COMPITI PER LA LEZIONE DI LATINO 31 MARZO - DIDATTICA CAPOVOLTA (con vostro labor limae)
Lavoro (casa/classe) su Fedro. Il labor limae realizzato da me è stato inserito successivamente a quello realizzato in classe.
3, VI.
Musca et mula |
La mosca e la mula |
Musca in
temone sedit et mulam increpans |
Seduta alla testa di un carro, una mosca infastidiva la mula
dicendole: “Che lenta sei! E andare più veloce di così? Guarda che ti dò una
morsicata!”. La mula replica: “Delle tue parole non mi curo; temo invece
costui che mi guida a suon di frustate e di strette di morso. E
allora piantala con la tua inane insolenza: so ben io quando andar lenta o
veloce.” L’apologo ridicolizza giustamente chi minaccia senza avere un vero
potere. (CB) |
LABOR LIMAE
La mosca posata sul carro incalza la mula dicendo: ”come sei lenta, non puoi camminare più in fretta? Attenzione che potrei pungerti il collo con il mio pungiglione”. Ella rispose: “Le tue parole non mi turbano, temo invece colui che, seduto sulla serpa, mi governa con la frusta e mi frena con il morso che si ricopre di schiuma. Perciò smettila con la tua frivola arroganza perché so bene quando sia necessario indugiare e quando correre”. Con questa favola si può giustamente deridere colui che non vale nulla ed esercita vane minacce. (Virginia, Jacopo)
Un tafano si posa sul timone di un carro e esordisce dicendo a una mula: “Come sei lenta! non puoi andare più veloce? Bada che non ti punga”. La mula ribatte: “Non mi toccano le tue parole! Ma temo colui che dirige il carro e che controlla i miei movimenti con la frusta e le briglie: infatti so dove si debba rallentare e dove si debba correre. Quindi smettila con questa tua insolenza. Comprendendo il contenuto di questa favola si può capire l’ironia di chi senza forza minaccia. (Filippo C., Matteo)
Una mosca seduta sul timone di un carro rimproverò una mula. Le disse: “quanto sei lenta, non vedi che ti sto punzecchiando per farti andare avanti più velocemente?”. Quella rispose: “non sono le tue parole a muovermi, ma temo colui che guida il carro, egli fa aumentare il mio passo frustandomi e con le briglie spumeggianti lo frena. Perciò tieni a freno la tua insolenza: io so dove indugiare e dove correre”. Possono essere derisi da questa fiaba tutti coloro che, privi di virtù, minacciano vanamente. (Federico, Sara)
La mosca, seduta su un carro, infastidisce la mula e dice: “Come sei lenta, vai più veloce se non vuoi che ti punga.” Lei risponde: “Le tue parole non mi spaventano, ma mi intimorisce il carrettiere che mi comanda utilizzando una frusta. Perciò non essere insolente poiché so dove indugiare e dove invece correre”. Colui che è prepotente viene giustamente deriso. (Martina, Alberto)
La mosca seduta su un carro incalza una mula dicendo: “Procedi lentamente, non vuoi aumentare il passo? Bada che altrimenti ti pungo”. Lei risponde: “Non mi fai paura tu, ma colui che con violenza governa il mio andamento e mi trattiene con le briglie. Porta via la tua insolenza perché sono io che conosco il mestiere”. Chi senza forze minaccia gli altri merita di essere deriso. (Carlotta, Tommaso)
La mosca, trasportata dalla mula su un carro, la sgrida dicendo: “sei proprio lenta, perché non ti muovi? Fa attenzione che ti posso pungere il collo”. L’altra risponde: “le tue parole non mi turbano, piuttosto mi spaventa colui che siede davanti e regola la mia andatura con la frusta pieghevole e mi rallenta con le briglie schiumanti. Perciò non essere presuntuosa e lascia fare a me che so quando essere prudente e quando no. Questa favola insegna che può essere giustamente deriso chi, privo di forza, fa minacce vane. (Eleonora, Lorenzo)
Una mosca seduta su un carro rimprovera la mula dicendo: “quanto sei lenta!, non vuoi camminare più velocemente?
