PRIMO LEVI - SAGGI INERENTI A STORIE NATURALI E SOMMERSI E SALVATI (manca 1)

Alberto, Lorenzo, Virginia

Il racconto Pieno impiego è una delle quindici brevi storie contenute nella raccolta intitolata Storie naturali, redatta da Primo Levi e pubblicata nel 1966, con accompagnamento di una curiosa vicenda editoriale. Il signor Simpson, che compare come protagonista anche in altre novelle, si presenta nelle vesti di un rappresentante della NATCA, incaricato di vendere macchinari in grado di sostituire gli uomini in alcune mansioni quotidiane. In questo caso si tratta di una macchina chiamata Minibrain, non specializzata in alcun compito specifico ma capace di fare tutto e niente. In genere, le macchine sono specializzate: un trattore tira, una sega sega, un versificatore fa versi, un fotometro misura la luce. Questo qui, invece, è buono a far tutto, o quasi. [...] È un selettore a quattro piste, ecco quello che è: vuol sapere quante donne di nome Eleonora sono state operate di appendicite in Sicilia nel 1940? o quanti fra i suicidi in tutto mondo, dal 1900 ad oggi, erano mancini e simultaneamente biondi? Non ha che da premere questo tasto e avrà la risposta in un attimo. Il narratore racconta la discussione avuta durante un incontro con il venditore, il quale lascia intendere di avere un’idea innovativa e di gran lunga più efficiente di quelle proposte fino a quel momento dalla NATCA, per poi concludere invitando il suo interlocutore a cena con l’obiettivo di approfondire l’argomento. Una volta arrivato dai Simpson, mentre la moglie del padrone di casa serviva il tè, chiese: «Signora, un po' di mirtilli? Ce ne sono molti, e ottimi, dall'altra parte della valle». «Non vorrei che lei si disturbasse...» cominciò mia moglie; Simpson rispose: «Per carità!» poi cavò di tasca un piccolo strumento che mi parve simile a un flauto di Pan, e fischiò tre note. Si udì un frullare d'ali lieve e secco, le acque dello stagno si incresparono, sui nostri capi passò un rapido volo di libellule. «Due minuti!» fece Simpson trionfante, e fece scattare il cronometro a polso; la signora Simpson, con un sorriso fiero e insieme un po' vergognoso, entrò in casa, riapparve con una coppa di cristallo, e la posò vuota sul tavolino. Al termine del secondo minuto le libellule tornarono, come una minuscola ondata di bombardieri: dovevano essere varie centinaia. Rimasero librate sopra di noi in volo fermo, in un fruscio metallico quasi musicale, poi ad una ad una discesero di scatto sulla coppa, rallentarono il volo, lasciarono cadere un mirtillo e si involarono fulminee. In pochi istanti, la coppa fu piena: non un mirtillo era caduto fuori, ed erano ancora freschi di rugiada. Così il narratore si trova di fronte alla dimostrazione pratica della scoperta dell'intraprendente Simpson il quale, dopo aver studiato il linguaggio di alcune specie animali, insetti in particolare, è riuscito nell’impresa di instaurare un dialogo con questi, arrivando a stipulare accordi che giovassero a entrambe le parti. Il venditore afferma di aver tratto ispirazione per questa sua scoperta dai geniali lavori di Von Frisch sul linguaggio delle api. E’ possibile che lo stesso Primo Levi sia rimasto affascinato da questa trattazione, realmente esistente, incentrata sulle modalità con cui le api comunicano, prendendone poi  spunto per la redazione di questo racconto.  A riprova di questo, lo stesso autore ha dichiarato spesso che suoi racconti fantascientifici o fantanaturalistici si sviluppano a partire da un’intuizione minima, come può effettivamente essere stata quella legata alla danza a 8 delle api, per poi spingersi appunto nella direzione fantastica. 

Simpson procede rievocando circostanze, non di rado bizzarre, che si sono create via via che il suo progetto di collaborazione col mondo degli insetti ha preso corpo: per cominciare, a causa dell’avversione di sua moglie nei confronti delle formiche, è riuscito a trattare con queste affinché non occupassero la zona circostante il perimetro di casa sua. Per raggiungere un tale risultato afferma addirittura che sia stato necessario convocare una piccola assemblea: «È stato nello scorso settembre, una seduta memorabile. Erano presenti api, formiche e libellule. Il racconto dei rapporti che intrattiene coi differenti animali appare sempre più spinto in una direzione che si può definire fantascientifica, e permette di riconoscere come ogni intervento di Simpson sulla natura finisca per sortire effetti su diverse specie: era in avanzate trattative con mosche e zanzare. Le mosche erano stupide, e non se ne poteva cavare molto: solo di non infastidire in autunno e di non frequentare la stalla e il letamaio. Contro quattro milligrammi di latte al giorno e a testa, avevano accettato. Dà poi una finale dimostrazione delle potenzialità connesse con la sua trovata, descrivendo le modalità con cui le formiche riescono a costruire dei resistori (elementi fondamentali dei circuiti elettrici) per cui due afferrano i due elettrodi con le mandibole, una li attorciglia di tre giri e li fissa con una gocciolina di resina, poi tutte e tre depongono il pezzo sul trasportatore.

Il racconto,  già ricco di elementi insoliti, ha una svolta ironica nel finale, (non a caso nell’introduzione della raccolta Levi aveva definito i racconti quindici divertimenti) quando Simpson racconta i problemi legali in cui si trova ingiustamente invischiato: infatti su di lui sono ricaduti i sospetti di aver sfruttato delle anguille per trasportare eroina via mare.

La conclusione è affidata alle parole del signor Simpson, che lamenta le difficoltà incontrate nel tentativo di rendere il suo progetto di collaborazione con la natura definitivo. Come se si trattasse di Prometeo afferma “Inventi il fuoco e lo doni agli uomini, poi un avvoltoio ti rode il fegato per la eternità”, permettendo di trarre spunto per eventuali ragionamenti. Infatti risulta abbastanza insolito il fatto che la scoperta, proposta come omologa a quella del fuoco, riguardi la natura e non si spinga invece in direzione della tecnologia. È possibile che il ragionamento dello stesso Primo Levi sia nato a partire dal periodo a lui contemporaneo, segnato da un  progresso scientifico che nel ‘900 è stato senz’altro senza precedenti, e che nel racconto viene rappresentato in chiave ancora più arditamente moderna tramite macchinari che ricordano, ovvero anticipano,  le intelligenze artificiali di oggi. Piuttosto che attribuire allo scrittore  una visione utopica attivata da  incipienti  tecnologie, conviene riconoscere che   sia stata  la fantasia del profondo conoscitore della chimica  ad avere la meglio, spingendo Levi a seguire il filone  del  realismo magico (Bontempelli, Landolfi e  Calvino ne sono ottimi rappresentanti)  che caratterizza il racconto italiano del ‘900.

