TEMA 29 GENNAIO - MATERIALI

MATERIALE PER TIPOLOGIA B

Il testo seguente è il primo paragrafo del saggio, leggibile on line, di Ugo Mattei, intitolato I beni comuni come istituzione giuridica 

1. I beni comuni

Non esiste una definizione giuridica riconosciuta dei beni comuni. Tuttavia, vi è un consenso di massima tra studiosi per non considerarli né privati né pubblici né merce né oggetto o parte dello spazio, materiale o immateriale, che un proprietario, pubblico o privato, può immettere sul mercato per ricavarne il cosiddetto valore di scambio. I beni comuni sono riconosciuti in quanto tali da una comunità che si impegna a gestirli e ne ha cura non solo nel proprio interesse, ma anche in quello delle generazioni future. Essi sono, infatti, per citare il noto studioso di diritto delle proprietà Stefano Rodotà, l’opposto della proprietà privata. Inoltre, nella filosofia giuridica oggi emergente, che è riflessa nelle esperienze di co-housing e nei vecchi assetti di villaggio, la cosiddetta proprietà privata rappresenta in effetti soltanto un’eccezione ai beni comuni ed è garantita a seconda dei bisogni variabili. Per esempio, quando i figli crescono e vanno via di casa, una famiglia si trova ad avere magari una camera da letto di troppo, mentre se dovesse ospitare gli anziani genitori, sarà necessario spazio in più. In questi casi, se la proprietà presa dai beni comuni (ad esempio da un monastero ristrutturato o dagli edifici di un progetto di co-housing) viene temporaneamente privatizzata e posta sotto le cure e il controllo di una persona, il risultato non è l’accumulo.

Quando gli spazi non risultano più necessari per l’uso privato, debbono essere restituiti ai beni comuni, per essere gestiti e usati dalla comunità. I beni comuni, pertanto, non sono nemici della proprietà individuale, ma soltanto degli eccessi legati al suo accumulo. Allo stesso modo non sono ostili al Governo, ma si prefiggono soltanto di limitare le concentrazioni eccessive di potere, attraverso decisioni dirette assunte dalla comunità, in base al riscontro da parte dei fruitori. In effetti, quest’ultimo aspetto è importante, ma le istituzioni politiche elette generalmente sono troppo lontane da dove le loro decisioni avranno un impatto, mentre i singoli rappresentanti politici sono troppo impegnati per decidere adeguatamente tutto. Un bene comune può essere qualsiasi cosa che la comunità riconosca tale da soddisfare un bisogno reale, fondamentale, al di fuori dello scambio di mercato. Oltre allo spazio fisico pubblico, nella nozione possono anche rientrare organizzazioni istituzionali quali le cooperative o le comunità, i trust gestiti nell’interesse delle generazioni future, le economie di villaggio, i dispositivi per la condivisione dell’acqua e molte altre strutture organizzative sia antiche sia contemporanee. L’utilità del bene comune è creata dall’accesso condiviso da parte della comunità oltre che dal processo decisionale diffuso a tutti i livelli.

Le istituzioni comunitarie, attraverso un controllo diretto e reciproco e un’azione di accompagnamento e sostegno, tendono a contrapporsi al profitto, alla disuguaglianza e al difetto di lungimiranza. Le istituzioni dei beni comuni funzionano attraverso il conferimento di potere giuridico diretto ai loro membri – nella ricerca condivisa di un significato o una funzione generativi – e rispondono a bisogni umani concreti di partecipazione, sicurezza e socialità. Lavorando dal basso, esse hanno il potenziale di fare proprio il cuore del sistema giuridico, rappresentando una rete capace di agire secondo logiche di cooperazione e di partenariato. Dato che gli appartenenti alla comunità sperimentano modelli di divisione del lavoro diversi dallo sfruttamento, il loro tempo si libera per attività di proselitismo, organizzazione e connessione che permettono alla rete di crescere e acquisire sempre più importanza.

Nella sfera pubblica, un determinato spazio fisico può essere o non essere definito bene comune e ciò dipende dal suo uso o dalla sua capacità di assolvere ai bisogni fondamentali di una comunità, presente e futura che sia. Per esempio, anche se una stazione ferroviaria dismessa può essere privatizzata e trasformata in centro commerciale, essa può anche essere riconosciuta quale bene comune e tutelata come tale, perché permette di offrire un ricovero ai senza tetto, un palcoscenico per artisti di strada o una sede per l’associazionismo politico.

È indifferente che il titolo di proprietà sia in ultima analisi pubblico o privato, di un’azienda o di un comune; l’importante è che lo spazio promuova un’attività collettiva generativa e non sia gestito in base a un modello di esclusione, estrattivo, interessato solo ai profitti e alla rendita. Vietando l’estrazione di profitto, un’istituzione comunitaria libera una quantità significativa di risorse, da destinare a un uso sociale o ambientale (un tipico esempio sarebbero i pacchetti retributivi dei Ceo[1]). Di conseguenza, la gestione di una stazione ferroviaria come bene comune può rivelarsi altamente sostenibile, in quanto la componente commerciale dell’attività può ampiamente sostenere quella non commerciale. Per esempio, in un community land trust l’affitto di spazi costosi può finanziare l’alloggio per persone a basso reddito.

