PIRANDELLO NOTE SPARSE

 IL FU MATTIA PASCAL

Il fu Mattia Pascal: pubblicato per la prima volta a puntate sulla “Nuova Antologia”, prende spunto da un  trafiletto di giornale  e, per indicazione fornita dallo stesso Pirandello, dalla Misteriosa storia di Peter Schlemihl di von Chamisso, che narra la storia di un uomo che fa un patto col diavolo e perde la propria ombra per avere la ricchezza. Nel caso di Mattia Pascal, l’ombra perduta è ovviamente rappresentata dall’identità anagrafica, della quale il protagonista pensa di poter fare a meno, anzi  della quale pensa di potersi vantaggiosamente liberare per sentirsi per così dire un uomo nuovo, per ricominciare a vivere. Ammogliato, dopo rocambolesche vicende, con Romilda Pescatore, Mattia è costretto a convivere nel suo paese natale (Misagno in Liguria)  con una suocera invadente ed è pure travagliato da  problemi finanziari. Deciso ad abbandonare la famiglia, pronto a imbarcarsi per l’America, si ferma a Montecarlo per giocare al casino e vince una cospicua somma. Decide allora di tornare a casa, ma sul treno gli capita di leggere un trafiletto su un giornale che riporta la notizia della sua morte,  a seguito di suicidio: sua moglie e sua suocera hanno infatti riconosciuto come suo il cadavere di uno sconosciuto trovato annegato nella gora di un mulino sito in un podere di sua proprietà. Dapprima sorpreso, Mattia presto gioisce: è l’occasione propizia per liberarsi della sua fastidiosa vita. Sotto il nome di Adriano Meis, va a vivere a Roma nella pensione di Anselmo Paleari e ricomincia a tessere relazioni. Presto però deve rendersi conto che una rete invadente di costrizioni, obblighi, finzioni, prende a tessersi, suo malgrado o per sua collaborazione, intorno a lui, senza contare che la mancanza di “ombra”, cioè di visibilità anagrafica, gli rende oggettivamente impossibile procedere a azioni anche comuni e banali, come sposarsi con la figlia di Anselmo Aleari, Adriana, o denunziare chi gli ha rubato una cifra cospicua. Resosi conto di essere forestiero della propria stessa vita, simula il proprio suicidio e ritorna come Mattia Pascal al paese natìo, dove la moglie si è risposata  e ha una bambina e dove egli non può che ritornare, anche lì, come un forestiero. Torna a vivere con  la vecchia zia,  passa il tempo in biblioteca dove il vecchio don Eligio ha ripreso il posto di bibliotecario ch’era stato di Mattia e soprattutto scrive la sua strana storia in una chiesetta sconsacrata, non senza periodicamente recarsi a vedersi morto nel cimitero del paese e rispondere a chi gli chieda chi sia, “il fu Mattia Pascal”. Uno dei motivi di fondo del romanzo è appunto rappresentato dal senso di estraneità alla vita, il mancato rapporto del protagonista con la realtà in una dimensione di positività, pienezza e totalità. In una prima fase questo senso di incompletezza deriva da ragioni sociali (il matrimonio, la famiglia), in un secondo tempo, al contrario, dall’assenza di visibilità e riconoscimento sociale, dal suo non avere “personalità giuridica”. La conclusione del romanzo è inevitabilmente pessimista: Mattia Pascal raggiunge una relativa serenità col diventare uno spettatore dell’esistenza, non a caso uno scrittore, dal momento che, secondo una massima condivisa da Pirandello, la vita o la si vive o la si scrive. Mattia Pascal è dunque uno dei primi “stranieri” del Novecento, e non a caso il personaggio al quale Pirandello dedica la prima edizione del saggio sull’umorismo: diventando spettatore della sua personale tragicommedia, egli può ben provare gli effetti del sentimento del contrario, così come può sperimentare la straniante sensazione di recarsi a omaggiare la propria tomba.
-----------------------------------------------------------------------------------------------------------

APPUNTI VARI SU PIRANDELLO

 Ora avviene che a certe mie domande più d'uno s'aombri e s'impunti e recalcitri furiosamente, perché forse gli sembra ch'io provi gusto a scomporlo dalla serietà con cui mi s'è presentato. Con pazienza, con buona grazia m'ingegno di far vedere e toccar con mano, che la mia domanda non è superflua, perché si fa presto a volerci in un modo o in un altro; tutto sta poi se possiamo essere quali ci vogliamo. Ove quel potere manchi, per forza questa volontà deve apparire ridicola e vana. Non se ne vogliono persuadere. E allora io, che in fondo sono di buon cuore, li compatisco. Ma è mai possibile il compatimento di certe sventure, se non a patto che se ne rida? (novella della sezione L'uomo soloLa tragedia d'un personaggio)

Siamo solo all'inizio  della novella è già viene posta la questione di quale sia il ruolo autoriale: Pirandello descrive qui l'atto del concepimento narrativo (non si tratta di una metafora), per cui una volta che il personaggio è stato delineato, ovvero nel linguaggio da lui istituito  vive è, poi inizia a comportarsi, agire, rapprendersi in maschere (sì, a questa immaginazione s'intrecci apure quella di Uno, nessuno, centomila) e l'Autore, suo creatore e demiurgo possiamo dire per comodità discorsiva, dà luogo, si consente, un'azione manipolatrice dalla quale conseguono pure dei sentimenti, quelli che nel passo riportato sono citati come compatimento  e riso (umoristico naturalmente, non comico). Notiamo un altro dettaglio: Pirandello, che dà udienza e quindi ascolta, si presenta in questo passaggio come uno che fa domande, di fronte alle quali alcuni personaggi fanno le bizze, diventano permalosi, come se cogliessero nella manipolazione autoriale uno svantaggio, un danno per loro, precisamente per la serietà con cui si sono presentati. Esiste quindi un momento in cui il personaggio, nato vivo, ha coscienza di sé e matura un voler essere autonomo che però confligge con quello che l'Autore ha intenzione (ragioni artistiche? sì, ma sempre anche esistenziali, se non ci piace filosofiche) di fare di lui. Il voler essere del personaggio può non coincidere con il dover essere che l'Autore si sente in diritto di imporre, dato che il personaggio da lui è nato. Il nodo qui messo in luce è la distanza che intercorre fra una proiezione di sé, un voler essere, e come si riesce a essere davvero. L'Autore, con le sue domande, dice di condurre i personaggi a toccare con mano l'unico modo in cui possono essere davvero, a dispetto di quello che  in cuor loro vogliono. Come una materia che ha in potenza qualcosa, ma non riesce a renderla atto, sicché necessita di un intervento esterno che la renda solo e esclusivamente quello che essa effettivamente può arrivare a essere. L'udienza pirandelliana si configura così come un momento in cui l'Autore chiarisce (si sforza di chiarire, il processo si rende evidente) al personaggio, ma anche a se stesso,  come egli possa permettersi di essere, di là dalle sue aspirazioni. Collego ora anche il riferimento, trattato in classe, al dottor Fileno. Fileno è addirittura il personaggio di un altro autore, sicché la questione della manipolazione viene per così dire transitoriamente distanziata dall'Autore della novella in questione. Il voler essere di Fileno è particolarmente ambizioso, dato che presuppone un cambiamento di status impossibile da produrre, ma passibile solo di essere simulato: diventare il personaggio di un altro autore, la creazione di un altro, quando si sia già nati così può solo manifestarsi come plagio, sostiene Pirandello, che rifiuta recisamente di compiere una simile operazione, poco prima della conclusione della novella. Che a questo punto non può che essere condotta a un finale nichilistico: il cannocchiale rivoltato, la trovata degna di nota che rende interessante il personaggio di un altro a un Pirandello assediato dai suoi personaggi, se puntato su quando sta accadendo, non solo nella novella ma nel mondo in generale, restituisce il vuoto assoluto, racchiuso nell'icastica formula di  niente e nessuno.  Di qui il suggerimento, che è un congedo, per Fileno di tornarsene al suo posto, lasciando perdere la stravagante ambizione. 
Allora, adesso proviamo riconoscere in tutto questo una metafora, ricostruendola da principio. I pilastri  sono tre verbi servili: volere, dovere, potere. Si nasce (persone/personaggi) e la volontà non c'entra (dovere); si inizia a vivere e (persone/personaggi), si possiede (viene attribuita, concessa, si manifesta) una volontà; si procede con l'esistenza e si manifesta, a gradi e intensità diversissime a seconda dei casi, l'effettiva possibilità di essere come si vuole. C'è qualcuno che osserva tutto questo. E nell'osservare condiziona (a differenza dell'occhio divino che pur avendo la visione del tutto non lo influenza), anche solo perché manifesta dei sentimenti (compatimento e riso, ossia quanto consegue all'umorismo, sentimento del contrario). Però escluderei si tratti semplicisticamente di determinismo. Pirandello ha soprattutto trovato modo di descrivere quel terreno infido nel quale si manifestano e crescono, come piante invasive, insofferenza e insoddisfazione. Come se le cose non dipendessero da me, che sono insoddisfatto e insofferente, ma da altro, ossia circostanze, destino, divinità.
 Qui si manifesta una seconda metafora, che ci esime dal trovare tutte le sue corrispondenze, vista la potenza significante che scaturisce già solo da una sua evocazione d'insieme: quella della vita come trappola in sé, tematica alla quale Pirandello dà spazio in una novella specifica, La trappola, inclusa nella stessa sezione L'uomo solo, cui appartiene questa novella. Ricapitolando: sono in trappola in personaggi, a dispetto della longanimità dimostrata dall'Autore nell'udienza, perché via via si definiscono e  non possono che restare quello che si sono manifestati una volta per tutte diventando così immortali come sono; in trappola gli umani che, benché insofferenti e insoddisfatti (quelli che lo sono, e che certo affollerebbero lo studio di Pirandello...) non possono che continuare a essere come via via la trappola-vita li ha resi. Essere personaggi di Pirandello è una trappola, come venire al mondo lo è. 
dato che l'ultima parola deve sempre averla il testo. 

