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 SEZIONE RACCONTI, POESIE, SAGGISTICA

Nove volte Sette

di Isaac Asimov

Jehan Shuman era abituato a trattare con gli uomini che da molti anni dirigevano lo sforzo bellico terrestre. Non era un militare, Shuman, ma a lui facevano capo tutti i laboratori di ricerche incaricati di progettare i cervelli elettronici e gli automi impiegati nel conflitto.
Di conseguenza, i generali gli prestavano ascolto. E lo stavano a sentire perfino i capi delle commissioni parlamentari.
C'erano due esemplari di entrambe queste specie nella saletta del Nuovo Pentagono. Il generale Weider aveva il volto bruciato dagli spazi e la bocca molto piccola, quasi sempre atteggiata in una smorfia. Il deputato Brant aveva guance tonde, lisce, e occhi chiari. Fumava tabacco denebiano con l'indifferenza di un uomo il cui patriottismo è notorio e che può quindi permettersi certe libertà.
Shuman, alto, elegante, e Programmatore di prima classe, li affrontò senza esitazione.
Disse: - Signori, questo è Myron Aub.
- Sarebbe lui l'individuo dotato di speciali capacità, che avete scoperto per caso? - disse il deputato Brant, senza scomporsi.
- Bene! - Con bonaria curiosità squadrò l'omettino calvo, con la testa a uovo.
L'ometto reagì intrecciando nervosamente le dita. Non era mai stato a contatto di persone così importanti in vita sua. Era un Tecnico d'infimo rango, già abbastanza avanti negli anni, che dopo aver fallito tutte le prove di selezione destinate a individuare i cervelli umani meglio dotati, s'era ormai rassegnato da anni a un lavoro oscuro e monotono. Ma poi il Grande Programmatore aveva scoperto il suo hobby e l'aveva trascinato qui.
Il generale Weider disse: - Questa atmosfera di mistero mi sembra puerile.
- Un minuto di pazienza - disse Shuman - e vedrà che cambierà idea. Si tratta di una cosa che non va assolutamente divulgata...
Aub! - Pronunziò il nome monosillabico come se fosse un comando militare, ma era un Primo Programmatore e parlava a un semplice Tecnico.
- Aub! Quanto fa nove volte sette?
Aub esitò un istante. I suoi occhi smorti ebbero un fioco lampo di ansietà. - Sessantatré - disse.
Il deputato Brant inarcò le sopracciglia. - È giusto?
- Controlli lei stesso, onorevole.
Il deputato trasse la sua calcolatrice tascabile, ne sfiorò con le dita due volte il bordo zigrinato, guardò il quadrante e la ripose in tasca. Disse: - E sarebbe questo il fenomeno che lei ci ha chiamato qui ad ammirare? Un illusionista?
- Molto di più, onorevole. Aub ha mandato a memoria alcune operazioni e sa calcolare sulla carta.
- Una calcolatrice di carta? - disse il generale. Sembrava deluso.
- No, generale - disse Shuman, paziente. - Non è una calcolatrice di carta.
Semplicemente un foglio di carta. Generale, vuol essere così gentile da proporre un numero qualsiasi?
- Diciassette - disse il generale.
- E lei, onorevole?
- Ventitré.
- Bene! Aub, moltiplichi questi due numeri e faccia vedere a questi signori in che modo esegue l'operazione.
- Sissignore - disse Aub, chinando il capo. Trasse un taccuino da una tasca della camicia e una sottile matita da pittore dall'altra. La sua fronte era tutta aggrottata mentre tracciava faticosamente sulla carta dei piccoli segni.
Il generale Weider lo interruppe in tono asciutto. - Mi faccia vedere.
Aub gli porse il taccuino e Weider commentò: - Be', sembra il numero diciassette.
Il deputato Brant annuì e disse: - Proprio così, ma è chiaro che chiunque può copiare dei numeri da una calcolatrice. Io stesso, credo, sarei capace di disegnare un diciassette passabile, anche senza esercizio.
- Se i signori non hanno nulla in contrario, Aub potrebbe continuare - intervenne soavemente Shuman.
Aub continuò, la mano un po' tremante. Infine disse a bassa voce: - La risposta è trecentonovantuno.
Il deputato Brant consultò una seconda volta la sua calcolatrice tascabile. - Perdio, è esatto. Come ha fatto a indovinare?
- Non ha indovinato, onorevole - disse Shuman. - Ha calcolato il risultato.
L'ha fatto su questo foglietto di carta.
- Storie - disse il generale con impazienza. - Una calcolatrice è una cosa e dei segni sulla carta un'altra.
- Spieghi lei, Aub - disse Shuman.
- Sissignore... Ecco, signori, io scrivo diciassette e subito sotto scrivo ventitré. Poi mi dico: sette volte tre...
Il deputato lo interruppe pacatamente. - Attento, Aub, il problema è diciassette volte ventitré.
- Sì, lo so, lo so - Sì affrettò a spiegare il piccolo Tecnico - ma io comincio col dire sette volte tre perché è così che funziona. Ora, sette volte tre fa ventuno.
- E come lo sa lei? - chiese il deputato.
- Me lo ricordo. Dà sempre ventuno sulla calcolatrice. L'ho controllato innumerevoli volte.
- Questo non significa che lo darà sempre, però - disse il deputato.
- Forse no - balbettò Aub. - Non sono un matematico. Ma vede, i miei risultati sono sempre esatti.
- Vada avanti.
- Sette volte tre fa ventuno, e io scrivo ventuno. Poi tre per uno fa tre, così io scrivo tre sotto il due di ventuno.
- Perché sotto il due? - chiese il deputato Brant, secco.
- Perché... - Aub lanciò un'occhiata implorante al suo superiore. - È difficile da spiegare.
Shuman intervenne: - Direi che per il momento convenga accettare per buono il suo metodo e lasciare i particolari ai matematici.
Brant si arrese.
Aub proseguì: - Tre più due fa cinque, e perciò il ventuno diventa un cinquantuno. Ora, lasciamo stare per un momento questo numero e cominciamo da capo. Si moltiplica sette per due, che ci dà quattordici, e uno per due che ci dà due. Li scriviamo così e la somma ci dà trentaquattro. Ora se mettiamo il trentaquattro sotto il cinquantuno in questo modo, sommandoli otteniamo trecentonovantuno, che è il risultato finale.