Bada che io non ti punga il collo con il mio pungiglione. L'altra rispose: “le tue parole non mi turbano, temo piuttosto colui che sedendo sul sedile anteriore del carro mi tiene aggiogata, mi frusta e mi trattiene con le briglie spumeggianti.
Perciò smettila con la tua sciocca arroganza; so bene quando prendermela con comodo e quando correre”.
questa favola deride a dovere chi non vale nulla e minaccia invano. (Sergiu, Filippo M.)
Una mosca siede su un carro e rimproverando una mula disse:” come sei lenta, non vorresti andare più veloce? Attenta che io non ti infastidisca con il mio pungiglione, ella risponde:” le tue parole non mi spaventano, ma temo piuttosto, colui che siede sul carro dietro di me, che doma la mia corsa con una frusta e mi impone delle briglie. Perciò, tieni a freno la tua misera insolenza, poichè mi viene ordinato quando rallentare e quando correre”. Da questa favola giustamente può essere preso in giro colui che senza capacità, muove futili minacce. (Ettore, Andrea)
La mosca seduta su un carro, sollecitando la mula, disse: “come sei lenta; accelera. Stai attenta che non ti punga il collo. Quella allora rispose: “le tue parole non mi smuovono, piuttosto temo costui che, da sopra la seggiola, mi guida con una frusta, e frena il mio muso con briglie schiumanti. Quindi frena la tua futile arroganza, so quando aumentare e rallentare il passo.
Questa favola deride chi, senza forze, usa vane minacce. (Lisa, Giuseppe)
LE VARIE DECLINAZIONI DEL TEATRO
ANTICO
Prima di entrare nel vivo delle commedie di Terenzio, voglio una volta di più pensare a che cosa sia il teatro
antico. Nella versione tragica, noi abbiamo conosciuto Sofocle e l’Edipo re, il teatro promuove una
riflessione sull’interiorità umana. Vengono portate sulla scena le domande drammatiche che l’uomo si pone nel corso
della vita: chi sono, perché sono, dove mi conducono i miei passi, da chi siano
guidati, se sono guidati, in che misura sono libero di essere e di agire.
Drammatiche anche nel senso etimologico del termine, che al teatro si lega in
modo diretto, in quanto ineriscono all’azione, a ciò che si fa, oltre a ciò che
si è (e le due cose non sempre coincidono). Poi, nella versione comica, abbiamo
conosciuto il teatro politico di Aristofane, ridanciano e estroso, fantastico talora, ma anch’esso
intento a sviscerare comportamenti individuali e soprattutto collettivi, a
denunciare contraddizioni, incongruenze, misfatti di enorme portata, come
quelli che possono indurre intere collettività ad autodistruggersi, a
sacrificare sull’altare della ricchezza o del potere politico valori come la
vita libera e felice per il maggior numero possibile di persone. Passando a
Roma, abbiamo conosciuto la teatralità nella sua forma più autonoma e pura,
quella che pone se stessa al centro di ogni interesse, intendendo con questo
proprio il fatto di voler rappresentare ridendo e ridere della
rappresentazione: con le parole e con le azioni, con i suoi personaggi più o meno
stereotipati, Plauto travolge il pubblico con le sue trovate esagerate, dal
punto di vista espressivo come contenutistico, ma di rado richiede una
concentrazione del pensiero.
Dopo di lui, Terenzio si presenta
come un opposto: alla continua parodia degli esseri umani con la quale Plauto
ama intrattenere i suoi spettatori, posseduto da uno spirito trasgressivo e
carnascialesco, Terenzio sostituisce la loro rappresentazione in una dimensione
quotidiana, per certi versi anticipando il teatro realista e verista del XIX
secolo. Inoltre, in un linguaggio che si colloca agli antipodi di quello
plautino, conduce dei confronti dialettici fra i personaggi, che discutono fra
loro sui fatti della vita, cercando di risolvere questioni che si sono poste, come
può accadere nella realtà. Con Terenzio insomma, sembra che il teatro cambi i
suoi obiettivi: non si tratta tanto di scavare nelle profondità, né di
risolvere questioni politiche e nemmeno di distrarsi ridendo il più possibile.
