MATERIALE PER LEZIONE DEL 20 MAGGIO
Il testo da cui è estrapolato il passo sotto riportato è un trattato dialogico, che Petrarca (nato nel 1304) scrive in prima stesura fra il '42 e il'43, a quasi quarant'anni. Di sicuro lo rivede anni dopo, probabilmente nel ‘53. È redatto in latino, suddiviso in tre libri, secondo il modello dialogico già di Platone e di Cicerone, ripreso poi nella letteratura dei secoli successivi, ad esempio da Boezio, autore nel V secolo d. C. del De consolatione philosophiae. Gli interlocutori sono due: lo stesso poeta, indicato familiarmente come Francesco, e sant’Agostino, Augustinus, che discutono tra loro alla presenza di un testimone muto, la Verità. La scelta del latino risale a quella necessità di ricorso alla lingua dei dotti che è motiva anche Dante nel caso del De vulgari eloquentia o del De monarchia. Come Dante con la Divina commedia, però, anche Petrarca scegli per l'opera destinata a conferirgli l'immortalità, il Canzoniere, il volgare. I contenuti dei tre libri sono così suddivisi: nel primo libro si dibatte della reale essenza del male , che viene definito come una insufficiente tendenza verso il bene, in modo da non conferirgli autonomia; quando il discorso si fa soggettivo, Agostino rimprovera a Francesco la scarsa motivazione verso il vero bene che caratterizza il suo animo; nel secondo libro si analizzano i sette peccati capitali, con particolare riferimento all’accidia, percepita e descritta da Petrarca come incapacità della volontà di allontanarsi dalla tentazione peccaminosa. Nel terzo si sofferma su quelle che Francesco chiama le “catene di diamanti”, cioè i legami preziosi che lo tengono avvinto ai valori terreni, in particolare all’amore per la gloria e all’amore per Laura, la donna alla quale è dedicata gran parte del Canzoniere. Il libro non contiene risposte definitive, in ragione della sua natura di confessione, al termine della quale, pur essendo stata approfondita la disamina da parte di entrambi gli interlocutori, l’animo del poeta è ancora preda del conflitto interiore. Il modello dello scritto è rappresentato da un'opera di Agostino medesimo, Le confessioni, opera autobiografica del 398 di Agostino, che la scrive all'incirca alla stessa età in cui Petrarca concepisce il suo Secretum. Nel caso del padre della chiesa, però, il testo è concepito come un diario intimo, all'interno del quale si manifesta il processo di chiarificazione interiore che lo porta alla fede in Dio e nei valori della religione cristiana.
LIBER SECUNDUS
Aug. L' animo tuo è dominato da una cotal peste che i moderni chiamano malinconia e gli antichi dissero tristezza.
Fr. Al nome solo ne inorridisco.
Aug. Certo perchè ne fosti travagliato sì a lungo.
Fr. Sì, è vero; ma in codesta mia infermità non m'avvenne ciò che nelle altre, le quali contengono una non so quale falsa dolcezza mista all'amaro; perchè tutto in lei è tristo, misero, aspro ed orrendo, tutto mena alla disperazione e a quegli eccessi che trascinano gl'infelici al precipizio. Oltre a ciò, frequenti, sì, ma brevi e momentanei sono gli assalti che mi danno le altre passioni, ma questa maligna e tenace tanto mi stringe che nè giorno nè notte allenta le sue catene; ed allora non è intorno a me luce quella che splende, ma notte d'inferno, non vita che io goda, ma acerbissima morte. E per colmo di sventura, mentre di sì fatta guisa essa mi accuora e dolorosamente m'affrange, io mi sento preso da una cotal voluttà che non posso strapparmi dalle sue braccia senza provarne rincrescimento.
Aug. Assai bene mi favellasti della tua malattia; di corto ne saprai ancora la cagione. Dimmi frattanto di che così fieramente ti crucci? forse del rapido passare di queste temporali cose, d'un qualche dolore nel corpo, ovvero d'alcun altro oltraggio dell'ingiusta fortuna?
Fr. Se i miei nemici uno ad uno mi movessero guerra, non io mi ricuserei di affrontarli; ma costoro tutti ad un tempo muovono in gran frotta ad assalirmi.
Aug. Dichiarami più in particolare ciò che t'arreca maggior gravezza.
