PETRONIO - RISPOSTE QUESTIONARIO - QUALCHE SAGGIO
Petronio
Il Satyricon, con le Metamorfosi di Apuleio, è uno dei due romanzi del mondo antico pervenutici, eppure del primo non sappiamo con esattezza chi sia l’Autore. Il primo manoscritto tramandato risulta attribuito a Petronius Arbiter, che per tradizione si è identificato con un personaggio vissuto alla corte di Nerone, consigliere del principe in fatto di stile, caduto in disgrazia e suicidatosi (con l’accusa di aver partecipato alla congiura dei Pisoni) nel 66. Di questo personaggio, pur senza attribuirgli la paternità del Satyricon, racconta il suicidio Tacito nei suoi Annales. La datazione è anch’essa non del tutto certa: di sicuro non posteriore al II secolo d. C. e quasi di sicuro collegabile con l’età neroniana. Ne farebbero fede l’ambientazione, alcuni nomi di personaggi e la presenza del Bellum civile al suo interno, un lungo inserto poetico affidato alla voce di un personaggio, il poeta Eumolpo, che contiene versi riconducibili a Lucano. L’opera ci è giunta frammentaria e non ne conosciamo la lunghezza complessiva: un notevole frammento narrativo, con sezioni in versi, e pochi altri stralci. La parte che possediamo dovrebbe coincidere con i libri XIV (parti), XV (intero) e XVI (parti). Il XV coincide con l’episodio noto come Cena di Trimalcione. La storia è narrata in prima persona da Encolpio, che insieme a Gitone compare in tutti gli episodi pervenuti. Encolpio è un giovane avventuriero, che sta compiendo un viaggio insieme a un altro avventuriero di nome Ascilto e a un bel giovinetto di nome Gitone. Il trio intrattiene rapporti amorosi, caratterizzati da reciproche gelosie (soprattutto tra Ascilto e Encolpio per le grazie di Gitone), quando si imbatte in una matrona di nome Quartilla, che con la scusa di organizzare un rito priapico (in onore del dio Priapo, simbolo della virilità nel pantheon greco) manifesta il suo interesse sessuale verso tutti e tre. Per quel che ci è dato ricostruire, sembra che questo dio rappresenti una presenza importante nella vita di Encolpio, il quale risulta essere vittima di una sorta di persecuzione (paragonabile a quelle ordite nelle vicende mitiche a danni di eroi) da parte sua: Encolpio infatti soffre di ricorrente impotenza. Sfuggiti a Quartilla, i tre vengono scritturati per partecipare a un banchetto in casa di un ricco liberto, Trimalchione, e di sua moglie Fortunata. La descrizione del banchetto e di quanto vi accade è particolareggiata, costituita tanto da descrizioni della casa, delle vivande, dei commensali, quanto delle chiacchiere fra loro e delle trovate teatrali dell’ingombrante, quanto a esibizionismo, ospite. Alla fine della cena, un incidente casuale (un incendio) consente ai tre di fuggire dalla casa labirintica di Trimalchione. La rivalità sessuale fra Ascilto e Encolpio rispetto a Gitone giunge a un acme: i due litigano violentemente e Ascilto si porta via Gitone. A Encolpio, affranto, si affianca un nuovo personaggio, conosciuto per caso in una pinacoteca: è Eumolpo, un poeta vagabondo di una certa età, dagli appetiti sessuali ancor desti e paragonabili alla sua vanità come poeta: recita infatti la sua Presa di Troia¸ che riceve pessima accoglienza da parte dei presenti. Dopo una rapida successione di peripezie, Encolpio recupera Gitone, liberandosi di Ascilto, che scompare dalla vicenda, almeno per noi, mentre Eumolpo rimane con loro, a insidiare ovviamente Gitone. L’azione, finora svoltasi in una graeca urbs non ben identificata, che potrebbe essere una città sulla costa campana, si sposta su una nave mercantile su cui i tre si imbarcano precipitosamente in incognito e senza sapere che il padrone della nave è un certo Lica, un mercante nemico acerrimo di Encolpio per qualcosa accaduto nelle parti mancanti di testo. Con lui si trova una donna di dubbia reputazione, Trifena, anch’ella nota a Encolpio. Quest’ultimo, dopo aver udito un dialogo che lo mette al corrente senza ombra di dubbio dell’identità del padrone della nave, tentato vanamente di nascondersi, viene scoperto da Lica. Eumolpo tenta di salvare la situazione raccontando una storia, La matrona di Efeso, ma le cose volgerebbero al peggio non fosse per una provvidenziale tempesta, che getta in mare Lica, Trifena su una barchetta, squassa la nave, mentre i tre si ritrovano sulla riva del mare da soli. Iniziano nuove avventure nella città di Crotone, un tempo nobile e famosa, ma a questo punto abitata prevalentemente da cacciatori di eredità. Gli abitanti sembrano essere suddivisi fra ricchi facoltosi senza eredi e cacciatori di doti. Eumolpo ha allora l’idea di fingere di essere un ricco facoltoso con due schiavi, e percorre con loro le vie della città declamando, fra l’altro, un poemetto intitolato Bellum civile. Nell’ultima parte il testo è particolarmente lacunoso e difficile da ricostruire: i tre riescono a vivere alle spalle dei cacciatori di eredità, che li mantengono a proprie spese perché pensano di guadagnare ben di più alla morte di Eumolpo. Encolpio ha un’avventura con una donna, Circe, ma improvvisamente è abbandonato dalle sue capacità sessuali, così si sottopone a umilianti riti, finché non riesce a recuperarla. Intanto i crotoniati sono sul punto di scoprire l’inganno di Eumolpo, il quale escogita un ultimo espediente: un testamento in cui obbliga chi volesse ereditare da lui a mangiare il suo cadavere. Parrebbe, dai frammenti, che i crotonesi siano comunque disposti. Ma qui la storia, sempre almeno per noi, si conclude.
