BOCCACCIO - DIDATTICA CAPOVOLTA PER IL PRIMO APRILE

INTRODUZIONE
DUE MONDI REALI PER LETTORI PROTAGONISTI
Il Decameron di Boccaccio è un'altra opera, come già la Divina commedia di Dante (tra parentesi, i due scrittori non si sono conosciuti di persona, anche se Boccaccio nasce nel 1313, e l'Alighieri è ancora vivo fino al 1321) che richiede a chi legge una totale disposizione all'abbandono. Per cominciare delle riserve mentali. Non è facile non averne, soprattutto quando si sia stati  abituati a stabilire due categorie più o meno opposte: le letture d'obbligo e quelle da divertimento o da piacere.  Divina commedia  e Decameron sono straordinari, nel senso proprio di extra ordinari, proprio perché possono essere letti e compresi fuori da qualsiasi preliminare categorizzazione, possono essere goduti di per sé in quanto forme date di intuizioni artistiche del mondo. Il mondo della Commedia, il mondo del Decameron, sono espressioni che si utilizzano comunemente e che vorrei cercare di rendere ora pregnanti. Inizio dal primo, dato che la lettura è arrivata per noi a un terzo della prima cantica. Per cominciare questo mondo della Commedia è un mondo reale. Nel senso che il termine può acquistare trattando di un'opera d'arte. L'artista crea per dare l'idea che qualcosa esista in un senso multiplo: c'è stato, c'è,  non c'è stato ancora ma potrebbe essere, forse non sarà mai, ma non si può escludere tassativamente che sia. Non avere la riserva mentale relativa a ciò che si possa dire reale, permette di leggere la Divina commedia come mondo in cui l'umano, l'essere umano, è sempre tale in qualunque dimensione si trovi. Di qua o nell'aldilà, inferno, purgatorio, paradiso, gli umani sono proprio quelli che calcano le vie del mondo da millenni, con le loro straordinarie virtù e i loro vizi immani, talvolta mescolati in modo da risultare quasi indistinguibili, talvolta così ben nettamente rappresentati da stupire: è possibile che qualcuno sia proprio così malvagio? O, viceversa, proprio così virtuoso? Anche i demoni, nel mondo della commedia, anche i mostri sono reali. Nel senso che sono credibili, pienamente comprensibili, se non riconducibili a un senso umano, anche quando siano concepiti dal poeta come una sfida a quest'ultimo: gli occhi fiammeggianti di Caronte, la coda che mima l'inferno di Minosse, la rabbia ribollente di Pluto sono altrettante espressioni di ciò che è l'umano reale, quando si manifesti come pura aggressività, pura pantomima della giustizia, pura rabbia impotente. Analogamente nel mondo del Decameron. Boccaccio ricrea il mondo, in un hortus conclusus al riparto dalla peste che imperversa a Firenze, e usa una tavolozza in cui si trovano tutti i colori della realtà. L'umano non può sfuggire nemmeno in questo caso: gli esseri umani, a tutti i gradini della scala sociale, si comportano in migliaia di modi differenti, sanno essere nefandi e dissoluti, o  viceversa encomiabili e costumati, sanno intrattenersi piacevolmente con divertimenti amorosi e morire per passioni tormentate e tormentose; salvare la vita e uccidere, dedicarsi alla religione con scrupolo e farsene beffe. Tra gli umani c'è chi inganna senza pudore e chi non potrebbe mai mentire nemmeno se ne andasse della sua vita. Pongo quindi entrambe le opere sotto un unico segno: quello di una realistica e umana commedia della  quale, anche se non si è ancora iniziato a leggerla, possiamo già sentire di essere protagonisti.

TITOLO,  PROEMIO E QUALCHE CONCETTO (CORNICE, CONTENUTI, VALORI)

·        Il titolo dell’opera,  Decameron, viene dal greco: libro, sottinteso,  delle dieci giornate (emèra significa giorno). Si tratta di un  titolo comunemente usato per trattati ascetici: Sant’Ambrogio, ad esempio, nel IV secolo d. C.,  titola Hexàmeron il suo trattato sulla creazione del mondo in sei giorni. Come sottotitolo, il Decameron reca la seguente dicitura:  ovvero Prencipe Galeotto, il noto personaggio che favorisce gli amori fra Ginevra e Lancillotto, che nel V canto dell’Inferno di Dante si rende complice anche del funesto amore fra Paolo e Francesca. Dunque l’autore suggerisce, con la titolatura, l’argomento dominante dell’opera. Saranno cento novelle, raccontate in dieci giorni da sette donne e tre giovani uomini e uno degli argomenti più importanti sarà l'amore. 