Fr. Allorchè la fortuna mi scaglia uno de' suoi dardi, io non m'atterrisco, rammentando come non una volta ella m'abbia profondamente piagato. Se ella rinsanguina la ferita, comincio alcun poco a tentennare; ove poi ai due primi colpi succeda il terzo ed il quarto, allora vinto, non però così che mi metta a precipitosa fuga, ma passo passo, mi ritiro nella rôcca della ragione. Che se la nemica mia col nerbo di tutte le sue forze ivi pure m'assalga ed a soggettarmi affatto schieri in ordine di battaglia le miserie della umana condizione, la memoria delle sostenute fatiche e lo spavento de' danni futuri; al vedermi d'ogni dove incalzato ed oppresso sotto il peso di tante sciagure, non posso non prorompere in gemiti. E ciò è appunto che tanto m'affligge. Onde io divento allora simile a colui che, attorniato da tutte bande, senza che gli si apra scampo o fiducia di salvezza, nulla più abbia a sperare, e tutto gli resti a temere. E già, alzate le macchine e scavate le mine, tremar vede le torri, appressare alle trincere le scale, appiccarsi alle mura i roncigli, e il fuoco trascorrere lungo le esteriori difese; dappertutto un balenar d'armi, un accorrere di nemici, che, minacciosi in sembianza, cogli occhi divorano la preda.... Ora il tapino che sia sopragiunto da tanta mina non dovrà intirizzire dallo spavento? perchè, quand'anche cessi il pericolo di morte, egli perde la libertà, che all'uomo forte o la più fiera delle ambasce.
Aug. Comechè non mi suonino al tutto chiare le tue parole, pure lo sono abbastanza per rilevarne che ti si è fitta in mente una, massima falsa; la quale siccome fu origine di tutti i mali, così condusse e condurrà in perdizione infinita gente — Dimmi; ti sanno male le tue condizioni presenti? tristi sembrano a te le tue condizioni?
Fr. Anzi non potrebbero esser peggiori.
Aug. E perchè?
Fr. Non uno, ma innumerevoli ne sono i perchè.
Aug. S'avvera in te pure il caso di coloro che, ad ogni minimo motto d'oltraggio, si richiamano al pensiero le antiche offese.
Fr. Non v' ha piaga, per quanto si voglia antica, che per virtù di tempo in me risanasse. Tutte ancora grondano sangue e mi danno spasimo; e se ve n' è alcuna da potersi guarire, la fortuna così mostrasi vaga di tormentarmi che non le lascia tempo a rimarginare. A ciò s'aggiunge l'odio e il disprezzo delle umane cose, tanto e sì grande che la vita non può passarmi se non mestissima. In quanto poi al nome onde vuolsi chiamare questa malinconia che m'affligge, non me ne curo punto; ma troppo è vero ch'io ne patisco.
Aug. Giacchè, da quanto scorgo, il male ha messe barbe in te profonde, non basterà lo svellerlo a fior di terra, ma sì dall'ime radici, ove non vogliasi che rigermogli. Non so poi da che parte por mano all'opera, tanto essa m'atterrisce; ma acciocchè le mie parole ti suonino più chiare ed agevoli, farò di dirtene per sommi capi. Dichiarami adunque che cosa stimi innanzi a tutto recarti maggior molestia.
Fr. Quanto veggo, ascolto ed intendo.
Aug. E niente v' ha di tutto ciò che t' aggradi?
Fr. Ben poco, o nulla.
Aug. Fosse almeno che t'allettassero le cose buone! Ma e non v'ha nulla che in particolar guisa rincresca?
Fr. Già te 'l dissi.
Aug. Ecco un altro effetto di quell'umor nero che sì t'opprime. Or bene; ed io credo che sieno i fatti tuoi quelli di che prendi maggior fastidio.
Fr. E gli altrui non meno.
Aug. Ed anche questo è rivo che sgorga dalla stessa fonte. Ma, a parlare con qualche ordine, è poi vero che tanta amarezza ti dieno i fatti tuoi.
Fr. Cessa, o padre, dal rinnovarmene la domanda? Aggiungerò solo ch'essi mi annoiano più che io non basti a significare,
Aug. È segno dunque che ti reca noia l'invidia che altri ti porta.
Fr. Infelicissimo colui che invidia ad un in felice!
Aug. Ma pure la vi dev' essere questa cosa che più delle altre ti spiace.
Fr. No 'l so.
Aug. Vorrai tu convenirne, ove io te la nomini?
Fr. Sì, schiettamente.
Aug. Sei sdegnato colla tua fortuna.
Fr. E non mi sarà forza odiare la superba, violenta e cieca fortuna, la quale, senza verun riguardo, tutto quanto volge sossopra?
Aug. Non v'ha persona che di ciò non si lagni; ma ora parliamo de' tuoi risentimenti in particolare. Or vorrai tu rabbonirti, se io ti mostri che ti lamenti a torto?
