PROGRAMMA DI EDUCAZIONE CIVICA: LEZIONI DEL 7 E DEL 12 GENNAIO (PAUSA DIDATTICA)

Giovedì 7 gennaio vedremo insieme un film in francese, sottotitolato in italiano, di Agnès Varda, intitolato Les glaneurs e la glaneuse, durata 82',   a partire dal quale svolgeremo un lavoro suddiviso in gruppi, servendoci anche del libro indicato nella programmazione di educazione civita (Luciano Gallino, Il denaro, il debito e la doppia crisi spiegati ai nostri nipoti, Einaudi, 2015). Indico di seguito, per cominciare, i gruppi e una scaletta per prendere appunti durante la visione del film.

GRUPPO 1: Sara, Luisa, Alberto, Vrginia, Federico C.

GRUPPO 2: Martina, Eleonora, Sergiu, Ettore, Filippo

GRUPPO 3: Francesco, Jacopo, Lorenzo, Federico M., Matteo

GRUPPO 4: Andrea, Francesca, Carlotta, Lisa

Scaletta:

  • appuntarsi i nomi dei LUOGHI, delle PERSONE e qualche dettaglio delle storie di ciascuna
  • prestare attenzione ai momenti in cui Agnès Varda volge lo sguardo su di sé e a quelli in cui documenta l'umanità
  • prestare attenzione ai sensi attribuiti al verbo glaner
  • prestare attenzione ai movimenti nello spazio e alle inquadrature della macchina da presa (corpi delle persone,  natura,  automobili, case, oggetti)

Su Agnès Varda, vi invito a leggere questa sintetica biografia:
https://festival.ilcinemaritrovato.it/addio-ad-agnes-varda/#:~:text=Biografia,La%20Pointe%20Courte%20%281954%29.

LAVORO GRUPPO 1: elaborare una riflessione sul verbo glaner, da cui si intenda come la regista abbia utilizzato il quadro ottocentesco per creare un nesso con la società contemporanea. 

LAVORO GRUPPO 2: l'uomo con gli stivali di gomma e il suo rapporto con la società.  Attenzione ai dettagli, utili a ritrarre con parole vostre (e a riflettere in modo personale) su questa persona. 

LAVORO GRUPPO 3: il laureato e il suo rapporto con la società. Attenzione ai dettagli, utili a ritrarre con parole vostre (e a riflettere in modo personale) su questa persona. 

LAVORO GRUPPO 4: sprechi e avanzi nella società dei consumi. Quale contributo fornisce questo documentario a tale  tema? Elaborate una riflessione in merito. 

METODO DI LAVORO: durante la visione si prendono appunti seguendo la scaletta e facendosi guidare dai lavori assegnati a ciascun gruppo. Quindi si elaborano riflessioni autonome, che martedì 12 GENNAIO  in classe (lavoro a stanze separate per 45') diventano oggetto di confronto. Poi, riunendo la classe, si rende collettivo il pensiero. 

MATERIALE PER CONCLUDERE IL LAVORO GIOVEDI' 14 GENNAIO (leggere e impostare fra martedì e giovedì, giovedì in 45' si conclude)

OGNI GRUPPO DEVE OCCUPARSI DI UN PARAGRAFO (sono 4, seguiamo l'ordine), ricavandone DATI, CONCETTI e INFINE UNA CONNESSIONE CON IL FILM DI VARDA. Per domenica 17 gennaio, TUTTI DOVRANNO INVIARE AL MIO INDIRIZZO MAIL UN LAVORO COMPLETO COSI' STRUTTURATO: 

1) RIFLESSIONI FINALI ELABORATE NEI SOTTOGRUPPI DA CIASCUNO (quindi alla fine del confronto).

2) LAVORO ASSEGNATO SU GALLINO E CONNESSIONE FINALE CON VARDA.

Luciano Gallino, Il denaro, il debito e la doppia crisi spiegati ai nostri nipoti, Einaudi, 2015. 