Negli Annales, XVI libro, Tacito fornisce un sintetico ma eloquente ritratto di Petronius Arbiter: era un uomo che durante il giorno dormiva e attendeva di notte alle necessità e ai piaceri della vita. Come ad altri la loro operosità, così la sua indolenza gli aveva procurato grande rinomanza: ma non era ritenuto un crapulone e un dissipato, come la maggior parte di quelli che danno fondo alle proprie fortune, bensì un voluttuoso raffinato, e quanto più negli atti e nelle parole si dimostrava libero da pregiudizi e noncurante, tanto più quella sua semplicità era accolta con simpatia. Tuttavia, come proconsole in Bitinia, e poi come console, aveva dato prova di energia e di competenza. Quindi, rituffatosi in una vita che era o voleva apparire viziosa, fu accolto tra i pochi intimi del principe e alla corte di Nerone divenne l'arbitro del buon gusto, il fine intenditore di quello che fosse, in mezzo a tanta ricchezza, bello e raffinato. Di qui l'odio di Tigellino, che vide in lui un rivale e quasi un maestro più esperto nella scienza dei piaceri. Egli eccita nel principe la crudeltà, passione che era in lui più forte di ogni altra, accusando Petronio di essere amico di Scevino. Fu corrotto uno schiavo perché presentasse la denuncia: non gli è data possibilità di difesa; i suoi servi sono tratti in catene. Due o tre termini interessa rimarcare, per servirsene come lente utile a intendere il Satyricon: l’uomo ritratto da Tacito, forse l’Autore del Satyricon appunto, è un voluttuoso raffinato, negli atti e nelle parole libero da pregiudizi e noncurante. Riportati ai contenuti del Satyricon restano aggettivi che si adattano perfettamente a quest’opera (romanzo o satira menippea, o incrocio virtuosistico di generi che sia) nella quale si può proprio dire che si nasconda qualcuno che ride, senza concedersi tregua e nemmeno rispettare qualcosa o qualcuno (se stesso compreso) nel farlo. Qualcuno che deve essere profondamente, davvero, libero da pregiudizi e noncurante. Prima di tutto del fatto di star scrivendo pagine di letteratura. Non si spiega altrimenti come sia possibile che a ogni pagina si avverta, come lettori, quell’effetto di spiazzamento costante che è prerogativa di alcune opere impossibili da collocare e da costringere in una trappola definitoria: lo spiazzamento che inducono forse le farse assolute, le parodie per le quali è impossibile dire quale sia il canto, l’odé, che è stato rovesciato, perché ogniqualvolta sembri di saper rispondere, nella trama accade qualcosa che rovescia di nuovo tutto. L’incuranza dello scrittore per cominciare. Intendo questo termine nel senso della sprezzatura di Castiglione. Chi riesce a rendere naturale la propria arte, il proprio pensiero, le proprie movenze, tutto quello che fa e che è, anche se dietro a tutto ci sono studio, conoscenza, esperienza profonde. Uno che riesce a essere vero in tutto quello che è e che fa. Dar vita all’arte così è, sempre, un prodigio. Quello scrittore incurante, nel senso appena stabilito, che è Petronio, dai frammenti in nostro possesso è difficile dire dove stia durante la narrazione. Per esempio, in base alle nostre sempre troppo precise categorie (e per questo così poco utili a un vero intendimento del testo), è un narratore onnisciente? Parrebbe di no, dato che il narratore è, sempre secondo suddette categorie, interno e coincide con Encolpio. Il quale, per inciso, è tutt'altro che un soggetto incurante, visto quanto studia i suoi atti e comportamenti, come si atteggia da personaggio epico o di tragedia (data la cultura scolastica di cui è provvisto), come nell’insieme non è mai vero ma artefatto. Encolpio è un giovane colto e, da giovane colto, interpreta la vita sotto specie di una riproduzione di eventi mitici, si atteggia (da amante tradito e abbandonato, per esempio, quando Gitone viene portato via da Ascilto); Eumolpo è un poeta che esiste come tale solo quando si esibisce, anche se nessuno lo apprezza (come avviene nella pinacoteca); Gitone è un giovane che è stato corrotto precocemente e non nutre veri sentimenti per nessuno dei suoi accompagnatori, tra i quali si divide con una dedizione puramente fisica. Analogamente si può dire, forse anche più, per un personaggio come Trimalchione, o per la Matrona di Efeso, protagonista dell’omonima novella raccontata sulla nave. Insomma, se si passa al vaglio ogni personaggio del Satyricon si scopre che ognuno di essi ha una maschera, sotto la quale l’autore (onnisciente?) non ha la minima intenzione di dirci che cosa ci sia. Lo stesso vale per la vita che questi personaggi mascherati vivono.