Fr. Ti togli un'assai malagevole impresa. Però consento, ove tu ci riesca.
Aug. A te pare che la fortuna ti sia poco cortese.
Fr. Anzi ella è con me a varissima, iniquissima, superbissima, crudelissima.
Aug. Non è uno solo che si chiami malcontento di lei come dice il poeta comico, ma infinito n'è il gregge. E tu vai annoverato fra' molti, comechè ti vorrei tra' pochi. Siccome però antica è la malattia, e appena si potrebbe guarirla con nuovo rimedio, mi lasceresti ritentare l'usato?
Fr. Fa a tuo senno.
Aug. Rispondimi. Fosti mai in tale distretta da soffrire la fame, la sete, il freddo?
Fr. La fortuna non mi guardò ancora con occhio sì bieco.
Aug. Pure da queste cagioni medesime quanti son travagliati! quanti afflitti!
Fr. Tienti il tuo farmaco, se altro nonne hai; questo non varrà certo a sanarmi. Perchè non sono io già di coloro che, colpiti dalla sventura, amano di circondarsi d'una turba di piagnolosi lamentatori. E troppo spesso sospiro, più che de' miei, degli altrui mali.
Aug. Meglio che a blandire, io miro a giovarti. Sappi pertanto che, quando l'uomo riguardi alle altrui sorti, ha cagione di chiamarsi contento delle proprie. Perchè non tutti possono occupare i primi seggi; d'altra guisa non vi sarebbero primi, ove non si dessero secondi. Per lo che è a dire che la fortuna amichevolmente vi tratti allorchè delle acerbissime prove onde tormenta i mortali vi risparmia le più tremende; sebbene a coloro eziandio che sono disgraziati di tanto è da provedere con que' soccorrimenti che più tornano all'uopo: della qual cosa non hai certo bisogno tu, che non ne fosti se non lievemente percosso. Ma che cosa vi precipita infondo all'abisso, se non la dimenticanza delle proprie condizioni? e nel mentre vagheggiate col pensiero d'ascendere al sommo grado, a cui, come notai, non è dato giungere che a pochi, avvampate di sdegno se non riuscite a toccarvi. Che se poi chi aspira alla cima degli onori conoscesse tutte le miserie della grandezza, non potrebbe non rimaner compreso d'alto spavento. E ciò si prova dal testimonio di quelli che, dopo aver tanto affaticato a salire, maledicono adesso l'agevolezza onde furono assecondati i loro desiderii. Il che se a tutti è palese, a te dev'essere principalmente, cui la lunga esperienza insegnò quanto dure, affannose e meschine sieno le sorti degli stati eminenti. Da ciò è che nessuno si trovi contento; perchè e chi conseguisce il desiderato e chi non crede d'avere giuste cagioni a lamentarsi; mentre l'uno si stima deluso, l'altro sprezzato. Tu adunque attienti al consiglio di Seneca; e, riguardandoti attorno, pensa a quanti ti precedano ed a quanti ti vengano dietro. Se ami piacere a Dio e a te stesso, non ti scordare de' molti a cui andasti innanzi; e perciò, secondo che è detto nella sovraccennata sentenza, fa di assegnarti da te quel confine oltre il quale, quand'anche potessi, non è da varcare.
Fr. E già tanto feci che, se non mi fallisce il vedere, moderati sono i miei desiderii. Ma, di mezzo ai corrotti costumi ed alla sfacciataggine di questo secolo, agli uomini della mia tempera si appone la taccia di pigri e di vili.
Aug. E l'opinione del volgo turberà la tua pace? del volgo che non giudica mai sanamente, che mai non chiama le cose col vero lor nome? E tu, se ben rammento, un tempo non ne facevi caso.
Fr. Nè mai ebbi in minore estimazione che adesso. Di siffatti giudizii tanto mi cale che di quello d'una mandra di zebe.
Aug. Or via, e che altro sì ti commove?
Fr. Nessuno, fra tutti i miei coetanei, allettò brame più discrete delle mie; e a nessuno, siccome a me, tante difficoltà s'attraversarono a contendere il passo: ciò è che amaramente mi cruccia. E se ponessi a troppo alto segno la mira, costei che del mio e di tutti i cuori è conoscitrice invoco a testimonio. Ella, che legge nel più chiuso dei pensieri, ben vede che, per quanto la mente trascorresse tutti i gradi onde si sale, giammai non ismarrii la tranquillità dell'animo, la quale stimo doversi anteporre ad ogni bene. Perciò, giurando odio a quelle condizioni che abbondano di affannose cure, ebbi ognora a preferire la mediocrità; nè co' detti solo, ma sì ancora co' fatti m'attenni a quella sentenza d'Orazio:
L'aurea mediocrità chi lieto abbraccia,
Non del povero tetto si contrista;
Ma il livor che dell'invido è martello
Dal tranquillo suo cor cauto discaccia.