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Andrea S. e Lisa (lettura  e analisi condotte oralmente)

Da Storie naturali, Il Versificatore 

Lettura:

Porta che si apre e richiude; entra il poeta.

SEGRETARIA Buongiorno, maestro.

POETA Buongiorno, signorina. Bella giornata, eh? La prima dopo un mese di pioggia. Peccato dover stare in ufficio! Il programma per oggi?

SEGRETARIA Non c'è molto: due carmi conviviali, un poemetto per il matrimonio della contessina Dimitropulos, quattordici inserzioni pubblicitarie, e un cantico per la vittoria del Milan, domenica scorsa.

POETA Roba da poco: in mattinata finiamo tutto. Ha già attaccato il Versificatore?

SEGRETARIA Sí, è già caldo. (Lieve ronzio). Possiamo cominciare anche subito.

POETA Se non ci fosse lui... E pensare che lei non ne voleva sapere! Ricorda due anni fa, che fatica, che lavoro sfibrante?


Alludono così, il poeta e la segretaria, a quello che sarà l’indiscusso protagonista della storia: un certo Versificatore

Subito dopo la scena cambia; avviene un rimando a un giorno di due anni prima, quando si procedette alla determinante scelta dell’acquisto.

Il lavoro del poeta, infatti, è noioso e privo di stimoli: inondato giornalmente da richieste di testi per pubblicità, matrimoni e funerali, che mettono in difficoltà la sua ispirazione artistica e limitano la sua libertà.


POETA (liricamente, ma sempre con fretta) «Compianto in morte del marchese Sigmund von Ellenbogen, prematuramente scomparso». (La segretaria batte). Ah, dimenticavo. Guardi che lo vogliono in ottave.

SEGRETARIA In ottave?

POETA (sprezzante) Sí, sí, ottave con la rima e tutto.

Sposti il marginatore. (Pausa: sta cercando l'ispirazione) Mmm... ecco, scriva:

Nero il ciel, buio il sole, aridi i campi

Son senza te, marchese Sigismondo...

(La segretaria batte). Si chiamava Sigmund, ma devo pur chiamarlo Sigismondo, capisce, se no addio rime.

Accidenti a questi nomi ostrogoti. Speriamo che me lo passino. Del resto, ho qui l'albero genealogico, ecco... «Sigismundus», sí, siamo a posto. (Pausa). Campi, lampi...

Mi dia il rimario, signorina. (Consultando il rimario) «Campi: lampi, accampi, scampi, crampi, rampi...» cosa diavolo sarà questo «rampi»?

SEGRETARIA (efficiente) Voce del verbo «rampare», immagino.

POETA Già: le trovano tutte. «Cialampi»... no, è dialettale. «Avvampi». (Liricamente) «O popolo di Francia, avampi, avampi!»...

Ma no, che cosa sto dicendo! «Stampi». (Meditabondo)

... poiché, prima che un altro se ne stampi...

(La segretaria batte poche battute). Ma no, aspetti, è solo un tentativo. Neanche, un tentativo: è una idiozia. Come si fa a stampare un marchese? Via, cancelli Anzi, cambi foglio.(Con collera improvvisa) Basta! Butti via tutto. Ne ho abbastanza di questo sporco mestiere: sono un poeta, io, un poeta laureato, non un mestierante.



Tale è la tipica giornata lavorativa dei due personaggi, che riassume ottimamente il problema principale del poeta: egli deve spesso arrabattarsi per trovare qualcosa da dire, tirare a forza delle proposizioni e dei versi  fuori dalla sua mente, riguardanti argomenti che, alla fin fine, non gli interessano minimamente. Passa dall’essere un autore all’essere una macchina, una penna in mano a qualcun altro, che non possiede la sua stessa abilità retorica.

Conscio di ciò, e ormai incapace di stare dietro al ritmo incalzante del suo lavoro, chiede alla segretaria di fare ricorso al signor Simpson. Con costui, un agente della NATCA (azienda produttrice di macchine d’ufficio), vuole discutere in merito all’acquisto del Versificatore. 

Alla notizia, la segretaria rimane sconcertata. Infatti, se il poeta sente il bisogno di tenere il passo coi tempi, la donna, invece, sostiene che un artista non possa rassegnarsi a mettersi in casa una macchina che, per quanto moderna e avanzata, mai potrà avere il suo e la sua sensibilità. 

Il poeta in effetti concorda con la donna, e tituba, ma dall’altra parte del telefono, da cui ormai la chiamata era partita, ecco che si sente la voce del signor Simpson, che nell’arco di pochi minuti dalla telefonata, si presenta alla porta dell’ufficio. 

Posizionato un modello della macchina, e collegatolo alla corrente, l’agente procede a spiegarne il funzionamento. Il Versificatore, affine da certi punti di vista ad una macchina da scrivere, alla base ha una tastiera, simile a quella degli organi, collegata a un monitor che, nella versione recitata, precisamente uno sceneggiato,  della storia di Levi, è composto da una teca di vetro con all’interno un meccanismo dal quale esce una voce che, eventualmente, può leggere ciò che produce. 

La tastiera, oltre alle lettere, ha anche dei tasti speciali con i quali è possibile impostare il tono, lo stile e il genere letterario dello scritto che si desidera. Infine, in una sezione in alto si inserisce l’argomento, in tre o cinque parole. 

Conclusa la spiegazione, Simpson è costretto ad assentarsi per un paio d’ore, lasciando i due da soli con il Versificatore. Di fronte a questa opportunità, il poeta, forte del permesso datogli prima dal venditore, inizia a provare la macchina e, seppur con qualche difficoltà, gli fa produrre il primo testo. LYR, ovvero lirico, in terza rima ed endecasillabi, del XVIII secolo, con argomento Limiti dell’ingegno umano. Il risultato sorprende positivamente l’uomo, il quale sostiene di conoscere diversi colleghi che non se la caverebbero meglio. 