Con Terenzio si vede scorrere sulla scena la realtà così com’è, si prendono in
esame problemi quotidiani, attraverso i quali, è vero, si può arrivare a
cogliere l’essenza dell’umano, quel nodo cruciale dell’humanitas di cui abbiamo parlato in precedenza, e non a caso è
stato il nostro punto di partenza.
Ma ora passo all’Hecyra. La prima delle commedie di Terenzio di cui voglio occuparmi. La storia, ridotta all’osso, è
la seguente: Panfilo sposa Filomena che, poco tempo prima del matrimonio, aveva
violentato senza conoscerne l’identità, strappandole un anello che aveva poi
donato a una sua amica cortigiana, Bacchide. Subito dopo le nozze, e senza
averle consumate, parte per un viaggio; Filomena è rimasta incinta a seguito
della violenza subita, e per questo viene portata via dalla casa del marito,
dove abitano i suoceri e in particolare Sostrata, la suocera che dà il titolo
alla commedia, dalla madre, con la scusa che sia malata. Quando Panfilo torna
dal viaggio, non vuole riprendere in casa la moglie, che ha ormai partorito,
nemmeno il figlio, mentre si sprecano le illazioni volte a spiegare questo suo
comportamento. Cè chi pensa che sia ancora innamorato di Bacchide, chi ritiene
che sia tutta colpa della suocera Sostrata che ha seminato zizzania tra moglie
e marito. Alla fine, solo il riconoscimento da parte di Mirrina, madre di
Filomena, dell’anello di sua figlia al dito di Bacchide, consente di scoprire
la verità. Panfilo accoglie quindi in casa, in un lieto fine conclusivo, la
moglie e il figlio. Molte inquietudini sono seminate in questa narrazione, tali
anche per la nostra sensibilità moderna. La prima riguarda la difficoltà di
stabilire la verità. Questa in
effetti sfugge, qualora ci si fondi sulla sola ricostruzione dei fatti, dato
che piuttosto è preferibile parlare di verità al plurale. Ogni personaggio ha
la sua verità: Panfilo quella di un giovane scapestrato e leggero che, secondo
costumi del tempo, non si perita di violentare fanciulle e di intrattenere
relazioni con cortigiane, per poi approdare evidentemente senza troppa
convinzione a un matrimonio; Filomena
quella di una fanciulla che, dopo aver subito una violenza, deve trovare riparo
nell’istituzione matrimoniale che sola può garantirle una rispettabilità
altrimenti negatale; Bacchide quella di una cortigiana che non persegue
unicamente finalità di tipo mercantile, che non cerca di approfittare della
situazione, ma intende invece prestarsi a assumersi ogni colpa pur di vedere felice l’uomo che ama; Sostrata quella
di una madre che desidera soprattutto la felicità di suo figlio ed è disposta
anche lei a sacrificarsi, andando a vivere in campagna e lasciando da soli gli
sposi, purché questo obiettivo venga
raggiunto. Verità differenti e dolore sembrano essere i veri protagonisti della
commedia, che non stupisce abbia suscitato poco entusiasmo in un pubblico tutto
dedito a Plauto come quello al quale Terenzio, nel 165, durante i Ludi Megalenses, la presenta per la
prima volta. Eloquente testimonianza dell’insuccesso è il contenuto del secondo
prologo che precede la commedia, in cui l’Autore, come tradizione vuole, prende
la parola, ma diversamente da quello che normalmente accade, invece di dare
un’idea della vicenda al pubblico, propone la cronistoria degli insuccessi ai
quali l’opera è andata incontro durante le prime rappresentazioni, con il
pubblico distratto e vociante. Di qui l’accorato appello a seguirla in silenzio
e con attenzione, perché solo così è possibile intendere le riflessioni
dell’autore. La nostra sensibilità ci porta a riconoscere in tutti i personaggi
delle vittime senza tempo di un’organizzazione sociale sempre incombente e
spesso costrittiva, nonché incapace di lasciare espressione alle nature
sensibili e non del tutto (o proprio per nulla) plasmate dagli usi e costumi
della cultura di appartenenza. Terenzio sembra guardare con comprensione, com’è
proprio degli spiriti davvero ispirati dall’humanitas, a qualsiasi comportamento, che risulta
comunque spiegabile, prima ancora di essere soggetto a un giudizio. Arriva
comunque anche lui a stabilire una sorta di gerarchia, una scala di umanità al
vertice della quale sembrano collocarsi due donne, Sostrata e Bacchide, i cui
atti sembrano costantemente dettati da un unico imperativo categorico in grado
di correggere la sostanziale ipocrisia dei rapporti interpersonali e di
diradare le tenebre delle menzogne che gravano su quasi tutti: l’imperativo
categorico di un affetto puramente generoso, materno nel primo caso, da amante
nel secondo, che è completamente volto alla felicità dell’amato, a prescindere
da quello ch’egli possa aver loro fatto o ancora fare.
