CONTRIBUTI SULLA GUERRA HAMAS/ISRAELE (Travaglio, un video)
L’editoriale di Marco Travaglio del 15 ottobre 2023 "Il fatto quotidiano" ed. on line (MLOL TORINO)
Occupati: quando e perché
La guerra dei Sei Giorni dura quanto la creazione del mondo e scoppia per una serie incredibile di equivoci. Il 7 aprile 1967 il governo israeliano del pur mite presidente Levi Eshkol (che ha preso il posto di David Ben Gurion) risponde all’ennesimo attacco siriano dalle alture del Golan contro contadini e pescatori dell’Alta Galilea: sei Mig sovietici nuovi di zecca appena arrivati da Mosca a Damasco vengono abbattuti. Così anche la Siria – che ha iniziato a foraggiare al Fatah, l’organizzazione palestinese fondata da Yasser Arafat e protagonista di continui attacchi terroristici contro Israele – ha una gran sete di vendetta. Il 3 maggio re Hussein di Giordania, inviso alla Siria per il suo doppiogiochismo, firma un accordo militare con Nasser, pone il suo esercito (la mitica Legione Araba) sotto il comando egiziano e consente il rientro del capo dell’Olp Ahmed Shukeiri a Gerusalemme Est per riprendere la propaganda di annientamento d’Israele. L’Urss preme su Nasser perché solidarizzi con Damasco, con cui ha siglato nel novembre 1966 un patto di mutua assistenza militare. Nasser non è pronto a un’altra guerra (il meglio del suo esercito è impegnato nello Yemen) e nicchia. Ma Mosca lo imbottisce di fake news su un imminente attacco israeliano alla Siria. Nasser se la beve e si prepara allo scontro con la più classica delle provocazioni. Il 14 maggio, mentre Israele festeggia il 19° compleanno, ammassa truppe nel Sinai. In ossequio all’armistizio, il governo Eshkol evita di far sfilare i carri armati nella parata militare. Ma i sovietici convincono Nasser che è perché i mezzi corazzati israeliani sono già dislocati altrove, contro di lui. Così, in una settimana, le truppe egiziane nel Sinai salgono a 100 mila soldati e quasi mille carri armati.
Il 16 maggio l’Egitto chiede e ottiene il ritiro dei caschi blu dell’Onu che, dopo la guerra del 1956, fanno interposizione nel Sinai. Il 22 maggio Nasser annuncia il blocco navale allo stretto di Tiran, sul golfo di Aqaba, dove si affaccia il porto israeliano di Eilath, cruciale per i rifornimenti petroliferi a Tel Aviv. E precisa graziosamente che “la questione per i Paesi arabi non riguarda la chiusura del porto di Eilat, ma il totale annientamento dello Stato di Israele”. Non che voglia la guerra, anzi: le solite fonti diplomatiche farlocche gli assicurano che gli Usa fermeranno Israele. Ma non è vero. Washington, impegnata nella disastrosa guerra del Vietnam, ha altro a cui pensare.
E l’Unione sovietica non vede l’ora che scoppi la guerra, per assestare agli israeliani, dunque agli americani, un colpo mortale dopo il golpe dei colonnelli in Grecia propiziato dalla Cia. Del resto, per lo Stato ebraico, lo strangolamento economico è la goccia che fa traboccare il vaso.
Assediato da assembramenti di truppe ai suoi confini su tre fronti (egiziano, siriano e giordano), minacciato dagli urli di guerra in tutte le capitali arabe, Israele è visto di nuovo dal mondo come Davide contro Golia e riceve un’ondata di solidarietà da tutto l’Occidente, anche e soprattutto a sinistra. In Francia intellettuali come Jean-Paul Sartre firmano un appello pro Tel Aviv. Pietro Nenni, leader del Psi, annota nei suoi diari: “Per primo ha sparato Nasser quando ha chiuso il golfo di Aqaba”. Molti giovani, ebrei e non, si arruolano volontari nei vari consolati israeliani d’Europa per andare a combattere. Il presidente Eshkol vara un governo di unità nazionale, con Menachem Begin (leader del Likud, l’opposizione di destra finora esclusa dagli esecutivi laburisti) ministro senza portafoglio e Dayan alla Guerra. Laburista ma inflessibile, Dayan è il generale-eroe del ’56, noto per il rispetto dei diritti umani anche nella più cruenta delle battaglie: “Il massimo di tortura che un prigioniero deve subire – raccomanda ai suoi uomini – è mangiare il rancio dell’esercito israeliano”. Al solo annuncio del suo ritorno, i soldati di Tsahal s’abbracciano in lacrime. Il piano d’attacco lo mette a punto il capo di Stato maggiore Yitzhak Rabin, futuro premier e Nobel per la pace.