Facendo un secondo tentativo scopre poi una nuova funzionalità: quella delle licenze. Con una manopola è infatti possibile testare il quantitativo di licenze poetiche che la macchina deve utilizzare e, per testare i suoi limiti, decide di metterla al massimo. L’opera questa volta deve essere didascalica,  in ottava rima, in ottonari e con argomento Il Rospo. Il risultato è ovviamente curioso, con parole come nascospo al posto di nascosto e allibio per intendere il sentimento di stupore. L’uomo poi continua, e fa una terza prova per testare la cultura generale del Versificatore: vuole uno scritto mitologico in verso libero, con un tono del XIX secolo e intitolato I sette di Tebe. Il testo finale è però incompleto, presentando spazi vuoti e la segretaria, già dapprima titubante, inizia a dubitare ancor di più sull’utilità del macchinario. Ma in aiuto del Versificatore, se così si può dire, arriva il poeta, che le spiega di come nessuno sappia i nomi dei sette di Tebe e tantomeno li possa conoscere una macchina. Malgrado ciò, gli spazi sono tali da poter essere colmati o da due nomi da quattro sillabe o da uno da tre e uno da cinque, come la maggior parte dei nomi greci; lascia, quindi, la libertà all’utilizzatore di inserirli. 

Scoperto ciò, incuriosita, la segretaria decide questa volta di dare lei un argomento alla macchina: tema libero. Nessun’altra informazione. Il risultato è insolito.

VERSIFICATORE (voce c.s.)

Una ragazza da portare a letto:

Non c'è nulla di meglio, mi hanno detto.

Non mi dispiacerebbe far la prova, 

Per me sarebbe un'esperienza nuova:

Ma per lei, poveretta, che tortura!

Quest'intelaiatura è troppo dura.

Ottone, bronzo, ghisa, bachelite:

Tende la mano ed incontra una vite;

Tende le labbra ed incontra una brossa;

Mi stringe al seno, e si prende la scossa.

Poverino. Queste sono state le prime parole della ragazza dopo aver finito di ascoltare la poesia, turbata dalla spontaneità del Versificatore e dalla sua abilità di simulare bene il comportamento umano. Oltre a questo, a sorprendere i due è un termine sconosciuto utilizzato nel testo: brossa. A risolvere il dilemma è il signor Simpson il quale, tornato allo studio, spiega ai due che è un termine gergale dell’officina in cui la macchina è stata creata e che gli è stato insegnato dagli ingegneri così che, in caso di malfunzionamento, sia la macchina stessa a spiegare ai tecnici cosa debbano sostituire. In questo modo Simpson lascia intendere che il Versificatore sia in grado di imparare cose nuove e di aggiornarsi continuamente.

Chiarito ciò, e dopo aver fatto un ultimo esperimento, nel quale la macchina smette di funzionare per un momento, il poeta decide di comprare quel macchinario di cui, come ben sappiamo, non riuscirà a fare meno per i successivi due anni; tanto da averlo utilizzato per scrivere addirittura anche il testo in questione che stiamo leggendo. A proposito di quest’ultima trovata, si può considerarla come una variazione fantascientifica sul topos del manoscritto ritrovato: questa volta, invece di trattarsi della simulazione di una trascrizione da un testo cartaceo, e in sintonia col genere in cui si collocano le storie naturali, a essere stato magistralmente inventato da un marchingegno tecnologico è l’intero testo, che evoca l’origine del medesimo autore: una trovata che, con la sua funambolica ingegnosità, dà luogo a una sorta di circolo perpetuo che ha come protagonista l’ispirazione letteraria. 

Quasi profetica, poi, questa narrazione,  di là dal suo carattere di divertente intrattenimento,  dato che  si dimostra capace di prevedere l’intelligenza artificiale, le sue conseguenze e il rapporto con gli uomini, 60 anni prima che essa effettivamente nasca. Il Versificatore è efficiente, capace di elaborare grandi quantità di dati, veloce e preciso più di quanto un essere umano possa mai aspirare ad essere. Tuttavia è anche evidente un suo limite:  esso  sembra anche distruggere l’arte e disumanizzare la poesia, nel senso di sottrarla all’unico magistero fino a quel momento considerato intoccabile, ovvero quello umano Il processo è descritto nella sua gradualità:  prima i due personaggi sono indubbiamente contrari alla macchina, poi incuriositi, in seguito ammaliati, per arrivare poi a considerarla un aiuto fondamentale.

Tracciando la storia dell’IA, ci troviamo di fronte a un inquietante  parallelismo rispetto alla narrazione di Levi. A partire dai dibattiti sulla natura di ChatGPT, occorsi nel 2022, fino ad arrivare ad una piattaforma che nell’arco di poco più di un anno è per molti diventata di uso comune. In pratica, le stesse esitazioni  e gli stessi entusiasmi che stanno accompagnando l’affermazione di questo nuovo strumento. 

Altro intrigante, e forse angoscioso, dettaglio è rappresentato dall’autenticità con cui la macchina scrive nel momento in cui le viene lasciata libertà. Ad eccezione del suo corpo meccanico, le sue caratteristiche paiono assolutamente umane; le sue parole inducono a provare emozioni o, ancora più inquietante, la macchina stessa sembra provare emozioni

Insomma, il marchingegno cui dà vita la storia naturale di Levi  è capace di imparare, ascoltare e automigliorarsi. E dire che con l’ideazione di un futuro progetto chiamato Trovatore,  si intuisce che il Versificatore sia solo il primo gradino di molti altri. 

