ESERCIZI DI RIASSUNTO

 Gli esercizi di riassunto sono obbligatori per tutti coloro che hanno ricevuto la valutazione 6-, facoltativi per gli altri. Di conseguenza la consegna, fissata per venerdì prossimo, 22 ottobre, è obbligatoria solo per i primi. Sottolineo che si deve solo riassumere, senza commentare, e che può essere utile a tutti leggere questi due testi. 

1) In fuga dalla civiltà

 «Una carta del mondo che non contiene il paese dell’Utopia non è degna nemmeno di uno sguardo perché non contempla il solo paese al quale l’umanità approda di continuo». Lo dice Oscar Wilde facendo dell’utopia il centro di una cartografia della mente. Non il luogo che non esiste, anche se questo sembrerebbe suggerire l’etimologia del termine. Che viene dal greco ou cioè non, e da topos, luogo. Invece all’origine del vocabolo ci sarebbe in realtà un gioco di parole del grande Thomas More, che del concetto è l’inventore. E che sfrutta l’assonanza tra ou ed eu. Così l’utopia, il non luogo, diventa eu-topia, ovvero il buon luogo. L’isola che non c’è eppure esiste. Dove tutto è finto ma niente è falso. In questo senso Utopia è sorella di Poesia. L’una dice l’indicibile e l’altra può l’impossibile. Di certo c’è che si tratta di un’isola. Lo dice espressamente Thomas More. E lo ripete Tommaso Campanella che ambienta La Città del sole in una mitica isola di Taprobana, che a lungo ci si è ostinati a identificare con Sumatra, finendo per dimenticare che non di geografia fisica si tratta bensì di geografia mitica. Non di spazi reali ma di proiezioni del pensiero, che solca gli oceani dell’immaginario in cerca di terre promesse dell’anima. Ecco perché le utopie non finiscono mai.

Sempre le stesse e sempre diverse, assumono ogni volta la forma del tempo che intendono superare, i connotati del mondo che vogliono cambiare. È la tesi che attraversa Gli Utopisti, il bel libro che la storica Anna Neima ha dedicato all’eterno ritorno del pensiero utopico. L’autrice, che insegna nell’università inglese di Warwick, racconta alcune delle esperienze utopiche più interessanti del periodo che sta fra le due guerre. Da Saneatsu Mushanokoji, lo scrittore giapponese che all’indomani del primo conflitto mondiale fonda l’Atarashiki Mura, (il Nuovo Villaggio), una comune socialista di artisti, intellettuali e altri scontenti che tornano a lavorare la terra per emendare sé stessi e il mondo dei peccati capitali, anzi capitalisti, che hanno provocato la grande mattanza. Ad Arnold Eberhard, un teologo allampanato e occhialuto, che nella Germania centrale dà vita ad una comunità agricola in cui lui e gli adepti vedono realizzato nei gesti e nella carne, nella solidarietà e nell’antimilitarismo, nelle parole e nelle opere, il regno di Dio. Negli stessi anni, l’agronomo e filantropo Leonard Elmhirst scopre le rovine di una residenza medievale nello Yorkshire. E su quelle pietre Leonard, insieme alla moglie Dorothy, edificherà la sua chiesa, Darting Hall, versione moderna di un villaggio medievale, alternativa al materialismo, alla competizione e alla violenza. In quegli anni la Grande Guerra ha spazzato il mondo come un vento d’apocalisse facendo milioni di morti fra gli young adults. E ad aggravare le cose arriva anche la falce pandemica della spagnola che miete cento milioni di vite. In questo clima da fine del mondo, in una società impaurita dal presente e incerta sul futuro si fa strada l’idea di reinventare la società dalle fondamenta.
Così nascono delle utopie concrete, nel tentativo di strappare un pezzo di paradiso dalle fauci dell’inferno. Che la maggior parte dei protagonisti del libro identifica con il capitalismo liberista poiché rende gli uomini soli, fragili, in balia dei capricci del commercio globale. Si fa strada un ripensamento dei valori e delle priorità, un po’ come sta succedendo oggi per effetto della pandemia. Le istanze degli idealisti non hanno come oggetto semplicemente salari, orari e posti di lavoro. La posta in gioco è la possibilità di avere cura della vita, soprattutto quella interiore. Non a caso le capitali occidentali e non solo pullulano di freudiani e di junghiani, di teosofi e di occultisti, che propongono il loro antidoto contro i mali del mondo. In fondo gli utopisti non reclamano un posto a tavola, vogliono rovesciare la tavola, reinventare la società, ristabilire una connessione con la natura e con le specie che lo sviluppo industriale ha interrotto. I seguaci di Gurdjieff in Francia, o quelli di Tagore in India, si fanno amica la foresta per marcare il loro distacco dalla civiltà che separa l’uomo da sé stesso e dagli altri esseri. E si rifugiano in un time out della storia. In fondo non tutti i leader utopisti vogliono le stesse cose, ma tutti rifiutano le stesse cose. L’economicismo, l’utilitarismo, la competitività, la solitudine, il distacco dalle altre specie viventi. Di fatto questi idealisti radicali anticipano il nostro presente. E il loro estremismo ha prodotto frutti di cui adesso tutti beneficiamo. Dai diritti dell’infanzia all’accesso democratico alle arti e alla conoscenza, dal welfare alle tecniche della cura del sé, dall’agricoltura biologica all’ambientalismo. Oggi questi utopisti, che non si sono fermati davanti all’impossibile, lasciano nelle nostre mani il testimone di un ripensamento epocale, reso urgente dal post Covid. Per reimmettere dosi di ottimismo e di energia nelle vene del mondo.