CINEMA E LETTERATURA NEL PRIMO NOVECENTO
Dal nome di un furgone della polizia a cavallo viene la denominazione del primo studio cinematografico americano: Black Maria (di solito pronunciato Black "Mària"),   un piccolo palcoscenico di posa dalle  pareti interne  dipinte di nero, per dare uno sfondo omogeneo ai filmati, e la parte superiore e frontale apribile per poter garantire la massima illuminazione con la luce solare, essendo la pellicola usata (la 35mm di Kodak) ancora poco sensibile. Poteva anche  essere ruotato alla ricerca della migliore esposizione solare. In questa  l'operatore William Kennedy Laurie Dickson girò i primi brevi film per Thomas Edison e il suo Kinetoscopio. Il kinetoscopio è dunque  di qualche anno anteriore alla prima proiezione del 28 dicembre 1895 dei fratelli Lumière al Cafè de ParisNel  gennaio 1894 venne ripreso Fred Ott's Sneeze, un breve filmato di un uomo che starnutisce in maniera teatrale. Il cinema come narrazione nasce dunque da uno starnuto: nella Black Maria in cui Laurie Dickson filma il suo assistente Fred Ott.  Primo film ad essere depositato per il copyright.
Il cinema compie il suo primo passo utile a definirsi appunto come forma di narrazione: descrive un atto nel suo compiersi, con la sua specifica durata. In questa sua prima espressione palesa tutta la sua specificità rispetto alle altri arti: nessun’arte, come il cinema in questa fase iniziale, lavora con un mezzo espressivo che registri passivamente la realtà (il sogno del naturalismo!) La parola, il suono, il colore, la forma plastica sono in sé una cosa diversa, eterogenea dalla realtà che ci danno l’illusione di trasfigurare o di riprodurre. Poi anche il cinema iniziò a raccontare, un dramma per iniziare, ma non un dramma “inventato” da lui, bensì un dramma preesistente: fu nel 1897, quando ai fratelli Lumière venne l’idea di riprendere la Passione di Oberammergau, peraltro non quella che si teneva nella città bavarese (celebre in tutto il mondo) ma una meno famosa che si svolgeva a Horitz. Il film che ne derivò si componeva di 13 scene della vita di Cristo della durata di 17 metri di pellicola per ogni scena, una superproduzione per l’epoca.  Sia i fratelli Lumière sia  Th.A. Edison, si limitano comunque a un cinema-verità, che offre al pubblico esclusivamente documentari.
È  G. Méliès a cambiare prospettiva, realizzando, a  partire dal 1902 film come Voyage dans la lune, ispirato ai romanzi fantascientifici di J. Verne e Herbert George Wells, e Les voyages de Gulliver, tratto da Jonathan  Swift. Il cinema diventa una macchina atta a raccontare storie:  Ch. Metz. E.S. Porter,  nel 1903 realizza negli Stati Uniti The great train robbery (L'assalto al treno), film passato alla storia come il primo western, e  lo stesso anno avvia l'ambizioso progetto di ridurre per lo schermo, in quattordici quadri e un prologo, il popolare romanzo di H. Beecher Stowe, Uncle Tom's cabin. Da allora i classici della letteratura sono arrivati quasi tutti sugli schermi, da Dante a Shakespeare, da Flaubert a Tolstoj, da Brecht ad Andersen.
La gamma di scelte e approcci è diversissima. Nel periodo del muto F.W. Murnau attinge sia alla letteratura popolare, come in Nosferatu - Eine Symphonie des Grauens (1922) (sinfonia del terrore) - per il quale il regista fu accusato di aver plagiato il romanzo Dracula di B. Stoker, così che i negativi del film vennero distrutti -, sia alla letteratura alta, come in  Tartüff (1925), dall'opera di Molière, o nel Faust (1926), in cui si sovrappongono richiami a Goethe, Marlowe e alle leggende medievali germaniche. È da notare che anche il primo film sonoro della storia, The jazz singer (1927 Il cantante di jazz), per la regia di A. Crosland, è tratto dall'omonima commedia di S. Raphaelson. Mentre per il primo kolossal in technicolor il produttore D.O. Selznick e il regista V. Fleming si rivolsero al best seller di quegli anni, Gone with the wind di Margareth Mitchell, realizzando l'omonimo film (1939Via col vento, giunto in Italia nel 1949), che ha avuto il maggior numero di spettatori della storia del cinema. In Italia, fin dal secondo decennio del 20° secolo, a un pubblico assetato di storie si proposero, seppure in filmati di poche decine di minuti, le opere di Omero, Dante, Shakespeare e D'Annunzio, portate per lo più sullo schermo in pochi rulli e senza l'indicazione degli autori. È significativo, infatti, che mentre spesso i letterati scagliavano invettive contro la nuova arte popolare, rea di non essere abbastanza 'colta', alcuni di loro, a partire da  Papini,  Verga,  Gozzano, collaboravano con il cinema in veste semi-clandestina. Nel 1914 G. D'Annunzio, dietro lauto compenso, scrive le didascalie per Cabiria di G. Pastrone, e a sua volta diventerà nel corso del tempo l'ispiratore di una ricca filmografia che va da La figlia di Iorio di E. Bencivenga (1916), a Il delitto di Giovanni Episcopo di A. Lattuada (1947), a L'innocente (1976) di L. Visconti.
 L. Pirandello, oltre a essersi ispirato al cinema per scrivere i Quaderni di Serafino Gubbio operatore, nel 1925 a sua volta ha ispirato numerosi film: da Le feu [la buonanima, il fu]Mathias Pascal di M. L'Herbier [ [L'Herbier l erbi̯é›, Marcel. - Regista cinematografico francese (Parigi 1890 - ivi 1979), una delle personalità più rilevanti del cinema europeo. La sua fama di realizzatore è legata soprattutto ai film muti. Esordì con Rose France (1918), cui seguirono:Carnaval des vérités (1920); Villa Destin (1921); El Dorado (1921); L'inhumaine (1923); Feu Mathias Pascal (1925); La vertige(1926); Le diable au coeur (1927); L'argent (1928); Le mystère de la chambre jaune (1930); Le parfum de la dame en noir(1931). Dopo l'invenzione del cinema sonoro, realizzò numerosi film; tra i più noti: Veillée d'armes (1936); La brigade sauvage(1939); Histoire de rire (1941); La nuit fantastique (1942), il migliore dei suoi film parlati; La révoltée (1947); Les derniers jours de Pompéi (1949); Hommage à Debussy (1964); Le cinéma du diable (1966); La féerie des fantasmes (1977). Fondatore (1941) e presidente (1941-69) dell'Institut des hautes études cinématographiques, presidente (1937-45) dell'Association des auteurs de films; autore di Intelligence du cinématographe (1946).] (1925), a Il fu Mattia Pascal (1937) di P. Chenal, realizzato contemporaneamente in versione francese (L'homme de nulle part), a Le due vite di Mattia Pascal di M. Monicelli (1985); da Die lebende Maske - Heinrich der Vierte (1926) di A. Palermi, tratto da Enrico IV, ed Enrico IV di M. Bellocchio (1984), a Kaos dei fratelli Taviani (1984), ispirato a quattro racconti delle Novelle per un anno; da La canzone dell'amore (1930) di G. Righelli, basato sulla novella In silenzio, a As you desire me (1932); Come tu mi vuoi) di G. Fitzmaurice, tratto dall'omonima commedia pirandelliana e interpretato da G. Garbo e E. von Stroheim.