Vale la pena sfiorare, a questo proposito, la questione del realismo petroniano. Il realismo antico è diverso, ci insegnano anni di critica letteraria, da quello moderno. Farò totale astrazione di questo distinguo, che ora non m’interessa. Realismo, come categoria concettuale riferita alla narrativa, significa rappresentazione di quello che è, rappresentazione della realtà. Ma cos’è reale? Cosa significa reale? Non posso credere che gli Antichi, non posso credere che un colto raffinato essere umano vivente nella Roma del I secolo d. C. non sapesse porsi questa domanda che per noi è così cruciale. Oltre a questo, posso anche spingermi a considerare in che modo dia una risposta attraverso la sua opera. Il reale nell’universo del Satyricon sono le cose. Intendo gli oggetti materiali e il loro modo di disporsi nello spazio. Ma anche le cose che si fanno, le azioni. Quelle sono tutte reali e ricostruite nel testo con dovizia di particolari. Il sesso, soprattutto. La maggior parte delle azioni descritte è ispirata o culmina in un atto sessuale. In secondo luogo il cibo. La Cena di Trimalcione è un trionfo di arte culinaria ed è pure la dimostrazione di come attraverso essa si ottenga un’espressione del reale: le persone mangiando sono vere, sono costrette a entrare a tu per tu con il reale basilare, la materia che si presenta in un modo e che, una volta ingerita, diventa parte di noi.
Dunque, quel qualcuno che ride ha messo in scena il banchetto realistico della vita e della morte, nel quale si intrecciano le pulsioni costitutive dell’essere umano, quella sessuale e quella mangiativa, rappresentate senza moralismo e senza riserve, così come si manifestano nella loro naturalità in un mondo che, tuttavia, è anche un teatrino di maschere (giovani scapestrati, vecchi libidinosi e assetati di fama, donne che dietro all’apparenza di matrone coniugate celano nature sfrenate). Mi dedico allora a questo punto alla dimensione teatrale del romanzo e ritorno, per questo, al ritratto di Tacito.
“In quei giorni l'imperatore si era recato in Campania e Petronio, che l'aveva accompagnato fino a Cuma, ricevette colà l'ordine di fermarsi. Egli non tollerò gli indugi del timore e della speranza, né volle una morte troppo precipitosa. Si incise le vene; poi le legò e di nuovo le riaperse; conversò con gli amici, ma non di cose gravi o tali che gli procurassero fama di fermezza: né stette ad ascoltare ragionamenti sull'immortalità dell'anima o massime filosofiche, ma poesie leggere e versi scherzosi. Alcuni servi premiò, altri fece frustare. Volle banchettare e dormire, perché la morte, quantunque imposta, apparisse casuale. Non adulò nei suoi codicilli Nerone o Tigellino o qualche altro personaggio potente, come erano soliti fare per lo più i condannati a morte; ma, citando il nome di amasii e di prostitute, egli raccontò tutte le vergogne del principe e l'aberrazione delle sue libidini e, dopo avere sigillato, mandò lo scritto all'imperatore. Ruppe poi l'anello, perché non fosse causa di rovina ad altri.” Quest’ultima parte del ritratto di Petronius Arbiter è dedicata alle ultime ore di vita. Che egli volle appunto rendere un teatro: da vivere e da vedere, un teatro che dicesse qualcosa di vero. Quell’aprire e chiudere le vene, perché la morte non fosse precipitosa, e quel continuare a conversare di cose qualsiasi, non tali da far risultare la sua morte qualcosa di particolarmente grave e importante (si direbbe, anche in questo caso, che ci sia una volontà parodistica da parte sua, un desiderio di rovesciare il genere delle morti filosofiche, alla Socrate per intenderci), ma così da far apparire la morte imposta una morte casuale (ancora una beffa: anche nella vita, se della sua si tratta, c’era qualcuno che rideva). Infine la trovata delle trovate, il colpo di scena, il coup de theatre: Petronius Arbiter decide di far sapere a tutti una verità. Non forse quella che svela il senso della vita, la risposta all’ultima domanda, per intenderci, ma una verità della quale molti all’epoca sentivano l’esigenza: la verità sulle turpitudini del potere. Ed ecco che vengono fuori una valanga di nomi, ecco che le vergogne del principe, le sue aberrazioni vengono portate alla luce. Muore, Petronio, da attore che decide di far vedere cosa ci sia dietro alle quinte, dietro all’eterna messinscena dell’ipocrisia che regna intorno al potere, a qualsiasi tipo di potere. In questo caso il qualcuno che ride è palese chi sia. Lui, alle spalle dell’imperatore che crede di avergli dato un ordine di morte, e si trova invece a dover leggere lo scritto del suo Arbiter elegantiae: uno specchio in cui vedere la propria immagine, per una volta non deformata com’è sempre quella restituita dalle parole false degli adulatori, ma vera come una rappresentazione realistica.
Andrea S.