Essere una voce fuori dal coro,
come dimostrano i patimenti subiti da Terenzio, documentati dai suoi prologhi
accorati, comporta molti sacrifici. Occorre proprio essere innamorati della
verità, e in più pensare di riuscire a contribuire al suo svelamento, per
assumersi questo onere platealmente, come avviene nel caso di un autore di
teatro.
Nella commedia intitolata Adelphoe, presentata al pubblico nel
160, durante i Ludi funebri in onore
di Emilio Paolo, il tormento della voce fuori dal coro si manifesta per
cominciare di nuovo nel Prologo:
Terenzio rifiuta l’utilizzo canonico del medesimo, che consiste nella
presentazione dell’argomento, precisando tra l’altro che gli spettatori
vedranno e capiranno da soli lo sviluppo della trama. L’invito implicito è
quello a seguire lo spettacolo con l’intelligenza, con il pensiero, di nuovo,
non concependolo come una distrazione. L’argomento della commedia, tra l’altro,
è molto scottante: si tratta di confrontare due sistemi educativi,
corrispondenti ad altrettante concezioni culturali e visioni del mondo. Il
primo, autoritario, è praticato dal vecchio Demea nei riguardi del figlio
Ctesifone, che vive con lui in campagna, dove vigono i mores maiorum, i costumi degli antenati e lo spirito dell’antica
romanità, dedita all’agricoltura e efficacemente rappresentata dal motto vir bonus colendi peritus, con cui viene
automaticamente riconsciuto come onesto
chi pratichi una sana vita contadina. Il
secondo, autorevole, è praticato dal fratello di Demea, di nome Micione, nei
riguardi del nipote e figlio di Demea, che Micione ha adottato, di nome
Eschino, che vive con lui in città, dove si stanno diffondendo gli ideali del
circolo scipionico, improntati appunto all’humanitas.
L’ossatura della vicenda è la seguente: Ctesifone, innamorato di una citarista
di nome Bacchide ma troppo sottomesso al padre e impaurito da lui per poter agire platealmente in contrasto con
le sue ferree regole, chiede al fratello Eschino di rapire la cortigiana al
posto suo. Una parte della commedia si avvale come sfondo di questa
circostanza, che comporta una sequela di accuse nei confronti di Eschino, il quale, commettendo questa azione generosa nei
confronti del fratello, accetta di mettere a repentaglio una sua seria
relazione con una giovane, Panfila, che ha appena avuto un figlio da lui.
Finché non diventa possibile svelare la verità, ovvero che Eschino ha agito per
conto del fratello che non osava assumersi la responsabilità di un atto volto a
favorire lui, tutti si scagliano contro Eschino, persino il padre adottivo
Micione che quasi giunge a ricredersi sui suoi metodi educativi passibili di
essere ritenuti troppo permissivi, mentre momentaneamente Demea pare essere il
trionfatore. Quando l’intrigo si svela, risulta invece che Eschino, educato dal
padre alla riflessione e al confronto fra pari, è in grado di assumersi
responsabilità, non teme di dover pagare per le proprie azioni, quando ritiene
che valga comunque la pena compierle. Il pavido Ctesifone, d’altro canto,
risulta essere la classica vittima di un’educazione che deprime la personalità
invece di farla fiorire.