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Tommaso, Giuseppe

Da I sommersi e i salvati, Prefazione

La prefazione, scritta da Primo Levi, delinea per cominciare una distinzione fondamentale tra due categorie umane: gli oppressi e gli oppressori. Si tratta di un  dualismo  al quale predispone anche Manzoni nei Promessi sposi, complice in quel caso l’ambientazione nel XVII secolo,  periodo caratterizzato da una struttura sociale che favorisce questa polarizzazione. Infatti, la limitata capacità del potere centrale nel gestire equamente la giustizia porta all'emergere di numerosi piccoli centri di potere. In un contesto in cui la giustizia è frammentata, la condizione degli oppressi può occasionalmente trasformarsi in oppressione e viceversa: oltre a essere permanentemente in agguato questo scambio delle parti, grandi e piccoli potenti approfittano pur sempre di spadroneggiare, convinti come sono di poter agire impunemente, nonché con la copertura di una legislazione talmente farraginosa da risultare inapplicabile. Il contesto in cui si colloca il saggio di Levi, tuttavia, è profondamente diverso, per quanto l’analogia rilevata sia, almeno inizialmente, sostenibile. Partiamo, per cominciare, dal titolo dell'opera, I sommersi e i salvati, il quale implica una netta separazione tra le due categorie evicate, suggerendo che Primo Levi manifesti in questa scelta di catalogazione una propensione che gli viene dal suo mestiere di chimico. . Nella prefazione viene menzionato Simon Wiesenthal, scrittore austriaco autore del saggio Gli assassini sono fra noi, funzionale a dare la parola per cominciare agli oppressori, che dichiarano, nelle righe riportate,  di avere un controllo totale su tutto quello che sta accadendo, compresa la gestione della memoria futura. Un parallelo significativo, a proposito di questa apparentemente presuntuosa e velleitaria convinzione,  si può istituire con il romanzo di George Orwell, 1984, in cui il romanziere evoca nella sua distopia  un ministero dedicato a riscrivere continuamente  la storia e la cronaca. 

Quanto agli oppressi, ovvero ai salvati, una volta tornati alla vita, sospettando o avendo prove dirette del rifiuto altrui di ascoltare le loro testimonianze,  sono soggetti alla tentazione di abbandonarsi all'oblio, tematica centrale del saggio. Quanto agli oppressori, cercano strumentalmente di dimenticare, mostrandosi indifferenti o facendo finta di non vedere, praticando insomma svariati metodi utili a eludere la responsabilità delle loro azioni. Il senso di colpa comune rimane comunque retaggio della popolazione nel suo insieme, e qualsiasi tentativo di oblio indotto meccanicamente confligge con l’esigenza di avere un’identità e un profilo psicologico definito: la cancellazione della memoria, infatti, comporta proprio questo, come scotto individuale, ed è quindi molto pericoloso ricorrervi.  In un passaggio successivo della prefazione, Levi fa riferimento al fatto che gli oppressori, finché detengono saldamente il potere, e alle volte anche per un po’ di tempo dopo, non credono che questo possa mai avere fine. Invece, anche il potere che esibisce  la massima forza ha dei punti deboli, come ben sapevano  gli antichi, dalla cui immaginazione proviene la rappresentazione degli imperi sotto forma di giganti con i piedi d’argilla. Si può anzi dire che una strategia comune degli oppressori suggerisca loro l'auto definizione come invincibili, inducendo negli oppressi la convinzione che la ribellione e la sopravvivenza siano impossibili. L’argomento pertiene in modo particolare ai campi di concentramento, in cui  i casi di rivolte furono rari, nonostante il numero di prigionieri (certo disarmati e spesso privi di forze) potesse favorire tentativi di attacco in massa contro le guardie e i sorveglianti. La suggestione, quando non la certezza, di essere totalmente in balìa di altri, compie da sola un lavoro debilitante sui soggetti, che vengono resi anche così totalmente inoffensivi. Riguardo alla cancellazione delle tracce, operazione che venne condotta a ridosso della sconfitta ormai conclamata di Hitler e del III Reich,  i nazisti si resero conto che i campi di concentramento, inizialmente centri di terrore politico, sarebbero diventati pericolosi in quanto serbatoi di verità storica. Indubbio infatti che la storia rischi  di cadere nell'oblio in assenza di oggetti e testimonianze: proprio questo, come documenta Wiesenthal nella citazione di Levif, era il piano nazista. Peraltro, nella generica categoria degli oppressori rientrano anche coloro che, pur non avendo partecipato direttamente in alcun modo agli eventi, non potevano ignorare almeno una parte di quello che stava accadendo: ne consegue  che  la memoria sia un retaggio  non solo dagli oppressi, ma anche della nazione/popolazione tedesca nel suo insieme. Sebbene non sia possibile verificare quanti fossero davvero a conoscenza, appunto anche solo approssimativa, degli eventi, la maggioranza scelse volontariamente o per timore (da sempre un movente delle azioni umane, al quale poi ci si appella per provare meno rimorsi di coscienza)  di nascondersi in un oblio indotto e cercato. Questo fenomeno si estende all'intera popolazione, in un crescendo di responsabilità (se non di ipocrisia utilitaristica) inclusi gli individui e le aziende che, con spietata crudeltà, trassero profitto o dallo sfruttamento dei prigionieri o fornendo materiali a queste spaventose fabbriche di morte, note come lager. Il materiale più affidabile per comprendere la verità sui campi di concentramento è dunque costituito dalle memorie dei superstiti, sebbene vadano lette con occhio critico. Le condizioni disumane a cui erano sottoposti rendevano difficile per i prigionieri ottenere una visione d'insieme del loro ambiente. Molti non sapevano nemmeno dove si trovava il campo o che esistessero  altri campi vicini. Circondati dalla morte, spesso i deportati non potevano valutare appieno l'entità della strage. Dominati dalla violenza e da una  minaccia permanente alle loro vite, la capacità di comprendere era limitata dalla necessità di garantirsi l’immediata  sopravvivenza. Gli storici più autorevoli sui campi di concentramento, dunque, sono emersi tra coloro che, senza compromessi, hanno avuto l'abilità e la fortuna di ottenere un osservatorio privilegiato. Questi storici hanno raccontato le loro esperienze con umiltà, considerando la complessità del fenomeno Lager e la diversità dei destini umani coinvolti. La maggior parte di loro era composta da prigionieri politici, in quanto provvisti di una preparazione culturale che consentiva loro di interpretare gli eventi; inoltre come ex combattenti antifascisti, comprendevano che testimoniare rappresentava un ulteriore  atto di guerra contro il fascismo, al fine di non promuoverne una rinascita.  