Vi fu un istante di silenzio e il generale Weider disse: - Non ci credo. È una bellissima filastrocca e tutto questo giochetto di numeri sommati e moltiplicati mi ha divertito molto, ma non ci credo. È troppo complicato per non essere una ciarlatanata.
- Oh, no, signore - disse Aub, tutto sudato. - Sembra complicato perché lei non è abituato al meccanismo. Ma in realtà le regole sono semplicissime e funzionano con qualsiasi numero.
- Qualsiasi numero, eh? - disse il generale. - Allora vediamo.
- Trasse di tasca la sua calcolatrice (un severo modello militare) e la toccò a caso. - Scriva sul suo taccuino cinque sette tre e otto. Cioè cinquemilasettecentotrentotto.
- Sissignore - disse Aub staccando un nuovo foglio di carta.
- Ora - toccò di nuovo a caso la calcolatrice - sette due tre e nove.
Settemiladuecentotrentanove.
- Sissignore.
- E adesso moltiplichi questi due numeri.
- Ci vorrà un po' di tempo - balbettò Aub.
- Non abbiamo fretta - disse il generale.
- Cominci pure Aub - disse Shuman, tagliente.
Aub cominciò a lavorare tutto chino. Staccò un secondo foglio di carta, poi un terzo. Finalmente il generale trasse di tasca l'orologio e lo considerò con impazienza. - Allora, ha finito coi suoi esercizi di magia?
- Ci sono quasi arrivato, signore... Ecco il prodotto, signore. Quarantun milioni, cinquecentotrentasettemilatrecentottantadue. - Mostrò la cifra scarabocchiata in fondo all'ultimo foglio.
Il generale Weider sorrise condiscendente. Premette il pulsante di moltiplicazione sulla sua calcolatrice e attese che il ronzio dei meccanismi tacesse. Poi guardò il quadrante della minuscola macchina e disse con voce rauca dallo stupore: - Grande Galassia, l'ha azzeccato in pieno.
Il Presidente della Federazione Terrestre stentava ormai a mascherare, in pubblico, la tensione che lo rodeva e, in privato già permetteva che un'ombra di malinconia velasse i suoi lineamenti delicati, di uomo sensibilissimo. La guerra denebiana, dopo l'entusiasmo e l'unanime slancio dei primi anni, s'era rattrappita a un gioco inane di manovre e contromanovre. Sulla Terra lo scontento cresceva ogni giorno e cresceva forse anche su Deneb.
E ora il deputato Brant, capo dell'importantissima Commissione Parlamentare sull'Organizzazione della Difesa, stava allegramente e placidamente dissipando la sua mezz'ora di colloquio in chiacchiere inutili.
- Calcolare senza una calcolatrice - osservò il presidente con impazienza - È una contraddizione in termini.
- Calcolare - disse il deputato - È soltanto un sistema per elaborare dei dati. Può farlo una macchina come può farlo il cervello umano. Permetta che le dia un esempio. - E, servendosi delle capacità da poco acquisite, prese a calcolare somme e prodotti finché il presidente suo malgrado sentì nascere un certo interesse.
- E funziona sempre?
- Infallibilmente, signor Presidente. Non sbaglia un colpo.
- È difficile da imparare?
- Mi ci è voluta una settimana per impadronirmi perfettamente del sistema. Ma immagino che lei...
- Effettivamente - disse il presidente, pensoso - È un giochetto molto interessante. Ma a che cosa serve?
- A che cosa serve un neonato, signor Presidente? Sul momento non serve a nulla, ma non vede che questo è il primo passo verso la liberazione dalle macchine? Consideri, signor Presidente - il deputato si alzò e la sua voce profonda prese automaticamente le cadenze dei discorsi parlamentari - che la guerra denebiana è una guerra di calcolatrici contro calcolatrici. Le calcolatrici nemiche formano uno scudo impenetrabile di contro-missili che fermano i nostri missili, e le nostre bloccano i loro nello stesso modo. Ogni volta che noi perfezioniamo le nostre calcolatrici, i Denebiani fanno lo stesso, e ormai da cinque anni si è creato un precario e inutile equilibrio di forze. Ora noi siamo in possesso di un metodo che ci permetterà di vincere le calcolatrici, di scavalcarle, di attraversarle. Potremo combinare la meccanica del calcolo automatico con il pensiero umano, avremo per così dire delle calcolatrici intelligenti; a miliardi. Non posso prevedere esattamente quali saranno le conseguenze; ma è chiaro che questa innovazione avrà una portata incalcolabile. E se Deneb ci arriva prima di noi, sarebbe una vera catastrofe.
Con aria preoccupata il presidente disse: - Che cosa dovrei fare secondo lei?
- Conceda il pieno appoggio del governo a un piano segreto per lo sviluppo del calcolo umano. Lo chiami Progetto 63, se vuole. Io rispondo della mia commissione, ma avrò bisogno del sostegno del governo.
- Ma fin dove può arrivare il calcolo umano?
- Non c'è limite. Secondo il Programmatore Shuman, che mi ha parlato per primo di questa scoperta...
- Sì, ho sentito parlare di lui.
- Bene, il dottor Shuman mi dice che in teoria tutto ciò che sa fare una calcolatrice lo può fare anche una mente umana. In sostanza la calcolatrice non fa altro che prendere un numero finito di dati ed eseguire con essi un numero finito di operazioni. La mente umana è perfettamente in grado di ripetere il procedimento.
Il presidente rifletté per qualche istante. Infine disse: - Se lo dice Shuman, non ho motivo di dubitarne... Sarà verissimo. Almeno in teoria. Ma in pratica com'è possibile sapere in che modo lavora una calcolatrice?
Brant sorrise affabilmente. - Le dirò, signor Presidente; gli ho fatto la stessa domanda. E sembra che un tempo le calcolatrici venissero progettate e disegnate direttamente dagli esseri umani. Si trattava naturalmente di macchine molto rudimentali, dato che ciò avveniva prima che si fosse affermato il principio, ben più razionale, di affidare alle stesse calcolatrici la progettazione di calcolatrici ancor più perfezionate.
- Sì, sì. Continui.
- Il Tecnico Aub aveva uno strano hobby: si divertiva a ricostruire queste macchine arcaiche e così facendo ebbe modo di studiare il loro funzionamento e scoprì che poteva imitarle. La moltiplicazione che ho eseguito poco fa è un'imitazione del funzionamento di una calcolatrice.
