MATERIALE PASCOLI

 Le tamerici sono arbusti, e alle humiles myricae  il poeta latino Virgilio, nel I secolo a. C. dedica l'incipit della IV Ecloga, di cui abbiamo parlato a suo tempo. Non omnes arbusta iuvant  humilesque myricae, suonano i versi virgiliani, non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici. Nell'evocazione di questa pianta, che ama le vicinanze marine e non è danneggiata dai terreni sabbiosi, si cela un'orgogliosa rivendicazione: Virgilio sente di essere tra i primi romani che abbiano osato intonare un canto pastorale, una lirica d'ispirazione bassa, rispetto alla musa tragica o a quella epica, sa bene che non tutti apprezzano e si appresta a innalzare, appunto nella IV Bucolica il suo canto. Pascoli coglie il senso profondo, l'omaggio  alla semplice pianta, celato nel verso virgiliano, e lo rende titolo della sua raccolta "nata" il 10 agosto 1890, nell'anniversario della morte del padre, con un nucleo di 9 poesie pubblicate sulla rivista fiorentina "Vita nova". L'edizione definitiva, comprenderà, nel 1900, 156 poesie, alcune raggruppate sotto titolature uniche, altre proposte come singole. 

Prima di procedere con una lettura e analisi di alcune poesie, introduco brevemente la vita di Pascoli che, insieme a Gabriele D'Annunzio, appartiene alla stagione del decadentismo e apre la via alle sperimentazioni novecentesche.

Il suo paese di nascita è S. Mauro di Romagna, in provincia di Forlì-Cesena. L'anno è il 1855.

Quarto di dieci figli, all'età di 12 anni, il 10 agosto del 1867, subisce insieme alla sua famiglia un terribile lutto: il padre Ruggero, amministratore della tenuta La Torre dei principi di Torlonia, viene ucciso con una fucilata mentre torna in calesse da Cesena a San Mauro. Anche se furono avviate indagini, gli autori dell'agguato e dell'omicidio non furono mai arrestati. Fra il 1868 e il 1871 muoiono, per cause diverse,  un fratello, una sorella  e la madre del poeta, il quale riesce comunque a proseguire gli studi grazie al fratello maggiore che trova lavoro a Rimini, dove si trasferisce quanto resta della famiglia (otto, fra fratelli e sorelle). Il 1873 è l'anno della dispersione della famiglia: Giovanni partecipa a un concorso per una borsa di studio bandito dall'università di Bologna, viene esaminato dal poeta vate  dell'epoca, Giosuè Carducci, e lo supera, iscrivendosi così all'università. Gli anni fra il 1876 e il 1879 sono caratterizzati, oltre che dallo studio, dalla partecipazione attiva alla politica: lo attrae il socialismo di Andrea Costa, inizialmente anarchico, poi socialista rivoluzionario. Per aver partecipato a una manifestazione viene arrestato insieme ad altri attivisti e resta in carcere a Bologna per qualche mese, finché, processato, è assolto con formula piena. Da questo momento cessa ogni forma di attivismo e si dedica interamente allo studio: nel 1882 si laurea con una tesi sul poeta greco Alceo ed è nominato professore presso il liceo di Matera. Le sue poesie iniziano ad attrarre l'attenzione, ad esempio D'Annunzio lo invita a collaborare alla rivista "Cronaca Bizantina". Trasferitosi per insegnare a Massa, cerca di riunire quello che resta della famiglia, decimata dalle morti: le sorelle Ida e Maria, che hanno terminato la loro educazione in convento vanno a vivere insieme a lui, trasferendosi a Livorno dal 1887 al 1895. Sono gli anni in cui inizia a scrivere Myricae e vince prestigiose gare di traduzione poetica dal latino. Nel 1893 fa parte di una commissione ministeriale incaricata di riformare l'insegnamento del latino nelle scuole. A Roma conosce Adolfo De Bosis che gli chiede di pubblicare sue poesie sulla rivista "Il convito", sul quale compariranno i Poemi conviviali.  Nel 1895 la sorella Ida tradisce il nido familiare ricostituito sposandosi: con Maria egli si trasferisce a Castelvecchio di  Barga nei pressi di Lucca, che diventa la loro stabile residenza. Nello stesso anno viene nominato professore straordinario di grammatica latina e greca all'università di Bologna. Prosegue la sua attività poetica e di riflessione sull'estetica di cui si fa portatore: concepisce il saggio Il fanciullino, dal quale si possono ricavare molte indicazioni di lettura delle poesie, ma anche analisi della poesia leopardiana e di quella dantesca (Minerva oscura). Nel 1905 gli viene assegnata la cattedra di letteratura italiana a Bologna ch'era stata di Carducci, collocatosi a riposo (morirà l'anno dopo). Continua una fervida attività sia come poeta sia come traduttore anche negli ultimi anni prima della morte, avvenuta per un cancro allo stomaco nel 1912. La sua tomba si trova nel cimitero di Barga.
--------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Il saggio Il fanciullino
È dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi, come credeva Cebes Tebano che primo in sé lo scoperse, ma lagrime ancora e tripudi suoi. Quando la nostra età è tuttavia tenera, egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli che ruzzano e contendono tra loro, e, insieme sempre, temono sperano godono piangono, si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire solo. Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello. Il quale tintinnio segreto noi non udiamo distinto nell’età giovanile forse così come nella più matura, perché in quella occupati a litigare e perorare la causa della nostra vita, meno badiamo a quell’angolo d’anima d’onde esso risuona (Cap. 1).
Cebes Tebano è un personaggio del Fedone di Platone. Al filosofo Socrate che invita a non aver paura della morte perché l’anima continua comunque ad esistere, Cebes risponde:
Come fossimo spauriti, o Socrate, prova a persuaderci; o meglio non come spauriti noi, ma forse c’è dentro anche in noi un fanciullino che ha timore di siffatte cose: costui dunque proviamoci di persuadere a non aver paura della morte come di visacci d’orchi.
Questa traduzione del passo del Fedone (77 e) è la stessa che Pascoli mette in nota al saggio.