Dunque Pirandello è stato il primo scrittore a ispirarsi per un romanzo al mondo della cinematografia con i Quaderni di Serafino Gubbio operatore, pubblicato in volume  prima nel 1916 col titolo Si gira…, poi nel 1925 con il titolo definitivo. SI tratta di un vero e proprio ricettacolo  di tematiche basilari per lo scrittore:  dal rapporto fra realtà e finzione, alla contrapposizione fra vita e non vita, al tema del progresso e dei congegni meccanici divoratori dell’uomo, alla reificazione degli individui intrappolati nella forma, al relativismo radicale che permea qualsiasi percezione e interpretazione.

PREMESSA SUI QUADERNI
I quaderni, per loro natura, hanno una struttura composita, per definire la quale può valere una similitudine attinta dalle arti visive: essi compongono un quadro alla maniera di Escher, come Scale a volta, per esempio, in cui le scale sembrano da una prospettiva salire, da un’altra scendere, da una paiono allineate e un piano, da un’altra sovrastarlo di gran lunga. Scale che fanno parte di un edificio eretto a sfida delle norme architettoniche e al contempo solido e reale, possibile perché rappresentabile; scale che tuttavia sembrano destinate a non portare da nessuna parte. Per le scale, poi, c’è sempre qualcuno che passa e, altrove, qualcuno che guarda.
Nei Quaderni le scale sono le vite dei personaggi. Talvolta paiono svolgersi in parallelo e implicare un incontro, addirittura una possibilità di procedere insieme e portare a uno stesso piano; ma poi svelano la loro vocazione più genuina: quella di essere percorsi destinati a ognuno, anche allorché non si sappia (sempre non si sa) dove conducano. Quanto al “qualcuno che guarda” della similitudine, questo spettatore è protagonista, nel testo, di un gioco di specchi moltiplicatori: è Serafino Gubbio, ma anche la macchina da presa, e poi la tigre, e noi lettori forse guidati, forse no, dallo spettatore più attento e meno sprovveduto che va compreso in questo elenco, cioè l’Autore.
Di là da questa immagine, un principio ispiratore della narrazione, un suo asse portante, è certo la contrapposizione VITA – NON VITA, alla quale si collega l’idea che vi siano dei responsabili dell’inaridimento della prima e della sua metamorfosi in seconda. Uno di questi è il progresso, la cui espressione concreta sono i CONGEGNI MECCANICI, DIVORATORI dell’uomo (la macchina da presa, la monotype, il pianoforte automatico).

