MATERIALE TERTULLIANO

 TERTULLIANO - QUESTIONI DOTTRINALI

Inizio da un’essenziale biografia. Nasce a Cartagine tra il 150 e il 160 da genitori pagani. Istruito in retorica e diritto esercita forse  l'avvocatura in Roma, si converte  al cristianesimo intorno al 195, torna in Africa e compone scritti in lingua latina in difesa della Chiesa (la sua produzione apologetica)  e contro pagani ed eretici. Rigorista dal punto di vista sia etico sia dottrinale, nel 213 aderisce  a una delle sette più note per l'intransigenza e il fanatismo, quella dei Montanisti, che in vecchiaia abbandona per dar vita alla setta dei Tertullianisti. Ci sono pervenuti circa quaranta suoi scritti, tra i quali ricordiamo Ad nationes, contro i pagani,  l' Apologeticum,  composti entrambi nel 197, e il  De praescriptione haereticorum, di poco successivo. Numerosi gli scritti che entrano nel merito di comportamenti sociali apertamente condannati:   De spectaculisDe idolatria, De virginibus velandis, De cultu foeminarum. Quanto all’adesione al montanismo, fondato da  Montano, essa lo porta ad aderire all’idea di una fine imminente del mondo, alla quale è necessario prepararsi con rigoroso ascetismo. In merito a questioni etiche, l’intransigenza di Tertulliano si manifesta sotto forma di critica all'immoralità degli spettacoli teatrali e circensi o delle acconciature e dei vezzi femminili. Non si conosce esattamente l’anno della sua morte, ma probabilmente va collocato dopo il 220.

Nella vulgata scolastica, liceale quando non universitaria, Tertulliano viene relegato in una posizione al contempo eccentrica e marginale. In realtà, negli ultimi cento anni, si sono moltiplicati studi storico-filosofici, religiosi e anche letterari della sua opera. Una delle finalità che accomuna tutti i ricercatori, a qualunque campo appartengano (siano filosofi, teologi o letterati) è quella di superare una sorta di pregiudizio classicistico a causa del quale si  consideri l’intera produzione tardo imperiale (come la si può sommariamente definire cronologicamente) espressione di una decadenza, almeno rispetto al classicismo che trova modo di manifestarsi al limite per tutto il corso del I secolo d. C., ma non oltre. Se si supera  questo pregiudizio, è possibile scoprire che non pochi autori, cristiani o pagani, di questo periodo esprimono concetti e praticano stili espressivi di grande pregio e interesse, per tutte le branche del pensiero appena elencate.