Il passare del tempo può quindi fungere sia da alleato sia da  nemico della memoria storica. Da un lato, permette la distanza necessaria per una valutazione più oggettiva degli eventi passati, evitando l'oscuramento delle emozioni del momento. Dall'altro, però, il tempo comporta la perdita irreversibile di voci e storie. Le testimonianze, come fragili fiori in un campo di battaglia, svaniscono con il vento del tempo, lasciandoci con l'arduo compito di ricostruire la trama della storia. Nel contesto del massacro nazista, la scomparsa dei testimoni è una tragedia in sé. Le loro narrazioni dettagliate, cariche di dolore e sofferenza, sono irripetibili e, pertanto, la loro mancanza rappresenta una lacuna nell'archivio storico. Tuttavia, ciò non dovrebbe scoraggiarci dall'impegno costante nella ricerca della verità e nella preservazione della memoria. I sommersi e i salvati di Primo Levi  richiama lucidamente, senza tracce di retorica,  all'importanza di una riflessione continua sul passato.

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Jacopo, Matteo

I sommersi e i salvati, Prefazione

Nella prefazione del saggio I sommersi e i salvati Levi colloca al centro di una preliminare riflessione la relazione tra gli oppressori e gli oppressi, venutasi a creare in quell'inferno che erano i lager. I primi, gli oppressori, sono i militi delle SS, i soldati tedeschi della seconda guerra mondiale, mentre i secondi, gli oppressi, sono coloro che sono stati reclusi nei campi di prigionia, principalmente ebrei, criminali e oppositori politici. 

Nella prima parte del testo è evidente uno dei messaggi che l’autore vuole far arrivare al lettore:  gli oppressori hanno il controllo su tutto, specialmente sulle memorie.   I detenuti ricordano, ad esempio, che le guardie si divertivano ad ammonire cinicamente i prigionieri: In qualunque modo questa guerra finisca, la guerra contro di voi l’abbiamo vinta noi; nessuno di voi rimarrà per portare testimonianza, ma se anche qualcuno scampasse, il mondo non gli crederà. Nella prima frase, l’intenzione che ne risulta è quella di far capire ai prigionieri che loro avrebbero perso in ogni caso, perché non sarebbero mai riusciti a denunciare cosa stavamo vivendo, dato che la mostruosità degli eventi era così estrema che sarebbe risultata poco credibile una volta narrata. Nell’ultima frase, il mondo non gli crederà, sono racchiuse tutte le atrocità che venivano commesse all’interno di quei campi, tali che nessuno al di fuori di essi  avrebbe mai creduto potessero essere commesse. Fortunatamente le cose non andarono così, e la macchina perfetta di Hitler presentò dei malfunzionamenti progressivamente più diffusi, tali da predisporne la rovina finale. D'altronde fu solo alla fine della guerra che agli   oppressi divenne possibile riflettere a fondo su quanto subito, recuperando dettagli per via di confronto fra varie versioni, e diventando consapevoli dell’effettiva forza degli oppressori e dell'entità del danno (fisico, morale, psicologico) subito.. L’analisi di Levi, però, rileva quale forza persuasiva avesse sulla coscienza di chi era stato nei campi di concentramento, e per caso o per fortuna era sopravvissuto, l’idea inculcata dagli aguzzini in merito alla inutilità di serbare memoria precisa di quanto era accaduto. Tuttavia è anche vero che tale idea non doveva essere creduta fino in fondo proprio da chi aveva iniziato a diffonderla: altrimenti non si spiega perché, alla fine della guerra, i tedeschi, sull’orlo della sconfitta, abbiano fatto di tutto per distruggere ogni prova dell’esistenza di quei campi: evidentemente  sapevano con certezza che le atrocità commesse in essi erano talmente mostruose da  rendere preferibile che non fossero  rivelate per non incorrere in procedimenti penali (come i processi internazionali, ai quali in effetti si procedette, arrivando a condanne a morte di non pochi gerarchi). Si tratta di quelle  atrocità e di quel  terrore che, dopo aver conseguito l’effetto di  spaventare  e indurre  le persone non coinvolte direttamente  a far finta di ignorare, senza denunciarle o tentare di fermarle, aveva anche messo a tacere la coscienza di chi, per  sete di guadagno, in particolare fra gli industriali di alcuni settori, trasse ottimi proventi dalla collaborazione col Terzo Reich e con i suoi campi di concentramento. Si capisce insomma che il tema della responsabilità,  quando si tratta dei campi di concentramento, necessita di approfondimenti che riguardano non solo la verità storica (sempre di difficile individuazione) ma anche la ricostruzione delle dinamiche psicologiche che si determinano in situazioni così eccezionali. Quanto alla finalità di questo lavoro di scavo, fondato principalmente sulle testimonianze (che ormai sono agli sgoccioli, data la distanza che separa dagli eventi), l’autore del saggio, per quanto provvisto di uno spirito critico acuminato che non risparmia nemmeno se stesso, è ben in grado di indicarla: si tratta di arrivare a interiorizzare un rifiuto collettivo, senza riserve e fondante per ogni essere umano a prescindere dalla cultura di appartenenza, nei confronti di qualunque operazione di controllo sistematico, condotto con fanatismo e crudeltà, pianificato e ideologicamente giustificato, da parte di chicchessia, con qualunque etichetta (credo politico o credo religioso) si presenti.

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Carlotta, Eleonora, Martina

Da I sommersi e i salvati, La memoria dell'offesa


Per la stesura del primo capitolo dell’opera intitolata I sommersi e i salvati, Primo Levi attinge, come da lui stesso ricordato, a una fonte che, in quanto meravigliosa e fallace allo stesso tempo, è considerata sospetta: la memoria. Infatti, con il passare del tempo i ricordi presenti nella mente delle persone vengono modificati e subiscono una degradazione inevitabile, in particolar modo se non vengono spesso rievocati; per questo la memoria di un evento non coincide mai perfettamente con quanto accaduto realmente. Levi giustifica l’utilizzo dei suoi ricordi, inserendo alla fine del capitolo un’apologia, nella quale afferma che essi possono essere considerati veritieri poiché sono stati da  lui  ricostruiti analizzando le varie e abbondanti congruenze con altre testimonianze storiche e letterarie.  

Sia chi subisce un torto sia chi lo infligge ha la tendenza, per fronteggiare il dolore provato, a mettere da parte i ricordi, che con il passare del tempo sbiadiscono. 