Marino Niola - Pubblicato su Robinson del 2/10/2021 -

2) Italiani colonialisti? Ma no, soltanto costruttori di strade

Nel 1938, alla mostra del Cinema di Venezia vinse il Premio Mussolini un film, Luciano Serra pilota, che raccontava alcune fasi della guerra di Etiopia, appena finita. Una delle scene più significative era quella dell’assalto a un treno da parte di orde di abissini, rappresentati come masse urlanti, indifferenziate, ciechi strumenti di morte, incapaci di un piano strategico che non fosse quello di aggredire il nemico in mille contro cento. Quando da quella massa nera si staccava un singolo individuo, era per colpire a tradimento, ferendo alle spalle Luciano Serra (Amedeo Nazzari), con il pugnale, l'arma dei vili, il tutto era la replica fedele del modo in cui i Western prodotti da Hollywood raccontavano gli scontri tra gli indiani e i cow boys e come avrebbero raccontato, pochi anni dopo, i giapponesi «musi gialli con gli occhi storti», in film come Guadalcanal o Bataan. Era un modello narrativo nel quale la «grande trasformazione» che cambiò il mondo tra le due guerre sembrava aver omologato realtà e regimi politici diversi, scaraventando in unico calderone la solida democrazia del New Deal di Roosvelt insieme alle pulsioni totalitarie dell'URSS di Stalin, della Germania di Hitler e dell'Italia di Mussolini. La rappresentazione «razzista» del nemico ne era uno dei cardini ed è ora anche un caposaldo interpretativo dell'ultimo libro di Francesco Filippi, dedicato al colonialismo italiano ("Noi però gli abbiamo fatto le strade"), ma attento a mettere in luce i caratteri generali che segnarono il modo in cui l'Occidente euroamericano visse le sue avventure imperialiste e colonialiste a cavallo tra l'800 e il '900. Tra questi, il più noto è senz'altro la tendenza degli uomini bianchi a interpretare il proprio «fardello» nei confronti dei paesi conquistati, o da conquistare, all'insegna di una missione «civilizzatrice» che in pratica comportava l'estensione ai popoli sottomessi delle forme di governo liberale e di Stato-nazione maturate in Occidente. Entrambe erano strettamente intrecciate con la storia d'Europa, e la loro costruzione era costata così tanti sacrifici da farli considerare dei valori assoluti: in particolare, lo Stato-nazione si era affermato come il contenitore politico ideale per amalgamare elementi linguistici, etnici e culturali, religiosi preesistenti e come tale da raccomandare anche ai popoli non europei. Il problema era che paesi come quelli africani, ad esempio, avevano alle spalle tutta un'altra storia e i loro egoismi tribali, le frammentazioni localistiche, i particolarismi religiosi avevano trovato modo di convivere in contenitori radicalmente diversi, sfruttando specifiche tradizioni culturali sedimentatesi nel tempo.
La recente lezione dell'Afghanistan è significativa: uno Stato e un esercito secondo il modello occidentale vengono calati dall'alto, vissuti come precari, artificiosi, in ultima analisi punitivi. E crollano repentinamente.
È andata così anche per le colonie italiane. Uno Stato eritreo non era mai esistito, e gli italiani ne inventarono anche il nome (Eritrea era un termine dell'antichità classica). I territori strappati ai turchi nel 1911-1912 erano una Cirenaica e una Tripolitania nettamente distinte, unificate dagli italiani in una Libia mai percepita come una realtà viva dai suoi abitanti. Quanto alla Somalia, sempre gli italiani ne ridisegnarono - inventandoli - addirittura i confini, ritagliati nello spazio lasciato libero dagli inglesi.
Ovviamente. l'uniformità di queste caratteristiche comuni interagisce con la specificità delle singole storie nazionali delle potenze occupanti e si differenzia. Per l'Italia, ad esempio, le particolarità sono, tra le altre, la relativa brevità della nostra dominazione (in Etiopia, solo 5 anni, dal 1936 al 1941), il carattere totalitario del ventennio fascista (1922-1943) e, soprattutto, al modo in cui fu gestita e vissuta la decolonizzazione.
Non fummo scacciati da una guerra di liberazione. Furono le potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale a decretare - con il trattato di Parigi - la fine della nostra avventura coloniale, risparmiando così i lutti e le lacerazioni che, ad esempio, hanno segnato in Indocina o in Algeria la storia dei francesi. È anche vero però, e Filippi lo sottolinea egregiamente, che proprio in questa decolonizzazione anomala si annidano le radici di una sorta di falsa coscienza, precipitata nello stereotipo, molto diffuso, dell'«italiano brava gente». No. In Somalia, in Libia, in Eritrea, in Etiopia ( e aggiungiamoci anche il Dodecaneso e la concessione cinese di Tien Tsin) non siamo stati «brava gente». Anche noi abbiamo compiuto eccidi di civili inermi e marchiato le nostre azioni con l'infamia del razzismo. Il libro di Filippi ci aiuta ad averne la consapevolezza e ci mette in guardia dal «pregiudizio», dal credere di sapere senza sapere, che è esattamente un errore legato a quella lontana esperienza che oggi non ci possiamo permettere.

Giovanni De Luna - Pubblicato su Tuttolibri del 2/10/2021 -

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