Ma è veramente in tutti il fanciullo musico? Che in qualcuno non sia, non vorrei credere né ad altri né a lui stesso: tanta a me parrebbe di lui la miseria e la solitudine.[...] Egli è quello, dunque, che ha paura al buio, perché al buio vede o crede di vedere; quello che alla luce sogna o sembra sognare, ricordando cose non vedute mai; quello che parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle: che popola l’ombra di fantasmi e il cielo di dei . Egli è quello che piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione. Egli è quello che nella morte degli esseri amati esce a dire quel particolare puerile che ci fa sciogliere in lacrime, e ci salva. Egli è quello che nella gioia pazza pronunzia, senza pensarci, la parola grave che ci frena. Egli rende tollerabile la felicità e la sventura, temperandole d’amaro e di dolce, e facendone due cose ugualmente soavi al ricordo. Egli fa umano l’amore, perché accarezza esso come sorella (oh! Il bisbiglio dei due fanciulli tra un bramire di belve) , accarezza e consola la bambina che è nella donna. Egli nell’interno dell’uomo serio sta ad ascoltare, ammirando, le fiabe e le leggende, e in quello dell’uomo pacifico fa echeggiare stridule fanfare di trombette e di pive, e in un cantuccio dell’anima di chi più non crede, vapora d’incenso l’altarino che il bimbo ha ancora conservato da allora. Egli ci fa perdere il tempo, quando noi andiamo per i fatti nostri, ché ora vuol vedere la cinciallegra che canta, ora vuol cogliere il fiore che odora, ora vuol toccare la selce che riluce.[...] (Cap.III).