Un focus sulla storia
Serafino Gubbio registra quotidianamente su pellicola storie artificiali che simulano quelle vere. Un giorno, credendo di riprendere l’azione di un film, finisce per registrare sequenze di vita vera (la scena della tigre che sbrana l’attore), scoprendo così che anche la realtà può apparire finzione. La vicenda, problematica e aperta a varie interpretazioni, pone numerosi interrogativi: la relazione tra Aldo Nuti e l’attrice Varia Nestoroff c’era stata davvero? La sequenza ripresa da Serafino in cui Aldo spara per gelosia alla Nestoroff è illusione o realtà? Al conflitto relativistico non c’è risposta. Alienazione e mercificazione.  Il romanzo è anche una denuncia degli effetti disumanizzanti prodotti dalle macchine e della riduzione di ogni ambito dell’esperienza e della comunicazione a merce: ­ Serafino, traumatizzato dalla scena della tigre, diventa muto, identificandosi così ancora più sensibilmente con la macchina da presa, che non richiede la parola, ma una mano che giri la manovella; ­ il protagonista traduce l’alienazione dell’uomo moderno, «reificato» ossia «fatto cosa» (dal latino: res, “cosa”; facere, “fare”), ridotto a oggetto; ­ i luoghi narrativi della letteratura di consumo, che offriva all’intreccio dei film dell’epoca i suoi soggetti, sono utilizzati da Pirandello in chiave tragico-umoristica; ­ la tempestosa storia d’amore, i cuori infranti, la donna fatale impersonata dalla Nestoroff, simbolicamente accostata alla tigre che divora il presunto amante, lo stesso mito di massa del cinematografo rinviano agli aspetti negativi della società industriale, che mercifica tutto e nega la spontaneità dei sentimenti.
Qualche focus sui personaggi
Serafino è l’autore dei quaderni. La definizione della sua psicologia, la sua caratterizzazione come personaggio dura per l’intera opera. Sono però isolabili alcuni momenti specifici di auto rappresentazione: l’incipit, per esempio:
“Studio la gente nelle sue più ordinarie occupazioni, se mi riesca di scoprire negli altri quello che manca a me per ogni cosa ch’io faccia: la certezza che capiscano ciò che fanno […] C’è un oltre in tutto. Voi non volete o sapete vederlo. […] Conosco anch’io il congegno esterno, vorrei dire meccanico della vita che fragorosamente e vertiginosamente ci affaccenda senza requie. […] Nessuno ha tempo o modo di arrestarsi un momento a considerare se quel che vede fare agli altri, quel lui stesso fa sia veramente ciò che sopra tutto gli convenga, ciò che gli possa dare quella certezza vera nella quale solamente potrebbe trovare riposo.”
Serafino è “un occhio che guarda”, prima ancora di presentarsi come “mano che fa girare la macchina da presa”, è lo spettatore della vita, che è quindi subito metaforicamente introdotta come sorta di ARCHETIPO DEL CINEMATOGRAFO, così da suggerire l’idea che il cinematografo sia qualcosa di superfluo. Dice poi di sé Serafino: “ Servo la mia macchinetta in quanto la giro perché possa mangiare. Ma l’anima, a me, non mi serve. L’anima in pasto, in pasto la vita, dovete dargliela voi, signori, alla macchinetta ch’io giro. Mi divertirò a vedere, se permettete, il prodotto che ne verrà fuori. Quanto al tema del superfluo, esso è espressamente introdotto quando Serafino presenta il suo amico, SIMONE PAU, detto “il filosofo”.  “Le bestie hanno in sé da natura solo quel tanto che loro basta ed è necessario per vivere nelle condizioni a cui furono, ciascuna secondo la propria natura, ordinate; laddove gli uomini hanno in sé un superfluo che di continuo inutilmente li tormenta, non facendoli mai paghi di nessuna condizione e sempre lasciandoli incerti del loro destino.”
Nella storia c’è un personaggio che è un alter ego di Serafino. SI tratta di un violinista, la cui vita è raccontata da Simone Pau, il filosofo, che la ritiene esemplare di ciò a cui il progresso condanna l’umanità.  Egli è “un grande artista”, dice Pau, che si porta Dio sotto il braccio. Rimasto erede del violino e di una tipografia, trascura la seconda per dedicarsi al primo, fino a ridursi sul lastrico. La sua vita, vita vera, è fatta di concerti in osterie, al termine dei quali beve troppo; ogni tanto cerca lavoro in tipografie, finché si imbatte in una mostruosa monotype, nuovo modello: “bestiaccia mostruosa” al servizio della quale l’uomo diventa “peggio d’un mozzo di stalla”; cerca allora un lavoro degno del suo violino, una vita vera d’artista, e crede d’averla trovata: suonare in un cinematografo. Si presenta, ma lì lo attende la svolta finale e tragica: dovrebbe suonare per accompagnare uno strumento automatico, un pianoforte, e questo lo fa impazzire o, per meglio dire, gli fa perdere l’anima, non suona più il suo violino. Così come accadrà alla fine a Serafino (che perde la voce e si riduce a essere “mano che gira”, dopo aver filmato una “morte vera” con la sua macchina da presa) tutte le volte che l’uomo combatte con un congegno meccanico si riduce al silenzio. Al violinista è dedicato un ulteriore spazio importante nel Quaderno IV, allorché Simone Pau lo porta alla Kosmograph, la casa cinematografica, perché suoni alla tigre (che è stata portata lì per girare un film) e recuperi la voce dell’anima. Egli arriva col suo grosso naso poroso da beone (“Vedete come la vita può ridurre il naso di un uomo”) e suona “quel bislacco straccione meraviglioso” sul suo violino una musica mai udita, “limpida, dolcissima, intensa, vibrante d’infinito spasimo”: musica dell’anima e per l’anima che commuove tutti. Una serenata alla TIGRE, grazie alla quale scioglie momentaneamente un incantesimo, quello che tiene prigioniero l’uomo del violino e il violino, impedendo loro di esprimersi.
Così la narrazione fa emergere quei motivi di fondo che ho elencato prima: LA CONTRAPPOSIZIONE FRA VITA E NON VITA, LA FUNZIONE DIVORATRICE DELLE MACCHINE RISPETTO ALL’UOMO.  La contrapposizione vita /non vita è poi addirittura rintracciabile in luoghi specifici della narrazione. Ad esempio ci sono due sorta di luoghi metafisici su cui  si sofferma l’attenzione di Serafino nel Quaderno III: due reparti della Kosmograph denominati rispettivamente “Reparto Artistico e del Negativo” e “Reparto Fotografico o del Positivo”. A connotarli  come “luoghi metafisici” è l’annotazione “qua si compie misteriosamente l’opera delle macchine”. Quindi sviluppa una metafora meccanico-naturalistica molto ricercata, il cui centro propulsore è appunto la VITA-NON VITA. “Quanto di vita le macchine hanno mangiato con la voracità delle bestie afflitte da un verme solitario, si rovescia qua, nelle ampie stanze sotterranee, stenebrate appena da cupe lanterne rosse, che alluciano sinistramente d’una lieve tinta sanguigna le enormi bacinelle preparate per il bagno. La vita ingoiata dalle macchine è lì, in quei vermi soltarii, dico nelle pellicole già avvolte nei telai: Bisogna fissare questa vita, che non è più vita, perché un’altra macchina possa ridarle il movimento qui in tanti attimi sospeso.”
In perfetta antitesi a tale regno della meccanica finzione, spaventoso perfino nei suoi dettagli (quelle pellicole ossiuri…), vi è un unico luogo nel romanzo che sia vero, naturale, non superfluo: è la casa dei Nonni Carlo e Rosa, la “dolce casa di campagna” “piena del sapore ineffabile dei più antichi ricordi familiari, ove tutti i mobili di vecchio stile, animati da questi ricordi, non erano più cose, ma quasi intime parti di coloro che vi abitavano”. Notevole la simmetrica opposizione: l’oggetto inanimato, MACCHINA, divora lo spirito dell’uomo, mentre nell’unico luogo vero del racconto le COSE diventano PARTI INTIME dell’uomo.
IL RAPPORTO DI PIRANDELLO CON IL CINEMA
Il rapporto di Pirandello con il cinema fu certo contrastato. Ad esempio in un’intervista del 1929 al «Corriere della Sera», egli esprime il suo parere negativo all’introduzione del sonoro, ritenendo che avrebbe distrutto “l’illusione di realtà” propria del cinema. «La cinematografia è stata finora su una falsa strada. Ha seguitato a fare letteratura trovandosi in una doppia impossibilità e cioè: 1. nell’impossibilità di sostituire la parola; 2. nell’impossibilità di farne a meno. E con un doppio danno, cioè: 1. un danno per sé, di non trovare una sua propria espressione libera dalla parola espressa o sottintesa; 2. un danno per la letteratura la quale, ridotta a sola visione, privata del suo elemento più caratteristico, che è la parola, viene per forza ad aver diminuiti tutti i suoi valori spirituali i quali, per essere totalmente espressi, hanno bisogno di quel più complesso mezzo espressivo che è loro proprio, cioè appunto la parola. Ora,  dare meccanicamente la parola alla cinematografia è il massimo e il più brutale degli errori perché, invece di creare una maggiore illusione di realtà, ogni illusione viene ad essere irrimediabilmente distrutta con la voce impressa nel film, anche se a perfezione, per le seguenti ragioni: ­ la voce è di un corpo vivo che la emette e nel film non ci sono i corpi degli attori come a teatro ma le loro immagini fotografate in movimento; ­ le immagini non parlano, si vedono soltanto: se parlano danno la sensazione macabra di spettri o di apparizioni in cui la voce viva, in contrasto colla loro qualità d’ombre, diventa non solo innaturale ma spaventosa» (da «Corriere della Sera» Milano, 1929).
Pirandello è stato a lungo combattuto fra un’attrazione verso il cinema e un rifiuto del medesimo come arte minore e sicuramente inferiore al teatro. Già nel 1911, quando la strada dove abita a Roma si trasforma nel set improvvisato de I promessi sposi  sceneggiato da Lucio D’Ambra, Pirandello si dice interessato a un’analoga trasposizione, quella delle Confessioni di un ottuagenario di Ippolito Nievo. Poi però Pirandello opta decisamente in questi anni per il teatro, con una profonda motivazione: ha bisogno della parola-azione, non gli basta più la pagina scritta, necessita dell’azione parlata, come scriverà anni dopo: “è esattamente durante la guerra che ho sperimentato l’impossibilità di applicarmi, con calma e serenità, non dico a lavori di ampio respiro, ma addirittura alla creazione di brevi novelle. Il gusto della forma narrativa era svanito. Non potevo più limitarmi a raccontare, mentre tutto intorno a me era azione. […] Altre cose si agitavano, ribollivano nel mio spirito, che esigevano di essere espresse in una maniera immediata. […] Le cedevo tutte tese verso l’azione e verso la battaglia. Le parole non potevano più restare scritte sulla carta, bisognava che scoppiassero nell’aria, dette o gridate”.
Questo spiega allora chiaramente il passaggio al teatro. Ma per quanto riguarda il confronto con il cinema da cui pure, si è detto, è attratto?
Diamo di nuovo la parola ai Quaderni,  al passo in cui si tratta degli attori del cinematografo, passo che viene di solito sfruttato per dimostrare come Pirandello inequivocabilmente optasse per la superiorità del teatro:
“Qua si sentono come in esilio. In esilio non soltanto dal palcoscenico, ma quasi anche da se stessi. Perché la loro azione viva del loro corpo vivo, là, sulla tela del cinematografo non c’è più: la loro immagine soltanto, colta in un momento, in un gesto, in una espressione, che guizza e scompare. Avvertono confusamente, con senso smanioso, indefinibile di vuoto, anzi, di votamento, che il loro corpo è quasi sottratto, soppresso, privato della sua realtà, del suo respiro, della sua voce, del rumore che esso produce muovendosi, per diventare soltanto un’immagine muta, che tremola per un momento sullo schermo e scompare in silenzio, d’un tratto, come un’ombra inconsistente, gioco d’illusione su uno squallido pezzo di tela”.
Che cosa ci si potrebbe attendere di diverso  dall’autore che ha scritto la rivendicazione del personaggio di fronte agli interpreti umani? Noi siamo più veri di voi, rivendica il Padre nel dramma, perché “Un personaggio, signore, può sempre domandare a un uomo chi è. Perché un personaggio ha veramente una vita sua, segnata di caratteri suoi, per cui è sempre "qualcuno". Mentre un uomo - non dico lei, adesso - un uomo così in genere, può non esser "nessuno".” E ancora, di fronte alle proteste del capocomico in merito alla realtà  che il personaggio ritiene essere superiore per loro rispetto agli attori: Ah, benissimo! E dica per giunta che lei, con codesta commedia che viene a rappresentarmi qua, è più vero e reale di me! Il padre (con la massima serietà) Ma questo senza dubbio, signore! Il capocomico Ah sì? Il padre Credevo che lei lo avesse già compreso fin da principio. Il capocomico Più reale di me? Il padre Se la sua realtà può cangiare dall'oggi al domani... Il capocomico Ma si sa che può cangiare, sfido! Cangia continuamente, come quella di tutti!  Ma la nostra no, signore! Vede? La differenza è questa! Non cangia, non può cangiare, né esser altra, mai, perché già fissata - così - "questa" - per sempre - (è terribile, signore!) realtà immutabile, che dovrebbe dar loro un brivido nell'accostarsi a noi! Il capocomico (con uno scatto, parandoglisi davanti per un'idea che gli sorgerà all'improvviso). Io vorrei sapere però, quando mai s'è visto un personaggio che, uscendo dalla sua parte, si sia messo a perorarla così come fa lei, e a proporla, a spiegarla. Me lo sa dire? Io non l'ho mai visto! Il padre Non l'ha mai visto, signore, perché gli autori nascondono di solito il travaglio della loro creazione. Quando i personaggi son vivi, vivi veramente davanti al loro autore, questo non fa altro che seguirli nelle parole, nei gesti ch'essi appunto gli propongono, e bisogna ch'egli li voglia com'essi si vogliono; e guai se non fa così! Quando un personaggio è nato, acquista subito una tale indipendenza anche dal suo stesso autore, che può esser da tutti immaginato in tant'altre situazioni in cui l'autore non pensò di metterlo, e acquistare anche, a volte, un significato che l'autore non si sognò mai di dargli!”
L’attore cinematografico, dunque, non può che ingaggiare una lotta impari con quello teatrale, che già Pirandello ha messo sotto accusa, portando in scena la drammatizzazione del percorso creativo (questo è dare vita al personaggio).