E bella mi sembra la ragione che ne soggiunge:
Più spesso il tento degli eccelsi pini
Crolla le cime; le sublimi torri
Precipitando con maggior mina
Cadono al suolo, e il fulmine de' monti
L'aerea retta sfolgora e scoscende.
Nè io mi dolsi mai del modesto mio stato.
Aug. E che mi risponderai, ove io ti persuada che quanto stimi esser mediocre è al di sopra della tua condizione? Che, se ti mostri siccome tu da gran tempo godi, e in buon dato ne godi, di codesta tua mediocrità? che, se ti dica qualmente te la lasciassi di buon tratto dopo le spalle? onde, più che di spregio, porgi argomento a molti d'invidia.
Fr. Fosse anche ciò vero, a me parrebbe sempre il contrario.
Aug. E questa tua matta opinione è sorgente di tutti i tuoi mali e di quello onde principalmente ora t'affliggi. A cansare pertanto da tal Cariddi vuolsi usar forza di remi e di vele.
Fr. Ma dove fuggirmi? a qual porto dirizzare la prora? che altro deggio io credere, se non quello che tocco con mano?
Aug. Tu non guardi se non innanzi a te; ma se ti mirassi da tergo, ravvisando la innumerevol turba che move dopo i tuoi passi, non che essere nelle ultime file, conosceresti di camminar nelle prime. Ma la inflessibilità eccessiva del tuo proposto ti vieta di veder tanto.
Fr. E il feci altra fiata, e posi mente ai tanti che mi venivano dietro, senza che arrossissi della mia sorte; e a buon diritto, perchè
Di tante cure il pondo odio e detesto.
Che anzi, a valermi delle frasi dello stesso Orazio, mi tocca sempre
Pendere dalla incerta ora che fugge.
Ma, ove mi si tolga di dosso questa ansietà, ho abbondevolmente di che fornire al bisognevole; e dirò con buona pace, ciò che al luogo stesso soggiunge il poeta:
Forse troppo richieggo? A me sol basta
Ciò che possedo, e forse men. Trascorra
Così del viver mio placida l'ora,
Se lunga vita ancor m'assente il nume.
Io, sempre in sospetto dell'avvenire e incerto nell'animo, non risento alcuna dolcezza de' favori della fortuna e, come vedi, vivo, più che a me, agli altri; cosa fra tutte la più miserabile. Oh almeno trovassi riposo nella vecchiaia! e, dopo essere stato tanto trabalzato dall'onde, morissi in porto tranquillo.
Aug. E tu adunque, tra tante migliaia d'uomini, di mezzo al turbine delle umane vicende, ravvolto nella molteplice varietà di mille e mille casi, ed in così grande incertezza dell'avvenire, tu solo, a dir breve, posto come gli altri sotto l'impero della fortuna, vorrai passartela spensieratamente? Uomo mortale, guarda bene a che aspiri; guarda a ciò che tu chiedi. In quanto poi al lamentare che fai di non aver vissuto a te stesso, servaggio piuttosto che povertà è da chiamarsi il tuo. E sebbene codesto stato sia da riputarsi molto infelice, pure, se col pensiero tu scorra alquanto per le condizioni umane, riscontrerai pochissimi cui toccasse di vivere a sè stessi. Perchè coloro altresì che hanno fama di più fortunati e tennero pronte a' proprii servigii infinite genti, deggiono poi anche essi, senza badare a veglie e a fatiche, soggiacere alle altrui voglie, secondo che le loro parole ne fanno testimonianza. Ed a convincertene con un illustre esempio, io ti recherò le parole di Giulio Cesare; il quale disse con altrettanta arroganza che verità: «Il genere umano è fatto per servire a pochi.» Pure, dopo ch'ebbe costretto l'intero mondo a non vivere altro che per lui, egli viveva per gli altri. Domanderai forse per chi? Per coloro, io ti rispondo, che lo uccisero; per quel Bruto e quel Cimbro e l'altra turba di perfidi congiurati, ad empiere le cui bramose voglie non bastò la munificenza d'un sì generoso benefattore.
Fr. Le tue parole m'hanno vinto così che più io non isdegni d'essere nè povero nè servo.
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