- Straordinario! - Il deputato tossì leggermente. - E c'è un'altra cosa che vorrei farle presente, signor Presidente... quanto più riusciremo a sviluppare e ad estendere questo nostro progetto, con le sue infinite applicazioni, tanto maggiore sarà la percentuale di investimenti federali che potremo distogliere dalla produzione e dalla manutenzione delle calcolatrici. Via via che il cervello umano si sostituisce alla macchina, una parte crescente delle nostre energie o delle nostre risorse può essere dedicata a impieghi pacifici e in tal modo il peso della guerra sull'uomo comune andrà decrescendo progressivamente. Ed è inutile dire quanto un fatto simile favorisca il partito al potere.
- Ah - disse il presidente. - Capisco ciò che lei intende. Bene, si accomodi, onorevole, si accomodi. Ho bisogno di riflettere sulla sua proposta... Ma intanto, mi faccia ancora vedere quel trucchetto della moltiplicazione.
Vediamo se riesco a capire come funziona.
Il Programmatore Shuman non tentò di affrettare le cose. Loesser era un conservatore, un uomo molto legato alla tradizione, e aveva per le calcolatrici la stessa passione che aveva animato suo padre e suo nonno prima di lui. Controllava tutta la rete di calcolatrici dell'Europa occidentale, e ottenere il suo pieno appoggio al Progetto 63 avrebbe rappresentato un passo avanti di notevole importanza.
Ma Loesser esitava ancora. Disse: - Non vedo troppo di buon occhio quest'idea di mettere in secondo piano le calcolatrici. La mente umana è capricciosa. Una calcolatrice ci dà infallibilmente la stessa soluzione allo stesso problema, ogni volta. Chi ci garantisce che la mente umana sappia fare altrettanto?
- La mente umana, Calcolatore Loesser, non fa che manipolare dei dati. E allora non ha importanza se ad eseguire l'operazione è la mente umana o la macchina. L'una e l'altra sono semplicemente degli strumenti, dei mezzi.
- D'accordo, d'accordo. Ho studiato a fondo la sua ingegnosa dimostrazione e mi rendo conto che la mente è in grado di ripetere esattamente i procedimenti della macchina. Ma mi sembra lo stesso una cosa campata in aria. Anche ammettendo la validità della teoria, che ragioni abbiamo per credere che la teoria si possa applicare in pratica?
- Ritengo che vi siano ragioni molto valide. Gli uomini non si sono sempre serviti delle calcolatrici. Gli abitanti delle caverne, con le loro triremi, le loro scuri di pietra e le loro ferrovie, non avevano calcolatrici.
- E probabilmente non calcolavano nulla.
- Lei sa bene che non è così. Perfino la costruzione di una strada ferrata o di una ziggurat richiedeva dei calcoli, sia pure elementari, e questi calcoli venivano evidentemente eseguiti senza macchine.
- Lei intende dire che gli antichi calcolavano col metodo che lei mi ha dimostrato?
- Probabilmente no. È un fatto che questo metodo (a proposito, noi l'abbiamo battezzato "grafitica", dalla vecchia parola europea "grafo", cioè "scrivere") deriva direttamente dalle calcolatrici, e dunque non può essere anteriore.
Tuttavia i cavernicoli dovevano pur avere un loro metodo, no?
- Arti perdute! Se lei mi vuol parlare delle arti perdute...
- No, no, io non sono un fanatico delle arti perdute, anche se non posso escludere che ce ne siano state. Dopo tutto, l'uomo mangiava grano anche prima dell'idroponica, e se i primitivi mangiavano grano dovevano per forza coltivarlo nel suolo. Che altro sistema potevano avere?
- Non lo so, ma crederò nella coltura in terra quando vedrò del grano crescere direttamente dal suolo. E crederò che si possa ottenere il fuoco strofinando due schegge di pietra quando lo vedrò fare sotto i miei occhi.
Shuman divenne suadente. - Comunque sia, torniamo alla grafitica. Secondo me, va considerata un aspetto del generale processo di eterealizzazione. Il trasporto mediante veicoli più o meno ingombranti sta cedendo il posto al trasferimento diretto. I mezzi di comunicazione tradizionali diventano sempre più maneggevoli ed efficienti. Provi per esempio a confrontare la sua calcolatrice tascabile con gli enormi cervelli elettronici di mille anni fa.
Perché non dovremmo fare l'ultimo passo su questa via, ed eliminare completamente le calcolatrici? Andiamo, il Progetto 63 è già in corso di realizzazione; già si registrano notevoli progressi. Ma abbiamo bisogno del suo aiuto. Se il patriottismo non basta a farle prendere una decisione, consideri la prodigiosa avventura intellettuale che ci sta di fronte.
Loesser disse in tono scettico: - Che progressi? Che potete fare oltre la moltiplicazione? Potete integrare una funzione trascendentale? - Col tempo arriveremo anche a questo. Durante il mese scorso ho imparato ad eseguire le divisioni. Sono in grado di determinare con assoluta precisione quozienti interi e quozienti decimali.
- Quozienti decimali? Con quanti decimali?
Il Programmatore Shuman si sforzò di dare alla sua voce un tono indifferente.
- Non ci sono limiti.
Loesser lo guardò sbalordito. - Senza calcolatrice?
- Mi ponga lei stesso un problema.
- Provi a dividere ventisette per tredici. Con sei decimali.
Cinque minuti dopo Shuman disse: - Due virgola zero sette sei nove due tre.
Loesser controllò il risultato. - Ma è straordinario. Le moltiplicazioni non mi avevano impressionato gran che, perché, insomma, comportano solo dei numeri interi, e avevo l'impressione che potesse trattarsi di un trucco. Ma i decimali...
- E questo non è tutto. Stiamo lavorando in una direzione che fino a questo momento è ancora segretissima e che, a rigore, non dovrei rivelare a nessuno.
Comunque... Stiamo per aprire una breccia nel fronte della radice quadrata.
- La radice quadrata?