Capitolo primo
La doppia crisi del capitalismo e del sistema ecologico

PARAGRAFO 1 Il capitalismo tra stagnazione, crollo e crisi ambientale.
In questi primi capitoli, ma anche in seguito, impiegherò spesso un termine oggi poco usato quando si parla di economia: «capitalismo». Per due motivi. Anzitutto esso rimane ilnome più significante per designare la formazione economica, sociale e politica che abbraccia il mondo intero, in quanto essa ha nel capitale il suo motore, la ragion d'essere, lasostanza che lo alimenta e lo tiene in vita. In secondo luogo lo faccio per reagire a una frode. Essa consiste nel designare la medesima formazione come «sistema di mercato» o simili. Su tale frode, definita ironicamente «innocente», richiamò
l'attenzione alcuni anni fa, poco prima della sua scomparsa, uno dei più brillanti economisti del secolo scorso, John Kenneth Galbraith (nota 1)  Stando alla sua analisi, il comportamento predatorio dei capitalisti di fine Ottocento- inizi Novecento, le follie speculative che avevano portato al crollo del 1929, le
malversazioni contabili tipo Enron che avevano fatto esplodere nel 2001  la bolla tecnologica, avevano conferito altermine «capitalismo» un'aura sgradevole, persino agli occhi dei conservatori americani ed europei. Come risultato il nome era stato sostituito nei media, ma anche nei saggi specialistici, dall'espressione «market system». Scriveva Galbraith:m«Quando il capitalismo, il riferimento storico, cessò di essere accettabile, il sistema fu  ri-denominato. Il nuovo termine era benevolo ma privo di significato» (nota 2)  Infatti il termine «capitalismo» richiama immagini quali potere, classi sociali, ricchezza e povertà, grandi fabbriche che iniziano a produrre e altre che chiudono, lunghe catene di montaggio e file ancora più lunghe di disoccupati. Il termine «sistema di mercato» fa pensare tutt'al più a impiegati seriosi che su un registro o al computer consultano file di cifre che capiscono soltanto
loro. Il primo termine desta consenso oppure dissenso e non di rado rabbia. Il secondo è un tranquillante dell'immaginazione collettiva. Per tale motivo, sosteneva Galbraith, viene così ampiamente utilizzato. Alla nostra epoca questa frode linguistica e concettuale è più in voga che mai, nei media, nel linguaggio politico, nei testi degli economisti. Ho quindi cercato di non farmi coinvolgere in essa, sperando che qualche lettrice o lettore si convinca che evitare di parlare di capitalismo, per parlare invece di «mercati», come accade persino a sinistra, è una frode tutt'altro che innocente. 
È possibile che il capitalismo attuale, fondato sul dominio incontrollato della finanza, sull'aumento incessante dei consumi - in cui consiste la decantata «crescita» -, sul continuo peggioramento delle condizioni di lavoro, e su un aumento inaudito delle disuguaglianze di reddito e di ricchezza, duri ancora a lungo. Avrà però a che fare con una probabilità e una certezza, che rendono assai incerto il suo futuro - e quello di tutti noi.
Come spiego nei successivi capitoli, esiste una probabilità assai elevata che il futuro dell'economia capitalistica sia una stagnazione senza fine. Il che significa un incremento modesto o nullo del Pil; prezzi fermi o in calo; salari e stipendi in diminuzione (in termini reali); imprese piccole e grandi
che chiudono. Mentre l'1 per cento della popolazione continua ad arricchirsi. Una quota di popolazione per la quale il vecchio termine di oligarchia («dominio dei pochi») appare quanto mai adeguato; un'oligarchia il cui dominio dittatoriale tramite le istituzioni Ue comincia pericolosamente ad
assomigliare al «tallone di ferro» di cui parlava Jack London in un romanzo del 1907.
Sebbene gli autori che hanno anticipato tale scenario siano in prevalenza di ispirazione marxista, colpisce che l'ipotesi di una stagnazione senza fine dell'economia capitalistica, quale prolungamento della crisi iniziata nel 2008, sia ormai formulata, sia pure in termini diversi, anche da autorevoli
rappresentanti dal pensiero neoliberale - l'armatura ideologica dell'oligarchia dominante. È il caso di Larry Summers, alfiere del «pensiero unico», già segretario al Tesoro, pilota della campagna di privatizzazione selvaggia del patrimonio  industriale dell'ex Urss, consigliere di presidenti da Clinton
a Obama. Tra la fine del 2013 e i primi mesi del 2014, Summers ha in varie occasioni espresso il parere che la stagnazione potrebbe rivelarsi la nuova normalità dell'economia americana come dell'economia globale. Lo ha fatto adducendo tutta una serie di specifiche ragioni, dal declino degli investimenti al permanere di grosse sacche di debito e alle contemporanee riduzioni dei salari, dei prezzi e dei tassi d'interesse (nota 3). Di certo siamo lontani da un'analisi strutturale del capitalismo dei nostri giorni. Nondimeno è indicativo che studiosi di opposto orientamento coltivino documentati dubbi sul fatto che dopo la presente crisi il capitalismo possa riprendere la sua marcia espansiva, come se nulla fosse accaduto. A sua volta la certezza a cui il capitalismo si trova di fronte è la crisi irreversibile del sistema ecologico, per contrastare la quale occorrerebbe rivedere a fondo il funzionamento dell'economia e il modo di ragionare su di essa. La crisi si presenta contemporaneamente su due fronti. Da un lato l'economia capitalistica consuma molte più risorse biologiche di quante la Terra non produca o riesca a riprodurre, mentre le risorse «fossili» sono in via di esaurimento. Dall'altro i guasti inflitti al clima, non solo sotto forma di riscaldamento globale dell'atmosfera, e ad altri sistemi che sostengono la vita,
stanno per raggiungere un punto oltre il quale i danni alle condizioni di esistenza di gran parte dell'umanità potrebbero diventare gravissimi e irreversibili. Sul primo punto bastino un paio di dati. Alla fine del primo decennio Duemila, l'impronta ecologica dell'umanità era stimata in 1,5. Ciò significa che la popolazione mondiale consuma le risorse biologiche e le capacità di rigenerazione dei terreni, dei mari, dei boschi alla medesima velocità a cui le riprodurrebbe una Terra una volta e mezza più grande. Detto altrimenti, ogni anno l'umanità consuma biorisorse e servizi rigenerativi degli ecosistemi una volta e mezza più rapidamente di quanto le une e gli altri siano in grado di riprodursi. Ma ciò avviene