·          L'opera si apre con un proemio, in cui l'Autore individua il suo pubblico: sono le donne, in quanto particolarmente soggette (come lui, peraltro) alle pene d'amore e spesso lasciate sole a reggere il peso di passioni più o meno occulte, ch'esse provano in ogni caso in maniera ben più forte di quanto accada agli uomini normalmente. A questo pubblico di donne, quindi, egli dichiara la sua intenzione di far dono di  100 novelle ovvero favole o parabole o istorie che dire le vogliamo, raccontate in diece giorni da una onesta brigata di sette donne e di tre giovani nel pistilenzioso tempo della passata mortalitá fatta, ed alcune canzonette dalle predette donne cantate al lor diletto. Nelle quali novelle, piacevoli ed aspri casi d’amore ed altri fortunosi avvenimenti si vedranno cosí ne’ moderni tempi avvenuti come negli antichi; delle quali le giá dette donne che quelle leggeranno, parimente diletto delle sollazzevoli cose in quelle mostrate ed utile consiglio potranno pigliare, e conoscere quello che sia da fuggire e che sia similmente da seguitare: le quali cose senza passamento di noia non credo che possano intervenire. Il che se avviene, che voglia Iddio che cosí sia, ad Amore ne rendano grazie, il quale liberandomi da’ suoi legami m’ha conceduto di potere attendere a’ loro piaceri.  L'autore  entra in alcuni dettagli strutturali: le 100 novelle sono narrate in dieci giorni da un'onesta brigata costituita da sette donne e tre giovani, che si sono riuniti (verranno poi forniti altri dettagli in merito successivamente) nel periodo della peste, la cosiddetta morte nera del 1348. I temi indicati sono l'amore e svariati altri, con ambientazioni dall'antico alla sua contemporaneità. 

·        L’inizio vero e proprio è preceduto dalla dicitura che si ripete a ogni giornata: Comincia la prima giornata...nella quale dopo la dimostrazion fatta dall’autore per che cagione avvenisse di doversi quelle persone che appresso si mostrano ragunare e ragionare insieme sotto il reggimento di Pampìnea, si ragiona di quello che più aggrada a ciascuno. DUNQUE LA PRIMA GIORNATA E’ A TEMA LIBERO (Pampinea) 

·        Prima di arrivare alle narrazioni della prima giornata,  si legge  la DESCRIZIONE DELLA PESTILENZA e dell’INCONTRO NELLA CHIESA DI SANTA MARIA NOVELLA (inizia la CORNICE); quindi l’arrivo nella magione che li ospiterà per dieci giorni (una magnifica villa con giardino sui colli di Fiesole, vicino a Firenze) e la decisione che la lieta brigata trascorra la giornata seguendo alcune regole che istituisce per cominciare la più anziana del gruppo, Pampìnea appunto (oltre alla regolamentazione della vita pratica, con compiti assegnanti anche al personale che li ha seguiti, l’indicazione che non vengano recate da fuori altro che buone notizie). Le bevande e i cibi sono squisiti, le camere accoglienti, tutto concorre a rendere più che piacevole il soggiorno, ma è l’istituzione dell’abitudine di raccontare a costituire l’elemento strutturale importante: poco dopo l’ora nona (dopo le 15) si riuniscono in cerchio sulla fresca erba del giardino, in ombra anche in quel momento in cui è alto il sole, e iniziano le narrazioni. La prima è la novella di Ser Ciappelletto (o Cepparello).

·        Tra una novella e l’altra si ritorna alla cornice, registrando talora reazioni e commenti alle narrazioni, mentre quando finiscono le giornate, all’inizio della seguente, è possibile che la cornice si dilunghi di più come nel caso della IV giornata nella quale eccezionalmente è inserita una centounesima novella.

·        La seconda giornata, con Filomena, è dedicata come argomento a chi, trovandosi nei guai, riesce a superarli e arrivare a un lieto fine. La terza, con Neifile, celebra i casi in cui qualcuno desiderando molto qualcosa, o avendola perduta, la ottiene. La quarta, sotto Filostrato, tratta di amori infelicemente conclusisi. La quinta con Fiammetta, di amori travagliati finiti bene. La sesta, con Elissa, di motti arguti o alzate d’ingegno che hanno permesso a qualcuno di togliersi da gravi impacci. La settima, con Dioneo, beffe di donne ai propri mariti, coscienti o incoscienti. L’ottava, con Lauretta, beffe ambigenere. La nona, con Emilia, a tema libero. La decima, con Panfilo, tratta di chi abbia compiuto atti grandiosi in qualunque ambito.

·        Facciamo mente locale sui contenuti rilevanti e sul sistema di valori che sembra essere prevalente in questo grande affresco di vita del Trecento in Italia, non certo restringibile a questo periodo storico e a questa dimensione storico-sociale. Prenderò come spunto la prima e l’ultima novella, per tracciare una specie di cerchio che, come potrete testimoniare leggendo le novelle, passi attraverso un catalogo di difetti e di virtù possedute dagli  esseri umani in questa commedia umana dipinta da Boccaccio. La prima novella è dedicata alla vita di un uomo, ser Ciappelletto, che non ha mai fatto niente di bene e per il bene, tranne che in occasione della propria morte: in quell’occasione decide di compiere un’azione che, per strade come vedremo, tortuose, reca del bene ad alcuni soggetti, ma rappresenta (nell’intendimento esplicitato da Ser Ciappelletto) un’ulteriore ingiuria a Domeniddio. Ser Ciappelletto infatti compie una confessione in fin di vita totalmente mistificatoria: racconta di sé tutto quel che non è mai stato, ricorrendo cospicuamente all’antifrasi, al capovolgimento, insomma rappresentandosi l’opposto di quello che è a un sant’uomo di confessore che, una volta morto, provvede a santificarlo. Nella narrazione l’acme del senso sembra essere racchiuso nel fatto che sulla tomba di quest’uomo nefando si riuniscano folle che ottengono, per suo tramite, miracoli. La morale esplicitata, quella in cui sembra che si identifichi se non l’autore il narratore, è la seguente: anche se Ciappelletto, come pare giusto, brucia all’inferno, è pur possibile che Dio, nella sua grandezza, decida di esaudire con miracoli quanti si appellano a  lui anche attraverso un indegno intercessore.


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