- La cosa comporta naturalmente alcuni passaggi difficilissimi e ancora non disponiamo di tutti gli elementi, ma il Tecnico Aub, l'uomo che ha inventato la nuova scienza e che è dotato di una intuizione stupefacente, in questo campo, afferma di aver quasi risolto il problema. Ed è soltanto un Tecnico. Un uomo come lei, un matematico espertissimo e con un'intelligenza superiore, non dovrebbe trovare nessuna difficoltà.
- Radici quadrate - mormorò affascinato Loesser.
- Anche cubiche. Allora, possiamo considerarla dei nostri?
Loesser gli tese di scatto la mano. - D'accordo.
Il generale Weider camminava avanti e indietro a un'estremità del lungo salone, rivolgendosi ai suoi ascoltatori con i modi di un insegnante severo che ha di fronte una classe indisciplinata. Al generale non faceva né caldo né freddo che il suo pubblico fosse composto dagli scienziati civili che dirigevano il Progetto 63. Egli era il supervisore, la massima autorità, e tale si considerava in ogni attimo della sua giornata.
Disse: - Le radici quadrate sono una bellissima cosa. Personalmente, non sono capace ad estrarle e neppure capisco le operazioni relative, ma sono certamente una bellissima cosa. Tuttavia, il governo non può permettere che il Progetto si perda appresso a quelli che alcuni di voi chiamano gli aspetti fondamentali del problema. Sarete liberi di giocare con la grafitica e adoperarla in tutti i modi che vorrete quando la guerra sarà finita; ma adesso abbiamo da risolvere dei problemi pratici della massima importanza.
In un angolo il Tecnico Aub ascoltava con dolorosa attenzione. Non era più, naturalmente, un Tecnico; lo avevano sollevato dalle sue vecchie funzioni, e destinato al progetto, con un titolo altisonante e un lauto stipendio. Ma le differenze sociali restavano, e gli scienziati d'alto rango non avevano mai accondisceso ad ammetterlo nelle loro file su un piede di parità. Né, per rendere giustizia ad Aub, egli lo desiderava. Con loro si sentiva a disagio come loro con lui.
Il generale diceva: - Il nostro obiettivo è semplice, signori; sostituire la calcolatrice. Un'astronave che può navigare nello spazio senza avere a bordo un cervello elettronico può essere costruita in un tempo inferiore di cinque volte, e con una spesa inferiore di dieci volte, a una nave munita di calcolatrice. Se potessimo eliminare le calcolatrici saremmo in condizione di costruire delle flotte cinque, dieci volte più numerose di quelle di Deneb. E al di là di questo primo grande passo, io intravedo qualcosa di ancor più rivoluzionario; un sogno, per ora; ma in futuro io vedo il missile guidato dall'uomo! Tra il pubblico si diffuse un lungo mormorio.
Il generale proseguì. - Attualmente, la nostra più grave "strozzatura" è data dal fatto che i missili dispongono di una intelligenza limitata. La calcolatrice che li guida può non superare certe dimensioni e un certo peso, ed è per questo che trovandosi in una situazione imprevista, di fronte a un nuovo tipo di sbarramento anti-missile, i nostri apparecchi danno risultati così mediocri. Pochissimi, come sapete, raggiungono gli obiettivi, e la guerra missilistica è ormai una continua elisione; infatti il nemico è fortunatamente nelle stesse condizioni nostre. Mentre un missile avente a bordo uno o due uomini, in grado di dirigere il volo mediante la grafitica, sarebbe molto più leggero, più mobile, più intelligente. Ci darebbe quel margine di superiorità che ci porterà alla vittoria. Inoltre, signori, le esigenze della guerra ci obbligano a tener presente anche un altro punto. Un uomo è uno strumento infinitamente più economico di una calcolatrice. I missili con equipaggio umano potrebbero essere lanciati in numero tale e in tali circostanze quali nessun generale sano di mente oserebbe mai prendere in considerazione se avesse a sua disposizione soltanto dei missili automatici...
Disse ancora molte altre cose, ma il Tecnico Aub aveva sentito abbastanza.
Nell'intimità della sua stanza, il Tecnico Aub passò molto tempo a correggere e ricorreggere la lettera che intendeva lasciare. Il testo definitivo, quando lo rilesse, suonava così:
Quando cominciai a studiare la scienza che oggi si chiama grafitica, la consideravo alla stregua di un passatempo privato. Non vedevo, in essa, altro che un divertimento stimolante, un esercizio mentale.
Quando il Progetto 63 venne istituito, io ritenevo che i miei superiori vedessero più lontano di me; che la grafitica potesse essere messa al servizio dell'umanità, potesse contribuire, per esempio, alla realizzazione di congegni veramente pratici per il trasporto individuale. Ma ora capisco che sarà usata solo per spargere morte e distruzione.
Non posso sopravvivere alla responsabilità di aver inventato la grafitica.
Lentamente, diresse verso se stesso un depolarizzatore delle proteine e, senza provare alcun dolore, cadde istantaneamente fulminato.
Erano tutti raccolti, sull'attenti, intorno alla tomba del piccolo Tecnico, mentre veniva reso omaggio alla grandezza della sua scoperta. Il Programmatore Shuman chinò solennemente il capo insieme agli altri, ma non era commosso. Il Tecnico aveva fatto la sua parte, e ormai non c'era più bisogno di lui. Certo, era stato lui a inventare la grafitica, ma ora che la nuova scienza aveva messo le ali, avrebbe continuato da sola, di trionfo in trionfo, fino al giorno in cui i missili avrebbero solcato gli spazi guidati dall'uomo. E oltre ancora.
Nove volte sette, pensò Shuman con profonda contentezza, fa sessantatré, e non ho bisogno che me lo venga a dire una calcolatrice. La calcolatrice ce l'ho nella testa.
E questo gli dava un senso di potenza davvero esaltante.
Titolo originale: The Feeling of Power
Prima edizione: If, febbraio 1958
Traduzione di Carlo Fruttero 
***
J. L. BORGES, Storia universale dell'infamia, 1935