L’oppresso tenta di rimuovere il proprio ricordo per evitare di rinnovare e rivivere la sofferenza vissuta; allo stesso modo, anche l’oppressore preferisce dimenticare, per liberarsi dal senso di colpa da cui è pervaso e per cercare, nella migliore delle ipotesi, una  pace interiore. Nonostante questa lieve somiglianza tra loro, è innegabile una differenza sostanziale: entrambi si trovano nella stessa trappola ma è l’oppressore che l’ha preparata e quello che ne soffre maggiormente è senza ombra di dubbio (o di ambiguità) la vittima, in quanto l’offesa che ha ricevuto non può essere annullata e per sempre ne soffrirà.

Attraverso tali considerazioni, Levi evidenzia il suo intento di analizzare entrambe le categorie, operazione possibile solamente nel caso in cui il sentimento provato non comprometta la ragione. L’autore dimostra, infatti, grande lucidità nel riportare le esperienze che ha vissuto, rappresentando una novità nel panorama dei testimoni di brutalità subite in svariati contesti, poiché egli si immedesima anche nei suoi oppressori, coloro che gli hanno inflitto i mali peggiori, e li analizza tentando di capirne le ragioni, addirittura i moventi interiori. Tale capacità è il risultato dell’influenza che esercitava sul suo spirito i Dante, di cui Levi era un grande ammiratore, il quale nella Divina Commedia si mostra propenso a comprendere anche coloro che vanno contro i dogmi cristiani in cui egli crede, trattando così tutti i peccatori presenti nella cantica dell’Inferno come validi interlocutori, con cui però si trova spesso in disaccordo rispetto ad alcune decisioni prese. La discesa nell’inferno, in particolare, documenta in svariate occasioni una capacità di immedesimazione negli animi dannati che si spinge ben oltre i confini imposti dall’urgenza (pur presente) di fornire exempla negativi, da non seguire per non essere, appunto, dannati. Levi ha profondamente inteso lo spirito umano di Dante, quello che gli consente di capire (quasi) tutti i dannati, pur non perdonandoli (dal momento che dannati restano). Una lezione di spiritualità universale, che non poteva non risuonare nell’animo del non credente Levi. 

Il fatto di essere costantemente cosciente di ciò che succede, permette a Levi di distinguersi da coloro che sono dominati dai sentimenti e non dalla ragione. La sua lucidità gli consente di avere una visione completa di tutte le persone coinvolte in una situazione, di provare empatia nei loro confronti e dedicare loro almeno un'occasione di profonda comprensione. Si fa carico, così, di tutta la sofferenza presente, e questo peso lo porta alla disperazione, a una perdita del senso della vita e infine, forse, al suicidio. 

Il capitolo entra a fondo nel merito del  tormento provato da Levi, quando nell’ultima parte viene riportata la vicenda del suo rapporto,  appena rimpatriato, con  la famiglia di Alberto, un giovane che ha conosciuto nel campo di concentramento di Auschwitz dove lui e suo padre erano stati deportati. L’autore tenta di riferire alla madre la sorte subita dal figlio durante la marcia di evacuazione del campo, ma lei lo interrompe subito affermando di essere già a conoscenza delle sue condizioni: egli infatti sarebbe riuscito a salvarsi dalle SS fuggendo attraverso la foresta. In tal modo la madre si dimostra non disposta ad ascoltare ciò che è realmente successo (il racconto veritiero del testimone diretto), negando così i ricordi di Levi, e dunque la sua persona, già precedentemente sminuita e svalutata, se non disumanizzata, durante la tragica esperienza all’interno del campo di concentramento. 

Levi tratta inoltre una distinzione tra buona e mala fede. Quest’ultima appartiene a chi mente di proposito, sapendo di aver provocato dolore e morte, alterando la realtà al fine di non pagarne le conseguenze. La buona fede invece appartiene a chi, profondamente traumatizzato e risentito dalle violenze compiute, crea una nuova verità consolatoria, per ridurre il dolore causato dal senso di colpa. Tutti iniziano a mentire consapevolmente, ma tanto più sono bravi a costruirsi un nuovo scenario, più la verità si modifica per gli stessi che hanno subito o effettuato un torto, arrivando a credere pienamente in ciò che sostengono. 

Sia gli oppressi che gli oppressori cercano così rifugio dal dolore; in particolare questi ultimi, a cui sono state chieste le motivazioni delle loro terribili azioni, giungono a diverse incoerenti e improbabili giustificazioni, per la maggior parte riassumibili con l’affermazione di non essere stati consapevoli e in pieno possesso delle facoltà raziocinanti fondamentali per condurre azioni consapevoli. L’operazione di sgravio delle responsabilità passa inevitabilmente per la via dello spostamento dell’attenzione da sé ad altri, gerarchicamente superiori:  al famoso processo di Norimberga documentato da Hannah Arendt, tanti (tra cui il gerarca Adolf  Eichmann) sostennero di  aver eseguito solamente ordini imposti dall’alto e, cresciuti in una società  conformata secondo la disciplina nazista, e soggetti alle leggi dello stato nazista, non potevano fare altrimenti; a supporto di tale incrollabile convinzione, non di rado ponevano la considerazione che  chiunque al loro posto avrebbe fatto la stessa cosa, persino con più durezza. Queste giustificazioni secondo Levi non possono che essere in mala fede, infondate, pretestuose,  e i nazisti tedeschi non possono pretendere di essere creduti. 

Diversamente, le testimonianze di Louis Darquier, responsabile della deportazione di più di 70.000 ebrei, possono essere interpretate solamente utilizzando il meccanismo dell'invenzione della verità di comodo. È infatti lo stesso responsabile a negare tutto, sostenendo che le atroci foto dei cumuli di morti siano solamente montaggi, le statistiche siano state inventate dagli ebrei avidi di pubblicità, le camere a gas siano state costruite esclusivamente dopo la guerra con lo scopo di uccidere i pidocchi, e le deportazioni da lui stesso firmate siano state effettuate, ma senza che egli ne conoscesse destinazione e motivo. Darquier, avvezzo a mentire pubblicamente, si è quindi costruito la sua realtà parallela, rendendola persino agli occhi altrui veritiera, tant'è che visse la fine della sua vita indisturbato in Spagna, senza aver pagato le conseguenze delle sue azioni, provocando profondo ribrezzo in Levi e non solo in lui. D’altronde, l’intero periodo del Terzo Reich, definito dall’autore come guerra contro la memoria, è stato caratterizzato da una totale falsificazione e manomissione della realtà. Hitler, vietando ai sudditi l’accesso alla verità, ha offuscato la loro morale e la memoria, costruendosi uno scenario intessuto di menzogne, di cui però egli stesso è rimasto vittima, mostrando così il prezzo che si paga quando si manomette la verità.

