LEZIONE DEL 22 MARZO: ESEMPIO DI RICAPITOLAZIONE - LE VOCI DELLA STORIA

 LE VOCI  DELLA STORIA NEL I SECOLO a. C. 

I FATTI
La dittatura di Silla (che abdicò e poi morì nel 78 a. C.), come pure il contrasto con Mario e la costituzione da parte di entrambi di eserciti clientelari ebbero la loro parte nell’aprire la strada verso la costituzione di poteri monarchici: per la prima volta magistrati usciti di carica ebbero la possibilità di crearsi posizioni militari personali negli anni successivi di pro magistratura fuori d’Italia. A ciò si aggiunse il fatto che, venendo abolite da Silla le distribuzioni di grano alle famiglie meno abbienti da parte dello Stato, i ceti inferiori divennero soggetti ricattabili e strumentalizzabili, in occasione delle elezioni, da parte delle grandi famiglie. Infine, attraverso le distribuzioni ai veterani di terre derivanti da espropriazioni, iniziò il grave problema dei proscritti impoveriti ed esiliati. Le guerre, sociali e civili,  susseguitesi fino morte di Silla avevano distrutto e devastato città e campagne soprattutto dell’Italia centromeridionale, le ampie confische dei beni de proscritti avevano sconvolto le relazioni  di proprietà: bande di briganti si erano formate, dei molti che avevano perso tutto nelle alterne vicende belliche. Nel contempo erano in atto però fenomeni di grande portata come un intenso sviluppo urbanistico e  l’uniformazione giuridica e religiosa degli Italici, premessa quest’ultima per un superamento, sul piano politico, delle antiche autonomie locali.
La società romana nei primi decenni del I secolo è nell’insieme profondamente mutata, l’impero si espande sempre di più, in Africa e in Asia, ed è travagliato da una grave crisi interna, è alla ricerca di un nuovo assetto che sia adatto alle nuove dimensioni assunte e alle dinamiche economiche e sociali nuove in atto. Per dare qualche idea, mentre la plebe si impoverisce, la classe equestre accresce enormemente le sue ricchezze: s diffonde l’idea, fra i ceti meno abbienti, che la grave situazione possa essere risolta da una personalità eccezionale, la quale assuma su di sé tutti i poteri. Questo spiega fra l’altro il successo presso le masse  di alcuni tentativi rivoluzionari (come quello di Catilina, che è sicuramente il più noto), che pure vennero sventati ma ai quali conseguì comunque una crisi dello Stato. A Pompeo, per esempio, vennero concessi poteri eccezionali in occasione della guerra contro i pirati nel 67 e per concludere la campagna contro Mitridate nel 66. Ma fu l’ascesa di Giulio Cesare a rappresentare l’esempio, fino a un certo punto più riuscito, di affermazione di una nuova maniera di fare politica, in una res publica che si stava inesorabilmente trasformando e, in un certo senso, svuotando dei suoi caratteri originari. Cesare, di nobile e antichissima schiatta,  apparteneva al partito dei populares, i mariani ai tempi dell’opposizione alla dittatura sillana, ed era largamente finanziato da Crasso, ricchissimo cavaliere. Non lesinò strumenti populisti e danaro (organizzazioni di giochi, per fare un esempio), per consolidare un potere che si fece via via sempre più personale, pur avendo egli seguito inizialmente tutte le tappe del cursus honorum. Il passaggio dal rispetto delle regole della res publica a regole nuove non è facile da individuare, ma si può in parte far coincidere con la nascita del I triumvirato tra Cesare, Crasso e Pompeo nel 60, patto tra privati cittadini  che condusse di fatto a una spartizione dell’impero fra questi soggetti: l’Occidente a Pompeo, l’Oriente a Crasso e la Gallia (che conquistò stabilmente in una campagna durata 7 anni, dal 58 al 52) a Cesare. Dopo la morte di Crasso divenne inevitabile uno scontro fra i due rimasti, che culminò con la vittoria di Cesare a Farsàlo in Tessaglia nel 48 e con la morte di Pompeo (ultimi pompeiani sconfitti nel 45 a Munda in Spagna). Fu Cesare ad avviare una riforma dello Stato intesa a instaurare il dominio di uno solo, ma i pugnali dei suoi oppositori, ch’egli aveva cercato di smussare ricorrendo allo strumento della clemenza, lo uccisero nel 44.  Ripreso con maggior astuzia politica da suo figlio adottivo Ottaviano, il programma di svuotamento di senso della repubblica e di sua trasformazione in  principato si realizzerà a partire da una quindicina di anni dopo.