C’era una volta un imperatore avido e crudele. Aveva fatto costruire un’altissima torre in cima alla quale c’era una stanzetta con quattro finestre aperte ai quattro venti. L’imperatore si richiudeva nella stanzetta per intere giornate.  “Che fa l’imperatore chiuso lassù, nella torre?” si chiedevano i cortigiani. L’imperatore passava le giornate a contare. Affacciato ad una delle quattro finestre, con gli occhi strizzati per vedere più lontano possibile, l’imperatore contava i campi, gli alberi, le case, i fiumi che c’erano nel suo regno sterminato. Dopo aver contato, l’imperatore annotava ogni cosa in certi suoi libriccini unti e pieni di orecchie per il troppo uso che ne aveva fatto. Un giorno passò sulla sua testa uno stormo di passeri e l’imperatore si mise a contarli. “Milletrecentotrentasette o milletrecentotrentotto? Maledizione ho sbagliato il conto!” Il solo pensiero che ci fosse qualcosa nel suo regno che non fosse segnato nei suoi libriccini lo faceva impazzire. Neppure un passero doveva sfuggire ai suoi conti, perché il regno era suo e di nessun altro. 

Aprì la porta della stanzetta e scese a precipizio le ripide scale della torre. Giunto nella sala del trono chiamò attorno a sé i suoi ministri ed ordinò loro che si facesse subito un inventario di tutto ciò che, vivente o inanimato, abitasse nel suo regno. I ministri si grattarono la testa perplessi. Da dove avrebbero incominciato a contare? E quanto era grande il regno? Molti di loro non avevano mai messo il naso fuori del portone del palazzo imperiale. E se una cosa veniva contata due volte? C’era da diventare matti. Un ministro più scaltro degli altri, e che aveva viaggiato all’estero, disse che ci voleva una carta sulla quale fossero disegnati tutti i monti, i fiumi, le valli, i boschi, le città del regno. Allora sarebbe stato facile contarli. Gli altri ministri approvarono, una carta geografica dell’impero era quello che ci voleva, che si facesse subito una carta geografica! A nord del paese, in un antichissimo monastero, vivevano dei monaci che sapevano disegnare delle carte geografiche. Quattro di essi furono chiamati a corte e subito si misero al lavoro. Sette anni dopo, la prima carta geografica dell’impero era pronta.