Possiamo ora decidere di circoscrivere la nostra conoscenza di Tertulliano ad alcuni contenuti. Inizio da un argomento cruciale. Il Dio in cui crede Tertulliano. La risposta alla domanda che ne deriva, in quale Dio crede Tertulliano?, è più difficile da trovare di quanto si possa pensare, una volta che lo si sia un po’ troppo semplicisticamente  definito apologeta del II secolo d. C.  La sua posizione infatti è  complessa e ricca di sfaccettature, alla cui moltiplicazione concorre senz’altro  il suo statuto di letterato e filosofo, oltre che quello di teologo;  di qui il fatto che l'aspetto linguistico sia di primario interesse nelle sue opere, perché le scelte lessicali sono sempre il segno di precise scelte teoretiche. A questo si aggiunge la centralità della componente polemica e irriverente, nonché  l'assoluta libertà di pensiero, che lo porterà negli ultimi anni a staccarsi dalla Chiesa ufficiale, che già si stava configurando nettamente da almeno un secolo, col contributo, come più volte ho ripetuto, dell’apostolo Paolo di Tarso. È difficile insomma dare un'immagine definita del deus tertullianeo poiché il Nostro la arricchisce di molteplici sfumature e soffermarsi su di un unico aspetto può essere fuorviante e limitativo. Anche l'azione di Dio è inoltre un'azione diversificata in base al destinatario. Tuttavia è possibile individuare almeno due cardini intorno a cui ruota  la speculazione teologica di Tertulliano: l'unicità di Dio e il suo aspetto relazionale, che si esplica innanzi tutto nella forma trinitaria. In un’opera a contenuto polemico, l’Adversus Hermogenem, databile intorno al 205 d.C. , Tertulliano sviluppa un'articolata invettiva contro Ermogene, considerato un platonico vicino alla corrente degli gnostici, dai quali si distingue poiché non ritiene come loro che ci sia un Demiurgo malvagio, accanto al Dio buono. Piuttosto Ermogene, influenzato, secondo quanto ci testimonia Tertulliano, soprattutto dalla filosofia, nega la creatio ex nihilo ed afferma che la materia semper fuerit, neque nata neque facta. Dio dunque fecerit omnia ex materia.Tertulliano nei primi paragrafi della sua opera, dopo aver presentato Ermogene come un uomo dissoluto, sfrontato e libidinoso, spiega come egli arrivi a dimostrare che la materia è eterna. In primo luogo Dio non può creare dalla propria natura, perché o la creazione comporterebbe una divisione in parti, ma all'essere perfetto non compete la divisibilità, oppure se creasse dall'interezza del suo essere senza diminuzioni sarebbe contemporaneamente totalità e non totalità. Quindi Dio non crea da sé perché dovrebbe divenire, ma non può perché Egli è, oppure dovrebbe non essere, ma in tal modo non potrebbe agire. In secondo luogo il male non può essere originato da Dio, ma poiché esiste, è necessario che ci sia qualcosa che faccia da depositario per il male, e dunque la presenza di una materia innata et infacta è necessaria per salvaguardare l'assoluta bontà di Dio. Infine Dio è da sempre Dio e Signore, dunque ci deve essere qualcosa su cui da sempre Dio esercita la sua signoria, nella fattispecie la materia. Tertulliano inizia la sua confutazione proprio dall'ultima argomentazione; egli afferma che Dio è il nome della sostanza, mentre Signore è il nome del potere, dunque questo secondo appellativo non riguarda l'essenza di Dio, ma una sua capacità. Tertulliano riprende implicitamente la distinzione aristotelica della predicazione relativa secondo la quale un padrone è detto tale solo relativamente ad uno schiavo, per cui Dio non è Signore per essenzama solo in relazione alle realtà su cui esercita il suo potere. Ma nel racconto della Genesi è presentato solo Dio con se stesso, Egli diventa Signore solo dopo aver creato l'uomo su cui può esercitare la sua signoria. Per concludere Tertulliano afferma che se la materia è innata allora deve essere libera e non sottoposta ad alcun Signore, perché solo ciò che dipende da qualcos'altro può essere sottomesso. L'esistenza della materia perciò non è giustificabile con l'appellativo di Signore attribuito a Dio (appellativo che tra l'altro egli non ha da sempre, ma che acquisisce solo dopo la comparsa del soggetto uomo su cui esercitare il potere). Dio prima è Dio, poi diventa signore una volta creata la materia. Anche l’eternità della materia viene puntualmente smontata da Tertulliano, arrivando a sostenere tra l’altro (mi limito a questo dettaglio) che nel caso in cui la materia (comprensiva del male di cui è depositaria) fosse eterna, si manifesterebbe in tale sua eternità la debolezza di Dio, che non è in grado di soggiogarla. In conclusione, Tertulliano preferisce sostenere che l’esistenza del male sia connessa con l’atto volontario da parte di Dio di creare la materia, quindi come un portato della sua onnipotenza, piuttosto che indebolirne l’essenza ammettendo che di fronte al male Dio è appunto impotente, trovandosi di fronte a un’altra forma di eternità oltre alla sua (l’onnipotenza, se ne evince, è un attributo per Tertulliano più importante della bontà).  Tuttavia il male, connesso con la materia, non è eterno: finirà col giudizio universale. Anche questo è portato da Tertulliano a motivo invalidante della tesi di Ermogene, che annette alla materia e al male la qualità dell’eterno che non appartiene loro. Restando ancora un attimo nel solco della domanda da cui sono partita, tratto la questione della creazione dal nulla: Tertulliano la descrive come un atto assolutamente trascendente che nulla ha a che fare con un agire artigianale. Egli espone una teologia negativa più forte perché, oltre a non poter definire Dio poiché incapaci di conoscerlo, non si può nemmeno capire il modo in cui Egli agisce. Ciò che emerge è che si tratta di un agire che opera attraverso sophiam, valentiam, sensum, sermonem, spiritum e virtutem, dove sensus indica il pensiero e virtus, in senso prettamente romano, la forza più che un elemento etico. Si tratta dunque di un Dio capace valente e forte, tanto da portare all'esistenza, senza bisogno di alcun sussidio, tutto il cosmo dal nulla. Egli inoltre è mosso dalla sua sapienza ed opera attraverso degli elementi ineffabili come il pensiero, la parola e lo spirito. La conferma di una tale impostazione si può reperire anche nell'uso della terminologia impiegata da Tertulliano lungo tutto il trattato. Dio infatti risulta un auctor, unus et unicus, che fecit et condidit, in qualche caso constituit et instituit il mondo, mosso da una voluntas che esprime il senso di forza del divino. Scompare quasi del tutto il termine artifex e non sono mai usati fingo, formo, plasmo, nemmeno nella citazione di Gn. 2,7. Tertulliano in altre opere quando cita questo passo riporta il verbo finxit, qui invece ricorre al più neutro fecit, mitigando l'immagine dell'uomo plasmato. Il motivo di tale variazione è evidente in quanto, in un trattato in cui l'impegno del Nostro è tutto teso a dimostrare la creatio ex nihilo e l'inutilità di porre una materia increata, la descrizione della nascita dell'uomo come plasmazione dal fango avrebbe indebolito l'impianto argomentativo. Egli dunque abbassa i toni ed equipara la terminologia di Gn. 2,7 a quella di Gn. 1,26-27. [...]