La commedia si risolve però con un finale stranamente ambiguo: anche
se sembrava che la visione autorevole dell’educazione promossa da Micione
avesse avuto la meglio, nel bilancio finale della vicenda, l’ultima parola
sulla scena spetta a Demea, per bocca
del quale sembra che l’autore voglia suggerire l’ipotesi che il giusto mezzo sarebbe la pratica da
preferire fra l’estremo di un comportamento sempre severo e quello, altrettanto
discutibile, di un costante permissivismo.
CB
NOTA BIOGRAFICA (da Progetto Ovidio)
Sulla vita di T. abbiamo una biografia risalente a Svetonio: a questa attinse Donato, che la premise al suo commento delle commedie del nostro autore. Notizie biografiche, poi, si possono ricavare anche dai prologhi delle commedie stesse.
La sua vita si inserisce nel periodo di tempo compreso tra la fine della II guerra punica (201 a.C.) e l'inizio della III (149 a.C.) e si lega strettamente con la vicenda politica e culturale romana di quegli anni.
T. giunse a Roma come schiavo del senatore Terenzio Lucano, dal quale fu affrancato ob ingenium et formam (per ingegno e bellezza); divenne intimo di Scipione Emiliano e di Gaio Lelio, entrando quindi a far parte dell’entourage scipionico, del cui ideale di humanitas egli si fa portavoce.
Maldicenze sulla vera paternità delle commedie. Questa sua posizione di prestigio suscitò però l’invidia dei suoi contemporanei, soprattutto di altri letterati. Sul conto di T. sorsero così calunnie e pettegolezzi: lo si accusava di plagio e di essere addirittura un prestanome dei suoi importanti protettori, i veri effettivi autori delle sue commedie (era, infatti, considerato disdicevole per un "civis Romanus", impegnato politicamente, dedicare il proprio tempo alla composizione di commedie; le uniche attività che erano lui concesse coltivare erano l’oratoria o la storiografia). Da questa accusa T. si difende nel prologo della sua ultima commedia, gli Adelphoe.
Amarezza per l'insuccesso, viaggio in Grecia, morte. Amareggiato dal complessivo insuccesso della sua produzione, ma anche evidentemente per diletto e soprattutto per studiare in loco istituzioni e costumi greci da ritrarre nelle sue opere, T. lasciò Roma nel 160 a.C. e volle fare un viaggio in Grecia e in Asia Minore, da cui però non fece più ritorno. Morì qualche anno più tardi, o a causa di una malattia, o a causa di un naufragio, oppure per il dolore procuratogli dalla perdita dei bagagli che contenevano molte commedie che aveva tradotto da originali menandrei reperiti in Grecia.
Opere: titoli e rappresentazioni.
Di T. ci sono pervenute, integralmente, 6 commedie palliate (cioè d'ambientazione greca), composte e rappresentate a Roma, di cui si conoscono, tramite le "didascalie", l'anno e l'occasione del primo allestimento.
T. esordì nel 166 a.C. con una commedia, l’ Andria (La ragazza dell’isola di Andro). Nel 165, fece rappresentare una seconda commedia, l’ Hecyra (La suocera): il pubblico, dopo le prime scene, abbandonò il teatro, preferendo assistere ad una contemporanea manifestazione di pugili e funamboli; fu un fiasco clamoroso. Nel 163, fece rappresentare l’ Heautontimorumenos (Il punitore di se stesso). Nel 169 furono, invece, rappresentate l’ Eunuchus (L'eunuco) e il Phormio (Formione). L’ Eunuchus fu il più grande successo di T., perché è la sua commedia più simile alla comicità plautina. Nel 160, infine, durante i giochi funebri per celebrare la morte di Lucio Emilio Paolo, padre di Scipione Emiliano, T. fece rappresentare la sua ultima commedia, gli Adelphoe (I fratelli); nella stessa occasione tentò una seconda rappresentazione dell’ Hecyra, ma anche questa volta il pubblico abbandonò il teatro, preferendo i gladiatori. Una terza rappresentazione avvenne durante i Ludi Romani dello stesso anno e, finalmente, durò dall’inizio alla fine: il pubblico rimase in teatro grazie alla presenza di Ambivio Turpione, un attore molto celebre di quel tempo.