Fornisci la spiegazione del titolo Satyricon e entra nei dettagli della struttura dell’opera, soffermandoti anche sulla questione della definizione dell’opera come romanzo. Il titolo dell’opera, Satyricon, non sarebbe altro che il genitivo plurale della parola greca Satyrikà legato al termine libri, che nel titolo è sottointeso. La traduzione sarebbe Libri di cose satiriche, facendo quindi riferimento alla satira, genere letterario latino, e in particolare alla satira menippea. Con questo tipo di satira, infatti, condivide la struttura composta da un’alternanza continua tra prosa e poesia. Questa forma mista, detta prosimetro, permette a Petronio di rappresentare nel modo migliore la complessità del mondo, visto che può passare da un genere all’altro in base a quello più adatto. Tuttavia, l’opera di Petronio risulta come il prodotto di una mescolanza tra la satira menippea e un altro genere: il romanzo storico. Con esso, il Satyricon condivide una caratteristica fondamentale: racconta vicende avventurose e complesse che hanno come centro un amore ostacolato, in questo caso, da rivali dello stesso sesso. Il termine romanzo attribuito a questo scritto sembra, però, utilizzato in maniera eccentrica, innanzitutto s per la struttura tipica della satira e poi per la concezione di romanzo che abbiamo oggi; c’è, infatti, una differenza tra il romanzo moderno e quello antico, o greco. Malgrado questa distinzione, però, l’opera di Petronio presenta dei rovesciamenti anche rispetto al romanzo antico, come ad esempio il fatto che i due innamorati non siano un ragazzo e una giovane, ma due (e più) maschi; oppure, il fatto che i due durante la vicenda abbiano rapporti sessuali anche con altre persone, nonostante solitamente in questo genere i due protagonisti siano totalmente fedeli l’uno all’altro. Il Satyricon, quindi, si presenta come una parodia letteraria di quelli che sono topoi tipici del romanzo, il che lo avvicina ancora di più, invece, al genere della satira menippea. ----------------------------------------------------------------------------------------------------------- LA SOCIETÁ NERONIANA NELL’OPERA DI PETRONIO - Lorenzo Si può affermare che nel Satyricon di Petronio sia presente una forte componente realista, nonostante la corrente del realismo in letteratura si sia sviluppata nell’800. Questo perché è bene innanzitutto distinguere il realismo in questione che si può nominare realismo del mondo antico rappresentante quod facit populus nell’antica Roma. Una volta definita l’impronta realistica di Petronio, è opportuno riconoscere una scelta inconsueta da parte dell’autore. Infatti la sua opera, che analizza situazioni reali, si sarebbe prestata ad essere scritta sotto la forma di commedia, rimanendo nel genere comico, ma consiste invece in una forma che si fatica a definire e viene spesso etichettata impropriamente come romanzo. Nell’opera di Petronio emerge certo il ricorso alla comicità associata alla descrizione di un ceto sociale non particolarmente elevato, ma la novità sta nell’inserire un simile contenuto non all’interno di una commedia o in una satira, ma dando forma a un genere nuovo. La componente realistica si manifesta nell’esemplificazione di costumi e abitudini tipiche dell’epoca, che permettono di ricostruire porzioni di storia romana che altrimenti non si conoscerebbero. Infatti, le testimonianze che provengono dagli storici dell’epoca, per esempio Sallustio, risentono dell’impostazione moralistica e soprattutto non riguardano tutte le classi sociali ma esclusivamente quelle dirigenti ed elevate. Allo stesso modo, gli Annales che venivano redatti, almeno apparentemente da un punto di vista oggettivo, contenevano informazioni sugli avvenimenti più importanti riguardanti la politica, le guerre o le grandi catastrofi, ma non includevano elementi utili alla ricostruzione della vita materiale. Informazioni di questo tipo possono solo essere ricavate dalla lettura di opere come quella di Petronio, anche perché cominciano a risultare interessanti agli occhi della storiografia solo nel 1929 con la rivista Annales d’histoire économique et sociale, alla base della fondazione dell’École des Annales di Parigi. La rivista e la scuola sono testimoni della corrente storiografica che si diffonde in questo periodo, volta al rinnovamento della nozione di storia al fine di comprendere elementi prima ritenuti futili o mai considerati. Ci si comincia a porre domande insolite rispetto a quelle emerse con la storiografia tradizionale e spesso tramite la semplice analisi più approfondita di fonti già possedute si arrivano a ricavare elementi di storia delle tecniche, del lavoro, dei trasporti, dei nomi di persona, della numismatica, dell’alimentazione o delle famiglie. La narrazione della cena di Trimalchione è intrisa di elementi interessanti da rintracciare ponendosi da questo punto di vista, di indagine volta alla ricostruzione della vita materiale, a partire dalla caratterizzazione della classe sociale dei liberti fino alla descrizione delle sontuose pietanze che vengono servite a tavola. Quella del banchetto, sezione centrale a noi pervenuta intera, diventa un’ottima fonte che tratteggia tra l’altro i rapporti vigenti tra i diversi partecipanti e simula quelli che dovevano essere i discorsi durante i ritrovi di questo tipo. Emerge con prepotenza l’immagine distaccata e derisoria che vuole dipingere Petronio nel raccontare la storia di questi nuovi ricchi che, per nascondere la volgarità delle proprie origini, si dedicano a ostentare un lusso pacchiano. La descrizione che ne fa risulta immediata e concreta proprio grazie alla scelta del genere narrativo: la commedia o la satira avrebbero certo permesso di rappresentare i