soltanto perché l'8o per cento dei consumi è dovuto al 2o per cento della popolazione mondiale. Se i consumi dei restanti quattro quinti - come essi giustamente desiderano - dovessero approssimarsi a quelli dei paesi più sviluppati, di Terre  ce ne vorrebbero quattro o cinque.
Quanto alle risorse fossili - carbone, petrolio, minerali - sono una grandezza finita, mentre il sistema capitalistico opera come fosse infinita. Nessuna ricetta per riciclare le risorse utilizzate dall'industria e dai consumatori può ovviare a tale limite, poiché in ogni caso a ogni ciclo di riciclaggio una certa quantità di risorse va perduta. Inoltre le materie riciclate - a cominciare, per dire, dalla carta stampata o dalla plastica - non sono identiche a prima, il che significa che non si prestano ai medesimi usi. L'unica risorsa inesauribile è il calore solare, ma finora soltanto una frazione esigua di quello che arriva sul pianeta viene captata a scopi umani.
Più incombente ancora è la crisi climatica, dovuta essenzialmente al riscaldamento dell'atmosfera prodotto dalle attività umane. A onta di innumeri incontri internazionali, le denunce concordi del 97 per cento degli scienziati che studiano il clima sono rimaste di fatto inascoltate. Un effetto  del riscaldamento dell'atmosfera lo tocchiamo ormai con mano quasi ogni giorno, in forma di eventi pluviali o nevosi di portata catastrofica e di localizzazioni mai viste. Il meccanismo che li ha generati è relativamente semplice. L'aumento della temperatura dei mari e dei ghiacciai perenni dell'Artide,
dell'Antartide, della Groenlandia e altri siti glaciali ha fatto sì che miliardi di metri cubi di acqua in più di quanto sia mai accaduto si trasformino in vapore, per ripiombare poi sulla Terra nel modo che abbiamo tristemente imparato a conoscere. È inoltre certo un aumento del livello dei mari, che potrebbe allagare vaste zone costiere - comprese le città che le popolano. Non è tutto: la maggioranza degli studiosi del clima ritiene che potremmo essere vicini a qualche sorta di tipping point, ossia dei punti di non ritorno che arrecherebbero alle condizioni di vita di ampie parti dell'umanità dei danni
gravissimi e irreversibili.
Al timore di ciò che potrebbe entro breve tempo succedere dovremmo forse affiancare una riflessione morale. Quasi quarant'anni fa, il filosofo Hans Jonas pubblicava Il principio di responsabilità. Un'etica per la civiltà tecnologica (1979). L'idea ispiratrice di quest'opera è valida oggi ancor più di allora. In
forza dello sviluppo della tecnologia, l'uomo ha conseguito un potere senza precedenti sul destino del pianeta e con esso dell'intera umanità. Simile potere ci consegna una responsabilità che travalica ogni considerazione sui meriti o demeriti del capitalismo come formazione economico-sociale. Il quadro tradizionale dei rapporti sociali ha subito una radicale trasformazione. Seguiamo per un momento Jonas:
Si prenda ad esempio[...] la vulnerabilità critica della natura davanti all'intervento tecnico dell'uomo- una vulnerabilità insospettata prima che cominciasse a manifestarsi in danni irrevocabili. Tale scoperta, il cui brivido portò all'idea e alla nascita dell'ecologia, modifica per intero la concezione che abbiamo di noi stessi in quanto fattore causale nel più vasto sistema delle cose [p. 10].
Conclusione: non sta accadendo qualcosa a cui noi assistiamo dall'esterno; siamo noi gli attori primi del destino che stiamo preparando a noi stessi e ai nostri discendenti. Non tra secoli, come pensa chi non vuole riflettere sulle nostre responsabilità, bensi in un futuro molto prossimo, misurabile in pochi decenni. Lo ricorda con tono ammonitorio, dopo tanti altri, un autorevole rapporto dell'Onu dell'autunno 2014. 
Dinanzi alle prospettive sin qui delineate, pare evidente che anche un'analisi strutturale delle contraddizioni del capitalismo che lo hanno condotto alle difficoltà attuali, al fine di ragionare sul suo superamento nella prospettiva di una diversa formazione sociale meno irrazionale e meno oligarchica, è necessaria ma non è più sufficiente. Occorre pensare a una svolta radicale del modo di organizzare e far funzionare l'economia, sia essa una variante più o meno profonda del modo capitalistico di concepirla, oppure un superamento del medesimo. Se ne parla, in Europa. Sono numerosi i centri di ricerca, i dipartimenti universitari, le associazioni che lavorano attivamente a promuovere un ripensamento
dell'economia che tenga conto delle criticità richiamate sopra. Persino il Parlamento tedesco, per altri versi roccaforte delle dottrine neoliberali che stanno soffocando l'Unione europea, ha fatto realizzare nel 2013  un rapporto (di mille pagine!) in cui vengono criticamente discusse le implicazioni
dell'attuale modello di crescita.  Coloro che vorrebbero ripensare l'economia prima che sia tardi hanno purtroppo dinanzi un avversario il cui immenso potere è pari soltanto alla sua cecità. Mi riferisco ai governi e alle istituzioni europee le cui dottrine e politiche neoliberali, a onta dei disastri che hanno combinato negli ultimi decenni, non da ultimo con le politiche di austerità, continuano a essere il paradigma dominante e acriticamente perseguito in tutte le loro decisioni. Le vie per uscirne non sono molte. Una potrebbe essere che l'attuale repressione del livello di vita per gran parte della popolazione favorisca alla lunga l'insorgere di movimenti sociali sempre più cruenti e incontrollabili, che potrebbero preludere a ulteriori decenni di crisi più o meno caotica. L'altra potrebbe consistere nel cammino delle idee che già circolano in Europa circa la necessità di una svolta radicale nell'organizzare l'economia. Inmtali idee è possibile che una parte crescente sia assunta dalla riflessione sull'esigenza di domare la finanza, riportarla  al ruolo di ancella dell'economia reale, e restituire agli Stati la sovranità nel creare denaro. Questo perché l'impulso dissennato alla crescita dei consumi e delle disuguaglianze, condotto nel totale disprezzo non solo del presente ma del futuro dell'umanità, non sarà mai accantonato senza una riforma del denaro e del potere di crearlo e controllarlo. Con queste pagine di prima informazione cedo alla speranza di far compiere a tale idea un piccolo passo tra coloro che vogliano sottrarsi alla cappa della prassi politica e dell'ipnosi neoliberale che stanno portando alla rovina il nostro paese, se non l'intera Europa. Non sarà un superamento totale del capitalismo, come forse sarebbe necessario, ma quantomenoun modo realistico per tentare una volta ancora di sottoporlo a un grado ragionevole di controllo democratico.