Quanto alle persone trinitarie, Tertulliano sostiene abbiano  la stessa origine, ed in questo è salvaguardata l'unità, ma siano distinte nel grado; la pluralità perciò non implica per forza divisione e quindi non rischia di cadere in una forma di politeismo. Essa inoltre non mina le basi della monarchia, ossia del potere dell'unico Dio. Tertulliano cita l'esempio del re e dei suoi ministri, attraverso i quali egli opera: essi non depotenziano il potere di comando del re, così come gli angeli non tolgono il primato a Dio. Cristo e lo Spirito allora operano in nome del Padre e sono consortes substantiae Patris.

In conclusione Tertulliano non presenta un'immagine omogenea del divino, ma la sua impostazione prende sfumature differenti a seconda del bersaglio polemico che ha di fronte. Tuttavia è possibile delineare due grandi tendenze che si rispecchiano nelle argomentazioni e che determinano un cambiamento nell'uso del linguaggio impiegato. In ambito cosmologico Tertulliano, intento a salvaguardare l'unicità di Dio e la Trinità intesa come unità nella distinzione, descrive un Dio trascendente, che agisce in modo indiretto attraverso il suo pensiero, la sua sapienza e la sua forza. Si tratta di una divinità che determina la sua azione attraverso la sua volontà, talmente forte da permettergli di creare il mondo senza l'ausilio di un supporto materiale. L'esecutore della sua volontà è in primis Cristo e poi lo Spirito, il cui ruolo però viene evocato da Tertulliano più che indagato in modo esaustivo. Il Figlio, generato, è la Sapienza di Dio ed opera al posto del Padre eseguendo la sua volontà. Ciò determina però un ulteriore allontanamento di Dio dal mondo e dall'uomo perché è sempre e solo Cristo che si relaziona con le creature, mentre Dio rimane in qualche modo isolato. Tertulliano scivola suo malgrado verso un'immagine che richiama quelle dei sistemi gnostici e platonizzanti, in cui il divino era separato dal mondo da una serie gerarchica di elementi intermedi. A rendere tale posizione più difficile da sostenere c'è l'assunto corporeistico dal quale egli non si allontana mai. La situazione muta in ambito antropologico in quanto Tertulliano è mosso dalla necessità di difendere il ruolo positivo, o almeno neutro della carne. Egli presenta un Dio artigiano che modella ed entra in contatto con l'uomo in modo diretto. Dio, anch'Egli corpo, non disdegna di offrire suo Figlio alla condizione carnale perché non la ritiene indegna. L'assunto corporeistico, dunque, nell'antropologia gioca a favore della posizione di Tertulliano, mentre nella cosmologia trinitaria rende la questione più ambigua. Il Nostro perciò si fa portatore di due istanze tipiche della sua epoca: da una parte la necessità di salvaguardare la trascendenza divina, dall'altra l'esigenza in campo etico e antropologico di porre un collegamento diretto tra Dio e l'uomo. Ecco perché il deus tertullianeo si può definire come oscillante tra il polo del deus faciens e quello del deus figulator (che plasma).