I Sei Giorni. Con un blitz a sorpresa, tipico della “guerra preventiva”, scattato alle ore 7.10 del 5 giugno 1967 e battezzato Operazione Focus, l’aeronautica di Tel Aviv guidata dal generale Motti Hod vola a bassa quota per sfuggire ai radar, raggiunge 13 basi egiziane e annienta quella del Cairo senza lasciare il tempo a uno solo degli aerei di Nasser di levarsi in volo. Un pilota su tre ucciso, 286 aerei da combattimento su 420 polverizzati sulle piste. La stessa sorte, in simultanea, tocca a quelli siriani e giordani. Le truppe della Lega Araba restano decapitate della copertura aerea. Nel Sinai egiziano una divisione corazzata al comando del trentanovenne generale Ariel Sharon occupa la penisola in un batter d’occhio. La battaglia più aspra è quella tra giordani e israeliani per Gerusalemme, finora spaccata in metà. I cecchini di re Hussein, sostenuti da una divisione inviata dall’Iraq, sono nascosti ovunque nei luoghi santi, persino dentro le moschee. Ma Dayan resiste alle pressioni dei falchi e vieta l’attacco frontale e le armi pesanti: “Circonderemo Gerusalemme, se necessario, ma non entreremo. Niente artiglieria né appoggio aereo. Nessun danno ai luoghi santi”. È un soldato, ma anche un archeologo e il secondo prevale sul primo. Il 7 giugno gli israeliani raggiungono il Muro Occidentale (o “del pianto”, ultimo residuo di quello distrutto da Tito nel 70 d. C.): è il momento che il popolo ebraico attende da 2 mila anni e a cui non vuole mancare il vecchio Ben Gurion. Dayan proclama: “Siamo tornati nei nostri luoghi più sacri. E tendiamo la mano ancora oggi ai nostri vicini arabi, con più solennità che mai”. Torna la libertà di culto per tutti, negata agli ebrei nei 19 anni di occupazione giordana e ora suggellata dal generale bendato con una preghiera insieme ai palestinesi nella moschea Al-Aqsa.
Si combatte anche sul fronte siriano, ma molto meno del previsto. Damasco, rimasta finora a guardare, il 9 giugno lancia un debole attacco via terra, subito respinto dall’esercito di Israele, che occupa l’altopiano del Golan. E potrebbe arrivare a Damasco se non fosse fermato da Dayan, nel timore di un intervento sovietico.
Il cessate il fuoco scatta l’11 giugno. Israele ha occupato in sei giorni territori tre volte più grandi di sé (68 mila chilometri quadrati) perdendo 700 uomini; gli arabi, sbaragliati su tutti i fronti, piangono quasi 20 mila caduti. Nasser dà le dimissioni, poi le ritira a furor di popolo. La Giordania deve ripiegare dietro il Giordano e cedere Cisgiordania e Gerusalemme Est; l’Egitto mollare Gaza, il Sinai fino a Suez e Sharm-el-Sheik; la Siria rinunciare a parte del Golan. Territori che Israele non può annettere per non snaturarsi in uno Stato a maggioranza arabo-islamica, e che afferma di voler restituire in cambio della pace. Mentre gli israeliani festeggiano la riconquista di Gerusalemme Vecchia, il mite presidente Eshkol fa stecca nel coro: “Abbiamo ricevuto una buona dote, purtroppo accompagnata da una sposa che non ci piace”. Si è aperto il vaso di Pandora della città santa per le tre religioni monoteiste. E Davide è diventato Golia.