PARAGRAFO 2 Contraddizioni del capitalismo fondato sul consumo: la pauperizzazione del consumatore.

La crisi economica e finanziaria esplosa nel 2008  ha moltiplicato le analisi delle sue radici da un punto di vista marxista. In generale esse hanno una profondità sconosciuta alle numerose disamine della crisi dovute a economisti mainstream, la corrente improntata dalle dottrine neoclassiche o neoliberali che non hanno né previsto la crisi né prodotto - tranne casi rari- spiegazioni convincenti di essa. Nondimeno anche le analisi orientate dal pensiero marxista presentano un serio limite quanto a trattazione delle componenti ecologiche della crisi. Questo perché al fondo del pensiero marxista, anche nelle sue espressioni contemporanee, è radicata pur sempre l'idea che l'emancipazione del proletariato, la
costruzione di una società non fondata come l'attuale sullo sfruttamento del lavoro di molti da parte di pochi, richiedano una crescita ininterrotta delle cosiddette «forze produttive». Esse dovrebbero venire socializzate per costituire la base di una società più equa, ma la crescita composita della produzione e dei consumi, con i suoi effetti sull'ambiente e sulla stessa condizione umana, dalla maggior parte degli
autori di questo orientamento non viene affatto problematizzata. Per questo motivo, dopo aver tracciato un profilo delle correnti diagnosi marxiste della crisi, che in ogni caso mostrano un potere esplicativo superiore al pensiero economico dominante, nei tre paragrafi successivi mi soffermo sulla necessità di una svolta tutta da inventare dell'economia, a fronte dell'aggravarsi della crisi ecologica, che esse
in gran parte trascurano. Il primo aspetto della crisi del capitalismo che vorrei qui richiamare riguarda la pauperizzazione del consumatore.
D'accordo, un termine come «pauperizzazione» non dovrebbe forse venire usato in un testo che vuole spiegare in modo semplice le cause della crisi economica in corso e le sue conseguenze sulla società e sulle persone. Ma esso sottintende un'idea importante, diversamente da sinonimi quali «impoverimento» e altri. Il consumatore medio -l'impiegato, l'operaio, l'insegnante, l'infermiera, ecc. - non è diventato più
povero per qualche misteriosa disfunzione dell'economia: è stato intenzionalmente impoverito da chi aveva il potere di farlo, al fine di trasferire ai profitti e alle rendite la maggior quota possibile dei redditi da lavoro. Come dimostra l'andamento della cosiddetta quota salari sul Pil, in forte calo da una trentina d'anni nei paesi Ue: dal64 al 57 per cento fra il r98o e il 2008 (dato Fmi). Il termine storico di pauperizzazione intende appunto sottolineare che la condizione di povertà relativa in cui la crisi ha spinto milioni di persone delle classi medie e della classe operaia è stato un esito metodicamente perseguito dalle imprese e dai governi. In tal modo inasprendo una grave contraddizione nel sistema capitalistico, perché esso per sopravvivere avrebbe bisogno di consumatori/lavoratori non già poveri, bensf relativamente benestanti. Come è accaduto negli anni Cinquanta e Sessanta, grazie a una congiuntura irripetibile che per circa tre decenni permise alle imprese, grazie alle produzioni in massa
di auto, elettrodomestici e televisori, di fare buoni profitti e al tempo stesso di pagare salari dignitosi ai lavoratori. I quali in tal modo potevano acquistare i loro prodotti. Fu Henry Ford per primo, intorno al 1913, a comprendere il ruolo centrale degli alti salari per far girare l'economia capitalistica.
Ma andiamo per ordine. Il sistema capitalistico, che a partire dagli anni Ottanta è giunto a coprire tutto il mondo grazie al nuovo corso della Cina e poco più tardi al crollo dell'Unione Sovietica, attraversa sin da allora una crisi di crescente gravità. La crisi finanziaria esplosa nel2oo8 negli Usa e nella Ue, e la successiva crisi del debito pubblico apertasi nel 2010 nei paesi europei, sono soltanto effetti collaterali di una profonda crisi strutturale dell'intero sistema. Sono tre le caratteristiche dominanti che il capitalismo ha sviluppato dagli anni Ottanta in poi, in un tentativo di dominare la crisi che, mentre ha inflitto pesanti costi alle popolazioni dei paesi sviluppati, ha posto le premesse per ulteriori fasi della
crisi più gravi delle precedenti. La prima caratteristica è il declino tendenziale di una figura sociale che per il capitalismo ha un'importanza vitale, il consumatore. Per dare concretezza all'esposizione prendiamo un caso, come hanno fatto altri autori, che per vari aspetti è oltremodo rappresentativo. È il caso della catena di supermercati Wal-Mart4. Partendo da un singolo supermercato aperto in una cittadina dell'Arkansas nel 1962, la società (le cui iniziali sono quelle della famiglia W alton, che la controlla in quanto possiede il 50 per cento del capitale) è giunta ad avere 2,2 milioni di dipendenti nel mondo, gestisce oltre 6300 impianti distribuiti dagli Usa alla Cina, e nel 2013 ha realizzato un fatturato di 400 miliardi di dollari. Mentre costruiva il proprio successo commerciale, ha contribuito a dare
un volto nuovo al capitalismo contemporaneo mediante due straordinarie invenzioni, presto adottate da innumerevoli corporations. Prima invenzione: una politica di prezzi bassissimi nei suoi supermercati, fondata in prevalenza su acquisti dai paesi emergenti e su produzioni di imprese ivi fondate da Wal-Mart. Seconda invenzione: una politica retributiva metodicamente orientata a pagare salari sotto la media e a fornire condizioni di lavoro pessime, praticata non so lo dai supermercati aperti nei paesi emergenti, ma pure nei paesi sviluppati, a cominciare dagli Stati Uniti. Adottando le strategie inventate da Wal-Mart o altre analoghe, le politiche dei bassi salari - in specie, dei salari tenuti fermi mentre la produttività continuava a salire - hanno percorso una lunga strada negli Usa, nella Ue e nei paesi
emergenti. Dimentiche della lezione di Ford, esse sono all'origine della scomparsa di interi settori produttivi in America come in Europa, «delocalizzati»- è il termine in uso per designare il trasferimento all'estero della produzione parziale o totale di un'impresa nazionale- in qualche paese emergente. Per citare solo uno dei casi più noti, la maggior parte dei telefoni cellulari, pc (tablet inclusi), capi di abbigliamento, giocattoli, casalinghi venduti a prezzi stracciati a Chicago, a Parigi o a Milano dai maggiori supermercati da tempo proviene dalla Cina. È fabbricata per lo più da giovani donne
che hanno paghe da 8o-roo dollari al mese, orari di lavoro di 12-14  ore per sei giorni alla settimana, 10-12 giorni di ferie all'anno e diritti sindacali zero.Ma questo è soltanto un lato della medaglia. L'altro lato
sono i milioni di posti di lavoro stabili e ben retribuiti che sono scomparsi, nei paesi sviluppati, a causa della chiusura di migliaia di imprese che fabbricavano telefoni, pc, televisori, capi di abbigliamento, elettrodomestici, giocattoli, casalinghi e un'infinità di altre merci. Per i soli Stati Uniti si
stima siano andati persi, a causa delle delocalizzazioni, oltre due milioni di posti di lavoro. Ma non solo gli Usa sono stati colpiti. Il medesimo processo è stato un importante fattore dei crescenti tassi di disoccupazione nell'Unione europea. Tassi che è assai difficile far risalire sia perché si tratta di posti di lavoro che per via degli aumenti di produttività non torneranno mai più, sia perché - come vedremo più avanti - non esiste più la possibilità di compensarli con lo sviluppo di nuovi settori. Inoltre è stato un fattore del continuo aggravamento delle condizioni di lavoro per coloro che un'occupazione ancora ce l'hanno, e della massiccia diffusione del le occupazioni precarie, fondate su contratti di durata sempre
più breve (nota 5).
Ma il vero capolavoro del modello Wal-Mart è consistito, paradossalmente, nel rendere contenti i lavoratori dei paesi sviluppati- Italia inclusa-, perché sebbene i salari reali siano stagnanti o in diminuzione, appunto a causa delle «riforme» del mercato del lavoro suggerite dal modello stesso, essi possono acquistare a basso prezzo le merci fabbricate non più da loro o dai loro simili in patria, bensi in qualche paese emergente. Un basso prezzo che deriva dalla combinazione di migliaia di delocalizzazioni d'impresa appena ricordate, che hanno distrutto nei nostri paesi innumeri posti di lavoro, e di milioni di lavoratori che nelle imprese delocalizzate operano in condizioni durissime. Però simile combinazione permette ai restanti lavoratori americani ed europei, che ora sono in gran
parte sottopagati, di comprare una camicia per 5 euro o un giocattolo per 1,99. Non si deve forse riconoscere, commentano ironicamente gli autori già citati a proposito del modello Wal-Mart, che si tratta di una benigna e soccorrevole mano che aiuta le famiglie bisognose a non scivolare nella povertà?
Uso qui per comodità il modello Wal-Mart come simbolo della compressione generale dei salari reali in atto negli Stati Uniti e in Europa sin dagli anni Settanta. Sulla realtà ditale compressione non vi sono dubbi. Non solo nella Ue citata sopra, ma in tutti i maggiori paesi Ocse, nel periodo 1976-2006, la quota salari sul Pil è scesa in media di 10 punti, i quali sono passati alla quota profitti (che include ogni sorta di reddito da capitale: finanziario, societario o fondiario), dando origine a disuguaglianze di reddito e di ricchezza mai viste dopo il Medioevo. Negli Usa, nel2oo8 i salari reali dei
lavoratori dipendenti al di sotto del livello di/oreman (caposquadra) erano allo stesso livello del 1973: quasi 35 anni di stagnazione. In Germania, i salari reali sono pressoché fermi ai primi anni Duemila: gli aumenti di produttività del periodo sono andati quasi esclusivamente alla riduzione dei costi
all'esportazione - e ai profitti. 
Va aggiunto che non sono stati colpiti soltanto i salari diretti, ma anche le varie prestazioni chiamate salario «differito» che caratterizzano lo stato sociale, in quanto si tratta di contributi che il lavoratore e le aziende versano nel corso di tutta la vita lavorativa del primo e vengono percepiti, in caso di bisogno, sotto forma di servizi della sanità pubblica e dopo il ritiro dall'attività sotto forma di pensione. Quest'ultima, pertanto, non è un versamento «generoso» dello Stato al lavoratore a riposo, come stolidamente si sente dire ogni giorno dai media e dai politici, bensf un versamento da persone al lavoro a quelle che lo hanno lasciato, nella certezza - purtroppo in via di sgretolamento grazie alle politiche di austerità - che venuto il momento godranno di un trattamento reciproco. È questo il grande patto fra generazioni, che le destre vorrebbero abolire per fare posto alle pensioni private. 

