ATTRAVERSO IL POEMA: I PRIMI CANTI LEZIONE INTEGRALE

 I PRIMI CANTI (INFERNO, PURGATORIO E PARADISO)

I primi canti connotano la cantica alla quale forniscono l’incipit, ne determinano la tonalità, creando così l’atmosfera sensoriale, uditiva per cominciare, adeguata al seguito della storia. Mi figuro il I canto dell’Inferno, per restare nella metafora musicale, nel do minore della Quinta di Beethoven, il I del Purgatorio nel mi minore della Passione di San Matteo di Bach, mentre il I del Paradiso nel trionfante do maggiore della IX sinfonia di Schubert.

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
3

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
6

Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ ho scorte.

Le tre terzine esprimono il dolore della perdita totale di senso, vi si respira l’aria immobile e soffocante del luogo che non si riconosce e dove non ci si riconosce (più), e anche dell’esperienza che non si vorrebbe ricordare perché, come accade con la memoria alle volte, dal ricordo scaturisce un’emozione spaventosa, una paura che, nata in quel momento, non si è ancora estinta. In un velocissimo crescendo, l’ultima terzina approda a un culmine, equiparando quasi l’esperienza alla morte, per poi lasciar intravvedere uno spiraglio di speranza attraverso il ben,  che pure s’annida da qualche parte anche nel buio più profondo. Le altre cose alle quali allude il poeta sono l’intera esperienza del viaggio, l’intera Divina commedia. Inizia così anche quella prodigiosa gara che il poeta ingaggia con se stesso, per riuscire a contenere tutto in un punto, ovvero per restituire umanamente il divino aleph, il punto di vista dell’onnisciente che non necessita di spazio e tempo, misure umane, ma coincide con l’eterno. Una gara di sintesi, per esprimerla in termini più comprensibili, un allenamento all’ineffabilità, che proprio un istante prima di approdare alla negazione della parola, trova la maniera di esprimere tutto quello che c’è da esprimere. Ma certo la terzina alla quale sto facendo riferimento dista 14224 versi dall’ineffabile finale, e il poeta, agens e auctor, ha molta strada da fare, in termini di visione e di creazione, prima di alzare la penna dal foglio e smettere di cantare.

Nel I canto della Divina commedia Dante si mostra già quale innovatore permanente e estroso inventore: non concepisce un verso che si possa intendere come proemiale nel senso tradizionale del termine, e rinvia questo omaggio all’antico al II canto. Indugia invece sullo stato d’animo in cui si trova, al momento in cui, come può accadere al principio di un incubo, non capisce bene dove sia e chi sia. Nemmeno si trattasse dell’inizio di un romanzo psicologico, o di un thriller volendo esagerare con gli anacronismi interpretativi:

Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.
12

Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto,
15

guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle.
18

Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m’era durata
la notte ch’i’ passai con tanta pieta.

Il protagonista, questo io che già sovverte il genenere antico, caratterizzato dall’oggettività della narrazione, rendendo il  poema subito  atipico, ha la testa confusa, ha perduto la strada, la via retta, che naturalmente per la sensibilità del lettore dell’epoca, un lettore cristiano, coincide con la verità di Dio, unico a detenere la chiave della salvezza per gli esseri umani. Questo soggetto confuso, il protagonista della storia, l’agens distinto dall’auctor che ricorda quanto accaduto a distanza di qualche anno, non ha però perduto del tutto una delle virtù teologali, come apprendiamo dalla terzina 19-21: la paura, scrive in quei versi, riesce a essere quietata dalla vista, evocata nella terzina precedente, di un colle dietro al quale sta spuntando il sole. Per il lettore dell’epoca la simbologia si manifesta immediatamente nella sua pregnanza anche teologica, mentre noi dobbiamo ricordarcerlo per via di studio: il sole è Dio (per gli antichi era Apollo e il sincretismo cristiano opera ormai da secoli) ed è in lui che si ripone la speranza (ecco la virtù teologale)  di salvezza, senza la quale si è preda della disperazione, nera e infernale.