Il 22 novembre 1967 l’Onu adotta la risoluzione 242 per la pace nei territori occupati e il ritorno ai confini pre-guerra. Israele la viola annettendo Gerusalemme Est, e proclamando sua capitale la città santa riunificata. Anche i paesi arabi la infrangono, rifiutando di negoziare la pace con Israele. Egitto e Siria in primis iniziano a fomentare il terrorismo palestinese dentro e soprattutto fuori lo Stato ebraico. Ma senza riuscire a controllarlo, come apprendisti stregoni.
Il Settembre Nero. A farne le spese è l’Egitto, con la polveriera di Gaza, dove sono stipati centinaia di migliaia di palestinesi sempre più inferociti nei campi profughi, a cui il regime di Nasser – come tutti i governi arabi – si guarda bene dal concedere la cittadinanza e il diritto di voto. Ma soprattutto la Giordania. Qui, fra il 1968 e il ’69, le organizzazioni dei fedayìn palestinesi riunite nell’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) usano i campi profughi della West Bank come avamposto per attaccare il regime di re Hussein, ritenuto troppo remissivo con Israele. Si comportano come uno Stato nello Stato scorrazzando con rapine, estorsioni, stragi e scontri con le forze armate del Regno, fino a tentare di uccidere o di rovesciare il sovrano
Il leader più carismatico della galassia di sigle riunite nell’Olp è Yasser Arafat, detto anche Abu Ammar, nato nel 1929 al Cairo anche se dirà sempre di aver visto la luce a Gerusalemme. Il padre è un palestinese di Gaza, la madre di Gerusalemme. Al Cairo, Arafat compie gli studi fino alla laurea in Ingegneria civile. Non va d’accordo col padre, mentre il suo vero mentore è lo zio paterno Haj Amin al-Husseini, il Gran Muftì di Gerusalemme (una delle massime autorità religiose dell’Islam sunnita), animato da un forte antisemitismo e antisionismo al punto da allearsi negli anni 30 e 40 con la Germania nazista di Hitler e l’Italia fascista di Mussolini e da reclutare truppe palestinesi per le SS durante la Seconda guerra mondiale.
Dopo il conflitto, il Muftì si trasferisce al Cairo diventando il padre spirituale di Yasser. Che, dopo la débâcle di Nasser nel ’56, si avvicina ai Fratelli Musulmani. A Gaza non può stare perché i fedayìn ne sono banditi, così va a lavorare in Kuwait. E lì, alla fine degli anni 50, fonda con un gruppo di rifugiati palestinesi il gruppo Al Fatah (acronimo arabo di Movimento di Liberazione Nazionale Palestinese), che si propone la lotta armata per liberare tutta la Transgiordania e distruggere Israele, ma da posizioni più autonome dagli Stati arabi rispetto alle altre formazioni dell’Olp. Nel 1969 diventa il portavoce dell’Olp e si installa in Cisgiordania sotto l’occupazione di Amman.
Quando, fra il 6 e il 9 settembre 1970, i guerriglieri dell’Olp dirottano e fanno esplodere quattro aerei nell’aeroporto di Zarqa, re Hussein scatena una ferocissima repressione militare contro guerriglieri e civili, sterminandone fra i 3 e i 5 mila. È il Settembre Nero: la più grande strage di palestinesi della storia è opera di un regime arabo. Seguono mesi di guerra fratricida in tutto il Regno, con decine di migliaia di morti. Alla fine il regime di Hussein riprende il controllo del Paese ed espelle l’Olp in Libano. Un gruppo di terroristi palestinesi si stacca da al Fatah per fondare Settembre Nero, un gruppo estremista che nel 1972 sequestra e stermina undici atleti olimpici israeliani a Monaco di Baviera.