Nella deliberata·pauperizzazione del consumatore/lavoratore si esprime una contraddizione profonda del sistema capitalistico, che è una delle radici della crisi in corso. Poiché il motore primo di questo è il perseguimento del profitto, la sua esigenza vitale consiste nel pagare il lavoro il meno possibile, e al tempo stesso nell'accrescere il valore da esso prodotto di cui il capitale si appropria, il cosiddetto plusvalore (di questo tratta il paragrafo seguente). Tuttavia, se riesce su larga scala, com'è avvenuto negli ultimi trent'anni, la politica dei bassi salari ha per effetto di ridurre la domanda di molti beni da parte dei consumatori, e con essa la domanda  di investimenti da parte delle imprese che vedono ridursi le loro vendite. Il risultato è stato una caduta tendenziale della domanda aggregata.
I governi dei paesi sviluppati hanno tentato di porre rimedio a tale grave carenza praticando una politica di denaro a basso costo e favorendo in ogni modo i crediti facili, nel quadro di una generale  finanziarizzazione dell'economia (discussa nel secondo capitolo). Negli Usa come in Irlanda e in Spagna, la domanda di case d'abitazione cosf stimolata ha sostenuto l'economia dagli anni Novanta sino alla metà e oltre del primo decennio Duemila. Ma nel medesimo periodo un'altra grave contraddizione esplodeva nel sistema capitalistico: la terza rivoluzione industriale si dimostrava capace di sopprimere un numero di posti di lavoro superiore a quelli che si potevano creare in qualunque settore produttivo. Dopo l'impoverimento dei consumatori, il capitalismo inaugurava l'età in cui la maggior parte delle forze di lavoro appare destinata a essere trasformata in esubero. Vediamo come nel successivo paragrafo.


PARAGRAFO 3 La terza rivoluzione industriale: i produttori diventano esuberi.


«La tecnologia crea piu posti di lavoro di quanti ne distrugge». Posto che sia mai stata vera, questa affermazione ha cessato di esserlo a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso. In quel periodo ha cominciato ad affermarsi nella produzione di beni e servizi a opera dell'impresa capitalistica un elemento rivoluzionario, che da allora non ha cessato di espandersi impetuosamente nei piu diversi settori produttivi: la microelettronica abbinata all'informatica. Essa ha permesso di automatizzare in misura elevatissima sia processi fisici propri della produzione industriale, sia la raccolta, l'elaborazione e la distribuzione di ingenti volumi di informazioni - i cosiddetti big data. Di conseguenza, in un gran numero di comparti della produzione di beni materiali il lavoro umano necessario per compiere determinate operazioni fisiche è stato drasticamente ridotto o del tutto eliminato, ben al di là di quanto
non abbiano fatto in precedenza i tradizionali dispositivi di meccanizzazione e automazione dei processi industriali. Al tempo stesso sono state via via automatizzate operazioni di ordine intellettuale che sino a qualche tempo prima sembravano al riparo dalla concorrenza della macchina. Il risultato è stato la riduzione della forza lavoro materiale e intellettuale necessaria per completare un dato processo 
produttivo a una frazione di quella che era necessaria all'inizio - si ricordi, poco piu di trent'anni fa - di codesto periodo di rapidissima innovazione tecnologica. Al quale è stato dato da tempo (peraltro con significati talora diversi rispetto a quello su cui ragioniamo qui) il nome di «terza rivoluzione
industriale». Di conseguenza buona parte del potenziale lavoro produttivo diretto è diventata senza valore, perché sono stati drasticamente ridotti gli ambiti di attività in cui l'impresa capitalistica poteva utilizzarlo per produrre valore di scambio. L'automazione e le Ict hanno reso superfluo non soltanto la maggior parte del lavoro operaio, ma anche gran parte del lavoro impiegatizio e in generale del lavoro intellettuale.
Intendo qui per «produttori» quelli che producono direttamente un valore per ora di lavoro superiore alloro costo commisurato dal salario lordo (contributi sociali inclusi). La riduzione del loro numero, che sovente avviene a fronte di un aumento della produzione, è evidente in ogni settore.
Un'auto di media cilindrata e peso viene oggi costruita negli stabilimenti di assemblaggio finale utilizzando 8-ro ore di lavoro operaio; soltanto pochi anni fa ne accorrevano tre volte tante. Una macchina per raccogliere cotone nelle piantagioni statunitensi - ma ormai anche in piantagioni dell'Africa o dell'India - compie in un'ora il lavoro di cento raccoglitori umani. Sono stati creati cantieri per la costruzione di impianti industriali nei quali si vedono decine di macchine all'opera:
scavatrici, autocarri, betoniere autotrasportate, ecc. Però, se si guarda bene, si scopre che nessuna ha una persona a bordo: sono tutte telecomandate da una cabina ai margini del cantiere. Il trasporto marittimo è stato rivoluzionato: una petroliera di zoo ooo tonnellate è governata da un equipaggio di setteotto uomini, e pochi di piu sono necessari per una nave carica di migliaia di container. Un moderno impianto siderurgico produce una quantità di acciaio due o tre volte superiore a quella di vent'anni fa - utilizzando la metà degli addetti di allora o meno.