Nel passaggio dalla repubblica al principato cambia anche la nozione di libertà: sotto il primo regime significava soprattutto godimento dei diritti di cittadino romano, con la possibilità di accedere alle magistrature e di partecipare alle votazioni; sotto Augusto tale libertà non esiste di fatto più, perché il cursus è riservato a chi è designato dal principe e la partecipazione del popolo alle decisioni politiche attraverso apposite votazioni non esiste più. Imperium, auctoritas, principatum e anche forma e sostanza della sacralità sono nelle mani di Augusto, garante della pace e novello Romolo, alter conditor Urbis. Complice lo stato di esaurimento cui hanno condotto, l’intero popolo romano e gli intellettuali, le guerre civili questa trasformazione che solo un ventennio prima aveva causato la morte di Cesare viene non solo accettata ma applaudita, col concorso dell’apparato culturale all’uopo apprestato da Augusto e collaboratori.
LA PRIMA VOCE: SALLUSTIO E LA NOSTALGIA
Dall’86 al 35, una vita relativamente breve nella tempesta delle vicende politiche di quel periodo, che lo videro in parte coinvolto (partigiano di Cesare, a lui debitore di ogni fortuna e di salvataggi in extremis da torbide vicissitudini, ritiratosi a vita privata dopo la sua morte) in parte accigliato osservatore. Da una convinzione appare animata l’intera opera di Sallustio (De bello Iugurthino, De coniuratione Catilinae, Historiae): che la repubblica abbia esaurito la sua originaria vocazione alla giustizia, all’armonia, all’equa distribuzione dei poteri, minata (la prospettiva dello storico è fondamentalmente moralistica) da ambitioluxusavaritia, vizi in grado di corrompere lo spirito di servizio proprio dei magistrati dello Stato antico. La decadenza è iniziata un secolo prima, in concomitanza con la sconfitta e distruzione di Cartagine: lo storico è persuaso che il metus hostilis rappresentasse un ottimo deterrente rispetto ai vizi sopra riportati, tenendo occupati gli animi dei concittadini, rinsaldandone lo spirito di coesione e impedendone l’infrollirsi. Nella Roma del suo tempo Sallustio vede pochi segni di ripresa possibile e preferisce per questo rifugiarsi nell’esaltazione del passato, in un arcaismo che lascia le proprie tracce anche nella lingua prescelta per l’esposizione. Nostalgia del passato e deprecazione del presente si intrecciano inestricabilmente e lasciano poco spazio  a prospettive future: forse Cesare è un salvatore, ma la morte sopraggiunta impedisce di trarre questo bilancio.  
LA SECONDA VOCE: CESARE IL DOMINATORE
Dieci libri per spiegare come si può imporre una svolta alla storia, assumersi da soli responsabilità che sarebbe meglio condividere, compiere passi irreversibili. Sette sono i  Commentarii de bello gallico, 3 i de bello civili. Cesare era uomo d’azione e la velocità una delle sue caratteristiche salienti: veloce nella scrittura, rapido nelle campagne militari. E ancora: incisivo e acuto, come dev’essere chi vuole lasciare un’impronta nella storia e anche essere il primo a raccontare come abbia fatto. Un cenno in particolare può fungere da esempio: se Cesare ebbe un programma politico nel senso moderno del termine questo fu certo principalmente ispirato alla clemenza, ovvero la pacificazione delle fazioni attraverso il perdono (famoso quello di Cicerone), evitando ogni vendetta e le famose liste di proscrizione che erano divenute di moda dai tempi di Silla. Così sperava di promuovere la concordia ordinum, la pace sociale, precondizione per un recupero delle condizioni di legalità essenziali per il mantenimento di uno Stato, qualunque esso sia. Sotto questo profilo, pur trattandosi di un disegno autoritario, si può dire che fosse ispirato a principi ancora ereditati dall’antico spirito repubblicano, attento al rispetto dei valori e a un’etica della responsabilità del singolo di fronte alla collettività.