IL FINALE
Ah, che dovesse toccarmi di dare in pasto anche materialmente la vita d'un uomo a una delle tante macchine dall'uomo inventate per sua delizia, non avrei supposto. La vita, che questa macchina s'è divorata, era naturalmente quale poteva essere in un tempo come questo, tempo di macchine; produzione stupida da un canto, pazza dall'altro, per forza, e quella più e questa un po' meno bollate da un marchio di volgarità. Io mi salvo, io solo, nel mio silenzio, col mio silenzio, che m'ha reso così - come il tempo vuole - perfetto. Non vuole intenderlo il mio amico Simone Pau, che sempre più s'ostina ad annegarsi nel superfluo, inquilino perpetuo d'un ospizio di mendicità. Io ho già conquistato l'agiatezza con la retribuzione che la Casa m'ha dato per il servizio che le ho reso, e sarò ricco domani con le percentuali che mi sono state assegnate sui noli del film mostruoso. È vero che non saprò che farmi di questa ricchezza; ma non lo darò a vedere a nessuno; meno che a tutti, a Simone Pau che viene ogni giorno a scrollarmi, a ingiuriarmi per smuovermi da questo mio silenzio di cosa, ormai assoluto, che lo rende furente. Vorrebbe ch'io ne piangessi, ch'io almeno con gli occhi me ne mostrassi afflitto o adirato; che gli facessi capire per segni che sono con lui, che credo anch'io che la vita è là, in quel suo superfluo. Non batto ciglio; resto a guardarlo rigido, immobile, e lo faccio scappar via su le furie. Il povero Cavalena da un altro canto studia per me trattati di patologia nervosa, mi propone punture e scosse elettriche, mi sta attorno per persuadermi a un'operazione chirurgica sulle corde vocali; e la signorina Luisetta, pentita, addolorata per la mia sciagura, nella quale vuol sentire per forza un sapor d'eroismo, timidamente mi dà ora a vedere che avrebbe caro m'uscisse, se non più dalle labbra, almeno dal cuore un sì per lei. No, grazie. Grazie a tutti. Ora basta. Voglio restare così. Il tempo è questo; la vita è questa; e nel senso che do alla mia professione, voglio seguitare così - solo, muto e impassibile - a far l’operatore.
Da questo finale si può evincere questa provvisoria conclusione: Pirandello non condanna il nuovo strumento di espressione ma la « civiltà che lo asserva e lo deforma a suo modo », l’« aberrazione naturalistica » di chi lo vuole testimone fotografico della realtà e così quanto più esso si limita alla registrazione dei fatti tanto più dalla loro vera essenza si allontana. È perciò rivelatore che Pirandello abbia ambientato la vicenda nel mondo cinematografico, e che l’operatore Serafino Gubbio, il quale aveva iniziato il diario affermando che c’è un “oltre” in ognuno di noi e nelle cose, un “di là da noi stessi”, finisca per essere « una mano che gira una manovella », pura presenza fisica, e come tale perda l’uso della parola, diventi muto come i personaggi sulla pellicola, ombre di persone vive.
IL CONFLITTO FRA FORMA E VITA
La novella La trappola, che ho letto con voi la volta scorsa, tratta il tema del conflitto fra la forma  la vita. Si tratta di una tematica che Pirandello declina in molte maniere, per tutta la sua produzione, mi spingerei a sostenere, sin  dall’inizio e per quanto riguarda tanto la produzione novellistica, quanto quella teatrale, quanto la saggistica, pensando ad esempio al saggio L’umorismo.
Proprio sul saggio, allora, occorre a questo punto soffermarsi. Ampio e documentato, pubblicato una prima volta nel 1908, e in edizione aumentata nel 1920 (tra l’altro è dedicato Alla buon’anima di Mattia Pascal, bibliotecario)  si occupa della letteratura umoristica di varie epoche e varie nazioni, procedendo a svariati distinguo che derivano per cominciare dalle differenze  nazionali nel modo di concepire il riso.
Il primo passaggio è etimologico: Pirandello fa notare che etimologicamente c’è un nesso tra umore (da cui umorismo) e malinconia. “Umore” appartiene al lessico della medicina antica, ippocratica, secondo la quale gli umori del corpo sono quattro, ossia sangue, bile gialla, bile nera (malinconia, appunto), flemma (catarro). Da questo procede la considerazione che appunto vi sia un nesso fra umorismo e malinconia (la relazione, precisa l’autore, attiene alla sfera dello spirito). Il termine umore è comunque usato normalmente in senso neutro, così da richiedere necessariamente precisazioni attributive: umore buono o cattivo, gaio, nero. I problemi e i dubbi interpretativi sul termine sorgono, sostiene Pirandello, anche in altre lingue oltre all’italiana (inglese, francese e tedesco) e alla fine tende a prevalere la faciloneria, la semplificazione: così accade che per il grosso pubblico l’autore umoristico è quello che fa ridere. Nemmeno vale, per introdurre un elemento utile di distinzione, usare al posto di umorismo la parola ironia: infatti anche l’ironia è basilarmente distinta almeno in due tipi, quella retorica e quella filosofica. La prima si esprime per via di contraddizione, voluta e fittizia, fra ciò che si dice e ciò che si vuole sia inteso. Quanto all’ironia filosofica, Pirandello ne fa risalire la definizione a Federico Schlegel che la derivò dall’idealismo di Fichte [allievo di Kant, primo dei tre idealisti, lui stesso, Shelling  e Hegel,  che sono quasi contemporanei, ma le cui teorie si superano l’una con l’altra, fino al culmine con Hegel;  quello di Fichte è stato definito da Hegel idealismo soggettivo in quanto l’Io  è l’atto del porre non solo la materia ma anche la forma dell’oggeto (tesi), del mettere in contrapposizione a ciò che si è posto (antitesi),  e del sintetizzare e comporre (sintesi)].
L’Io (che in Fichte è la sola realtà), diventa in Schlegel quello che sa  sorridere della vana parvenza dell’universo narrativo che è lui a porre e, così come l’ha posto, può anche annullarlo: di qui l’ironia filosofica di questo artista creatore che può ben prendere le distanze dalla materia e dalla forma che sono sue, senza farsi zimbello delle creazioni, ma ridendo di quella che chiama la farsa trascendentale. Finalmente Pirandello si ritiene soddisfatto: il termine farsa trascendentale, la definizione di ironia filosofica, riesce a dare conto del concetto di umorismo, applicato alla letteratura, che Pirandello sta cercando.
Allora, cos’è un’opera d’arte davvero umoristica? Quale reazione produce nel lettore, circoscrivendo l’analisi a quella letteraria? Per iniziare produce perplessità: si vorrebbe ridere, si ride, ma il riso è come ostacolato dalla rappresentazione medesima. L’umorismo è infatti, basilarmente, sentimento del contrario. Gli esempi, tratti dalla letteratura, possono essere utili. Il personaggio di Don Chisciotte, per cominciare. La sua figura è allampanata, egli è magro ed emaciato, vive in una realtà modificata, prodotta dalla sua immaginazione sovreccitata da letture cavalleresche. Per lui le osterie sono castelli, gli osti nobiluomini raffinati, le ostesse e le servette gentildonne bellissime e gentili. Come se non bastasse, cerca di farsi ordinare cavaliere da chicchessia e ingaggia improbabili combattimenti persino con i mulini a vento in cui vede furiosi giganti. Il lettore  ride di lui ed  è, quel suo riso, pervaso di sentimento del contrario, nel quale si fondono commiserazione, pena e persino ammirazione (non dimentichiamo che donchisciottesco è un aggettivo abbastanza positivamente connotato). I lettori sentono  che don Chisciotte è il contrario di quello che dovrebbe essere, e che il suo autore l’ha inventato così per generare questa perplessità nel lettore: un vecchio che dovrebbe starsene tranquillo a casa, a leggere i suoi libri, e invece va in giro per il mondo a mettere in pratica una fantasia. Analogamente don Abbondio: è un personaggio genuinamente umoristico, perché rappresenta, e il lettore perviene a questo sentimento, il contrario di quello che un vero uomo di chiesa dovrebbe essere (e il romanzo ne incarna ben due versioni: fra Cristoforo e il Cardinale Federigo Borromeo. Il vero scrittore umorista riesce a fare in modo che il sentimento del contrario attivi una riflessione. Solo così l’umorismo si esplica al suo massimo grado: interessato all’ombra più che al corpo.
Infine, Pirandello distingue in modo chiaro fra umoristico e comico. La categoria del comico è più semplice: si tratta di avvertimento del contrario. Coincide con una prima fase percettiva, quella che suscita un riso immediato, irriflessivo. Il riso che nasce spontaneo vedendo la “vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di qual orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d'abiti giovanili. Mi metto a ridere. "Avverto" che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa espressione comica. Il comico è appunto un "avvertimento del contrario". Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente, s'inganna che, parata così, nascondendo le rughe e le canizie, riesca a trattenere a sé l'amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l'umoristico.
Dunque ridiamo perché avvertiamo che la vecchia signora è il contrario che dovrebbe essere: è un riso immediato e spontaneo, quello di cui si nutre appunto il comico. Poi però, quando subentri la riflessione, che ci fa intendere perché la vecchia signora si acconci così, il sentimento del contrario ci consente di accedere alla percezione umoristica.
E ora torniamo alla forma e alla vita, attraverso l’umorismo.