Il I canto di tutto il poema, in sole sette terzine, ha già introdotto il protagonista, definito la sua condizione, stabilito delle coordinate interpretative che continueranno a valere per tutta la lettura: siamo al contempo dentro e fuori dalla storia, in quanto lettori, dato che possiamo immedesimarci nelle paure e speranze dell’agens così come ricostruire le trame culturali, teologiche soprattutto, che consentono all’auctor di scrivere versi come quelli che compongono questo immenso monumento.

Poi è possibile lasciarsi irretire dalla trama incalzante, se non si pretende di soffermarsi in prima battuta su ogni dettaglio: il colle, con la sua parvenza benevola, col suo sentore di divino, è una specie di miraggio: non può essere così a portata di mano la salvezza, un’ascesa che potrà avvenire solo dopo essere discesi nel pozzo infernale. Di mezzo, letteralmente, ci sono delle brutte bestie, tre fiere scrive il poeta, l’una ingannevolmente graziosa, la lonza, l’altra spaventosa e aggressiva, il leone, e la terza agghiacciante e mortifera, la lupa. Sono i vizi capitali, personificati in uno stile da bestiario medievale, l’accattivante lussuria, la schiacciante superbia, l’avidità divorante per chiunque l’ammetta nel suo cuore. Ruzzola all’indietro, l’agens poco prima speranzoso, e si sente abbandonato a se stesso, ovvero a quell’io che non sa bene chi sia, non fosse per un’apparizione salvifica.

Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.
63

Quando vidi costui nel gran diserto,
"Miserere di me", gridai a lui,
"qual che tu sii, od ombra od omo certo!".

Voglio indugiare un po’ su quel verso 63. chi per lungo silenzio parea fioco. Facendo il balzo che la conoscenza del testo ci permette, diciamo subito che la pregnanza dell’originale  sinestesia si manifesta del tutto quando si pensi che quel fantasma di voce è una delle sirene incantatrici dell’Antico, un poeta, il poeta, quello che Dante ama come un amico o anche più di quel che si possa amare un amico, dato che senza di lui la sua arte non sarebbe esistita. Ecco, anche più che una sinestesia in questo verso, dato che l’apparizione riesce a presentarsi come un’eco incarnata (paradosso che coinvolge anche la storia mitica, avviandola all’indietro).  Il poeta che non ha parlato per tanti secoli (nel limbo si tace? in realtà non parrebbe, stando a quanto si legge nel IV canto, ma tant’è: crivellare di analisi un testo non libera dai paradossi che, spesso, animano di senso ulteriore la poesia) si manifesta così per la prima volta nel poema scritto dal suo più fedele e ardito discepolo. Anche su questo vale la pena soffermarsi: su come solo un misto di fedeltà e arditezza cementi l’amicizia che supera la prova del tempo e della morte. Come la definisce Olof Lagerkrantz, nel suo Scrivere come Dio, l’amicizia meravigliosa fra Dante e Virgilio è un’esperienza esistenziale unica nel suo genere, e grazie a questa unicità spezza il cerchio di ferro del simbolismo che assegna al poeta latino la pur fondamenale, indiscutibile sul piano interpretativo, funzione di rappresentare la ragione che Dante ha smarrito nella selva oscura. In questa esperienza esistenziale rientra il conforto del soccorso che giunge nel momento del bisogno, l’attimo registrato dal verso su cui mi sono appena soffermata, e poi l’incessante presenza al fianco dell’agens fino a che non ne viene meno la necessità. E a quel punto, solo a quel punto, il dolcissimo padre si congeda: senza rimpianti (sotto i quali s’annidano sempre sensi colpa per il non fatto  e non detto), senza la minima stilla di amarezza per non avere la possibilità di fare quello che al suo amico è concesso anche grazie a lui. Celebrazione della generosità nell’amicizia, imparentata pur sempre con la fedeltà e l’arditezza. Ma nel momento in cui appare salvifico e fioco, colui che, presto sapremo è il sommo poeta dell’antico e maestro indiscusso dell’a sua volta maestro Dante, ha il compito di recare conforto e prospettare, per la prima volta nel poema, che cosa attenda l’agens purché disposto a superare i limiti. Affiora nelle terzine di questo primo canto anche il tema destinato a ricorrere dell’hybris costantemente temuta eppur praticata e coltivata perché unica forza in grado di spingere alla conoscenza. L’arditezza si manifesta così per la prima volta nell’esortazione di Virgilio a osare il superamento del limes per eccellenza, il confine che separa la vita dalla morte, fino all’ultima sfida, quella della visione celeste. L’amicizia pretende questo coraggio e fonda se stessa sull’affidamento. Dante si conforta e si decide: come nel dettato evangelico, che qui parafraso con una necessaria sostituzione di soggetto, Virgilio è la via, la verità, la vita.