 Ma si noti che la terza rivoluzione industriale è presente dovunque; sta anche attorno a noi nella vita quotidiana. Le macchine automatiche che vendono biglietti nelle stazioni o fanno il check-in in aeroporto equivalgono ciascuna a un certo numero di lavoratori o lavoratrici che da un giorno
all'altro si sono trovati a essere esuberi e hanno perso il lavoro. A loro volta, poche professioni intellettuali sono state o saranno risparmiate dalla terza rivoluzione industriale. Programmi di AI (intelligenza artificiale) sono in grado di trovare in archivio un determinato articolo o comma sepolto in
una legge promulgata decenni addietro piu velocemente di quanto non sappia fare una brillante praticante in uno studio di avvocato. Il quale provvederà di conseguenza a fare a meno di lei, oppure a ridurre drasticamente il suo orario o la sua paga. Sono stati sviluppati software che traducono in spazi,
misure, volumi definiti al millimetro, in scala, lo schizzo di un edificio tracciato a grandi linee da un architetto al computer - con il che sono state eliminate, solo in quel singolo caso, un buon numero di ore di lavoro umano qualificato, prima fornito dai suoi collaboratori. Partendo dai dati a essi provvisti, altri software formulano diagnosi mediche che competono per accuratezza con quelle di un vero medico, e
lo battono di molto quanto a rapidità di formulazione. Di certo noi preferiremmo sempre essere esaminati da un vero medico, ma per l'ostetrica o il medico condotto di un piccolo paese sprovvisto di ospedale che si trovino di fronte a un'emergenza per loro ardua da analizzare, e per il loro paziente, una diagnosi altamente professionale ottenibile in pochi minuti online può essere preziosa. È questo uno dei
fattori che rendono irresistibile l'avanzata della terza rivoluzione industriale: molte persone gradiscono le sue innovazioni, anche quando sanno o intuiscono che qualcuno a causa di quell'innovazione ha perso o perderà il lavoro.
Peraltro non è stata soltanto la sostituzione diretta di lavoro umano mediante qualche nuovo genere di automatismo a generare lo straordinario aumento di produttività registrato dagli anni Ottanta e successivi. Mediante forti investimenti nelle Ict le corporations americane ed europee hanno 
potuto scegliere in tutto il mondo i fornitori di componenti  e di  servizi che presentano il miglior rapporto costo/qualità. Non importa se il costo localmente piu basso è dovuto a salari miseri e all'assenza di protezioni sindacali o ambientali. La diminuzione del prezzo dei trasporti navali e aerei
ha fatto il resto. Un risultato è che le viti o i bulloni che una fabbrica ha sempre comprato, per dire, a Settimo nel Torinese, li compra ora da un fabbricante sito in qualche provincia cinese o indiana - traendone sostanziali vantaggi di costo.
Quanto al personale della ditta di Settimo, è stato licenziato da tempo. Altre corporations europee e americane hanno trasferito le loro produzioni direttamente nei paesi asiatici. Alcune per sfruttare i mercati locali; la maggior parte per rivendere i prodotti fabbricati a basso costo in Cina, in India
o altrove, ad alto prezzo nei paesi sviluppati. Ad esempio, stando ad accurate ricerche, un telefono cellulare viene prodotto in Cina, tutto compreso, al costo di roo dollari, per essere poi venduto negli Usa e in Europa a 5-6 volte tanto. Definire «esportazioni» cinesi o indiane o altro questi flussi
di merci è del tutto improprio. Sono prodotti fabbricati per conto di corporations americane o europee là dove maggiormente conveniva, per essere immediatamente trasferiti nei paesi d'origine dove sono rivenduti a prezzi superiori di parecchie volte al costo di produzione originario. Si stima che
circa il 65 per cento delle supposte «esportazioni» dalla Cina sia formato da codesti prodotti.
Il trasferimento di volumi giganteschi di produzione nei paesi emergenti non ha ovviamente fermato la corsa alla scomparsa dei produttori nei paesi sviluppati; semmai l'ha accelerata. Questa riduzione a esuberi di gran parte dei produttori diretti rappresenta una seria contraddizione nel cuore del
capitalismo contemporaneo. Il capitalismo si fonda sul fatto che l'impresa si appropria di una parte rilevante del valore aggiunto prodotto da ogni ora di lavoro - quella che resta dopo aver pagato il costo della sussistenza del lavoratore, ossia il suo salario lordo. L'automazione ha aumentato a dismisura
tale valore aggiunto per ora di lavoro, il che si combina con il fatto che grazie all'affermazione del modello Wal-Mart (vedi paragrafo precedente) il lavoro viene pagato sempre meno: da qui segue l'ingigantimento dei profitti osservato nei nostri paesi, in parallelo con la riduzione della quota salari sul
Pil. Tuttavia, va notato che mentre le ore di lavoro per unità di prodotto sono, come si diceva, fortemente diminuite, è di molto aumentato il capitale necessario per far lavorare un singolo produttore. Inoltre, come si è rilevato in precedenza, la compressione dei salari insieme con la riduzione del numero di lavoratori direttamente impegnati nella produzione deprime nell'insieme la domanda che da essi proviene. 

Un lavoratore in esubero è al tempo stesso un consumatore che ha perso gran parte del suo potere d'acquisto. Da qui la contraddizione. All'impresa converrebbe far lavorare il piu a lungo possibile i lavoratori rimasti, affinché producano una maggior quota di valore aggiunto, tanto piu che sono in genere malpagati; però per farli lavorare sono necessari investimenti di capitale diretto e indiretto assai
elevati, mentre diminuisce la certezza di realizzare il volume di vendite necessario per far funzionare l'usuale formula C'>M>C" (la quale significa che un tot di capitale viene inizialmente investito nella produzione di merci che una volta vendute superano il capitale iniziale): un processo, nel linguaggio marxiano, chiamato realizzazione. Tuttavia, se non vi è certezza circa lo sbocco delle merci prodotte, da cui dovrebbe derivare sia il recupero del capitale investito, sia un profitto pari o superiore alla media del settore, un nuovo investimento non viene deciso, o comunque viene tenuto nel cassetto. Il risultato può essere cosi compendiato: legioni di lavoratori in esubero guardano dall'esterno grandi impianti che sono fermi, perché metterli in moto appare all'impresa troppo rischioso quanto a possibilità di valorizzare il capitale impiegato realizzando un volume adeguato di vendite. La realizzazione è un processo assolutamente necessario _dell'economia capitalistica. Il capitale deve prendere forma di merce, questa deve essere venduta a un prezzo che superi al netto il valore del capitale investito, e ritornare quindi
a prendere la forma di un capitale che valga di piu di quello inizialmente mobilizzato. L'uso estensivo di macchine per sostituire il lavoro umano rende via via piu difficili - in generale, non necessariamente per la singola impresa - le condizioni della realizzazione. Essa è ostacolata anche dalla finanziarizzazione dell'economia, di cui tratta il capitolo successivo. La produzione e la vendita di merci reali- abiti,
mobili, televisori, oggetti per la casa - richiedono notevoli investimenti preliminari e parecchio tempo prima di poter riscuotere gli eventuali profitti. La compravendita di strumenti finanziari al fine di trarne un profitto (che in questo caso si chiama plusvalenza) si può effettuare in tempi brevissimi e
non richiede alcun investimento, magari bloccato per mesi o per anni in attesa di poter vendere le merci prodotte. Cresce quindi il numero di imprese le quali, pur disponendo di un certo capitale ricavato dagli utili, preferiscono imboccare la strada della speculazione finanziaria a breve termine a scapito di un investimento nell'economia reale. Una decina di addetti alle transazioni finanziarie entro la divisione finanze di una corporation industriale può far guadagnare all'azienda milioni di euro o dollari o sterline in un solo giorno. Il che equivale a un cospicuo multiplo di quello che le fanno guadagnare in un giorno cento operai sulle linee di produzione. Al di là dell'automazione di terza generazione, è questa un'altra
strada imboccata dal capitalismo in crisi che contribuisce a far calare senza tregua il numero degli occupati.