Così il poeta vero, senza farlo apposta e senza andarsene, portando, per dirla con Dante, il lume dietro, anzi no, dentro, dentro la cara anima portando lo splendore e ardore della lampada che è la poesia; è, come si dice oggi, socialista, o come si avrebbe a dire, umano. Così la poesia, non ad altro intonata che a poesia, è quella che migliora e rigenera l’umanità, escludendone, non di proposito il male, ma naturalmente l'impoetico. Ora si trova a mano a mano che impoetico è ciò che la morale riconosce cattivo e ciò che l’estetica proclama brutto. Ma di ciò che è cattivo e brutto non giudica, nel nostro caso, il barbato filosofo. È il fanciullo interiore che ne ha schifo (Cap. X)

L'autore, rifacendosi a Platone, pone al centro della sua prima riflessione una visione sdoppiata della nostra anima: esiste una parte di essa che cresce e matura, e una, ch'egli denomina appunto fanciullino, che mantiene intatti la voce e lo spirito dell'infanzia. Nel delineare le caratteristiche distintive del faniucllino, gli attribuisce per cominciare una sorta di ipersensibilità, tale soprattutto se confrontata con quella comune. Il fanciullino prova delle sensazioni estreme, come la paura, perché continuamente la sua immaginazione è desta, intenta a rappresentare quello che non c'è, che non c'è mai stato a mai ci sarà; il fanciullino possiede della capacità che esulano da quelle comuni, in quanto parla il linguaggio degli animali ed è dotato di una sensibilità sovrumana, capace di fargli vedere e sentire quello che sfugge tanto ai sensi quanto alla ragione. In un accavallarsi di ossimori, la sensibilità del fanciullino si chiarisce essere affine a quella dell'artista, che usa un linguaggio in grado di dire a ciascuno proprio quello che lui attende di ascoltare: come un dio che comunica all'anima di ognuno proprio quello che essa è disposta e capace di capire. Nell'ultimo passaggio del testo viene come tracciato un unico confine invalicabile per lo spirito del fanciullino, ovvero del poeta: quello dell'impoetico. Il fanciullino riconosce naturalmente l'impoetico, non necessita di critici austeri, e si astiene dal praticarlo come si terrebbe lontano da qualcosa che lo respinge originariamente.
-------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
NOTA SUL FONOSIMBOLISMO: 1. Definizione
Il termine fonosimbolismo (o simbolismo fonetico) si riferisce a una serie di fenomeni di varia natura e tipologia nei quali da un suono o una sequenza di suoni si riconosce il valore semantico in modo diretto e non mediato dalla grammatica.
Nell’accezione corrente del termine, il fenomeno fonosimbolico più noto è l’onomatopea(cfr. § 4), ma i confini del fonosimbolismo sono in realtà molto ampi, fino a rientrare a pieno diritto nell’ambito del cosiddetto iconismo linguistico (Jakobson & Waugh 1979; Simone 1995).
2. Fonosimbolismo e arbitrarietà del segno linguistico
Il dibattito sulla natura dei segni linguistici è molto antico, e si può far risalire alla filosofia del linguaggio della Grecia antica. Nei termini della classica dicotomia tra phýsis «natura» e nómos «accordo», le due ipotesi antitetiche, riconducibili rispettivamente a Platone e Aristotele, prevedevano che tra la forma delle parole e il loro significato (e quindi, estensivamente, tra il linguaggio e il mondo rappresentato dal linguaggio) vi fosse un legame naturale da un lato, oppure un rapporto convenzionale, governato dall’uso della lingua nella società, dall’altro.
La teoria linguistica moderna è basata sul principio dell’arbitrarietà del segno: nelle lingue, il legame tra il significato e il significante non è motivato in modo diretto e naturale, ma è arbitrario e convenzionale.
Il paradigma dominante nella linguistica del Novecento ha di fatto relegato lo studio degli aspetti mimetici o variamente espressivi ai margini, nonostante le indagini condotte su varie lingue del mondo abbiano via via dimostrato come i fenomeni fonosimbolici giochino un ruolo non secondario nella struttura delle lingue (per una rassegna, Hinton, Nichols & Ohala 1994).
Attualmente, pur riconoscendosi il carattere sostanzialmente arbitrario e convenzionale dei segni linguistici, sembra prevalere un atteggiamento di accresciuta sensibilità nei confronti degli aspetti iconici e, nello specifico, fonosimbolici delle lingue.
3. Tipologia del fonosimbolismo
I fenomeni fonosimbolici possono essere distinti in tre classi principali (cfr. Hinton, Nichols & Ohala 1994): fonosimbolismo mimeticobiologico sinesteticogrammaticale convenzionale; a tali classi è poi possibile aggiungere il cosiddetto fonosimbolismo fisico corporeo.
