DAI TOPI AL SENSO DELLA VITA - TESTO
DAI
TOPI AL SENSO DELLA VITA
Dino Buzzati è uno scrittore che ha
dedicato molta della sua narrativa a evocare fantasmi. Non quelli che
tradizionalmente colleghiamo con le sedute spiritiche, pensando quindi a
apparizioni di spiriti defunti, ma, in
senso più lato, presenze che non rientrano nell’universo noto, che popolano
strati o substrati della mente di chi scrive e di chi legge. Fantasmi che non
si possono vedere o ascoltare, eppure si sentono, si sa che si nascondono da
qualche parte e che possono assumere consistenza nei momenti più inattesi
oppure arrivare gradualmente, senza farsi accorgere. Così, quando ormai sono
diventati palesi, non si può fare più nulla per liberarsene, tanto meno
chiudere gli occhi e credere che sia stato tutto un sogno.
È tratteggiabile così,
riconoscendone l’ossatura di base, anche il racconto I topi, che fa parte della raccolta intitolata La boutique del mistero. Quest’ultima
è una delle raccolte più significative del prolifico autore bellunese, nato nel
1906 in una famiglia dell’alta borghesia veneta, con ascendenze ungheresi. Una
delle più significative, perché Buzzati la compose, nel 1968, a pochi anni
dalla morte avvenuta nel 1972,
scegliendo personalmente tra svariati racconti già pubblicati sotto
varie titolature. Ad accomunarli, e rendere significativo il titolo, il fatto
che in tutti trovi espressione una peculiare vena del loro autore, quella
orientata a fondere istanze realiste e istanze fantastiche o metafisiche. La
fantasia di Buzzati è di quelle capaci di produrre metamorfosi del
pensiero e della parola, tesa nello sforzo di scavare nella realtà, ma anche di
occultarla, prima, e scoprirla di nuovo poi, attraverso metafore sorprendenti; o ancora di
sfruttare eventi apparentemente insignificanti per caricarli di inediti
significati: così gocce d’acqua possono acquistare personalità, cani promuovere
rinnovamenti spirituali, extraterrestri proporre alternative storie di formazione, e, arrivando al soggetto del
racconto di cui voglio occuparmi, forme
di vita inferiore assoggettare umani diventati inermi e schiavi della loro
bestiale ferinità.
Gli
strumenti stilistici di cui si serve Buzzati in questi racconti sono i medesimi
sfruttati nel suo romanzo più celebre, Il
deserto dei Tartari¸del 1940, che precede di qualche anno la maggioranza di
questi brevi scritti. L’autore possiede il dono della sintesi descrittiva, che
gli consente di narrare attraverso l’inserzione di folgoranti tasselli, quasi singoli
fotogrammi, con cui un ambiente, un personaggio, o entrambi insieme, si
stagliano all’improvviso con evidenza.
La voce autoriale, il cosiddetto io onnisciente, non si fa sentire, come
nella tradizione dei romanzi veristi, naturalisti, neorealisti, mentre le
storie si dipanano come accade nella realtà, ma con un sentore permanente o
incombente di inquietudine, di deformazione, di follia, oppure con l’attesa di
qualche rivelazione o cambiamento improvviso, che possa illuminare ombre che si
addensano, paure che si accavallano, domande insensate che non trovano
risposta.
Lo stile è piano e quasi sommesso, Buzzati non ama frasi a effetto o
linguaggi iperbolici: le sorprese sconvolgenti non sono preparate a livello
espressivo, ma prorompono dalle storie con la vividezza realistica di certe
immagini. Nel caso dei Topi¸ si può
chiaramente riconoscere un climax
ascendente. Prima, nelle pagine iniziali, il narratore interno evoca giorni
trascorsi piacevolmente come ospite in una casa di campagna presso amici. Un
solo seme d’inquietudine s’avverte, nell’interrogativa d'apertura, che fa
presagire come qualcosa
sia accaduto, al quale occorre ancora dare un nome, che bisogna riuscire a
riconoscere cosa sia esattamente.
Poi si passa alla ricostruzione degli eventi, attraverso svariate
analessi: quando il narratore, appunto ospite nella casa di campagna degli
amici, ha sentito e visto per la prima
volta un minuscolo e grazioso topo. Così fragile da non incutere la minima
paura e, soprattutto, da indurlo a risparmarlo.
Quindi, appunto in un crescendo e
con una di per sé inquietante scansione del tempo (un anno, e poi un anno e poi
un altro ancora), che rapprende e dilata nello stesso momento, i topi sembrano
scomparire, sostituiti da gatti che forse (ma non è così) si nutrono di loro e
poi però ne diventano inattese vittime, in un rovesciamento delle leggi di
natura che fa presagire la conclusione finale.
Buzzati plasma l’orrore senza
permettere che fuoriesca dai confini della parola, che resta misurata: la
sobrietà dello stile consiste in questo. Tuttavia l’impatto sentimentale non ne
risente, anzi: per via di contrasto, quando si giunge all’immagine finale della
cucina in cui la signora Elena Corio, un tempo dolce e amabile creatura, appare vestita come una pezzente accanto
al fuoco, intenta a preparare chissà che disgustosa mistura per grappoli di fetidi topi affamati che le
si accalcano intorno, si capisce che tutto si è ormai irrevocabilmente
rovesciato, che tutto è ormai irrevocabilmente perduto. E il fatto inquietante, forse sconvolgente, è che le cose
sono accadute in modo palese e pure lento, così che sarebbe stato possibile
fermarle, modificarle.
Una colata lavica lenta e inesorabile, che si è avuto il
torto di non voler vedere. Di negare addirittura. Per poi esserne travolti. Non
ci sono topi in questa casa, sostenevano contro ogni evidenza gli incauti
ospiti del narratore. Per poi trovarsi a esserne diventati gli schiavi.
E così,
alla fine di tutto, non resta che dire sommessamente, non datevi pensiero, è troppo tardi, per noi non ci sono più speranze.
Il racconto è la metafora di un
dolore che si sarebbe potuto evitare, che non rientra nel novero di quelli che
infligge la natura o che procura il caso, ma che sono i soggetti stessi a
procurarsi, con comportamenti sbagliati, irrazionali: la negazione, prima, poi
l’occultamento, ma senza difendersi davvero dall’assalto prevedibile. Così, la
sventura finale giunge inevitabile: i topi conquistano la casa gli umani sono schiavizzati, probabilmente spariranno. La narrazione non lascia spazio a nessuna catarsi, ma
si chiude con un epitaffio che è anche un ammonimento.
Resta la possibilità,
per chi ha guardato tutto dall’esterno, di imparare qualcosa dalla disavventura
dei Corio. Ad esempio a cogliere i segnali, a non sottovalutarli, a non
nascondere la verità cercando di darle altri nomi, a permettersi di avere paura
perché solo così non si viene colti alla sprovvista anche da lei, si impara ad
affrontarla con armi adeguate e non si soccombe prima ancora di avere
combattuto o senza avere avuto il tempo di capire da che parte esattamente
arrivassero i nemici.
Commenti
Posta un commento