[...]
Rispetto a Plauto, le commedie di T. presentano maggiore fedeltà ai modelli greci, ma si tratta sempre di una fedeltà relativa: anche T. ricorreva infatti alla "contaminatio". Tuttavia, tale tecnica non consiste per il nostro autore, <<come pure è parso a molti, in un'ibrida mescolanza di più commedie, ma nell'inserimento di scene desunte da altri drammi, all'interno di una commedia greca usata come modello>> [Monaco - De Bernardis].
Ancora rispetto a Plauto, poi, T. mantiene un’ambientazione rigorosamente greca, senza surreali intrusioni di usi e costumi romani; elimina quasi completamente i "cantica", facendo invece uso abbondante di dialoghi e dei versi lunghi. Altra notevole differenza con Plauto è quella relativa allo stile e al linguaggio: in T., coerentemente all'esigenza di equilibrio e di raffinatezza ch'egli mutuava dal sofisticato circolo scipionico, non troviamo l’esuberanza, le acrobazie verbali, i giochi di parole e le parodie dello stile tragico: egli evita rigorosamente espressioni popolari e volgari; segue, stilizzandolo, il linguaggio della conversazione ordinaria. Quello di T. è insomma uno stile e un linguaggio sobrio, naturale, all’insegna della compostezza, della semplicità e decisamente "mimetico" rispetto alla realtà che lo circonda.
Anche in T., inoltre, al centro della vicenda comica, troviamo inoltre amori ostacolati che, alla fine si realizzano felicemente. I personaggi sono quelli della commedia "nea", giovani innamorati, ragazze oneste ecc.; della "nea", troviamo anche i soliti stereotipi: equivoci, inganni ecc. Il topos del riconoscimento conclude 5 commedie su 6, mancando solo negli "Adelphoe". Sempre 5 su 6 si concludono con uno o più matrimoni: solo nell’ "Hecyra" troviamo il ristabilimento di una unione matrimoniale che era entrata in crisi a causa di equivoci e sospetti infondati.
T. tende poi, a suo modo, a complicare gli intrecci menandrei, inserendo nella commedia, accanto alla coppia principale, una seconda coppia. Gli "adulescentes" spesso sono quindi due e sono due i "senes". Rispetto a Plauto, T. costruisce i suoi intrecci con coerenza maggiore e con più credibilità, caratteristiche queste mancanti nell’altro, che puntava sull’efficacia comica della singola scena.
La nuova funzione dei prologhi. Altra differenza importante rispetto a Plauto e a Menandro è l’abolizione del prologo informativo: questi autori si servivano del prologo appunto per informare il pubblico dell’antefatto, anticipando spesso la conclusione; ciò metteva il pubblico nella condizione di seguire meglio la vicenda (il cui intreccio era spesso complesso) e lo rendeva superiore agli stessi personaggi della commedia. T. trasforma, invece, il prologo informativo in un prologo a carattere "critico" e letterario: nel prologo parla di sé, del suo modo di poetare e si difende dalle accuse che i suoi avversari gli rivolgono. A recitare il prologo, poi, non è neanche più un personaggio della commedia, ma un attore scelto apposta (la cosiddetta "persona [= maschera] protatica"), che indossa un costume particolare.