liberti con toni farseschi, e non si sarebbero potuti evitare filtri moralistici, stilizzazioni e convenzioni associati a questi generi. L’utilizzo di un genere innovativo permette a Petronio di differenziare anche lo stile della narrazione, adattandolo alle diverse situazioni per caratterizzare i personaggi. Dallo stile semplice e disinvolto del narratore si passa al sermo vulgaris utilizzato dai personaggi dotati di una cultura superficiale. Figure come quella di Trimalchione discutono in un linguaggio colloquiale basso, ridondante e colorito, ricco di irregolarità, volgarismi e forme gergali. L’applicazione di tale tecnica emerge ripetutamente durante la cena, attraversata com'è dal contrasto fra l’esibizione del lusso, trovate scenografiche ed esagerazioni di dubbio gusto con l’ignoranza dei personaggi, i loro gesti volgari, il linguaggio sregolato. Un esempio lampante è rappresentato dalla spiegazione che prova a fornire Trimalchione riguardo l’origine dei suoi preziosi vasi corinzi (Satyricon, 50, 3-7). Expectabam, ut pro reliqua insolentia diceret sibi vasa Corintho afferri. (4) Sed ille me-lius: «Et forsitan» inquit «quaeris, quare solus Corinthea vera possideam: quia scilicet aerari-us, a quo emo, Corinthus vocatur. (5) Quid est autem Corintheum, nisi quis Corinthum habeat? (Mi aspettavo che ci dicesse con la sua solita boria che i vasi glieli portavano da Corinto. (4) Ma fece di meglio: «Forse» disse «mi chiederai perché solo io possiedo del vero corinzio. È chiaro: perché il fonditore che io ci faccio i miei acquisti si chiama Corinto. (5) Che vuol dire allora corinzio, se non che uno fa i suoi acquisti da Corinto?) In questo caso risulta impossibile non rilevare la ripetizione del termine corintho nelle sue varie declinazioni, o i giochi di parole che crea inceppandosi durante il discorso, fortemente sgrammaticato, e dando dimostrazione di abissale ignoranza. Peraltro il racconto che propone riguardo all’origine dei vasi risulta risibilmente inverosimile e permette di tratteggiare la sua figura come quella di un menzognero solito ad esagerare nel tentativo di provocare stupore nei propri ascoltatori. Ulteriori espressioni del sermo cotidianus emergono ad esempio dalle rivelazioni che Ermerote, uno dei commensali, fa ad Encolpio quando questi si dimostra curioso nei confronti di una donna che percorre la sala di qua e di là (Satyricon 37, 1-38, 5). Si tratta di Fortunata Uxor Trimalchionis (la moglie di Trimalchione) e nel descriverne le caratteristiche Ermerote la definisce una lupatria (troiaccia) che providet omnia, et ubi non putes (vede tutto prima di tutti, quando a te neanche ti passa per la mente). Affermando come questa nummos modio metitur (misura il denaro a moggi) fa uso di una forma proverbiale enfatizzando la ricchezza della proprietaria di casa che non conta il denaro ma lo misura a secchiate. Compaiono esclamazioni come babae babae (oh oh! Tradotto anche come ollallà) o mehercules (per Ercole! O miseriaccia boia) che permettono di conoscere la varietà della lingua latina completamente esclusa dai generi letterari elevati. Definisce Trimalchione adeo saluptus (ricco sfondato), usa termini come babaecalis (babbei) per indicare gli schiavi. Addirittura raccontando di come abbia fatto il proprietario di casa a produrre lana di altissima qualità in autonomia afferma come arietes a Tarento emit et eos culavit in gregem (comprò montoni a Taranto e li mise in culo al gregge). L’esaltazione massima delle ridicole esibizioni di ricchezza tipiche dei liberti comincia fin dall’ingresso teatrale di Trimalchione alla cena organizzata da lui stesso. Viene portato all’interno della sala del triclinium quando gli altri commensali stanno già consumando gli antipasti, e si presenta in maniera trionfale avvolto da guanciali imbottiti ed un mantello scarlatto. I vari gioielli che porta alle dita, un anello placcato in oro, uno in oro massiccio con delle decorazioni, un bracciale sempre d’oro e uno in avorio, sono significativi per rilevare una notazione storica. Infatti vengono citati per far risaltare ancor di più la ridicolaggine di Trimalchione, in quanto si tratta di gioielli indossati come a voler emulare l’anello d’oro, che a Roma poteva essere indossato esclusivamente dai cavalieri e quindi era precluso al pur ricchissimo liberto. Un ulteriore elemento degno di interesse si riconosce poiché Trimalchione non si unisce immediatamente al banchetto ma viene seguito da uno schiavo con una scacchiera di terebinto (un legno pregiato) e dei dadi di cristallo, poiché si trova nel bel mezzo di una partita ad un gioco che probabilmente corrisponde alla dama. L’immagine già pacchiana è enfatizzata dal fatto che, invece delle solite pedine bianche e nere, si utilizzino delle monete d’oro e d’argento. Ecco che si possono ricavare informazioni interessanti anche riguardo a quelli che erano gli elementi di svago all’epoca, come i giochi da tavolo, accompagnati in questo caso dalla libertà nell’utilizzo di un linguaggio scurrile da parte dei giocatori. Una delle situazioni più sorprendenti del banchetto riguarda il trattamento che viene riservato ad un servo macchiatosi della colpa di aver fatto cadere un piatto. Trimalchione ordina che venga punito a suon di schiaffi e dispone che il piatto, ormai già raccolto dallo schiavo stesso, venga rimesso a terra per essere raccolto da un altro servitore. Il fatto che Trimalchione sia stato uno schiavo in passato e adesso non solo possieda dei servitori ma li tratti in una maniera simile risulta decisamente sorprendente e significativo per ricavare elementi sulla classe sociale dei liberti. Per non dire di un’altra eloquenza che emerge dalla scena: Trimalchione, come tutti i ricchi che