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Ettore, Filippo C., Filippo M., Sara

Da I sommersi e i salvati, La vergogna

La vergogna è un sentimento di turbamento e di disagio che prova un singolo o una collettività quando ha la consapevolezza che una propria azione, un proprio comportamento, una propria dichiarazione sono profondamente sbagliati, inopportuni, criticabili o addirittura disonorevoli. Tale disagio si manifesta come un senso di colpa e inadeguatezza, di un'intensità talvolta travolgente. Proprio, anche se non solo,  in virtù di questa sua forza emotiva, la vergogna è stata posta come sentimento fondante di certe comunità di essere umani, come quelle dell’estremo oriente, all’interno delle quali il sentimento in questione è utilizzato basilarmente  come strumento educativo.

Primo Levi,  grande scrittore del Novecento deportato ad Auschwitz, divenuto poi fra i principali testimoni di quanto accaduto nei campi di concentramento nazisti, dedica nel suo saggio I sommersi e i salvati  un intero capitolo alla vergogna, indagando in tale sentimento anche di là dalla barriera che indubbiamente separa, con svariate motivazioni, gli oppressi dagli oppressori in una simile circostanza. 

L’autore afferma, riprendendo un celebre componimento poetico di Leopardi,  che non sempre vi è la quiete dopo la tempesta, anzi, che per i reclusi nei campi nazisti l’ora della liberazione non è stata lieta né spensierata. Tutti i deportati vissero in un contesto tragico di distruzione, massacro, sofferenza e quando, improvvisamente, riavvertirono la loro umanità e, annessa immediatamente con questa,  la responsabilità, le angosce, lungi dal placarsi, ritornarono ancor più implacabili: il dolore per la famiglia dispersa o perduta, la sofferenza universale circostante, la propria estenuazione e la necessità di ricominciare la propria vita, ma spesso in solitudine e tra le rovine. Gli esseri umani, però, afferma l’autore, non sono tutti uguali, per questo motivo egli non osa pensare che le loro reazioni al momento della liberazione siano state le stesse. In determinati casi, è possibile che alcune persone, grazie alla loro capacità di isolare alcuni istanti di allegria, lo abbiano vissuto con gioia, come nel caso di combattenti, politici e di coloro che avevano  sofferto meno o per poco tempo. Non così fu per  Filip Müller, che all’interno del suo memoriale affermò di aver provato un completo abbattimento al momento della liberazione e, dunque, di non essere stato travolto da alcun tipo di sentimento. Ciò che, però, in molti sentirono durante e dopo la prigionia fu un senso di colpa, o qualcosa che come tale venne percepito e, successivamente, raccontato. Sebbene per mesi o anni essi avessero vissuto in condizioni estreme e come animali, percepirono di non aver fatto abbastanza per cercare di opporre resistenza, come quando nel 1941 un gran numero di prigionieri militari sovietici finirono nelle mani dei tedeschi. Questi erano in gran parte giovani, ben nutriti, robusti, con una solida formazione militare e politica, ma nonostante il loro profondo odio per i tedeschi, che avevano invaso il loro paese, raramente opposero resistenza. Per contro, però, solo in pochi superstiti si sentirono in colpa per  aver danneggiato e derubato  un loro compagno; Levi ricorda che, all’inizio della sua prigionia, cercò di confortare un nuovo arrivato, ma, mano a mano che il tempo trascorso all’interno del campo passava, egli diventò sempre meno disposto ad aiutare gli altri, voltando le spalle con impazienza davanti alle loro richieste. Un esempio di questo suo comportamento, ovvero di questa degradazione morale in corso,   viene riprodotto precisamente. L’episodio ha inizio con l’assegnazione proprio a lui del  compito di sgomberare l’angolo della cantina, luogo occupato da impianti chimici in corso di installazione, ma già danneggiati dalle bombe. Levi notò un piccolo tubo lungo il muro, con un rubinetto alla fine e, una volta aperto, scoprì che conteneva dell’acqua.  I prigionieri, mantenuti in condizione di disagio permanente, percepivano la sete come una delle principali sofferenze fisiche. Racconta quindi di aver deciso di chinarsi al di sotto del rubinetto per poter bere. Segue poi la considerazione che avrebbe potuto berla tutta in una volta, conservane un po’ per il giorno successivo, condividerla con Alberto, suo grande amico, oppure con tutta la squadra.  A prevalere fu il cosiddetto nosismo, vale a dire quel tipo di egoismo esteso a chi  è più vicino: così anche Alberto condivise con lui il beneficio, negato a tutti gli altri I due pensarono che nessuno li avesse visti, ma Daniele, un loro compagno, li scoprì, rivelandoglielo, con durezza, solo molti mesi dopo. Evidentemente esiste davvero una specie di contagiosità del male (documentata anche da Dante negli ultimi canti dell’Inferno) oppure, in certe circostanze di sofferenza estrema, vengono meno appunto le riserve di moralità della maggior parte delle persone. 

L’autore ritiene che la frequenza dei casi di suicidio dopo la liberazione, spesso immediatamente successivi, sia attribuibile a questo senno di poi, alla vergogna, al senso di colpa e alla riflessione sulle esperienze vissute durante la prigionia. In pochi si tolsero la vita durante la prigionia, poiché, in primo luogo, il suicidio è un atto deliberato dell'essere umano, non istintivo o naturale come le azioni compiute da parte degli animali. In secondo luogo, la mente dei prigionieri era occupata da molti altri pensieri, in quanto le giornate erano dense di preoccupazioni quali, oltre alla sete,  la fame, la fatica, il freddo e la necessità di evitare le violenze:  insomma,  non avanzava alcun tempo per concentrarsi sull'idea stessa della morte. In terzo luogo, la maggior parte dei suicidi derivava da un senso di colpa che già veniva espiata quotidianamente con le varie sofferenze provate durante la prigionia.