Oggi, il grave depauperamento delle nostre risorse naturali e culturali comuni rende imperativa la correzione dello squilibrio di potere tra settore privato, pubblico e dei beni comuni. L’armonizzazione delle leggi dell’uomo con i principi dell’ecologia richiede, come minimo, lo sviluppo di un settore dei beni comuni e delle istituzioni a esso associate, solido e tutelato legalmente. Occorre partire dalla base del pensiero ecologico e critico, coltivare la diversità, la resilienza e le reti sociali che permettano di cambiare il mondo dal basso

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MATERIALE PER TIPOLOGIA C

Si tratta di una breve intervista allo storico Luciano Canfora, risalente al 2014 (i riferimenti sono all'attualità di allora). Tenete presente che il materiale riportato  vi serve per il tema generale, che  imposterò, come richiesto dalla tipologia C, con attinenza alla stretta attualità. 

Il Capo carismatico secondo Luciano Canfora

Approfondimenti

Sabato 26 maggio 2014 alle 18 Luciano Canfora, ordinario di Filologia greca e latina all'Università di Bari, condurrà una riflessione sul “capo carismatico” legato da un vincolo indissolubile con l’altro estremo, anch’esso al centro dell’attuale momento politico, rappresentato dal popolo.

La conferenza alla Fondazione Centro Studi Campostrini sarà incentrata sul tema del “Capo carismatico”. Perché ha scelto questo argomento? 
Nel Novecento è stato un argomento importantissimo e anche nella nostra realtà attuale sia i conservatori sia i non conservatori cercano di ottenere consenso attraverso le figure dei capi carismatici, da Vladimir Putin a Barack Obama. “Carismatico” è una parola “grossa” poiché si intende una persona che riesce a catalizzare su di sé la simpatia e la dedizione delle persone che si convincono che il capo carismatico potrà risolvere tutti i problemi. Il grande sociologo Max Weber fu il primo ad usare questo termine durante la conferenza “La politica come professione” (1919). Lui aveva in mente quello che era stato il quadro della prima guerra mondiale e dei grandi personaggi che si erano scontrati. Da qui ci sono molte teorizzazioni da parte di pensatori di varia tendenza sulla necessità di individuare una figura che raccolga su di sé il prestigio, l’autorità, la simpatia, il consenso e la dedizione affettiva in politica, da Giulio Cesare fino ai nostri giorni. La domanda che dobbiamo di conseguenza porci è perché avviene questo meccanismo? Proprio su questo tenterò di discute durante l’incontro.

Quali sono secondo lei gli esempi storici più rappresentativi di “capo carismatico”?
A parte Giulio Cesare che ho nominato, anche Francesco D’Assisi e Lutero erano capi carismatici. Nella storia del diciottesimo secolo lo era il Re Sole. La rivoluzione poi capovolge la monarchia e si incarna in figure direttive come Napoleone Bonaparte, impossibile da mettere tra parentesi, tanto che ha dato nome ad un fenomeno storico nominato “bonapartismo”, che è una variante del concetto di “capo carismatico” (e che si usa anche come sinonimo di “cesarismo”). Di questo argomento è difficile parlare perché sembra una divagazione impertinente, ma poi tutti finiscono con il discutere di questa forma di politica.

La controparte politica e sociale del capo carismatico è la massa del popolo o altro?
Il capo diventa tale poiché c’è una massa corrispondente, altrimenti si dovrebbe chiamare in un altro modo. Per esempio Cesare durante la sua attività capisce quanto fosse importante la massa militare rispetto a quella della plebe urbana e arriva al potere in questo modo. C’è poi una cerchia di collaboratori, ci sono i grandi poteri forti che coesistono e condizionano questa figura e a loro volta ne sono condizionati, non stiamo dicendo che la lotta di classe non esiste più, ma che si manifesta anche con fenomeni di questo genere.

La storia italiana del novecento sembra inesorabilmente segnata dalla figura del capo carismatico (Mussolini). Secondo lei si tratta di una fase superata o la figura del capo carismatico gioca ancora un suo ruolo nel panorama politico, sociale e civile dell’Italia contemporanea?
Mussolini era un ex socialista e i socialisti lo consideravano un rinnegato anche se lui aveva ereditato molti dei loro comportamenti e miti. Con il tempo li ha addomesticati mettendosi d’accordo con le classi dominanti con le quali ha avuto un rapporto dialettico e non sempre idilliaco, a volte intrinseco e talvolta con qualche strattone. I grandi politici o meno grandi si giudicano alla fine, da come finisce l’avventura… se muoiono nel loro letto si dice che sono dei grandi statisti, se finiscono appesi per i piedi si dice che hanno sbagliato tutto. È un po’ severa la giustizia della storia ma purtroppo succede così. Prima Crispi e poi Giolitti hanno segnato un’epoca con il loro nome. Nel dopoguerra lo scontro era fra De Gasperi e Togliatti, di nuovo due figure che raccoglievano in sé un intero schieramento. In ultimo abbiamo avuto una caricatura di capo carismatico con il governo guidato da Silvio Berlusconi, mentre ora si sta creando il mito del Presidente della Repubblica come figura carismatica.

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