perdono il senso, se l’hanno mai avuto, dei propri confini umani, diventando tutt’uno con le loro proprietà, è sicuro di poter controllare tutto e tutti, e limita quindi anche l’iniziativa del servo che aveva voluto subito rimediare all’errore commesso. L’ennesima dimostrazione della pochezza culturale di suddetti personaggi emerge con le chiacchiere del rigattiere Echione con il retore Agamennone. Infatti il primo non ha intenzione di sfigurare ed apparire come un uomo disinteressato nei confronti della cultura e dell’educazione di suo figlio e tenta maldestramente di dimostrare quanto tenga invece a entrambe. L’istruzione di cui parla, tuttavia, risulta essere completamente subordinata all’utilità economica (ad esempio afferma come i libri di legge serviranno al figlio quando dovrà governare la casa) e permette a Petronio di fornire un’immagine da cui si distacca con la divertita superiorità di chi sa di appartenere ad una classe sociale che possiede una cognizione ben diversa, non bassamente utilitaristica, di cultura. Il liberto viene dipinto come l’uomo che ha denaro e successo come unici valori, e di conseguenza disprezza chi è dotato di cultura ma non ne ottiene nulla dal punto di vista pecuniario. Ad esempio, Echione stesso guarda con superiorità agli insegnanti la cui cultura non ha sortito alcun effetto per l’ascesa sociale. Proprio un’ascesa sociale è quella che descrive con poca umiltà Trimalchione nel raccontare le modalità con cui è arrivato a possedere tutti i beni che i suoi ospiti possono ammirare (Satyricon 75-77). Tra queste ce n’è una in particolare che non rende affatto onore al proprietario di casa, e si tratta di un periodo in cui, per accrescere le sue già ingenti ricchezze, ha praticato il prestito a usura, ma non sembra assolutamente preoccuparsi dell’immoralità di questa pratica. Piuttosto si pone con superiorità rispetto ai suoi ascoltatori e decanta il processo che, grazie alla sua intelligenza, l’ha portato a diventare quello che è in quel momento. Infine, la cena fornisce anche un'inedita rassegna delle pietanze che si era usi mangiare nell’antica Roma. Naturalmente in questo caso è una tavola bizzarramente opulenta e ricchissima ad essere rappresentata, che di conseguenza non restituisce certo le abitudini culinarie della maggioranza della popolazione. Ciononostante è un documento gastronomico di grande interesse. Sembra di capire, ad esempio, che il pasto vero e proprio fosse preceduto dalla cosiddetta gustatio che dà il via al primo atto della cena, le primae mensae. Durante la cena raccontata, Trimalchione non è ancora sopraggiunto nella sala del triclinium ed i suoi ospiti cominciano ad ammirare impiattamenti particolarmente creativi, comprendenti salsicce sfrigolanti servite sopra prugne di Siria e chicchi di melagrana (il cui colore rosso vuole richiamare scenograficamente la brace ardente), ghiri (insoliti al giorno d’oggi) conditi con miele e papavero, olive bianche e nere. Sul secondo vassoio è posta una gallina di legno che simula l’atto di covare e, nascoste nella paglia, sono presenti varie uova di pavone per i commensali. Di conseguenza si può notare come si stesse già sviluppando una certa ars culinaria che comprendeva abbinamenti insoliti, come quello dei ghiri con il miele, volti a suscitare nuove sensazioni nel palato. Senza contare la cura scenografica del piatto, tornata in auge negli ultimi decenni e ormai messa a disposizione della grande ristorazione. Prima di proseguire con le altre portate, Trimalchione offre fieramente ai suoi commensali del verum opimianum (del Falerno Opimiano, un vino esistente ancora oggi) invecchiato per 100 anni e prelevato direttamente da grandi anfore di vetro sigillate. Il primo piatto che viene portato risulta essere decisamente ingegnoso nella sua composizione e prevede un’alzata con i 12 segni zodiacali a ognuno dei quali è abbinato un determinato piatto di carne o di pesce decisamente ricercato ed insolito (ad esempio, con non proprio scontata analogia, al segno del Sagittario è accoppiato un cavalluccio marino). Seguono capponi, lepri e pesci ricoperti dal garum (si tratta di una salsa pepata molto diffusa nell’antica Roma). Risulta interessante notare come l’intero procedimento del banchetto sia sempre accompagnato da figure specifiche, deputate a servizi peculiari, e non solo da generici camerieri e servitori. Oltre al cuoco, sono presenti i personaggi dello structor, col compito di comporre i vassoi con trovate creative, e dello scissor, esperto nell’affettare le pietanze con grande precisione. La seconda portata è costituita da arrosti di diverse tipologie: cinghiale, maiale, vitello lesso, il tutto accompagnato da messinscene stravaganti di Trimalchione e dei suoi servitori. Il pasto sembrerebbe concludersi, come accade anche oggi, con le secundae mensae, e quindi con un dolce preparato dal pasticciere: si tratta di focacce, frutti e grappoli d’uva di ogni genere. Dopo alcuni dolci e delle lumache, la cena sembra non terminare più, con il padrone di casa che invita i suoi ospiti ormai stremati a spostarsi in un’altra sala per proseguire le consumazioni. ------------------------------------------------------------------------------------------------------------ Virginia Il realismo petroniano A partire dagli autori greci e latini, c’è sempre stata una netta divisione tra gli stili usati nei generi tragico, elegiaco e comico. Il tragico prevedeva personaggi appartenenti alle classi sociali più elevate e uno stile alto, l’elegiaco uno stile intermedio, mentre il comico uno stile basso e protagonisti appartenenti anche alle classi sociali più basse. È sempre stata prerogativa del comico quella del realismo, a partire da Aristofane, che