3.1 Fonosimbolismo mimetico
Si basa sull’imitazione di suoni naturali o ambientali; i versi prodotti dagli animali sono tipicamente riprodotti mediante parole onomatopeiche, più o meno convenzionali (ad es. pio pio per il pulcino; cfr. § 4); suoni comuni e movimenti ritmici sono parimenti espressi da forme fonosimboliche di questo tipo (ad es., drin per il suono di un campanello, vrum per il motore di una macchina, cic ciac per il rumore di un passo su terreno bagnato), in cui spesso viene ripetuta una sillaba (ad es., clap clap per il battere le mani, toc toc per bussare alla porta) o compare una sequenza di consonanti iterata con apofonia vocalica (per es., tic tac, zig zag) (➔ raddoppiamento espressivo).
3.2 Fonosimbolismo biologico o sinestetico
Si può definire come la resa fono-acustica di fenomeni non sonori, e si riferisce all’associazione tra segmenti (vocali e consonanti) e proprietà sensoriali (visive, tattili, uditive) o propriocettive degli oggetti, quali forma o grandezza. Ad es., la vocale [i] è associata in modo naturale e forse universale all’idea di piccolezza, mentre [a] e [o] rinviano all’idea di grandezza (cfr. già Sapir 1929; Jespersen 1933; Chastaing 1965; più recentemente, Dogana 1983, 1990; Fónagy 1991).
Gli effetti fonosimbolici possono interessare anche la morfologia: da un’analisi tipologica compiuta su un vasto campione di lingue, risulta che circa il 90% delle lingue considerate ha la vocale [i] nella marca del ➔ diminutivo (Ultan 1978). Per l’italiano, si confrontino i lessemi piccolo, piccino, minore, minimo rispetto a grandemassiccio, maggiore, massimo, o il suffisso -ino rispetto a -one.
L’associazione soggettivamente comprovata tra timbro vocalico e dimensione ha un fondamento biologico, dal momento che esiste in natura un rapporto inversamente proporzionale tra la frequenza acustica di un suono e la grandezza del corpo o dell’oggetto che lo produce; si tratta del cosiddetto codice della frequenza (cfr. Ohala 1983; Hinton, Nichols & Ohala 1994). In altri termini, suoni acuti sono prodotti da corpi o oggetti di piccole dimensioni, mentre corpi o oggetti voluminosi producono suoni gravi; la differenza tra la voce di un violino e quella di un violoncello è pertanto analoga a quella che esiste tra la voce di un bambino e quella di un adulto. In parallelo, la frequenza fondamentale intrinseca dei vari suoni vocalici impiegati nelle lingue umane è diversa a seconda delle loro caratteristiche articolatorie (➔ vocali) e il valore delle loro armoniche dipende direttamente dal volume della cavità orale: [a], in quanto vocale più aperta, ha valori formantici (➔ fonetica acustica, nozioni e termini di) più elevati per la prima formante, ma bassi per la seconda formante; viceversa, [i] ha la prima formante bassa, ma la seconda assai elevata. Il fonosimbolismo di tipo sinestetico ha dunque chiare basi biologiche, che ridimensionano in quest’ambito l’arbitrarietà del segno.
3.3 Fonosimbolismo grammaticale o convenzionale
Fa riferimento all’associazione di certi segmenti o sequenze di suoni con significati sulla base di elementi lessicali che esprimono prototipicamente quei significati; ad es., per i parlanti italiani i fonemi sibilanti /s/ e /ʃ/ sono associati con l’idea di «movimento sinuoso», essenzialmente perché compaiono come suoni iniziali di parole come serpente, scivolare, sciare, sciogliere; nel gruppo /fl/ si può individuare un valore iconico di «mollezza», come testimoniano vocaboli come floscio, flaccido, fluido (cfr. Dogana 1983: 199).
Parimenti, la consonante /l/ può facilmente evocare l’idea di «liquidità» o di «luce», ancora una volta per la sua presenza in parole come flutto, fluido, liquido, luce, brillare, lume, barlume(analogamente, in inglese float, flow, gleam, glitter), mentre /r/ rinvia a impressioni di «movimento rapido», «rotolamento», ma anche di «durezza», ben espresse nei lessemi italiani duro, rapido, ruvido, rotolare, vibraretremare, ecc.
Sono infine da ricordare associazioni fonosimboliche di tipo psicologico e psicanalitico, in particolare le connotazioni rispettivamente di «mascolinità» e «aggressività» per /r/ e di «femminilità» e «dolcezza» per /l/: la vibrazione vigorosa della punta della lingua coinvolta nella produzione di /r/ richiamerebbe l’erezione del membro maschile; d’altro lato, una pronuncia imperfetta di questo segmento sarebbe associata alla paura di castrazione, e per questo sarebbe statisticamente più frequente nei ragazzi che nelle ragazze (cfr. Fónagy 1991: 500 segg.).