Solo alcuni casi eccezionali sono stati esclusi da quest’analisi svolta dall’autore, nello specifico i prigionieri, per lo più di natura politica, che dimostrarono la forza e la capacità di agire all'interno del campo di prigionia a difesa e vantaggio dei loro compagni. Questi individui, in gran parte ignoti alla maggioranza dei prigionieri comuni, operarono in segreto, sia nei confronti dei tedeschi, sia di tutti gli altri, per ragioni politiche e di sicurezza. Levi ne scoprì l’esistenza solo alcuni anni dopo, quando, durante un convegno di reduci, seppe che alcuni di loro, addetti all’Ufficio del Lavoro nel campo, avevano la possibilità di modificare i numeri di matricola sugli elenchi dei prigionieri destinati al gas, così come avevano il potere di sostituire i cosiddetti Kapòs, prigionieri selezionati del campo ai quali venne affidata la funzione di comando sugli altri deportati. Una sorta di esercito silenzioso, intento a tramare senza che nessun altro all’infuori di chi ne faceva parte lo sapesse.

Sul piano razionale, è evidente che non ci sarebbe nulla di cui Levi, e in generale gli ebrei, dovrebbero vergognarsi. Tuttavia, la declinazione di vergogna che intende l’autore è più sottile, ma allo stesso tempo grava fortemente sulle vittime, e si manifesta appunto con profondi sensi di colpa. La vergogna di cui parla Levi nasce nel momento della liberazione: quando si è imprigionati non ci si accorge di cosa succede davvero nella realtà, perché si è troppo impegnati a sopravvivere (le funzioni vitali di cui sopra sono dominanti) per pensare, per riflettere e per essere consapevoli. Infatti, il Levi liberato prende consapevolezza e riflette su ciò che ha appena vissuto. La consapevolezza, che era stata perduta, torna ad essere il metro di misura della sua coscienza, e proprio in quel momento realizza tutto il dolore che ha causato, indirettamente, non aiutando chi gli chiedeva conforto. Era cambiato il metro morale e il mero istinto di sopravvivenza spingeva ad agire solo per l’obiettivo di salvaguardare la propria sopravvivenza. Il senso di colpa interviene, dunque, quando si realizza che è venuto a mancare l’aspetto della solidarietà umana. L’autoaccusa, o l’accusa, di non aver fatto abbastanza, di omissione di soccorso. Ciò muta successivamente in un senso di vergogna, perché Levi giunge alla conclusione che se è vivo non è merito suo, non si è guadagnato la libertà, ma la sta riscattando a scapito di altri. Ho vergogna perché sono vivo al posto di un altro. Chi meritava di vivere, alla fine è morto; i più gentili, i più sensibili e i più altruisti, scontano le vere pene. In Levi crescono il sospetto e la paura di aver soppiantato il prossimo, e da questo  consegue che i sopravvissuti non risultano essere i migliori, i predestinati dal Bene, ma l’esatto contrario. Chi è sopravvissuto vivrà con la consapevolezza eterna di aver fatto morire chi doveva salvarsi, e questa condanna psicologica, frutto della consapevolezza, è forse una pena anche maggiore di quelle fisiche. E forse vivere col senso di colpa, di credere di aver preso la parte degli egoisti, dei violenti, degli insensibili, e collaboratori della “zona grigia”, porterà Primo levi, l’11 Aprile del 1987, al suicidio. 


Anche le testimonianze preziose che abbiamo di Levi e degli altri superstiti, a suo avviso, non rispecchiano fedelmente il dolore subito. I testimoni veri sono quelli che non ci sono più, perché i sopravvissuti sono una minoranza anomala oltre che esigua. Loro sono la regola, noi l’eccezione. L’autore realizza, ancora una volta, che anche ciò che di più importante ci ha lasciato, in realtà è un documento che certifica una prevaricazione e non un dolore subito. 

Oltre alla vergogna che provano gli individui come Levi, vi è un’altra vergogna che riguarda l'intera umanita, nella quale sono coinvolti gli oppressi, gli indifferenti e ovviamente i colpevoli dell'olocausto. A questo proposito si capisce cosa intenda esprimere  John Donne con la sua massima nessun uomo è un'isola. Nessun uomo è insensibile di fronte alle morti, ai dolori altrui, provocati da sé o da altri, ma c’è chi si copre gli occhi per proteggersi dal senso di colpa e dallo sdegno che si proverebbe verso se stessi e tutta l’umanità. Levi, insieme alle altre vittime dell'olocausto, anche se avesse voluto, non avrebbe avuto la possibilità di voltarsi per non vedere, poiché  è stato costretto a vivere la morte, la disperazione e la crudeltà in prima persona.

Senza la possibilità di superare il dolore ed essere felice della liberazione, Levi è obbligato a provare questa vergogna a causa di un atroce dolore provocato da qualcun altro. La vergogna del mondo, secondo Levi, è fondamentale per far in modo che eventi come questi vengano ripudiati in futuro. Questa speranza molto forte viene in parte infranta quando, nel 1975, in Cambogia un’ oppressione decisamente simile all’Olocausto, ma ovviamente in dimensioni molto minori, trova modo di manifestarsi. Nonostante ciò, Levi non crede che una strage del genere sia probabile in un futuro in Europa, e che si sarà più attenti ai movimenti estremisti simili a quelli che si erano diffusi in Germania nella seconda guerra mondiale. Ad alimentare la strage son stati alcuni fattori fondamentali, ma insufficienti se presi da soli. Elencarli tutti richiede ovviamente di avviare un’analisi storica, ma Levi esplicita alcune idee in merito: di certo la situazione creatasi in Germania con l’ascesa al potere di Hitler, leader carismatico in parte atteso dalla popolazione, dopo l’umiliazione subita con la I Guerra Mondiale,  ha avuto una parte importante, che si è sommata a caratteristiche proprie del Reich, nonché della classe dirigente e di quella industriale cooptata dai nazisti una volta conquistato il potere. È proprio per la quantità delle condizioni storiche, politiche, economiche e sociali,  che sono state necessarie al verificarsi della strage, che Levi crede che l’umanità potrebbe certo andare incontro ad un altro terribile esito: la guerra nucleare, che produrrebbe una devastazione tale da non rendere possibile discutere più né della genesi né  delle conseguenze, dal momento che queste ultime coinciderebbero con la cancellazione di tutta l’umanità.

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