Una semplificazione del pensiero di Tertulliano ha anche portato ad attribuirgli l’affermazione credo quia absurdum, che non risulta letteralmente presente in nessuno scritto, anche se vi si avvicina concettualmente l’idea, delineata precedentemente, secondo cui Dio sia un ente inconoscibile per vie razionali, da cui può ben conseguire l’accettazione di un assurdo intrinseco al concetto di Dio, per raccapezzarsi col quale non resta che affidarsi alla fede. D’altra parte, in parziale contraddizione con questa sorta di proclamazione esclusivamente fideistica, c’è lo sforzo dimostrativo, condotto con metodi filosofici, di cui ho appena dato testimonianza per quanto concerne la natura di Dio e le caratteristiche dell’atto creatore.

Non è invece una scorretta semplificazione il concetto di anima naturaliter christiana, dal quale prese ispirazione anche Manzoni nel proporre ai lettori dei Promessi sposi  l’anima candida di Lucia Mondello. L’espressione risale all’Apologeticum, precisamente al capitolo in cui l’autore, sotto forma di un’esclamazione, riconduce la sapientia christiana a un dono di natura, un’elargizione che si fa risalire a quell’onnipotente divinità di cui ho delineato prima le caratteristiche. Questa precisazione, relativa alle caratteristiche peculiari della sapientia christiana mette da parte il sospetto d’irrazionalismo supportato dal credo quia absurdum: non mette infatti in discussione la ragione, ma il pregiudizio secondo cui l’accesso alla verità sia precluso alle anime semplici. La verità, in quando depositata direttamente in tutte le anime, è a portata di chiunque, qualunque sia il grado di ingegno e cultura in suo possesso. A Manzoni piacque molto la  prospettiva di Tertulliano, al punto che plasmò il suo personaggio più amato (da lui), ovviamente Lucia, come una sorta d’incarnazione perfetta dell’anima naturaliter christiana. Lucia è in grado di sentire e cogliere profondamente quello intelletti sopraffini, nel senso erudito del termine, colgono solo lontanamente o sono destinati a non cogliere mai.  Manzoni coglie così anche l’occasione per suggerire come operi la grazia: illuminando gli spiriti umani a prescindere da quello che tocca loro in sorte come destino sociale.

