COMPITI PER MARTEDI' 23 MAGGIO
1) A che cosa fa riferimento la rara coerenza che Alfieri avrebbe dimostrato con la donazione a favore della sorella?
2) Cosa significa che la teorizzazione antitirannica resta tutta astratta?
3) Che cosa è consentito, secondo Alfieri, al letterato?
4) Quali sono i connotati dell'eroe alfieriano? Contro quale potere si muove la sua lotta?
5) Attraverso quali passaggi concettuali il suicidio diventa, nella prospettiva alfieriana, un atto eroico?
6) Copn quale motivazione Alfieri sostiene di preferire una tirannide estrema a una moderata?
7) Quale funzione svolge la distinzione fra popolo e plebe nel pensiero politico alfieriano?
8) In che cosa si distingue Mirra da tutte le altre tragedie alfieriane?
9) Riporto sotto le ultime battute della tragedia: raccogliete idee su innocenza e empietà, per elaborare un commento che tenga conto dell'intero sviluppo della tragedia (solo abbozzo)
SCENA QUARTA
Mirra, Euriclea.
darmi... allora,... Euricléa, dovevi il ferro...
io moriva... innocente;... empia... ora... muojo...
ALFIERI
Alfieri vive in pieno illuminismo, ovvero in quell’epoca che è anche attraversata da una corrente neoclassica, eppure anticipa atteggiamenti e sensibilità che sono proprie del periodo successivo, il romanticismo, pur considerando che quest’ultimo si manifesta con un certo anticipo in diverse nazioni europee, dove le sue prime espressioni risalgono alla seconda metà del settecento: come vedremo nel prossimo capitolo, questo anticipo è particolarmente evidente in Germania e Inghilterra. Lo presento, come in tanti altri casi, attraverso una sintetica biografia.
Nato ad Asti nel 1749, da una nobile famiglia savoiarda, viene ingabbiato (più o meno parole sue) all’età di nove anni nella Regia Accademia di Torino. L’effetto imprigionante è ampiamente documentato nella sua autobiografia, La vita scritta da esso, fondamentale strumento per la comprensione di uno spirito abitato da permanenti inquietudini e connaturata insoddisfazione. Quanto all’origine nobile, scrive che l’esser nato tale gli è servito per poter poi senza taccia d’invidioso e di vile, dispregiare la nobiltà per se sola; nel 1778, peraltro, dando prova di rara coerenza, rinuncia ai beni di famiglia con una donazione a favore della sorella Giulia. Spirito cosmopolita, amante dei viaggi come delle letture, ha modo di contrapporre all’ambiente assolutistico e retrivo sperimentato nel regno sabaudo l’esperienza viva e diretta, ad esempio, della libera vita inglese. Ne caratterizzano lo spirito ansia di conoscenza, desiderio di provare emozioni forti, di sperimentare avventure passionali, di verificare concretamente quello che fin dagli anni dell’accademia si precisa come il suo odio antitirannico, che assume poi la forma di una precisa teorizzazione, rimasta del tutto astratta, di come in nome della libertà si debbano respingere tutte le specie di autorità politica. Comunque, per quanto in assenza di esiti pratici, politica, poetica e poesia appaiono sorrette da un nucleo profondo in cui la lotta per la libertà politica e quella per l’affermazione di uno scrittore libero e autentico hanno una comune radice. Alfieri ha dunque proposto, in un’epoca in cui abbiamo visto proliferare le accademie, una nozione di letterato libero, uomo del dissenso e della contestazione, essere umano integrale, senza soluzione di continuità fra opera e creatore. In particolare è la produzione tragica a rientrare in questa concezione: il poeta rappresenta quella che si denomina la crisi tragica, ovvero la rappresentazione del limite contro cui, religiosamente ovvero spiritualmente, lotta l’eroe alfieriano. Tale limite non è solo rappresentato dalla tirannide del potere politico (per quanto diverse tragedie abbiano proprio questa ispirazione), ma dallo stesso ordine delle cose, dalla natura e dalla divinità, anch’esse secondo lui più tiranniche che paterne o provvidenziali. La tragedia alfieriana è dunque principalmente riassumibile nel conflitto permanente fra ideale e reale, fra volontà rinnovatrice e limite di un ordine politico, culturale, esistenziale.