La carta, spiegata sul pavimento, occupava una sala intera del palazzo imperiale. Sulla carta erano disegnate tutte le montagne, le valli, i fiumi, le città e le strade del regno. Per la prima volta i ministri dell’imperatore videro dove si trovavano i freddi paesi del nord e le scoscese montagne delle nevi, dove nasceva il fiume che scorreva nella valle e dove cresceva il grano che dava la farina per gli spaghetti delle loro mense. Ma l’imperatore non era soddisfatto. Sulla carta c’erano le città, i paesi, ma non c’erano tutte le case delle città, tutte le capanne dei villaggi, tutti gli alberi dei boschi. I monaci risposero che ciò non era possibile perché la carta che avevano disegnato era troppo piccola per contenere quelle cose. “Fate allora una carta più grande!” rispose l’imperatore e tornò a rintanarsi nella stanzetta in cima alla torre. “Che si faccia subito una carta più grande!” fecero eco i ministri in coro. I monaci ripiegarono pazientemente la carta geografica e si misero nuovamente al lavoro. 

Quattordici anni dopo la nuova carta geografica dell’impero era pronta. Per mostrarla all’imperatore la carta fu spiegata sul selciato della piazza più grande della città. Tutti erano meravigliati per l’accuratezza e la precisione del disegno. Sulla carta c’erano disegnate tutte le case, tutte le fattorie, tutte le stalle, tutti i porcili ed i pollai del regno. Si vedeva in quali terreni cresceva il grano, in quali il lino e la canapa: dove crescevano i boschi e selve e dove pascoli e brughiere. L’imperatore arrivò a mezzogiorno, in sella al suo cavallo. Di lassù guardò la carta in lungo ed in largo. Era finalmente soddisfatto? Silenziosi, in disparte, i monaci aspettavano una parola di lode o di ringraziamento per il loro accuratissimo lavoro. “Dove sono tutte le tegole dei tetti, tutte le foglie degli alberi, tutte le galline dei pollai? Su questa carta non si vedono”. Uno dei quattro monaci rispose timidamente che non c’era posto sulla carta per tutte quelle cose. “Che sia fatta una carta più grande!” rispose l’imperatore e andò via.

Questa volta i monaci persero la pazienza e tornarono sulle loro montagne. I ministri erano disperati. Se la carta non si faceva le loro teste sarebbero finite sotto la mannaia del boia. Pensa e ripensa alla fine ebbero un’idea: che si ordinasse a tutti i sudditi, pena la morte, di ricoprire di carta i loro campi, i boschi, le case, insomma ogni angolo del regno. Poi mille squadre di disegnatori avrebbero disegnato sulla carta tutto quello che c’era sotto: i tetti con tutte le loro tegole, i prati con tutti i fili d’erba. Per fabbricare tutta la carta necessaria furono tagliati tutti gli alberi del regno. Gli uccelli non sapevano più dove posarsi e sulla carta non c’era nulla da mangiare. La terra non dava più frutti perché ovunque uno strato di carta la ricopriva. Nel paese arrivò la carestia e la gente moriva di fame. Un giorno il popolo del regno si ribellò. Tutta la carta fu strappata e fu raccolta in un mucchio enorme intorno al palazzo imperiale. Poi qualcuno accese un fiammifero e dette fuoco alla carta. Subito si alzarono fiamme altissime. Dell’imperatore e dei suoi libriccini unti e pieni di orecchie non rimase che cenere.