Infine tratto, come ultimo argomento la questione del contrasto giuridico morale  tra impero romano e cristiani. Prima, una breve parentesi sulle persecuzioni storicamente accertate. Persecutori dei Cristiani furono gli imperatori Nerone (nel 64), Domiziano (nel 95), Marco Aurelio (nel 177), Decio (nel 250), Valeriano (nel 257) e Diocleziano (nel 303). Particolarmente feroci furono le persecuzioni di Nerone, Decio, Diocleziano. Nel 101 Plinio minore, trovandosi a governare la Bitinia, in una lettera (10,96) chiese all'imperatore Traiano istruzioni sul modo di procedere contro i Cristiani.  Eran soliti radunarsi in un giorno convenuto prima del sole, per recitare alternatamente un carme in onore di Cristo, come di un dio; si obbligavano con giuramento a non commettere furti, latrocini, adultèri, a non tradir la fede, a non rifiutarsi di restituire il deposito. Fatto ciò avean costume di separarsi e poi di nuovo riunirsi per consumare un cibo comune e innocente . Plinio aveva voluto andare a fondo, sottoponendo a tormento due ancelle, chiamate ministre, e non aveva trovato altro che una superstizione storta, smodata. La cosa gli era sembrata degna di consultazione, in quanto correvan pericolo molte persone di ogni età, di ogni condizione, di entrambi i sessi: ché non solo per le città, ma per i villaggi e i campi si era diffuso il contagio di quella superstizione, che sembrava potersi arrestare. La risposta di Traiano era stata: I Cristiani non si devono cercare: ma se denunziati e accusati, si devono punire, a meno che non neghino di essere Cristiani, provandolo col fatto, vale a dire, supplicando gli dèi dei Romani. Però le denunzie anonime non devono essere accolte: sarebbe un pessimo esempio e contrario allo spirito del secolo.  Una procedura determinata e stabile contro i Cristiani non è comunque documentata. Come la loro colpa era stata fatta rientrare nel delitto di lesa maestà (28,2), così il procedimento punitivo e la gravità dipendeva dal temperamento del persecutore, sopra tutto nelle province più lontane da Roma, e dal grado di resistenza opposta dai perseguitati. Di solito i Cristiani, che cedevano davanti agli orrori dei supplizi comminati, rinnegando la loro religione e adempiendo, a conferma dell'apostasia, a qualche rito, erano risparmiati, ottenendo l'impunità. Coloro, invece, che resistevano (e il martirologio degli eroi di questa Fede autorizza a credere fossero i più), venivano spietatamente fatti morire. Dall'Apologetico di Tertulliano prendiamo che si ricorreva  contro i Cristiani ai lavori forzati nelle miniere, alla relegazione nelle isole (12,5), a torture e lacerazioni (2,15; 21,28), ungulae, croci, fiamme, decapitazioni, bestie feroci (12,3; 30,7; 49,4; 50,3), lapidazioni, roghi (37,2; De spect. 27). Un testo che affronta un caso specifico del contrasto oggetto di quest’ultima parte del discorso è il De corona. Tertulliano lo scrisse prendendo spunto da un fatto storico accaduto nel 211 nell’accampamento di Lambesi, dove stazionava la III Legio Augusta: un soldato cristiano si rifiutò di cingere la corona militare prima di ricevere il donativum (supplemento di denaro) offerto ai soldati dagli imperatori. Il 4 febbraio 211 a Eboracum, in Britannia, era morto Settimio Severo, che in precedenza aveva associato al trono i figli Aurelio Antonino (Caracalla) e Settimio Geta. In seguito Caracalla, ucciso il fratello Geta (19 dicembre 211), rimase unico imperatore (febbraio 212). Poiché qui si parla di “imperatori” (praestantissimorum imperatorum: 1, 1), l’episodio in questione va collocato con tutta probabilità all’inizio dell’impero congiunto dei due figli di Settimio Severo, quando assunsero insieme il potere del padre che, morendo, aveva chiesto loro di essere generosi con i soldati.  