Nel I canto del Purgatorio  si riemerge, letteralmente, da 34 canti in cui è stato il sole a tacere, riprendendo una celebre sinestesia sempre dal I canto dell’Inferno (v. 60): si esce dal  mare crudele, dalla conoscenza del male e  del dolore umani espressi nella loro assolutezza, conosciuti in una dimensione che non concede più spazio alla scelta. La dannazione è eterna e inappellabile. L’inferno non è lieve per nessuno.  Laggiù, in quell’imbuto a suo modo infinito,  in quel mondo alla rovescia, che l’agens stupefatto ha guardato un’ultima volta prima di uscire a riveder le stelle, sono rimasti tutti i dannati con le loro vite perdute e Lucifero, tragica parodia del vero e unico Dio. Mentre l’agens  prova legittimo sollievo, che detta a posteriori due ispiratissime terzine all’auctor,

 

Dolce color d’orïental zaffiro,

che s’accoglieva nel sereno aspetto

del mezzo, puro infino al primo giro,

 

a li occhi miei ricominciò diletto,

tosto ch’io usci’ fuor de l’aura morta

che m’avea contristati li occhi e ’l petto.

 

quest’ultimo dedica i primi versi del canto al canone proemiale, intessuto di simbologia morale cristiana:

 

Per correr miglior acque alza le vele

omai la navicella del mio ingegno,

che lascia dietro a sé mar sì crudele;

 

e canterò di quel secondo regno

dove l’umano spirito si purga

e di salire al ciel diventa degno.

 

Ma qui la morta poesì resurga,

o sante Muse, poi che vostro sono;

e qui Calïopè alquanto surga,

 

seguitando il mio canto con quel suono

di cui le Piche misere sentiro

lo colpo tal, che disperar perdono.

 

Compare così, invocata,  Calliope, la musa della poesia epica, ma le Muse sono, devono essere, sante: si tratta infatti di passare dalla morta poesì, adatta al mar crudele,  alla poesia dell’umano spirto, il quale  si purga, confidando nel perdono divino che, nella cantica è ripetuto varie volte e attraverso varie esperienze, è immensamente generoso nel suo manifestarsi. Il tono è sempre minore, elegiaco per intenderci,  ma l’inizio predispone a un innalzamento, a una resurrezione, prima della quale certo sono necessarie ancora molte penitenze e pentimenti, ma che sicuramente alla fine avverrà. Il senso del purgatorio, come regno ultraterreno intermedio, è già riassunto: anche se non verranno citate espressamente, pure è chiaro che siano indispensabili la fede, la speranza e la carità, tre virtù teologali eclissate dall’oscurità infernale, che ha concesso alle sole cardinali di splendere ancora nel limbo, tra i savants del mondo antico, compreso, è naturale, la guida di Dante. Bisogna aver fede e sperare, per riuscire a accedere alla porta del purgatorio (che l’auctor distanzierà a ben otto canti dall’inizio), e poi bisogna condividere lo spirito di carità il cui sommo esempio è quella persona trinitaria denominata figlio, disposto a morire per tutti, a tollere, sollevare, il peso dei peccati dalle fragili spalle umane per accollarselo totalmente. Il messaggio cristiano è chiaramente esplicitato, tuttavia le strade dell’invenzione poetica si volgono verso l’antico, il pagano, precisamente in direzione di una dottrina filosofica incarnata dal personaggio al quale l’intero canto risulta dedicato, ovvero Catone l’Uticense, austero guardiano del secondo regno.