I numerosi e coerenti risultati empirici raccolti in quest’ambito sembrano confermare la rilevanza psicologica di certe associazioni, senza tuttavia giustificare il loro uso come principio esplicativo del rapporto naturale e non convenzionale tra suono e senso, tanto in riferimento all’origine del linguaggio quanto all’uso della lingua; rapporti sia di tipo iconico che mimetico del genere qui considerato hanno infatti sempre e comunque carattere secondario e soggettivo, sono cioè derivati dalla presenza nel lessico di alcune parole che fungono da elementi prototipici trainanti nelle associazioni stesse (cfr. Vineis 1983; Bertinetto & Loporcaro 1994: 158 segg.).
3.4 Fonosimbolismo fisico o corporeo
Indica la produzione di suoni o prosodie che esprimono lo stato emotivo o psico-fisico del parlante; rientrerebbero in questa categoria colpi di tosse, fischi, grugniti, grida, singhiozzi o prosodie ‘espressive’ in quanto eccessive, click e tic, come pure alcune manifestazioni verbali di comportamenti patologici quali la sindrome di Tourette (cfr. Ostwald 1994).
Tali fenomeni tuttavia non costituiscono una vera e propria classe fonosimbolica, dal momento che si tratta di produzioni sonore non appartenenti in senso stretto al sistema linguistico; possono al più essere collocati ai margini della comunicazione umana latamente intesa, in considerazione dei suoi vincoli biologici.
4. Onomatopee
Il rapporto naturale, in quanto motivato su base mimetica, tra suono e senso sembra trovare la sua massima espressione nelle onomatopee, segni linguistici che riproducono direttamente suoni, rumori o voci di animali, usando i mezzi fonetici e grafemici disponibili; ad es., in italiano, din don per il suono delle campane, chicchirichì e coccodè per il verso del gallo e della gallina.
Le parole onomatopeiche, presenti in tutte le lingue del mondo, in virtù del loro legame immediato e diretto con i referenti possiedono un’elevata capacità espressiva, e nel contempo mostrano un adattamento di suoni extralinguistici, non articolati, al sistema fonologico di una lingua.
Tuttavia, le onomatopee non sono una pura e semplice mimesi dei versi prodotti dagli animali, ma mostrano esse stesse aspetti convenzionali. Infatti, ogni lingua usa parole onomatopeiche diverse per lo stesso referente; esemplare è il caso del canto del gallo, che è denominato in italiano chicchirichì, in francese cocorico, in inglese cock-a-doodle-doo, a conferma del carattere culturale, dunque convenzionale, e non naturale, tra suono e senso anche in questo ambito.
Inoltre, le stesse onomatopee possono diventare unità grammaticali a tutti gli effetti; se in italiano beee è l’onomatopea che esprime il verso della pecora, i derivati belare e belato ne rappresentano la grammaticalizzazione mediante l’aggiunta di morfemi verbali o nominali. In parallelo, andrà osservato che beee, muuu, miao, al pari di tutte le onomatopee autentiche, per il fatto stesso di essere inserite nella stringa fonetica, e dunque per essere elementi strutturali di un enunciato, contengono già in forma potenziale la loro progressiva grammaticalizzazione in belare, muggire, miagolare (Grammont 1933; Vineis 1983).
Per le onomatopee pare preferibile parlare di convenzionalità e di arbitrarietà relativa, piuttosto che di mero rapporto naturale tra suono e senso, dal momento che la resa imitativa del fenomeno sonoro (verso di animale, rumore, ecc.) è non solo filtrata attraverso la fonologia di una lingua specifica, ma anche inserita all’interno del suo sistema grammaticale.
-------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
NOTA SUI TITOLI ASSEGNATI ALLE SEZIONI DI MYRICAE: Dall'alba al tramonto, Ricordi, Pensieri, Creature, Le pene del poeta, L'ultima passeggiata, Le gioie del poeta, Finestra illuminata, Elegie, In Campagna, Primavera, Dolcezze, Tristezze, Tramonti, Alberi e fiori (ciascuna comprende da un massimo di 18, In campagna e Tristezze, a un minimo di due, Tramonti, componimenti). Come suggerito dal titolo Myricae il poeta trae ispirazione certamente dall'ambiente idillico, ripetutamente evocato in questa titolatura,  ma è poi nella dimensione dell'interiorità che si sviluppa maggiormente il suo discorso poetico, fra memorie del passato, percezioni e sentori del presente, rivelazioni del sentimento che oscilla fra melanconia e struggimento.