Questi dati storici ci inducono a situare la composizione dell’opera nel 211, data comunemente accolta dagli studiosi. L’episodio di Lambesi suscitò scalpore: un fatto che Tertulliano riporta con  vivacità e brevità narrativa. Le frasi si susseguono rapide e incisive, suscitando un intenso coinvolgimento emotivo. Traspare un’appassionata ammirazione per questo soldato che, a differenza dei suoi correligionari, mostrò coraggio e coerenza nel dichiarare la sua fede cristiana, pur sapendo d’incorrere nel martirio: non fu intimorito dallo scherno o dalla disapprovazione degli altri, né dall’umiliazione di essere radiato dall’esercito, né dalla prospettiva di sacrificare la vita. Al tribuno che gli chiese quale fosse la ragione del suo gesto, così diverso e singolare, il soldato rispose di essere cristiano e per questo motivo ritenne di doversi comportare diversamente (Christianus sum: 1, 2). Il soldato non contestò la vita militare in se stessa, come dimostra il fatto che fino ad allora era rimasto nell’esercito, ma di non poter compiere un gesto che considerava idolatrico, e quindi incompatibile con la fede cristiana (Negabit ille sibi cum ceteris licere). L’episodio, proprio a motivo della sua singolarità, ebbe un’immediata ripercussione ecclesiale. Con quel gesto il soldato non solo si candidò al martirio, ma suscitò all’interno della comunità cristiana un dibattito sulla liceità per un cristiano di militare nell’esercito imperiale prestando il dovuto giuramento militare. Tertulliano, sempre attento e sensibile ai temi della fede e della vita cristiana, prese occasione da questo fatto per approfondire l’argomento, allargando il campo della riflessione alla liceità morale per i cristiani di adottare gli usi comuni pagani, tra cui quello di ornarsi il capo con corone in particolari circostanze pubbliche. Egli vede in questo soldato, di cui non ricorda il nome ma la splendida testimonianza (relucebat: 1, 1), un modello per tutti di coerenza evangelica che giunge fino al sacrificio della vita. Con questo libro Tertulliano intende offrire una risposta teologica al problema morale sollevato dal gesto coraggioso di quel soldato. E poiché una norma morale deve necessariamente fondarsi sulla rivelazione divina, era necessario esaminare anzitutto l’insegnamento della Parola di Dio contenuta nelle Scritture. L’obiezione di fondo era questa: “Ma dove è scritto che ci è proibito di portare la corona?” (Ubi autem prohibemur coronari?: 1, 6). Tertulliano riconosce che la Scrittura non afferma nulla di esplicito a riguardo, né a favore né contro; sebbene egli tenti di introdurre il principio secondo cui è vietato quanto la Scrittura non permette esplicitamente. Bisogna quindi ricorrere alla tradizione ecclesiale che, in questo caso, corrisponde alle consuetudini ecclesiastiche. Queste consuetudini, espressioni storiche con cui la Chiesa traduce il messaggio evangelico, sono invalse nella comunità cristiana in forza di prassi consolidate nel tempo e comunemente osservate (traditio... autrix et consuetudo confirmatrix et fides obseruatrix: 4, 1). Ora, secondo questa tradizione non scritta, l’uso delle corone floreali appare estraneo alla disciplina cristiana che ignora una simile usanza assente nell’Antico come nel Nuovo Testamento. A questa motivazione negativa, cioè l’assenza di una prassi con relative testimonianze, ne aggiungeva una positiva, ossia l’irragionevolezza di questa consuetudine, contraria alla natura delle cose. I fiori, per colore e profumo, sono ordinati a dei sensi precisi: non sono fatti per essere messi in testa. Per un cristiano, poi, l’uso delle corone è moralmente illecito per la loro natura idolatrica, sia a motivo dell’origine poiché richiamano vicende di dèi e di eroi mitologici onorati con culto demoniaco, sia in rapporto alle circostanze dell’uso. Ma il problema circa la liceità o meno della corona militare rimanda alla questione di fondo, ossia al problema sulla liceità o meno del servizio militare. Secondo Tertulliano il mestiere delle armi non si addice a un cristiano, sia per motivi contrari alla fede (idolatria), sia per motivi contrari alla morale cristiana (omicidio, violenza). Poiché alcuni obblighi militari si configurano come peccati, il servizio militare va evitato tenendo presente però una distinzione: non è permesso a un battezzato entrare nell’esercito; tuttavia è permesso a un pagano, diventato cristiano, di restare nell’esercito con l’impegno a non tradire la fede cristiana. Ciò che conta è ricevere la corona di Cristo, ossia il premio della vita eterna.

Da queste considerazioni si può ricavare l’idea che per Tertulliano, diversamente da Paolo, il contrasto fra cristianesimo e impero romano fosse molto profondo e non risolvibile con l’ammonimento a restituire a cesare quel ch’è di Cesare e a Dio quel ch’è di Dio. Di qui, probabilmente, il suo progressivo allontanamento dal cristianesimo più ufficiale e la fondazione di un proprio ordine. 

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