Il  veglio solo, il cui aspetto incute immediata reverenza, è dipinto dall’auctor come fosse un’icona: incastonato fra le luci delle quattro stelle, allegoricamente chiamate a rappresentare le quattro virtù cardinali, fortitudo,  iustitia, prudentia, temperantia. Gli spetta un compito eccezionale, se per un attimo ci immedesimiamo nei lettori dell’epoca di Dante: quello di rendere onore al pensiero filosofico pagano, a quello stoico appunto, che ha concepito un’idea così nobile e fiera da poter, provvisoramente e fino a un certo punto, conciliare due sistemi di pensiero in netta opposizione. L’idea in questione è espressa in un verso del poema di Lucano, poeta del I secolo d. C. ammiratissimo da Dante, che s’immagina infatti d’incontrarlo nel limbo: nel IX libro della Pharsalia (vv. 275-276) si legge che l’uomo merita qualcosa di più della vita, in evidente giustificazione dell’atto che la morale stoica, in totale contrasto con quella cristiana, rende non solo lecito ma necessario e meritevole, ovvero il suicidio, quando vengano a mancare le condizioni perché la vita possa essere ritenuta un valore più alto dell’essere umano stesso.  Grande arditezza, quella che compie l’acutor in questo inizio della cantica, decidendo motu proprio di assolvere un sicuro dannato assegnandogli il ruolo di rappresentare la libertà dell’essere umano. Il canto (e la cantica) ricevono da qui un fondamentale alimento concettuale: gli esseri umani sono liberi, al punto da poter decidere se vivere o morire, sostiene la dottrina stoica. Per Dante, cristiano, uno scoglio quasi insormontabile nella traduzione in pratica di un tale principio è rappresentato dal fatto che la vita sia un dono divino, rifiutare il quale è peccato mortale. La trovata poetica geniale, che elude totalmente il problema, consiste allora nel rendere Catone una figura futurorum, come pensavano e scrivevano gli esegeti biblici medievali intenti a interpretare il Vecchio Testamento: Catone l’Uticense ha interpretato sulla Terra (quindi in modo imperfetto) la libertà assoluta che per il cristiano consiste nel libero arbitrio concesso da Dio. Non si tratta di accettare o rifiutare la vita, ma di accettare o rifiutare il male. Quella è la scelta cristiana e libera per eccellenza. Dunque Dante accoglie Catone, in nome di questa sua prefigurazione, nell’empireo dei saggi che forniscono esempi a ogni essere umano. Quel che la logica, la filosofia e la teologia non potrebbero mai ammettere, compie la poesia. E l’ossimoro del dannato beatificato sprigiona tutta la sua eloquente bellezza, percettibile anche da un lettore ateo.

Gloria, luce, desiderio. Si arriva al sommo, all’acme, e si viene inondati di luce che, come suggerisce persino l’esperienza sensoriale fisica, quando è così eccessiva acceca. Come pure, si sa, il coronamento del desiderio genera la sua cessazione. Un ennesimo ossimoro, quello del motore immobile,  descrive  perfettamente la vertigine dell’incontro di opposti e tutta la cantica Paradiso è una variazione su questo tema portante, che non smette di operare anche quando altri temi risuonano più potenti.