Modello di analisi di tre componimenti (prima sezione dopo l'introduttivo Il giorno dei morti).
Dall'alba al tramonto

I
Alba festiva
Che hanno le campane,
che squillano vicine,
che ronzano lontane?

E' un inno senza fine,
or d’oro, ora d’argento,
nell’ombre mattutine.

Con un dondolìo lento
implori, o voce d’oro,
nel cielo sonnolento.

Tra il cantico sonoro
il tuo tintinno squilla
voce argentina — Adoro,

adoro — Dilla, dilla,
la nota d’oro — L’onda
pende dal ciel, tranquilla.

Ma voce più profonda
sotto l’amor rimbomba,
par che al desìo risponda:

la voce della tomba.

Il componimento è strutturato in terzine dantesche,  con un verso finale isolato e rime incatenate,  ed è intessuto di figure di suono, onomatopee (squillano, ronzano, dondolìo), assonanze e consonanze interne e a fine verso. 
La prima terzina contiene una domanda, che sottintende una personificazione delle campane: è il  mondo del fanciullino, della sua sensibilità e della capacità di intendere il linguaggio delle cose e di tradurlo. Nella terzina successiva, la risposta alla domanda si esprime con una sinestesia, attraverso la quale si intende che il suono delle campane oltre a dilatarsi nel tempo, colora l'aria, contribuisce al trionfo della luce sulle tenebre, nonché al  risveglio dopo il sonno notturno, evocato nella terzina successiva. Poi,  dalla dimensione corale dell'inno, si passa a udire una voce isolata, un'unica nota, serafica, che suggerisce al poeta un ardito accostamento metaforico con "l'onda". Si capisce che l'intento finale è quello di far culminare la poesia con la nota oscura, proposta in antitesi alla precedente, che rimanda alla tomba, l'ossessione dei defunti che per il poeta sono più vivi dei vivi. 

II
Speranze e memorie 
Paranzelle in alto mare
bianche bianche,
io vedeva palpitare
come stanche:
o speranze, ale di sogni
6per il mare!

Volgo gli occhi; e credo in cielo
rivedere
paranzelle sotto un velo,
nere nere:
o memorie, ombre di sogni
12per il cielo!
 III 
Scalpitio
Si sente un galoppo lontano
(è la...?)
che viene, che corre nel piano
4con tremula rapidità.

Un piano deserto, infinito;
tutto ampio, tutto arido, eguale:
qualche ombra d’uccello smarrito,
8che scivola simile a strale:

non altro. Essi fuggono via
da qualche remoto sfacelo;
ma quale, ma dove egli sia,
12non sa nè la terra nè il cielo.

Si sente un galoppo lontano
più forte,
che viene, che corre nel piano:
16la Morte! la Morte! la Morte!

Commenti

Post popolari in questo blog

IL SORRISO - RIASSUNTO MODELLO (CIRCA 200 PAROLE)

LA CARRIOLA DI PIRANDELLO: RIASSUNTO E COMMENTO

DOMANDE E RISPOSTE ODISSEA VOSTRE (corretto)