Da quanto abbiamo detto finora intorno alla speciale attività della riflessione nell’umorista, appare chiaramente quale dell’arte umoristica necessariamente sia l’intimo processo.
Anch’essa l’arte, come tutte le costruzioni ideali o illusorie, tende a fissar la vita: la fissa in un momento o in varii momenti determinati: la statua in un gesto il paesaggio in un aspetto temporaneo, immutabile. Ma, e la perpetua mobilità degli aspetti successivi? e la fusione continua in cui le anime si trovano?
L’arte in genere astrae e concentra, coglie cioè e rappresenta così degli individui come delle cose, l’idealità essenziale e caratteristica. Ora pare all’umorista che tutto ciò semplifichi troppo la natura e tenda a rendere troppo ragionevole o almeno troppo coerente la vita. Gli pare che delle cause, delle cause vere che muovono spesso questa povera anima umana agli atti più inconsulti, assolutamente imprevedibili, l’arte in genere non tenga quel conto che secondo lui dovrebbe. Per l’umorista le cause, nella vita, non sono mai così logiche, così ordinate, come nelle nostre comuni opere d’arte, in cui tutto è, in fondo, combinato congegnato, ordinato ai fini che lo scrittore s’è proposto. L’ordine? la coerenza? Ma se noi abbiamo dentro quattro, cinque anime in lotta fra loro: l’anima istintiva, l’anima morale, l’anima affettiva, l’anima sociale? E secondo che domina questa o quella, s’atteggia la nostra coscienza; e noi riteniamo valida e sincera quella interpretazione fittizia di noi medesimi, del nostro essere interiore che ignoriamo, perché non si manifesta mai tutt’intero, ma ora in un modo, ora in un altro, come volgano i casi della vita.
Sì, un poeta epico o drammatico può rappresentare un suo eroe, in cui si mostrino in lotta elementi opposti e repugnanti; ma egli di questi elementi comporrà un carattere, e vorrà coglierlo coerente in ogni suo atto. Ebbene, l’umorista fa proprio l’inverso: egli scompone il carattere nei suoi elementi; e mentre quegli cura di coglierlo coerente in ogni atto, questi si diverte a rappresentarlo nelle sue incongruenze.
L’umorista non riconosce eroi; o meglio, lascia che li rappresentino gli altri, gli eroi; egli, per conto suo, sa che cosa è la leggenda e come si forma, che cosa è la storia e come si forma: composizioni tutte, più o meno ideali, e tanto più ideali forse, quanto più mostran pretesa di realtà: composizioni ch’egli si diverte a scomporre; né si può dir che sia un divertimento piacevole.
Il mondo, lui, se non propriamente nudo, lo vede, per così dire, in camicia: in camicia il re, che vi fa così bella impressione a vederlo composto nella maestà d’un trono con lo scettro e la corona e il manto di porpora e d’ermellino; e non componete con troppa pompa nelle camere ardenti su catafalchi i morti, perché egli è capace di non rispettar neppure questa composizione tutto questo apparato; è capace di sorprendere, per esempio, in mezzo alla compunzione degli astanti, in quel morto lì, freddo e duro, ma decorato e in marsina, un qualche borboglio lugubre nel ventre, e d’esclamare (poiché certe cose si dicono meglio in latino):
 - Digestio post mortem.