LA TERZA VOCE: LIVIO E LA CONSAPEVOLEZZA DELLA FINE
Con i suoi 142 libri Ab Urbe condita, dalle origini fino alla morte di Druso, figliastro di Augusto, avvenuta nel 9 a. C., Livio (59-17 d.C)  prende atto di quanto alla sua epoca cominciava a profilarsi come un dato di fatto acquisito: che un’epoca della storia umana si fosse definitivamente chiusa e che se ne potesse stendere una sorta di bilancio conclusivo, anche per poter rintracciare nell’analisi del passato degli strumenti utili a capire il presente. Il passato si prepara dunque, con la complicità di Livio, a diventare un monumento: il mos maiorum, le tipiche virtù romane del facere e del pati fortia esaltano Livio al punto che, scrive, il suo animo diviene anch’esso antico ed egli vive in consonanza con l’antichità più che con il proprio tempo. Come già nel caso di Sallustio, dunque, lo storico è un nostalgico che non trova nel presente motivi di conforto e segni di miglioramento, e deve pertanto guardare al passato per trovare la grandezza della propria gente. La sua storiografia, quindi, non mira a ricostruire i fatti storici, ma a individuare la vera essenza della romanità, scoprire il segreto di un’evoluzione nel tempo da piccolo villaggio dispersi sui colli a impero universale. Tutto, quindi, è visto sub specie aeternitatis e in una prospettiva etica: il passato è pieno di uomini straordinari, di personalità eroiche e degne di essere modelli, più in generale la società romana ha saputo edificare se stessa come un organismo perfetto, finché è durato, armonico ed  equilibrato. Per questo l’opera di Livio cela in se stessa una interessante contraddizione: lo storico, che esalta la repubblica delle origini, dovrebbe condannare l’operato di Augusto che nei fatti ha portato a compimento un processo di distruzione della medesima peraltro già ampiamente avviato. In effetti, per quanto non esplicitamente, ovvero limitandosi a mettere in luce la positività di personaggi come Pompeo, Livio esprime questa condanna, ma poi introduce anche la lode (appunto a ben vedere contraddittoria) del princeps in quanto restauratore (formale) dei valori della res publica. Una voce, quindi, la sua, per così dire fuori dal tempo, eppure di storico che possiede un forte senso religioso, riassumibile nell’idea che Roma fosse depositaria di una missione universale, da realizzarsi nel tempo a favore di tutta l’umanità.
PER CONCLUDERE: LE RES GESTAE
Come Orazio dice delle sue odi, che rappresentano un monumento destinato a durare nel tempo, così senza dichiararlo fa il princeps Augusto con le sue Res gestae: si costruisce il monumento con le sue mani, si scrive la “regina delle iscrizioni”. In sintesi le Res Gestae sono l’affermazione e esaltazione dell’auctoritas, senza alcun significato giuridico ma pragmatica, personale e rivoluzionaria, dell’imperator Caesar Augustus, rifondatore di Roma e pater patriae: quella patria che, l’avevano detto tutte le altre voci, doveva essere ricomposta dai frantumi delle guerre civili, dalla vanificazione dell’ordinamento costituzionale, dalla riduzione della repubblica a “un nome senza corpo né forma” (Svetonio). Esse sono dunque la documentazione di un potere carismatico e l’autoglorificazione fino alle soglie dell’apoteosi.

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