L’agens vola attraverso le sfere che ruotano intorno alla terra, i cieli concentrici che l’empireo contiene essendone al contempo contenuto,  e l’auctor compone versi sublimi: per entrambi occorrono forze che attingono al sovrumano e dunque l’invocazione canonica deve puntare decisamente alla fonte di tutto:

 

La gloria di colui che tutto move
per l’universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove.
3

Nel ciel che più de la sua luce prende
fu’ io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là sù discende;
6

perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire.
9

Veramente quant’io del regno santo
ne la mia mente potei far tesoro,
sarà ora materia del mio canto.
12

O buono Appollo, a l’ultimo lavoro
fammi del tuo valor sì fatto vaso,
come dimandi a dar l’amato alloro.

 

Né sa né può,  sostiene l’auctor riferendosi all’operazione che s’accinge a compiere: una professione d’impotenza e d’insipienza che richiede un’immediata correzione,  dal momento che l’opera non esisterebbe se fosse davvero insipiente e impotente colui che la sta scrivendo.  Così, spiega anche psicologicamente tale condizione,  che minerebbe alle fondamenta il lavoro creativo (appressando sé al suo disire...dietro la memoria non può ire: quando si raggiunge l’assoluto, si dimentica subito quello che è accaduto), e da questa sua consapevolezza scaturisce il grido d’aiuto al buono  Appollo, unico possibile dittatore degli ultimi versi, dell’ultimo lavoro, che sarà quello che gli meriterà l’amato alloro.

L’invocazione va a immediato buon fine, come dimostra il fatto che l’auctor riesca a comporre niente meno che i versi del trasumanar, che leggiamo poco dopo:

Trasumanar significar per verba
non si poria; però l'essemplo basti
a cui esperïenza grazia serba.
72

S’i’ era sol di me quel che creasti
novellamente, amor che ’l ciel governi,
tu ’l sai, che col tuo lume mi levasti.
75

Quando la rota che tu sempiterni
desiderato, a sé mi fece atteso
con l’armonia che temperi e discerni,
78

parvemi tanto allor del cielo acceso
de la fiamma del sol, che pioggia o fiume
lago non fece alcun tanto disteso.

Si tratta chiaramente di una visione, un abbagliante lago di luce, sole che si somma a sole, e chissà se, s’interroga ancora il poeta, a essere presente in quella situazione era lui, composto di corpo e anima, o si è trattato solo di una visione spirituale. Il dilemma, inaugurato fin dal primo canto, ripetutamente evocato e risolto nel senso di sostenere che quello dantesco sia un viaggio vero  e non una visione, si ripropone qui irrisolto: tu’l sai, ed è evidente che sia a Dio che si sta riferendo. Poi è tutto un susseguirsi di novità e di meraviglie, e un incalzare di necessità esplicative, pazientemente corrisposte da Beatrice: Dante sta ritornando, non andando per la prima volta, nel luogo che gli è destinato da sempre, ovvero la grazia divina,

Non dei più ammirar, se bene stimo,
lo tuo salir, se non come d’un rivo
se d’alto monte scende giuso ad imo.
138

Maraviglia sarebbe in te se, privo
d’impedimento, giù ti fossi assiso,
com’a terra quïete in foco vivo".
141

Su questo ritornare è interessante soffermarsi, per la prospettiva rovesciata, rispetto a un altro sentire che definirò di conseguenza, proposto.Se ritornare a Dio è naturale e ci sarebbe da meravigliarsi se privo d’impedimento Dante restasse  a Terra (con la maiuscola, perché sarebbe proprio il pianeta), allora non solo il corpo. la carne, ma la vita umana stessa diventa il reale impedimento al ritorno al divino. Il senso della vita è, in questa prospettiva, ritornare a Dio, ovvero morire, con un perfetto rovesciamento della concezione  pagana, che si coglie per opposizione, secondo la quale la vera vita è invece quella terrena, dato che l’Oltretomba è popolato di umbrae. Simile a una fiamma, che punta verso l’alto, l’agens guizza in direzione dell’empireo insieme a Beatrice che gli fornisce la spiegazione appena letta, e il canto si conclude con un momento estatico, Quinci rivolse inver’ lo cielo il viso, presago di quell’excessus mentis in Deum col quale si chiuderà la cantica.

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