187  -  La carriola

Quand’ho qualcuno attorno, non la guardo mai; ma sento che mi guarda lei, mi guarda, mi guarda senza staccarmi un momento gli occhi d’addosso.
Vorrei farle intendere, a quattr’occhi, che non è nulla; che stia tranquilla; che non potevo permettermi con altri questo breve atto, che per lei non ha alcuna importanza e per me è tutto. Lo compio ogni giorno al momento opportuno, nel massimo segreto, con spaventosa gioja, perché vi assaporo, tremando, la voluttà d’una divina, cosciente follia, che per un attimo mi libera e mi vendica di tutto.
Dovevo essere sicuro (e la sicurezza mi parve di poterla avere solamente con lei) che questo mio atto non fosse scoperto. Giacché, se scoperto, il danno che ne verrebbe, e non soltanto a me, sarebbe incalcolabile. Sarei un uomo finito. Forse m’acchiapperebbero, mi legherebbero e mi trascinerebbero, atterriti, in un ospizio di matti.
Il terrore da cui tutti sarebbero presi, se questo mio atto fosse scoperto, ecco, lo leggo ora negli occhi della mia vittima.
Sono affidati a me la vita, l’onore, la libertà, gli averi di gente innumerevole che m’assedia dalla mattina alla sera per avere la mia opera, il mio consiglio, la mia assistenza; d’altri doveri altissimi sono gravato, pubblici e privati: ho moglie e figli, che spesso non sanno essere come dovrebbero, e che perciò hanno bisogno d’esser tenuti a freno di continuo dalla mia autorità severa, dall’esempio costante della mia obbedienza inflessibile e inappuntabile a tutti i miei obblighi, uno piú serio dell’altro, di marito, di padre, di cittadino, di professore di diritto, d’avvocato. Guai, dunque, se il mio segreto si scoprisse!
La mia vittima non può parlare, è vero. Tuttavia, da qualche giorno, non mi sento piú sicuro. Sono costernato e inquieto. Perché, se è vero che non può parlare, mi guarda, mi guarda con tali occhi e in questi occhi è così chiaro il terrore, che temo qualcuno possa da un momento all’altro accorgersene, essere indotto a cercarne la ragione.
Sarei, ripeto, un uomo finito. Il valore dell’atto ch’io compio, può essere stimato e apprezzato solamente da quei pochissimi, a cui la vita si sia rivelata come d’un tratto s’è rivelata a me.
Dirlo e farlo intendere, non è facile. Mi proverò.
Ritornavo, quindici giorni or sono, da Perugia, ove mi ero recato per affari della mia professione.
Uno degli obblighi miei piú gravi è quello di non avvertire la stanchezza che m’opprime, il peso enorme di tutti i doveri che mi sono e mi hanno imposto, e di non indulgere minimamente al bisogno di un po’ di distrazione, che la mia mente affaticata di tanto in tanto reclama. L’unica che mi possa concedere, quando mi vince troppo la stanchezza per una briga a cui attendo da tempo, è quella di volgermi a un’altra nuova.
M’ero perciò portate in treno, nella busta di cuojo, alcune carte nuove da studiare. A una prima difficoltà incontrata nella lettura, avevo alzato gli occhi e li avevo volti verso il finestrino della vettura. Guardavo fuori, ma non vedevo nulla, assorto in quella difficoltà.
Veramente non potrei dire che non vedessi nulla. Gli occhi vedevano; vedevano e forse godevano per conto loro della grazia e della soavità della campagna umbra. Ma io, certo, non prestavo attenzione a ciò che gli occhi vedevano.
Se non che, a poco a poco, cominciò ad allentarsi in me quella che prestavo alla difficoltà che m’occupava, senza che per questo, intanto, mi s’avvistasse di piú lo spettacolo della campagna, che pur mi passava sotto gli occhi limpido, lieve, riposante.
Non pensavo a ciò che vedevo e non pensai piú a nulla: restai, per un tempo incalcolabile, come in una sospensione vaga e strana, ma pur chiara e placida. Ariosa. Lo spirito mi s’era quasi alienato dai sensi, in una lontananza infinita, ove avvertiva appena, chi sa come, con una delizia che non gli pareva sua, il brulichio d’una vita diversa, non sua, ma che avrebbe potuto esser sua, non qua, non ora, ma là, in quell’infinita lontananza; d’una vita remota, che forse era stata sua, non sapeva come né quando; di cui gli alitava il ricordo indistinto non d’atti, non d’aspetti, ma quasi di desiderii prima svaniti che sorti; con una pena di non essere, angosciosa, vana e pur dura, quella stessa dei fiori, forse, che non han potuto sbocciare; il brulichio, insomma, di una vita che era da vivere, là lontano lontano, donde accennava con palpiti e guizzi di luce; e non era nata; nella quale esso, lo spirito, allora, sì, ah, tutto intero e pieno si sarebbe ritrovato; anche per soffrire, non per godere soltanto, ma di sofferenze veramente sue.
Gli occhi a poco a poco mi si chiusero, senza che me n’accorgessi, e forse seguitai nel sonno il sogno di quella vita che non era nata. Dico forse, perché, quando mi destai, tutto indolenzito e con la bocca amara, acre e arida, già prossimo all’arrivo, mi ritrovai d’un tratto in tutt’altro animo, con un senso d’atroce afa della vita, in un tetro, plumbeo attonimento, nel quale gli aspetti delle cose piú consuete m’apparvero come votati di ogni senso, eppure, per i miei occhi, d’una gravezza crudele, insopportabile.
Con quest’animo scesi alla stazione, montai sulla mia automobile che m’attendeva all’uscita, e m’avviai per ritornare a casa.
Ebbene, fu nella scala della mia casa; fu sul pianerottolo innanzi alla mia porta.
Io vidi a un tratto, innanzi a quella porta scura, color di bronzo, con la targa ovale, d’ottone, su cui è inciso il mio nome, preceduto dai miei titoli e seguito da’ miei attributi scientifici e professionali, vidi a un tratto, come da fuori, me stesso e la mia vita, ma per non riconoscermi e per non riconoscerla come mia.
Spaventosamente d’un tratto mi s’impose la certezza, che l’uomo che stava davanti a quella porta, con la busta di cuojo sotto il braccio, l’uomo che abitava là in quella
casa, non ero io, non ero stato mai io. Conobbi d’un tratto d’essere stato sempre come assente da quella casa, dalla vita di quell’uomo, non solo, ma veramente e propriamente da ogni vita. Io non avevo mai vissuto; non ero mai stato nella vita; in una vita, intendo, che potessi riconoscer mia, da me voluta e sentita come mia. Anche il mio stesso corpo, la mia figura, quale adesso improvvisamente m’appariva, così vestita, così messa su, mi parve estranea a me; come se altri me l’avesse imposta e combinata, quella figura, per farmi muovere in una vita non mia, per farmi compiere in quella vita, da cui ero stato sempre assente, atti di presenza, nei quali ora, improvvisamente, il mio spirito s’accorgeva di non essersi mai trovato, mai, mai! Chi lo aveva fatto così, quell’uomo che figurava me? chi lo aveva voluto così? chi così lo vestiva e lo calzava? chi lo faceva muovere e parlare così? chi gli aveva imposto tutti quei doveri uno piú gravoso e odioso dell’altro? Commendatore, professore, avvocato, quell’uomo che tutti cercavano, che tutti rispettavano e ammiravano, di cui tutti volevan l’opera, il consiglio, l’assistenza, che tutti si disputavano senza mai dargli un momento di requie, un momento di respiro – ero io? io? propriamente? ma quando mai? E che m’importava di tutte le brighe in cui quell’uomo stava affogato dalla mattina alla sera; di tutto il rispetto, di tutta la considerazione di cui godeva, commendatore, professore, avvocato, e della ricchezza e degli onori che gli erano venuti dall’assiduo scrupoloso adempimento di tutti quei doveri, dell’esercizio della sua professione?
Ed erano lì, dietro quella porta che recava su la targa ovale d’ottone il mio nome, erano lì una donna e quattro ragazzi, che vedevano tutti i giorni con un fastidio ch’era il mio stesso, ma che in loro non potevo tollerare, quell’uomo insoffribile che dovevo esser io, e nel quale io ora vedevo un estraneo a me, un nemico. Mia moglie? i miei figli? Ma se non ero stato mai io, veramente, se veramente non ero io (e lo sentivo con spaventosa certezza) quell’uomo insoffribile che stava davanti alla porta; di chi era moglie quella donna, di chi erano figli quei quattro ragazzi? Miei, no! Di quell’uomo, di quell’uomo che il mio spirito, in quel momento, se avesse avuto un corpo, il suo vero corpo, la sua vera figura, avrebbe preso a calci o afferrato, dilacerato, distrutto, insieme con tutte quelle brighe, con tutti qua doveri e gli onori e il rispetto e la ricchezza, e anche la moglie, sì, fors’anche la moglie...
Ma i ragazzi?
Mi portai le mani alle tempie e me le strinsi forte.
No. Non li sentii miei. Ma attraverso un sentimento strano, penoso, angoscioso, di loro, quali essi erano fuori di me, quali me li vedevo ogni giorno davanti, che avevano bisogno di me, delle mie cure, del mio consiglio, del mio lavoro; attraverso questo sentimento e col senso d’atroce afa col quale m’ero destato in treno, mi sentii rientrare in quell’uomo insoffribile che stava davanti alla porta.
Trassi di tasca il chiavino; aprii quella porta e rientrai anche in quella casa e nella vita di prima.
Ora la mia tragedia è questa. Dico mia, ma chi sa di quanti!
Chi vive, quando vive, non si vede: vive... Se uno può vedere la propria vita, è segno che non la vive piú: la subisce, la trascina. Come una cosa morta, la trascina. Perché ogni forma è una morte.
Pochissimi lo sanno; i piú, quasi tutti, lottano, s’affannano per farsi, come dicono, uno stato, per raggiungere una forma; raggiuntala, credono d’aver conquistato la loro vita, e cominciano invece a morire. Non lo sanno, perché non si vedono; perché non riescono a staccarsi piú da quella forma moribonda che hanno raggiunta; non si conoscono per morti e credono d’esser vivi. Solo si conosce chi riesca a veder la forma che si è data o che gli altri gli hanno data, la fortuna, i casi, le condizioni in cui ciascuno è nato. Ma se possiamo vederla, questa forma, è segno che la nostra vita non è piú in essa: perché se fosse, noi non la vedremmo: la vivremmo, questa forma, senza vederla. e morremmo ogni giorno di piú in essa, che è già per sì una morte, senza conoscerla. Possiamo dunque vedere e conoscere soltanto ciò che di noi è morto. Conoscersi è morire.
Il mio caso è anche peggiore. Io vedo non ciò che di me è morto; vedo che non sono mai stato vivo, vedo la forma che gli altri, non io, mi hanno data, e sento che in questa forma la mia vita, una mia vera vita, non c’è stata mai. Mi hanno preso come una materia qualunque, hanno preso un cervello, un’anima, muscoli, nervi, carne, e li hanno impastati e foggiati a piacer loro, perché compissero un lavoro, facessero atti, obbedissero a obblighi, in cui io mi cerco e non mi trovo. E grido, l’anima mia grida dentro questa forma morta che mai non è stata mia: – Ma come? io, questo? io, così? ma quando mai? – E ho nausea, orrore, odio di questo che non sono io, che non sono stato mai io; di questa forma morta, in cui sono prigioniero, e da cui non mi posso liberare. Forma gravata di doveri, che non sento miei, oppressa da brighe di cui non m’importa nulla, fatta segno d’una considerazione di cui non so che farmi; forma che è questi doveri, queste brighe, questa considerazione, fuori di me, sopra di me: cose vuote, cose morte che mi pesano addosso, mi soffocano, mi schiacciano e non mi fanno piú respirare.
Liberarmi? Ma nessuno può fare che il fatto sia come non fatto, e che la morte non sia, quando ci ha preso e ci tiene.
Ci sono i fatti. Quando tu, comunque, hai agito, anche senza che ti sentissi e ti ritrovassi, dopo, negli atti compiuti; quello che hai fatto resta, come una prigione per te. E come spire e tentacoli t’avviluppano le conseguenze delle tue azioni. E ti grava attorno come un’aria densa, irrespirabile la responsabilità, che per quelle azioni e le conseguenze di esse, non volute o non prevedute, ti sei assunta. E come puoi piú liberarti? Come potrei io nella prigione di questa forma non mia, ma che rappresenta me quale sono per tutti, quali tutti mi conoscono e mi vogliono e mi rispettano, accogliere e muovere una vita diversa, una mia vera vita? una vita in una forma: che sento morta, ma che deve sussistere per gli altri, per tutti quelli che l’hanno messa su e la vogliono così e non altrimenti? Dev’essere questa, per forza. Serve così, a mia moglie, ai miei figli, alla società, cioè ai signori studenti universitari della facoltà di legge, ai signori clienti che m’hanno affidato la vita, l’onore, la libertà, gli averi. Serve così, e non posso mutarla, non posso prenderla a calci e levarmela dai piedi; ribellarmi, vendicarmi, se non per un attimo solo, ogni giorno, con l’atto che compio nel massimo segreto, cogliendo con trepidazione e circospezione infinita il momento opportuno, che nessuno mi veda.
Ecco. Ho una vecchia cagna lupetta, da undici anni per casa, bianca e nera, grassa, bassa e pelosa, con gli occhi già appannati dalla vecchiaja.
Tra me e lei non c’erano mai stati buoni rapporti. Forse, prima, essa non approvava la mia professione, che non permetteva si facessero rumori per casa; s’era messa però ad approvarla a poco a poco, con la vecchiaja; tanto che, per sfuggire alla tirannia capricciosa dei ragazzi, che vorrebbero ancora ruzzare con lei giú nel giardino, aveva preso da un pezzo il partito di rifugiarsi qua nel mio studio da mane a sera, a dormire sul tappeto col musetto aguzzo tra le zampe. Tra tante carte e tanti libri, qua, si sentiva protetta e sicura. Di tratto in tratto schiudeva un occhio a guardarmi, come per dire:
«Bravo, sì, caro: lavora; non ti muovere di lì, perché è sicuro che, finché stai lì a lavorare, nessuno entrerà qui a disturbare il mio sonno.»
Così pensava certamente la povera bestia. La tentazione di compiere su lei la mia vendetta mi sorse, quindici giorni or sono, all’improvviso, nel vedermi guardato così.
Non le faccio male; non le faccio nulla. Appena posso, appena qualche cliente mi lascia libero un momento, mi alzo cauto, pian piano, dal mio seggiolone, perché nessuno s’accorga che la mia sapienza temuta e ambita, la mia sapienza formidabile di professore di diritto e d’avvocato, la mia austera dignità di marito, di padre, si siano per poco staccate dal trono di questo seggiolone; e in punta di piedi mi reco all’uscio a spiare nel corridojo, se qualcuno non sopravvenga; chiudo l’uscio a chiave, per un momento solo; gli occhi mi sfavillano di gioja, le mani mi ballano dalla voluttà che sto per concedermi, d’esser pazzo, d’esser pazzo per un attimo solo, d’uscire per un attimo solo dalla prigione di questa forma morta, di distruggere, d’annientare per un attimo solo, beffardamente, questa sapienza, questa dignità che mi soffoca e mi schiaccia; corro a lei, alla cagnetta che dorme sul tappeto; piano, con garbo, le prendo le due zampine di dietro e le faccio fare la carriola: le faccio muovere cioè otto o dieci passi, non piú, con le sole zampette davanti, reggendola per quelle di dietro.
Questo è tutto. Non faccio altro. Corro subito a riaprire l’uscio adagio adagio, senza il minimo cricchio, e mi rimetto in trono, sul seggiolone, pronto a ricevere un nuovo cliente, con l’austera dignità di prima, carico come un cannone di tutta la mia sapienza formidabile.
Ma, ecco, la bestia, da quindici giorni, rimane come basita a mirarmi, con quegli occhi appannati, sbarrati dal terrore. Vorrei farle intendere – ripeto – che non è nulla; che stia tranquilla, che non mi guardi così.
Comprende, la bestia, la terribilità dell’atto che compio.
Non sarebbe nulla, se per scherzo glielo facesse uno dei miei ragazzi. Ma sa ch’io non posso scherzare; non le è possibile ammettere che io scherzi, per un momento solo; e seguita maledettamente a guardarmi, atterrita.