***
I. Calvino, Le città invisibili, Le città e gli occhi  2. 
È l’umore di chi la guarda che dà alla città di Zemrude la sua forma. Se ci passi fischiettando, a naso librato dietro al fischio, la conoscerai di sotto in su: davanzali, tende che sventolano, zampilli. Se ci cammini col mento sul petto, con le unghie ficcate nelle palme, i tuoi sguardi s’impiglieranno raso terra, nei rigagnoli, i tombini, le resche di pesce, la cartaccia. Non puoi dire che un aspetto della città sia più vero dell’altro, però della Zemrude d’in su senti parlare soprattutto da chi se la ricorda affondando nella Zemrude d’in giù, percorrendo tutti i giorni gli stessi tratti di strada e ritrovando al mattino il malumore del giorno prima incrostato a piè dei muri. Per tutti presto o tardi viene il giorno in cui abbassiamo lo sguardo lungo i tubi delle grondaie e non riusciamo più a staccarlo dal selciato. Il caso inverso non è escluso, ma è più raro: perciò continuiamo a girare per le vie di Zemrude con gli occhi che ormai scavano sotto alle cantine, alle fondamenta, ai pozzi. [IV, 6, 2]

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J. L. BORGES, Poesie, I giusti, 1981

Un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire.
Chi è contento che sulla terra esista la musica.
Chi scopre con piacere un'etimologia.
Due impiegati che in un caffè del Sur giocano in silenzio agli scacchi.
Il ceramista che premedita un colore ed una forma.
Il tipografo che compone bene questa pagina che forse non gli piace.
Una donna e un uomo che leggono le terzine finali di un certo canto.
Chi accarezza un animale addormentato.
Chi giustifica o vuole giustificare un male che gli hanno fatto.
Chi è contento che sulla terra ci sia Stevenson.
Chi preferisce che abbiano ragione gli altri.
Tali persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo.