Per conoscere Alfieri ci dedicheremo alla lettura integrale di una sua tragedia, Mirra, ma prima è necessario soffermarsi sul trattato che contiene l’esplicitazione del suo pensiero in merito al tormentoso rapporto fra piani di realtà differenti come quello in cui vivono le persone comuni, quello dei tiranni, e quello degli oppositori. Della tirannide, scritto fra il 1777 e il ’79 apre la fittissima stagione creativa che vede Alfieri comporre, nell'ordine, un secondo trattato intitolato Del principe e delle lettere, 19 tragedie e una raccolta di Rime. In questo fecondo periodo, ha modo anche di continuare a coltivare l'amore per quella che, tra le tante, è la sua donna, o il degno amore, ossia la contessa di Albany, Luisa Stolberg-Gedern, moglie di Charles Edward Stuart (di 32 anni più anziano), pretendente al trono d'Inghilterra, incontrata a Firenze nel 1777. Nel trattato iniziato appunto nel 1777 a Siena, Alfieri delinea il carattere antagonistico e l’impeto eroico che caratterizzano l’inevitabile scontro fra tiranno e uomo libero. In quest’opera si trovano opposti da una parte l’eroe, che combatte contro i limiti rappresentati dalla tirannide, e dall’altra chi detiene questo potere assoluto. A essere una battaglia è, nella prospettiva alfieriana che qui si delinea, anche la sua opera, che si manifesta come diretta e primaria affermazione della propria libera personalità; d’altro canto, si legge, egli è un uomo che abbandonerebbe volentieri la penna per impugnare la spada. Alfieri si schiera pertanto contro il dispotismo, anche quello illuminato, della sua epoca e identifica con tirannide ogni tipo di monarchia che ponga il sovrano al di sopra delle leggi. Anzi, dichiara di preferire le tirannidi estreme a quelle moderate, che altro non sono che contraffazioni, che illudono i popoli, mascherando più o meno abilmente e efficacemente la propria ineludibile essenza. Egli sogna quindi un’insurrezione del popolo tale da provocare il capovolgimento della situazione e il ritorno alla totale libertà dell’essere umano non asservito in qualsiasi modo a un suo simile. Molto interessanti i passaggi del testo in cui il tiranno viene paragonato a Dio: la concezione assolutistica in politica è da lui vista come un monoteismo che ha assunto forme monarchiche. L’assunto che alimenta questa visione è che il concetto di divinità, in particolare quello veterotestamentario, sia intrinsecamente connesso con una visione assolutistica del potere, in quanto l’essenza metafisica del divino è potenza (non amore, secondo Alfieri), da cui deriva solo la necessità della sottomissione, ampiamente confermata dai racconti veterotestamentari che delineano Javeh come Dio degli eserciti. Il mantenimento nel tempo della tirannide è poi secondo lui promosso da una classe sociale che ne trae principalmente beneficio, ovvero la nobiltà, D’altronde i nobili, grazie all’educazione ricevuta, sono in grado di comprendere il vero pericolo che rappresenta il tiranno, ma quest’ultimo, indotto da spirito di autoconservazione, li corrompe offrendo loro privilegi in cambio di una diminuzione dei poteri di cui dispongono. Quanto al popolo, Alfieri lo distingue nettamente dalla plebe (questo il termine di cui si serve), in quanto il primo è costituito da cittadini e contadini più o meno agiati, mentre la seconda da nullatenenti, ai quali dedica parole sprezzanti, definendoli corrottissimi e scostumati; ogni qualunque governo, perfino la schietta Democrazia, non dee né può usar loro altro rispetto, che di non li lasciar mai mancare né di pane, né di giustizia, né di paura. Che ogniqualvolta l’una di queste tre cose lor manchi, ogni buon ordine di società può essere in un istante da costoro sovvertito, e anche pienamente distrutto.” Il riferimento alla paura viene approfondito in un intero capitolo del libro I, il III, intitolato proprio