PARAGRAFO 4 Contro la crisi ecologica, cambiare le strategie di produzione e consumo.


Al fine di sopravvivere alle crisi produttive da esso stesso provocate,  il capitalismo ha portato all'esasperazione, in specie dopo gli anni Ottanta, la sollecitazione a consumare il piu possibile. In Europa, la forte crescita dei consumi di beni durevoli - auto, elettrodomestici, televisori, piu il miglioramento del comfort abitativo (vedi la diffusione del termosifone, che negli anni Trenta era un lusso riservato a pochi) - verificatasi nel trentennio dopo la Seconda guerra mondiale ha permesso alla maggioranza della popolazione di raggiungere un livello di vita prima riservato a ristrette classi medie. Purtroppo verso la fine degli anni Settanta la domanda dei suddetti beni si ridusse, perché poche famiglie avevano bisogno di due automobili o tre lavatrici.

 Il capitalismo inventò quindi due rimedi complementari: la finanziarizzazione dell'economia, cui si è appena fatto cenno, e le strategie di marketing intese ad accelerare il ciclo dei consumi e a estenderlo a tutte le classi di età, dai bimbi di due o tre anni agli ottuagenari. Le suddette strategie includono:

 a) l'obsolescenza programmata di elettrodomestici, prodotti informatici, mobili, capi di abbigliamento, ecc. Tra di essi rientrano gli oggetti che potrebbero durare anni ed essere riparati piu volte, mentre si guastano senza rimedio dopo poco tempo e l'artigianato della riparazione è quasi scomparso;

 b) il lancio incessante di nuovi prodotti del tutto simili ai precedenti che li fanno però apparire superati, in campi che vanno dall'informatica alla Tv, dai cellulari alle auto, dall'abbigliamento ai prodotti
per la casa e la persona. Come ha dichiarato un alto dirigente della Procter & Gamble, gigante dei prodotti per l'igiene personale, «per sopravvivere dobbiamo lanciare in tutti i campi
un prodotto nuovo all'anno»;

 c) la corruzione dei bambini e l'infantilizzazione degli adulti per mezzo di una pubblicità
onnipervasiva: il che, secondo un noto politologo americano, Benjamin Barber, è un grosso problema politico oltre che economico, poiché erode alla base la formazione del cittadino;


d) l'uso dei mezzi personali di comunicazione, da internet ai telefoni cellulari o smartphone che siano, per trasformare qualsiasi comunicazione in un veicolo pubblicitario.


Dinanzi a simili mutamenti, da almeno trent'anni numerosi autori si richiamano alla necessità di cambiare le attuali modalità di consumo, irresponsabilmente basate sulla dissipazione di risorse fossili e biologiche, trascurando il dato vitale che in un mondo fisicamente finito i consumi dissipativi
non possono continuare ad aumentare senza fine. In genere chi sostiene tale necessità si espone alle seguenti obiezioni:
a) Le innovazioni tecnologiche porteranno per secoli a scoprire nuovi giacimenti di risorse non rinnovabili. Si veda, ad esempio, la questione del petrolio e del gas: le tecnologie del fracking (letteralmente: frantumazione - non di cocci, bensi di montagne) e le trivellazioni in mare e nelle zone artiche li hanno resi nuovamente abbondanti, dopo decenni in cui si parlava del loro prossimo esaurimento.
b) Altre innovazioni permettono e permetteranno di riciclare praticamente senza limiti le risorse non rinnovabili. Si veda il caso delle materie plastiche, della carta, dell'alluminio, del vetro, dell'acciaio, ecc.
c) Il riciclo delle risorse e i provvedimenti già adottati da molti paesi, quali la tassazione delle industrie più inquinanti, al fine di limitare sia le emissioni di gas serra sia il consumo di risorse non rinnovabili, porteranno quanto prima a realizzare forme di «sviluppo sostenibile».
d) La questione non è cosi urgente. Non si vede perché preoccuparsi oggi di problemi che potrebbero diventare gravi soltanto fra due o tre secoli.
e) Chi propone di ridurre i consumi, in nome della cosiddetta «decrescita», vuole farci tornare alle condizioni di vita e di lavoro dei nostri bisnonni.
f) Le diagnosi circa il riscaldamento climatico a causa dei gas serra e dei danni che esso sta già provocando sono false o esagerate. Prova ne sia che si susseguono in ogni parte del globo degli inverni molto freddi. 
Al lume delle ricerche condotte da decenni da migliaia di scienziati in tutto il mondo e dei dati via via accumulatisi e reciprocamente rinforzantisi, nessuna delle suddette obiezioni sta in piedi. Vediamo per sommi capi perché.
a) L'impiego di nuove tecnologie di ricerca e acquisizione di risorse non rinnovabili, tipo il fracking o le trivellazioni in mare e nelle zone artiche, in realtà non fa che spostare il problema un po' piu avanti nel tempo- al prezzo di devastazioni dell'ambiente di una gravità senza precedenti. Nel caso del fracking la sommità di intere montagne o colline viene demolita, mentre l'impiego di fluidi sotto pressione per far
risalire il gas o rendere disponibili le sabbie bituminose che contengono petrolio produce imponenti forme di inquinamento. Inoltre lo sfruttamento dei giacimenti cosi ottenuto ha una durata breve, sovente un anno o poco piu. Le trivellazioni in mare a profondità sempre maggiori costituiscono un rischio ambientale di prima grandezza. L'incidente capitato a una piattaforma della British Petroleum (Bp) nel golfo del Messico (zoro) ha comportato undici vittime, cinque milioni di barili di petrolio grezzo dispersi in mare, e trilioni di dollari di danni alle zone costiere e alla pesca.
b) Nessun tipo di risorsa è riciclabile senza limiti, per due motivi: r) il riciclo comporta in ogni caso la distruzione di una quota del materiale riciclato; 