si riproponeva di sbeffeggiare personaggi dell’epoca conosciuti da tutti, fino ad arrivare a Plauto, che portava in scena commedie, con lo scopo di far ridere il pubblico, le cui vicende si snodavano nella vita di tutti i giorni di persone comuni, spesso rifacendosi ai tipi fissi (servus callidus, iuvenis innamorato di una puella non libera in quanto concupita da un senex, ecc.). L’opera Satyricon di Petronio viene classificata come romanzo, poiché la commedia si occupava di descrivere ambiente sociale, luoghi e tempi in modo impreciso, con scarsi accenni al linguaggio individuale dei personaggi; mentre la satira, seppur simile alla commedia, aveva un’impronta moralistica solitamente rivolta alla critica di qualche vizio. All’interno dell’opera, però, si sviluppa il comico in tutte le sue forme. Il mondo che viene descritto da Petronio è lo stesso rappresentato nella commedia antica, ma le tipiche stilizzazioni e conversazioni vengono sostituite da uno stile immediato e concreto. Nell’opera petroniana predomina il linguaggio colloquiale tipico della commedia ma appare chiara la differenza tra il narratore (Encolpio), e in generale i personaggi colti, che fanno uso di un linguaggio elevato, al quale si oppone il sermo vulgaris degli altri personaggi. Il linguaggio di Trimalcione, che cerca di mantenere un gergo elevato ma finisce ad utilizzare un lessico sboccato, ad esempio, pare spontaneo ma è in realtà un’abilissima stilizzazione di Petronio, il quale mira alla derisione e alla caricatura dei liberti arricchiti, attraverso una distaccata ironia. Petronio fa quindi professione di realismo, servendosi dell’espressione nova simplicitas, che si riferisce alla sincerità e alla schiettezza, nuove rispetto alle consuetudini letterarie, con cui viene descritta la vita vera della gente comune, a partire dal preminente rilievo che nel testo viene dato al sesso, giustificato appellandosi alla dottrina epicurea del piacere come scopo supremo. Il realismo petroniano viene particolarmente rilevato nei capitoli dedicati alla cena di Trimalcione, nei quali vengono descritti l’ambiente, le vivande e abbigliamento che fanno da sfondo a personaggi delineati con accuratezza nei tratti psicologici, nella collocazione sociale, nella mentalità e perfino nel registro linguistico. A conferire allo stile di Petronio la nomea di realismo distaccato è la presentazione dei padroni di casa, Trimalcione e Fortunata, improntata su un realismo comico che lascia intendere la distanza tra i personaggi e il loro autore, il quale, comunque, non li giudica ma li osserva. Il filologo tedesco Auerbach, nel suo saggio di critica letteraria Mimesis, dedicato al realismo occidentale, concentra il secondo capitolo sul romanzo petroniano, conducendo l’analisi attraverso una simmetria con il libro I di Tacito e il Vangelo secondo Marco. Il capitolo Fortunata è incentrato principalmente sulla cena di Trimalcione e in particolare sulla moglie di quest’ultimo, chiamata proprio Fortunata. Il brano tratto dal Satyricon che Auerbach decide di analizzare vede Encolpio, il narratore, porre una domanda a un suo vicino di tavola durante la cena a casa di Trimalcione. Il narratore chiede chi sia la donna che va e viene per la sala, ottenendo una risposta comprensiva di informazioni non solo sulla donna ma anche sul padrone di casa e gli altri commensali. Con questa ironica e rarissima, nel contesto antico, trovata, risalta la genialità di Petronio: egli, infatti, decide di far descrivere i padroni di casa dai loro pari, da un soggetto lontano sia da lui che dal narratore, che proietta il suo sguardo sulla tavolata, parlando col cuore sulle labbra e senza peli sulla lingua, vuotando il sacco e non lasciando niente nel buio. Auerbach, per questo, lo compara a Omero, che getta una luce vivida e uguale sugli uomini e sulle cose di cui parla. L’intenzione di obiettività che muove il soggetto a raccontare porta il punto di vista dentro l’immagine, la quale guadagna profondità, perché il vicino di tavola descrive la compagnia alla quale egli stesso appartiene. Allo stesso tempo, la trovata permette a Petronio di sbeffeggiare la qualità plebea di questi nuovi ricchi, rilevando senza giri di parole che se ne possa parlare così, alla loro propria tavola. A rappresentare un altro caposaldo nella narrazione del Satyricon è il senso di precarietà e insicurezza che trapela nei personaggi. Un ritrovarsi a vivere una vita con il pensiero incombente della morte e dominata dalla fortuna. Esempio lampante è proprio Fortunata, la cui scelta del nome lascia già intendere che si ritrova a vivere una vita piena di agi per il solo fatto di essere la moglie di Trimalcione. Anche Auerbach muove la sua penna nella direzione della fortuna e della metamorfosi, mettendo in risalto l’insistenza del vicino di tavola nel paragonare la sua condizione passata a quella attuale. L’uomo ha in mente proprio la trasformazione, il cambiamento di fortuna. Quest’ultimo, nella letteratura, ha in genere un posto notevolissimo, ma spesso coinvolge solamente uno o pochi, mentre il resto del mondo rimane nell’immobilità. Alla tavola di Trimalcione, invece, pare che ogni commensale conduca una vita simile, e che tutti possano essere in egual modo soggetti al cambiamento, costretti a salire e scendere sulle scale della fortuna. La più rilevante particolarità del banchetto petroniano è l’ambizione artistica che porta l’autore a imitare, senza stilizzazione, un qualsiasi ambiente d’ogni giorno, facendo parlare le persone nel loro gergo. In questo modo Petronio mostra i limiti estremi del realismo, ma allo stesso tempo rivela ciò che questo realismo non poteva o non voleva dare: la cena di Trimalcione è quadro puramente