Della paura, in cui descrive il rapporto fra tiranno e sudditi caratterizzato da una duplice forma di paura, da parte del tiranno di perdere il potere e, da parte dei sudditi, del tiranno in sé ovvero della perdita di libertà totale che la sua esistenza comporta. Da qui deriva il fatto che l’uomo libero (interiormente tale, ossia predisposto da educazione a sentire il valore della libertà) non possa vivere sotto una tirannide (Libro II) e abbia di fronte a sé un’unica opzione dignitosa: il tirannicidio e la gloria di morir da libero, abbenchè pur nato servo, attraverso un atto che si trasforma non di rado in suicidio. Alfieri invoca in questo caso la morte come suprema prova di eroismo, come affermazione della propria natura e come vocazione alla libertà. Soprattutto nel caso in cui il gesto del tirannicidio non abbia un risultato positivo, comunque il suicidio dell’eroe può fungere da stimolo per il popolo, ossia provocare un suo decisivo risveglio e una sua irresistibile insurrezione. Anche solo da questa sintesi si capisce che il testo alfieriano non è particolarmente articolato dal punto di vista strettamente politico, ma illumina sulla genesi degli eroi tragici alfieriani i quali, anche se vincitori, subiscono sconfitte tragiche e dolorose, restano profondamente tormentati anche, ma non solo, a causa del sangue versato. Evidente, insomma, che per Alfieri la teorizzazione proposta non rappresenti un preludio a un’azione politica vera e propria: a dimostrarlo, la sua reazione alla rivoluzione francese, di cui è inizialmente entusiasta e che celebra in un'ode intitolata Parigi sbastigliato (1789), ma che successivamente genera il suo sdegno per gli eccessi di quello che definisce il mostruoso governo rivoluzionario. Fugge peraltro da Parigi nel 1792 con la contessa d’Albany e si stabilisce a Firenze. Gli ultimi anni della sua vita, conclusasi per infarto a 54 anni nel 1803, sono caratterizzati da una quasi completa scomparsa della vena compositiva migliore e da una sorta di involuzione reazionaria.
La produzione tragica, ribadisco tuttavia, ben rientra nella concezione che ho delineato servendomi del trattato: il poeta rappresenta quella che si denomina la crisi tragica, ovvero la rappresentazione del limite contro cui, religiosamente, lotta l’eroe alfieriano, che non è solo il limite della tirannide del potere politico (per quanto diverse tragedie abbiano proprio questa ispirazione) ma è lo stesso ordine delle cose, la natura e la divinità, anch’esse a ben vedere più tiranniche che paterne o provvidenziali. La tragedia alfieriana è dunque principalmente espressione del conflitto irrisolvibile fra ideale e reale, fra volontà rinnovatrice e limite di un ordine politico, culturale, esistenziale che non si lasciano scalfire perché è nella loro volontà mantenersi il più a lungo possibile. La produzione tragica di Alfieri conosce un vertice in due tragedie, Saul e Mirra, risalenti rispettivamente all''82 e all'84. La forma teatrale tragica, è evidente da quanto già visto, si addice particolarmente al suo spirito, abitato da tensioni ideali molto forti: della forma tragica tradizionale, all'epoca piuttosto usurata, Alfieri accetta la partizione in atti (cinque) e le unità aristoteliche di tempo, luogo e azione. Diminuisce però il numero dei personaggi, in particolare i secondari, e concentra l'attenzione su uno o due protagonisti; analogamente elimina le digressioni o gli episodi minori che potrebbero distrarre, sfronda gli elementi di caratterizzazione storica e dei costumi, mirando a collocare la tragedia essenziale del protagonista (nel caso sia di Saul sia di Mirra è solo) su uno sfondo quasi atemporale e anche fuori dallo spazio. Il risultato è una tragedia "di un solo filo ordita; rapida per quanto si può servendo alle passioni [...]; tetra e feroce, per quanto la natura lo soffra".