Questa novella racconta la tragedia d’un uomo vivo. La tragedia del protagonista della carriola consiste nel sentirsi nella trappola descritta nell’omonima novella. Una funzione pubblica, un lavoro importante, le necessità familiari, fanno di lui un manichino della forma, una cristallizzazione della medesima. La vita è altrove, scorre imperiosa e magmatica, una follia, un esser pazzo che il protagonista sente essere una possibilità al di fuori di sé, ma in verità così in armonia con sé da fargli provare una pena infinita a pensare che proprio essa gli sia preclusa. Così, per uscire dalla trappola della forma imposta  e riconosciuta da tutti, con l’eccezione di chi la detiene, crea uno spazio libero, una zona autonoma, e la riempie di un significato vero, istintivo originario: quello che proviene da un gesto poco civilizzato, infantile, che si colloca del tutto di là dalla norma e dalla convenzione. Nessuno però deve saperlo. Lo scotto da pagare, in questi casi, è alto. Si deve avere il coraggio di uscire completamente dai propri panni, di rischiare di rimanere nudi di fronte a tutti.
Altra ancora è la tragedia di quelle creature dalla bizzarra esistenza che sono i personaggi, ai quali ora ritorniamo. I personaggi cercano un loro status, e ovviamente  faticano a trovarlo, dato che altro non sono che ossimori: personaggi vivi, che però non è dato sapere dove e come siano vissuti per conquistarsi simile status. Non umbrae  futurorum e nemmeno praeteritorum. I personaggi possono ripetersi, devono ripetersi per esistere, e per loro la forma non è una trappola, non è un rapprendersi inquietante, doloroso, da combattere con qualche gesto inconsulto. Per i personaggi vivere non è cadere in una trappola. La loro superiorità rispetto ai vivi pare, da un certo punto di vista, incommensurabile. Un uomo può ben essere nessuno, ove si sia perso di vista  per via dei cambiamenti che intercorrono nel tempo; può quindi accadere di interrogarsi su ciò che si è  stati, rispetto a persone e scelte, e non saper più rispondere, non saper più perché ci si è comportati in un certo modo. Il dubbio di non saper chi si sia, di non essere nessuno, o di essere troppi per essere qualcuno, per cui poi centomila diventa nessuno. Il personaggio, sotto questo profilo, detiene un’unicità: è uno specifico personaggio, non il personaggio del figlio, ma il personaggio figlio, che rivive solo se stesso. Sono simili, per certi aspetti, ai dannati danteschi: portano, nella loro interiorità e nella memoria, il preciso ricordo di quello che sono stati e che possono-devono rivivere continuamente per garantirsi un’esistenza. Il loro è un eterno presente e la dimensione in cui lo vivono non si colloca da nessuna parte, al di fuori delle parete di un teatro. Esistono solo se parlano, e  a garantire la loro permanenza al mondo è la voce.  Voler morire, come proclama il Figlio è, da parte loro, un paradosso. Eppure il nostro umorista conduce la rappresentazione anche i questa direzione, il figlio viene pungolato a far parte della rapprentazione, a far esistere anche la morte, a farla svolgere in quel chissadove chissaquando al quale il palcoscenico garantisce status e sostanza.

"Povero amorino mio, tu guardi smarrita, con codesti occhioni belli: chi sa dove ti par d'essere! Siamo su un palcoscenico, cara! Che cos'è un palcoscenico? Ma, vedi? un luogo dove si giuoca a far sul serio. Ci si fa la commedia. E noi faremo ora la commedia. Sul serio, sai! Anche tu...
L'abbraccerà, stringendosela sul seno e dondolandosi un po'.
Oh amorino mio, amorino mio, che brutta commedia farai tu! che cosa orribile è stata pensata per te! Il giardino, la vasca...Eh, finta, si sa! Il guajo è questo, carina: che è tutto finto, qua! Ah, ma già forse a te bambina, piace più una vasca finta che una vera; per poterci giocare, eh? Ma no, sarà per gli altri un gioco; non per te, purtroppo, che sei vera, amorino, e che giochi per davvero in una vasca vera, bella, grande, verde, con tanti bambù che vi fanno l'ombra, specchiandovisi, e tante tante anatrelle che vi nuotano sopra, rompendo quest'ombra. Tu la vuoi acchiappare, una di queste anatrelle... (dai Sei personaggi in cerca d'autore)

Commenti

Post popolari in questo blog

IL SORRISO - RIASSUNTO MODELLO (CIRCA 200 PAROLE)

LA CARRIOLA DI PIRANDELLO: RIASSUNTO E COMMENTO

DOMANDE E RISPOSTE ODISSEA VOSTRE (corretto)