo silenzio le taglia la lingua. A un anno di distanza dall'evento,  Filomela è prigioniera ed è stata resa muta. Escogita allora una trovata:   ricama su una tela  la violenza che ha subito. Un’ancella consegna la tela a Procne, che vi legge quanto è accaduto, come in un libro. Allora Procne si reca alla capanna dove è custodita Filomela e la porta via con sé. Le due sorelle sono pronte alla vendetta, e l’arrivo di Iti imprime la svolta decisiva alla vicenda. È molto patetica l’uccisione del bambino che rivolge a Procne l’appellativo di madre e tende le braccia verso di lei. Procne non ha nessuna esitazione e non distoglie nemmeno lo sguardo. Poi è Filomela a colpire. Le carni di Iti vengono imbandite a Tereo, che mangia da solo, senza servi né amici. Dopo la terribile rivelazione, Tereo si lancia all’inseguimento delle due donne, e tutti e tre vengono trasformati in uccelli. Secondo la tradizione greca, Procne diventa l’usignolo che lamenta l’uccisione del figlio Iti, mentre Filomela si trasforma nella rondine che con la lingua tagliata può emettere soltanto un balbettio. Nella letteratura latina tuttavia è il contrario: Filomela è l’usignolo e Procne la rondine. Secondo una versione più antica ma meno diffusa, Tereo si trasforma in falco proprio nel momento in cui si scaglia contro le due sorelle per ucciderle con la spada. Qui invece si trasforma in un’upupa. 

Come Filomela capì d’essere entrata nella casa nefanda, inorridì e impallidì in tutto il volto:  Procne, trovato un posto per togliersi l’arredo sacro, svelò il volto pudico dell’infelice sorella   e cercò d’abbracciarla, ma Filomela non riusciva ad alzare gli occhi sulla sorella che le sembrava d’avere tradita; col volto chino a terra, voleva giurare e chiamare a testimoni gli dei che il suo disonore era stato forzato; usò la mano al posto della voce, ma Procne,   ardente d’ira incontenibile, fece cessare il pianto della sorella dicendo: “Non con le lacrime, col ferro bisogna agire, o se c’è qualcosa di peggio. Io sono pronta, sorella, a qualunque delitto, a dare fuoco con le fiaccole al palazzo reale,   e gettare in mezzo alle fiamme il colpevole Tereo, o a strappargli la lingua, gli occhi, gli organi che ti hanno tolto l’onore, o a cacciar via la sua sporca anima con mille ferite; qualunque sia il fatto a cui sono pronta, è qualcosa di grande. Cosa, non lo so ancora ”. E mentre Procne   così diceva, Iti le venne incontro. Da lui capì che cosa poteva fare e, guardandolo con occhi feroci, gli disse: “Quanto somigli a tuo padre!”, e niente più, ma, ribollendo di tacita collera, preparava un atroce delitto. Quando il figlio corse da lei e le diede   il suo saluto e le cinse il collo con le piccole braccia, e la baciò insieme ad altre moine infantili, la madre fu commossa e la sua ira si infranse: gli occhi le si riempirono di lacrime involontarie. Ma quando sentì la mente vacillarle sotto l’eccesso   della pietà, stornò gli occhi da lui verso la sorella e, guardando ora l’uno ora l’altra: “Perché, disse, l’uno può commuovere con i suoi vezzi, e l’altra è muta, con la lingua strappata? Perché l’uno mi chiama mamma e l’altra non può chiamarmi sorella? Considera, figlia di Pandione, chi hai sposato: non tralignare   con un marito come Tereo la pietà è un delitto! ”. E senza indugiare trascina via Iti come una tigre del Gange trascina una cerva lattante per i boschi , e quando furono giunti a una stanza segreta, Procne colpì con la spada il bambino che le tendeva le mani   e chiamava “Mamma!”, vedendo già il suo destino, e l’abbracciava. Lo ferì dove il petto confina col fianco e non distolse gli occhi; a lui un colpo solo bastava per morire, ma Filomela lo colpì anche alla gola, e dilaniarono le membra ancora vive che avevano   un po’ di respiro. Una parte bollì nei crateri di bronzo, una parte cigolò sugli spiedi; la casa gronda di sangue. A questa mensa Procne invita l’ignaro Tereo, fingendo che fosse un rito attico, a cui soltanto il marito può stare, e con questo allontanò servi ed amici.   Tereo, sedendo in alto sul trono degli avi, mangia e introduce nel ventre le proprie viscere; tanta è la sua cecità che grida: “Chiamate Iti!”. Ma Procne non può dissimulare la sua gioia crudele e, volendo essere messaggera della sua strage,   dice: “L’hai dentro quello che chiedi”. Tereo si guarda attorno, chiede dov’è, e mentre chiede e torna a chiamare, Filomela, com’era, con i capelli bagnati dalla folle strage, balzò fuori e gettò in faccia al padre la testa insanguinata di Iti; più che in ogni altro momento avrebbe voluto   parlare e attestare la gioia con parole adeguate. Con un grido immenso Tereo respinse la tavola, invocò dallo Stige le serpi sorelle e voleva, se avesse potuto, aprirsi il petto ed espellere l’orribile cena, rigettare le viscere.   Chiama se stesso miserabile tomba del figlio, poi con la spada sguainata insegue le figlie di Pandione. Si sarebbe pensato che avevano ali, e le avevano infatti: l’una fuggì nel bosco, l’altra sotto il tetto; dal loro petto non è scomparsa   l’impronta della strage: le penne sono macchiate di sangue. E anche lui, così rapido per il dolore e la volontà di vendetta, diventò l’uccello che ha in cima una cresta, un becco spropositato al posto della lunga spada: il suo nome è upupa, e il suo aspetto è guerriero.

Peragit dum talia Procne,

ad matrem veniebat Itys; quid possit, ab illo                             620

admonita est oculisque tuens inmitibus 'a! quam

es similis patri!' dixit nec plura locuta

triste parat facinus tacitaque exaestuat ira.

ut tamen accessit natus matrique salutem

attulit et parvis adduxit colla lacertis                                         625

mixtaque blanditiis puerilibus oscula iunxit,

mota quidem est genetrix, infractaque constitit ira

invitique oculi lacrimis maduere coactis;

sed simul ex nimia mentem pietate labare

sensit, ab hoc iterum est ad vultus versa sororis                        630

inque vicem spectans ambos 'cur admovet' inquit

'alter blanditias, rapta silet altera lingua?

quam vocat hic matrem, cur non vocat illa sororem?

cui sis nupta, vide, Pandione nata, marito!

degeneras! scelus est pietas in coniuge Tereo.'                         635

nec mora, traxit Ityn, veluti Gangetica cervae

lactentem fetum per silvas tigris opacas,

utque domus altae partem tenuere remotam,

tendentemque manus et iam sua fata videntem

et 'mater! mater!' clamantem et colla petentem                         640

ense ferit Procne, lateri qua pectus adhaeret,

nec vultum vertit. satis illi ad fata vel unum

vulnus erat: iugulum ferro Philomela resolvit,

vivaque adhuc animaeque aliquid retinentia membra

dilaniant. pars inde cavis exsultat aenis,                                   645

pars veribus stridunt; manant penetralia tabo.

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