Così, ad es., dall'accusa di aver sfruttato il procedimento della "contaminatio", comminatagli soprattutto da un "malevolus poeta" (Luscio Lanuvino), l'autore si difende già nel prologo dell' "Andria": se è vero che ha usato questa tecnica (non diversamente, del resto, dai suoi illustri predecessori, cui nessuno ha recriminato invece alcunché), egli lo ha fatto solo nei termini che abbiamo sopra descritto. Dall'accusa di plagio, invece, T si difende nel prologo dell' "Eunuchus", <<sostenendo di aver attinto direttamente al modello greco (cosa certamente consentita) senza conoscere i rifacimenti latini della stessa opera e aggiungendo che, essendo ormai tutto detto nel teatro, dev'esser permesso rifare ciò che è stato fatto>> [Monaco - De Bernardis]. Nel prologo dell' "Heautontimorumenos", inoltre, egli spiega il senso della definizione "stataria" ch'egli dà alle sue commedie [per cui, vd. più avanti].
Infine, dall'accusa di essere il mero "prestanome" di autori politicamente impegnati, T. si difende nel prologo dell’ "Adelphoe", dove afferma che ciò che gli altri ritengono una colpa e di cui lo accusano, è per lui motivo di vanto e di orgoglio: ritiene un merito essere aiutato dagli uomini più importanti di Roma, delle cui imprese tutto il popolo si serviva. La difesa di T. risulta, però, (volutamente) debole, forse perché non voleva urtare la suscettibilità dei protettori, a cui quelle calunnie e quelle dicerie evidentemente non dispiacevano affatto.
Teatro "naturalistico". Tuttavia, T. elimina il prologo informativo anche perché punta su effetti di suspense: vuole cioè che lo spettatore si immedesimi nel personaggio, che il pubblico sia coinvolto emotivamente nelle vicende, provi le stesse emozioni dei personaggi. T., inoltre, vuole mascherare l’aspetto fittizio dell’evento teatrale, vuole che non venga mai interrotta l’illusione scenica: elimina, a tal riguardo, tutti i procedimenti "metateatrali" a cui spesso ricorreva Plauto. Tutto ciò ha uno scopo preciso: mentre il Sarsinate non perseguiva nessun fine morale o politico, ma tendeva solo a divertire, T., con le sue commedie, intende trasmettere un messaggio morale.
<<T. intende mantenere a tutti i costi la verosimiglianza: il suo pubblico, per tutta la durata del dramma, non deve pensare di essere a teatro, deve credere piuttosto di vedere una "tranche de vie" […]. Il suo dunque è un teatro "naturalistico">> [Monaco - De Bernardis].
Commedia "stataria" e psicologia dei personaggi. Molto è stato discusso sul vero significato da dare al termine "stataria", usato dallo stesso T. per definire le proprie commedie: secondo alcuni, esso significherebbe che la sua non è commedia d'azione, ma esclusivamente psicologica, "di carattere": ciò è vero, però, fino ad un certo punto, dato che - anche se certamente in tono minore rispetto a Plauto - le sue opere non rinunciano completamente al movimento scenico. Allora, sarebbe forse più esatto affermare che <<molto semplicemente commedia stataria è quella dove non ci sono scene movimentate, con inseguimenti, litigi e clamori, scene farsesche che sono tipiche del teatro comico popolare>> [Perelli]. Ciò spiegherebbe anche la rinuncia di T. alla trovata (plautina) del "servus currens".
E' vero, comunque, che T. attenua decisamente i tratti caricaturali dei personaggi della "nea" e ne fa delle figure delicate, tenere, sensibili (ma più "tipi" che individui). Protagonista del suo teatro non è più il "servus callidus", ma padri e figli. Egli non ridicolizza i sentimenti d’amore dei giovani, ma li segue con partecipazione e simpatia. Anche i padri terenziani sono differenti da quelli plautini: sono disponibili al dialogo coi figli e si preoccupano sinceramente della loro felicità più che del loro patrimonio o del veder affermata la propria autorità. Nel teatro di T., del resto, non esistono personaggi del tutto negativi: anche i servi sono spesso vicini ai padroni e partecipano ai problemi familiari; non tutte le cortigiane pensano ai propri interessi (vedi il caso di Bacchide nell' "Hecyra").
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