2) a ogni riciclo una risorsa perde qualche caratteristica, anche se in misura minima, per cui non sempre può venire impiegata per i medesimi usi di prima. È il caso della carta stampata. Dalla carta riciclata
è impossibile eliminare per intero l'inchiostro che conteneva come giornale, manifesto, rivista, libro o altro. Anche il recupero di metalli preziosi o rari dai computer rottamati può essere solamente parziale. Lo stesso vale per le vecchie auto. Tutto ciò significa che di ciclo in ciclo di rigenerazione, ogni
risorsa percorre un cammino verso uno sta:t in cui non è piu utilizzabile o diventa irrimediabilmente persa.
c) Lo sviluppo «sostenibile» è stato giustamente definito un «ossimoro» da Serge Latouche, padre dell'idea di decrescita, in quanto accosta due termini incompatibili, sul genere di «guerra pulita» o «bombe intelligenti». Questo perché lo sviluppo economico è sempre stato legato alla crescita. In
effetti il concetto di sviluppo «sostenibile» auspica una distribuzione piu equa dei frutti dello sviluppo economico e un uso meno dissipativo delle risorse naturali. Tuttavia, non affronta minimamente il problema di come assicurare un livello di vita dignitoso esteso alla quasi totalità della popolazione mondiale mediante una forte riduzione del consumo delle risorse stesse. Tant'è vero che esso è diventato lo slogan adottato da corporations e organizzazioni che vedono nella crescita illimitata dei consumi, solo un po' meglio distribuita, il futuro dell'economia.
d) Dalla diffusione del motore a vapore, che rese possibili lavorazioni industriali centinaia di volte piu produttive delle precedenti, sono passati appena due secoli. Nel corso di questi, anche a causa dell'aumento della popolazione, il consumo sia di risorse fossili sia di risorse biologiche è aumentato
in misura esponenziale. È impensabile che gli stessi consumi possano continuare a crescere nella stessa misura non per secoli, ma anche soltanto per pochi decenni.

 e) Non si vede perché mai la qualità della vita dovrebbe regredire di generazioni se una lavastoviglie durasse dieci anni invece di due; se centinaia di migliaia di persone potessero spostarsi dall'esterno all'interno delle città e viceversa usando per mezz'ora efficienti mezzi di trasporto urbani e
regionali invece di dover dipendere dalla schiavitu dell'auto (già avviene, per dire, a Parigi); se le abitazioni avessero sistemi di riscaldamento che grazie all'isolamento termico riscaldano soprattutto l'ambiente interno anziché la città e la campagna (un risparmio attuato in notevole misura in Germania); se ogni volta che piove non si registrassero disastri perché nel75 per cento del territorio è stato eliminato il dissesto idrogeologico; se si consumassero prodotti di stagione coltivati localmente in luogo di prodotti fuori stagione (le ciliegie a febbraio, ecc.) che dopo essere stati chimicamente condizionati hanno percorso migliaia di chilometri in aereo o per nave; ecc.
f) Le società petrolifere e in genere i produttori di energia hanno speso centinaia di milioni di dollari tramite rapporti, fondazioni, convegni allo scopo di screditare gli studiosi del clima, i quali insistono che il pericolo di fenomeni devastanti a causa delle emissioni di gas serra e del relativo riscaldamento dei mari e dei ghiacciai non è piu questione di secoli bensf di pochi decenni, addirittura forse di uno o al massimo due. Di fatto il 97 per cento degli esperti è d'accordo che la situazione è proprio questa, ed è assai peggio di quanto non si fosse creduto anche solo pochi anni addietro. Un rapporto dell'Onu di fine 2014lo ha ribadito con dati e toni allarmanti. Una riduzione drastica e rapida del consumo di risorse
naturali, e al tempo stesso delle emissioni che provocano l'aumento della temperatura nell'atmosfera, richiederebbe una svolta senza precedenti nella concezione e nella gestione dell'economia. 

Un ostacolo a tale svolta è sicuramente rappresentato dalla maggioranza degli economisti, che ha sempre idolatrato l'idea di crescita. Il problema è che, globalmente, non si tratta di ridurre il consumo di risorse di qualche punto percentuale, bensì di un ordine di grandezza (ancorché variabile secondo il tipo di risorse e i loro usi) non inferiore a tre.
Il che vorrebbe dire, ad esempio, preso alla lettera, automobili che pesano 5 quintali in luogo di 15; oppure che durano tre volte di piu; o anche una riduzione di tre volte della produzione di automobili. Quanto al problema del clima, pare imperativo evitare di superare un aumento della temperatura
media di 2 gradi (centigradi), ma farlo prima che si verifichino mutamenti irreversibili del clima è un impegno che rimanda a un periodo di dieci-venti anni o poco piu, di fronte al fatto che tutti i  provvedimenti anti-inquinamento adottati sinora sono falliti perché l'aumento della produzione e dei consumatori, insieme con la «finanza del carbonio» (vedi il secondo capitolo), ha ultracompensato le riduzioni a essi dovute. In conclusione, cambiare in modo radicale le strategie di produzione e consumo, prima che sia troppo tardi, è una necessità vitale per l'intera umanità. Posto che il problema è
immensamente complesso, su quali siano le piu efficaci fra tali strategie c'è molto da discutere. Proveremo anche noi  nei successivi capitoli a offrire un contributo in tal senso.

NOTE 
1 J. K. GALBRAITH, The Economics ofInnocent Fraud. Truth for our Time, Houghton
Mifflin, Boston- New York 2004 [trad. it. m., L'economia della truffa, Rizzoli,
Milano 2004].
2 Ibid., p. 5·
3' L. SUMMERS, U.S. Economie Prospects. Secular Stagnation, Hysteresis, and the
Zero Lower Bound, in «Business Economics», XLIX (2014), n. 2, pp. 65-73.
4 L'idea di prendere Wal-Mart per simboleggiare il capitalismo contemporaneo
è di Y. VAROUFAKIS, J. HALEVI e N. J. THEODORAKIS, Modem Politica/ Economics.
Making Sense ofthe Post-2oo8 World, Routledge, London 20II, pp. 352 sgg.
5 Cfr. L. GALLINO, Vite rinviate. Lo scandalo de/lavoro precario, Laterza-<<la Repubblica», Roma-Bari 2014.
6 VAROUFAKIS et al., M~dem Politica! Economics cit., p. 355· Sul complessivo
impatto economico e sociale di Wal-Mart vedi c. FISHMAN, Effetto Wal-Mart.
Il costo nascosto della convenienza, Egea, Milano 2006.
7 Per approfondire il tema del rapporto fra capitalismo e sistema ecologico vedi
J. BELLAMY FOSTER, B. CLARK e R. YORK, The Ecologica! Rift. Capitalism's War
on the Earth, Monthly Review Press, New York 2oro; J.-M. HARRIBEY, Larichesse, la valeur et l'inestimable. Fondements d'une critique socio-écologique de
l'économie capitaliste, Les liens qui libèrent, Paris 201 3; A. KARATHANASSIS,
Kapitalistiche Naturverhiiltnisse. Ursachen von Naturzerstorungen Begriindungen
einer Postwachstumsokonomie, Vsa Verlag, Hamburg 2015  



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