Lo Yom Kippur. Il 6 ottobre 1973 Israele celebra la festività più sacra del calendario ebraico, lo Yom Kippur. Gli eserciti di Egitto e Siria, col supporto di unità inviate da Giordania, Arabia Saudita, Iraq, Kuwait, Marocco, Libia e Algeria, lo colgono di sorpresa con un attacco concentrico. Otto giorni di resistenza e terrore per lo Stato ebraico, che rischia un’altra volta di scomparire. Poi l’esercito si riorganizza a tempo di record e sferra una micidiale controffensiva, riesce a scavalcare le linee egiziane e ad accerchiare la III Armata di Anwar el Sadat, il successore di Nasser. Un apporto decisivo lo dà quel cavallo pazzo di Sharon, che dopo la guerra del 1967 ha lasciato l’esercito in polemica con l’arcirivale Dayan ed è stato appena eletto deputato del Likud. Ma ora, dopo lo choc, la premier Golda Meir e il ministro Dayan lo richiamano in servizio. Lui miete successi nel Sinai, ma con le sue insubordinazioni si scontra con i vertici militari che chiedono a Dayan di destituirlo, stavolta invano. È lui, con un’azione temeraria, ad attraversare il Canale di Suez e a fissare la testa di ponte sulla riva occidentale da cui altre unità israeliane partono per aggirare a sud le truppe egiziane. Poi marcia dritto verso il Cairo, ma l’11 novembre, quando è alla periferia di Ismailia, a 115 km. dalla capitale egiziana (e mentre Tsahal a Nord è a 30 km da Damasco), viene fermato da Tel Aviv su pressione degli alleati occidentali. Gli arabi, sconfitti un’altra volta, accettano il cessate il fuoco. Sharon lascia definitivamente la divisa, in polemica col governo Meir che preferisce negoziare anziché stravincere.
La conferenza di pace di Ginevra, sotto l’egida dell’Onu, tenta di far applicare la risoluzione 338 (che a sua volta richiama al rispetto della 242), ma fallisce per il solito rifiuto dei Paesi arabi a negoziare con Israele. Che nel 1974 accetta unilateralmente la richiesta del segretario di Stato Usa Henry Kissinger di ritirarsi dai territori egiziani e siriani appena occupati. Intanto l’Onu attribuisce all’Olp lo status di rappresentante del popolo palestinese, mentre il suo leader ribadisce il proposito di cancellare Israele dalla faccia della terra.
Camp David. Nel novembre del 1977, invitato dal premier israeliano Begin, il presidente egiziano Sadat rompe 30 anni di ostilità e visita Gerusalemme. Poi riconosce il diritto di Israele esistere e inizia a negoziare la pace. Che viene firmata il 26 marzo 1979 nello storico vertice di Camp David sotto gli occhi del presidente Usa Jimmy Carter. Israele restituisce il Sinai all’Egitto, che però non rivuole Gaza, divenuta con i suoi campi profughi invivibili una terribile incubatrice di odio, estremismo e anche terrorismo. La striscia-polveriera rimane dunque sotto occupazione israeliana.
Nuovo fronte: il Libano. Nel 1976 la Siria invade il Libano, dilaniato da anni di guerra civile fra le milizie delle varie tribù islamiche (proprio nel 1982 nasce Hezbollah, il “partito di Dio” foraggiato da Teheran) e quelle cristiano-maronite, ciascuna aizzata da Usa, Urss, Israele, Iran, Siria, Arabia Saudita ed Emirati del Golfo, con l’aggiunta della presenza destabilizzante delle varie sigle dell’Olp cacciate nel ’70 dalla Giordania. Dopo i giordani, anche i siriani fanno a pezzi i palestinesi. Nel 1981 l’Olp di Arafat&C. attacca il Nord di Israele dal Sud del Libano e si scontra con i cristiano-maroniti alleati di Tel Aviv. Il governo Begin risponde nel 1982 invadendo il Paese dei Cedri. L’operazione è diretta dal ministro della Difesa Sharon. Il quale non muove un dito quando le milizie falangiste maronite entrano nei campi profughi di Sabra e Chatila facendo strage di palestinesi, senza distinguere fra miliziani dell’Olp e civili inermi, per vendicare l’assassinio del presidente cristiano Amin Gemayel (reo di avere firmato un accordo di pace con Israele). Un’inchiesta imposta dalla Corte Suprema israeliana incolpa i comandanti militari locali e il capo di Stato maggiore dell’esercito. Sharon, pur scagionato da responsabilità dirette negli eccidi, lascia il ministero della Difesa. Alla fine, ritirandosi dal Libano, Israele manterrà (fino al 2000) una “fascia di sicurezza” di 10 miglia lungo il confine, affidata agli alleati maroniti.
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