Delle complessive 19, quasi tutte sono imperniate sul conflitto fra un tiranno e un eroe della libertà, che inesorabilmente va incontro alla morte. Gli antagonisti, pur essendo tali, sono accomunati da un forte sentire, ossia dal possedere un'anima eccezionale, fattori che rendono entrambi appunto profondamente soli. Egocentrici, spregiatori dei limiti, pungolati da pulsioni e ossessioni oscure, questi personaggi sono colti, come le trame, dal repertorio della storia greca, romana, medievale, rinascimentale o dalla Bibbia. Del tutto estranea a tematiche politiche è invece la Mirra, ispirata a un racconto delle Metamorfosi di Ovidio: al centro è l'amore incestuoso della protagonista per il padre Ciniro, re di Cipro. Tra la Mirra di Ovidio e quella di Alfieri corre una differenza sostanziale: la prima infatti riesce a coronare il suo desiderio, complice una nutrice, giacendo con il proprio padre all'insaputa di lui. Viene poi trasformata, durante il parto che ne consegue, nell'albero della mirra, dal quale nascerà Adone. La Mirra alfieriana, invece, si sforza di nascondere la sua passione, si induce quasi a celebrare le nozze, volute dal padre, con il giovane Pereo, ma poi, nel momento in cui confessa il terribile segreto al genitore, si trafigge con la spada di lui. A differenza degli altri protagonisti alfieriani, Mirra è un personaggio delicato, privo di tratti violenti: a essere violenta e insana è la passione che la abita, contro la quale né lei, né tutte le persone affettuose e comprensive che la circondano possono fare nulla. Mirra è vittima di un'insanabile contraddizione interiore, che le impedisce di trovare un accordo con se stessa: disprezza il suo stesso desiderio, ritiene mostruosa, estranea a se stessa la parte che si è innamorata del padre e decide di riconquistare per così dire la purezza perduta esplicitando la sua colpa, e suicidandosi. Con questo personaggio femminile Alfieri ha trovato il modo di purificare anche la sua concezione politica, esibendone o metaforizzandone il contenuto più profondo: nessun essere umano è davvero libero, dal momento che le passioni, di cui si dice che agitino lo spirito sono non di rado una ragione dell’esistenza, la quale non si mantiene se non attraverso esse, che pure rappresentano anche un tormento indicibile. Spezzare questo circolo vizioso è impossibile, e una parte fondamentale nel trattarne tragicamente è svolta dalla parola: a Mirra è impossibile parlare, è prigioniera dell’indicibile, e se ne libera solo nel momento in cui si uccide, ponendo fine al paradosso che ormai è diventata la sua esistenza, per via dell’irrealizzabilità del desiderio. Interessante, a questo proposito, notare la differenza in radice tra il mito proposto da Ovidio e la sua rivisitazione (termine tuttavia riduttivo) alfieriana. Mentre in Ovidio è prevista una, certo dolorosa e in parte esiziale, liberazione della protagonista, che oltre a realizzare il desiderio incestuoso, viene anche esaudita nella richiesta di non essere più né viva né morta¸ trasformandosi in pianta e riuscendo ancora a partorire un figlio, in Alfieri il finale, sul quale ci soffermeremo adeguatamente dopo la lettura, sancisce la colpevolezza di Mirra, che viene alla fine esclusa da tutto, compreso un ricordo minimamente benevolo da parte dei suoi genitori, che si ritraggono inorriditi da lei come previsto da lei stessa, a motivazione dell’indugio protratto quasi fino al termine a confidarsi con chicchessia in merito al suo desiderio.
Commenti
Posta un commento