comico, e in quanto tale tutto quello che accenna a sviluppi seri o tragici va tenuto lontano per non conferire un eccessivo peso allo stile. Limite invalicabile di questo stile rimane quello di tenersi lontani da tutto ciò che può essere serio e problematico, portando quindi l’autore a lasciare nell’ombra le forze sociali che stavano in quel tempo alla base dei rapporti rappresentati. Per la letteratura realistica antica, la società non esisteva come problema storico, al massimo come problema moralistico; e, in ogni caso, il moralismo era rivolto più ai vizi del singolo che all’intera società, la cui critica, in questo modo, non porta mai alla scoperta delle forze che la muovono. Anche dietro il trambusto presentatoci da Petronio, non si rintraccia nulla di tutto quello che fa capire le cose nella loro interdipendenza politico-economica. Se l’autore del Satyricon avesse collegato i singoli avvenimenti con determinate situazioni politico-economiche della prima età imperiale, ne sarebbe derivata una profondità storica e, di conseguenza, si sarebbe potuto parlare di movimento storico; ma questa trasgressione alle rigidissime regole del comico, avrebbe fatto saltare lo stile entro cui Petronio intendeva destreggiarsi. A questo punto risulta chiaro che la letteratura antica non pone più solo un limite al suo realismo, ma anche alla sua coscienza storica. Infatti, è proprio nei rapporti spirituali ed economici della vita quotidiana che si manifestano le forze alla base dei movimenti storici. Auerbach mette in luce come questo limite non sia prerogativa solo dei commediografi ma anche degli storici, partendo da un’analisi del testo, che risale al primo libro degli Annali di Tacito, dedicato all’inizio della rivolta delle legioni germaniche dopo la morte di Augusto. Nel passo del testo analizzato, viene riportato un discorso di Percennio, il quale espone le lamentele dei soldati. Nell’ottica di Tacito, le lagnanze dei soldati sono solo sintomo di arroganza plebea e mancanza di disciplina e il caporione Percennio, che si atteggia a generale, è meritevole di profondo disprezzo. Si rivela quindi che la rappresentazione così viva delle lamentele dei soldati non significa comprensione; e l’autore non si prende nemmeno la pena di dimostrare che esse sono ingiustificate, lasciando ad alcune considerazioni puramente moralistiche il potere di invalidarle. Non esiste, quindi, nell’antichità, una profonda indagine storica che tratti metodicamente lo sviluppo dei movimenti sociali e spirituali. Gli antichi, sia nel campo della storiografia che della letteratura, impostano il problema in maniera moralistica piuttosto che evoluzionistica e vedono vizi e virtù al posto di forze e movimenti. Moralismo e retorica, aspetti fondamentali della storiografia antica, si dimostrano inconciliabili con l’idea di realtà quale sviluppo di forze; e i documenti che ci sono pervenuti da questa scienza, esattamente come il discorso del vicino di tavolo alla cena di Trimalcione, non ci forniscono informazioni né sulla storia dei popoli, né sulla storia economica e spirituale. Per trovare un esempio contrario a quello fornito dagli Annali di Tacito, Auerbach non si spinge troppo lontano nel tempo ricorrendo a un testo moderno, ma si concentra su uno scritto della letteratura giudaico-cristiana, contemporaneo a quelli di Petronio e Tacito: la storia di san Pietro che rinnega Cristo per paura di essere arrestato, nella versione dell’evangelista Marco. Il testo ospita una mescolanza stilistica dovuta alla scena estremamente realistica per il luogo e per gli interlocutori, seppur sia di una profonda problematicità e tragicità. Sia la figura di un eroe di tanta debolezza, che proprio dalla debolezza trae la sua forza maggiore, sia il modo e il luogo del conflitto, che si svolge in tutto e per tutto fra persone comuni del popolo e quindi farebbe pensare agli antichi a una farsa o una commedia, sono inconciliabili con lo stile della letteratura antica. La nascita di un movimento spirituale nelle profondità della vita spirituale del popolo si rivela moto e forza storica perché in qualsiasi persona vengono esemplificati gli effetti della dottrina, della persona e del destino di Gesù. Uno scrittore antico potrebbe descrivere un moto nel suo insieme come miscuglio di reazioni diverse, ma non potrebbe mai avvenire che queste ultime divengano proprio l’oggetto principale della rappresentazione. La norma stilistica vigente nell’antichità può persistere solo qualora si rinunci a rendere concrete le forze storiche o non se ne avverta la necessità; mentre il modo in cui gli Evangeli mettono in evidenza quelle forze, seppur non sia scientifico, porta alla formazione spontanea di concetti ordinativi sia per le epoche che per gli stati intimi. La diversità stilistica principale tra gli scritti antichi e i primi scritti cristiani poggia sull’essere stati scritti da altri punti di vista e per altri uomini. Petronio e Tacito hanno lo stesso punto di vista, ovvero dall’alto. Tacito getta lo sguardo sopra la massa degli avvenimenti, li ordina e li giudica come un uomo di altissima condizione e educazione; Petronio vede dall’alto il mondo che dipinge e attende lettori di sua pari levatura sociale e cultura che possano intendere tutte le sfumature del maldestro comportamento sociale e dell’abbassamento del gusto. Invece, il racconto del rinnegamento di Pietro, e in genere quasi tutto il Nuovo Testamento, non mostra una visione razionalmente ordinata dall’alto né intenzione d’arte; ma sensibile e concreto appare in quanto si manifesta spontaneamente nei gesti e nelle parole nate dall’intimo degli uomini, senza alcuno sforzo di elaborazione.
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