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SEZIONE PENSIERO POLITICO / SOCIALE
Pier Paolo Pasolini, da Lettere luterane, Siamo belli, dunque deturpiamoci (Gennariello), 1975
Se è giusta la mia ipotesi che nella categoria dei tuoi coetanei «obbedienti» trovino posto, e per primi, «coloro che erano destinati a morire» - cioè coloro che la scienza medica ha salvato dalla «mortalità infantile», e sono quindi dei «sopravvissuti» - quale è la loro funzione pedagogica nei tuoi riguardi? Che cosa ti insegnano col semplice loro essere e comportarsi? La loro caratteristica prima - ti ho detto - è il sentimento inconscio che il loro essere venuti al mondo sia stato particolarmente indesiderato. Il sentimento inconscio di essere «a carico» e «in più». Ciò non può che aumentare immensamente la loro ansia di normalità, la loro adesione totale e senza riserve all'orda, la loro volontà non solo di non apparire diversi ma nemmeno appena distinti. Dunque ciò che essi prima di tutto ti insegnano è vivere il conformismo aggressivamente: cosa questa che - come vedremo - ti è insegnata da quasi tutte le categorie dei tuoi coetanei «obbedienti». E dunque la analizzeremo meglio andando avanti col nostro discorso. Vorrei invece soffermarmi su tre punti privilegiati del loro insegnamento pragmatico (e dunque tanto facilmente assimilabile). Essi ti insegnano: primo, la rinuncia: rinuncia resa assoluta, abitudinaria, quotidiana dalla mancanza di vitalità, che in essi è un dato di fatto reale, fisico, ma che in altri (come in te), può essere una tentazione. Essi dovevano morire; o meglio, in altre circostanze sociali, sarebbero di sicuro morti. Essi devono istintivamente ridurre al minimo lo sforzo per vivere: il che in termini sociali significa appunto rinuncia. È vero che come dice un mio amico di Chia - un ragazzetto che ricorda i proverbi dei vecchi - «il mondo è dei bravi, e i cojoni se lo godono». È una delle più grandi verità che le mie orecchie abbiano mai ascoltato. Tuttavia, io, vecchio borghese razionalista e idealista, cioè «bravo», continuo sempre a detestare con tutte le mie forze lo spirito di rinuncia. Che è poi ansia di integrazione e qualunquismo. Non temere di essere ridicolo: non rinunciare a niente. Lascia che i cojoni si godano il mondo, e invidia pure come me, struggentemente, per tutta la vita, la loro felicità. La seconda cosa che i «destinati a morire» ti insegnano è una certa obbligatoria tendenza all'infelicità. Tutti i giovani di oggi - tuoi coetanei - hanno l'imperdonabile colpa di essere infelici. A quanto pare, non ci sono più cojoni: se non a Napoli o a Chia. Tutti sono bravi: e dunque tutti hanno la loro brava faccia infelice. Essere bravi è il primo comandamento del potere dei consumi (nel cui universo mentale e di comportamento tu, povero Gennariello, sei nato): bravi cioè per essere felici (edonismo del consumatore). Il risultato è che la felicità è tutta completamente falsa; mentre si diffonde sempre di più una immediata infelicità. Sappi, invece, Gennariello, che, contrariamente al proverbio sublime di Chia, c'è anche una felicità dei bravi. Il proverbio di Chia dice infatti che «il mondo è dei bravi», alludendo decisamente al possesso, al potere. Ma allora va aggiunto che oltre al possesso del mondo da parte dei padroni, c'è anche un possesso del mondo da parte degli intellettuali, e questo è un possesso reale: com'è del resto quello dei cojoni. Si tratta soltanto di un diverso piano culturale. È il possesso culturale del mondo che dà felicità. Non lasciarti tentare dai campioni dell'infelicità, della mutria cretina, della serietà ignorante. Sii allegro. La terza cosa che ti viene insegnata dai «destinati a morire» è la retorica della bruttezza. Mi spiego. Da alcuni anni i giovani, i ragazzi fanno di tutto per apparire brutti. Si conciano in modo orribile. Fin che non sono del tutto mascherati o deturpati, non sono contenti. Si vergognano dei loro eventuali ricci, del roseo o bruno splendore delle loro gote, si vergognano della luce dei loro occhi, dovuta appunto al candore della giovinezza, si vergognano della bellezza del loro corpo. Chi trionfa in tutta questa follia sono appunto i brutti: che sono divenuti i campioni della moda e del comportamento. I «destinati a essere morti» non hanno certo gioventù splendenti: ed ecco che essi ti insegnano a non splendere. E tu splendi, invece, Gennariello. Ho imperversato un po' contro questi «destinati a esser morti», col rischio di apparire un po' vile e razzista: di creare cioè una categoria di persone da proporre alla condanna. No. Tra i «destinati a esser morti» ci sono esseri adorabili per lo meno come te, cosi vistosamente destinato alla vita. Se ho polemizzato con particolare violenza contro gli insegnamenti che ti impartiscono i «destinati a esser morti», è perché ho preso questa categoria a simbolo della media: media che ti insegna, appunto, queste stesse cose, e senza quel tanto di disperato che le corregge, le giustifica, le rende umane.
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I. Calvino, Lezioni americane, Esattezza, passim.
Perché sento il bisogno di difendere dei valori che a molti potranno sembrare ovvii? Credo che la mia prima spinta venga da una mia ipersensibilità o allergia: mi sembra che il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato, e ne provo un fastidio intollerabile. Non si creda che questa mia reazione corrisponda a un'intolleranza per il prossimo: il fastidio peggiore lo provo sentendo parlare me stesso. Per questo cerco di parlare il meno possibile, e se preferisco scrivere è perché scrivendo posso correggere ogni frase tante volte quanto è necessario per arrivare non dico a essere soddisfatto delle mie parole, ma almeno a eliminare le ragioni d'insoddisfazione di cui posso rendermi conto. La letteratura - dico la letteratura che risponde a queste esigenze - è la Terra Promessa in cui il linguaggio diventa quello che veramente dovrebbe essere.

Alle volte mi sembra che un'epidemia pestilenziale abbia colpito l'umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l'uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l'espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze. Non m'interessa qui chiedermi se le origini di quest'epidemia siano da ricercare nella politica, nell'ideologia, nell'uniformità burocratica, nell'omogeneizzazione dei mass-media, nella diffusione scolastica della media cultura. Quel che mi interessa sono le possibilità di salute. La letteratura (e forse solo la letteratura) può creare degli anticorpi che contrastino l'espandersi della peste del linguaggio.

Vorrei aggiungere che non è soltanto il linguaggio che mi sembra colpito da questa peste. Anche le immagini, per esempio. Viviamo sotto una pioggia ininterrotta d'immagini; i più potenti media non fanno che trasformare il mondo in immagini e moltiplicarlo attraverso una fantasmagoria di giochi di specchi: immagini che in gran parte sono prive della necessità interna che dovrebbe caratterizzare ogni immagine, come forma e come significato, come forza d'imporsi all'attenzione, come ricchezza di significati possibili. Gran parte di questa nuvola d'immagini si dissolve immediatamente come i sogni che non lasciano traccia nella memoria; ma non si dissolve una sensazione d'estraneità e di disagio. Ma forse l'inconsistenza non è nelle immagini o nel linguaggio soltanto: è nel mondo. La peste colpisce anche la vita delle persone e la storia delle nazioni, rende tutte le storie informi, casuali, confuse, senza principio né fine.
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SEZIONE ATTUALITA'

La linea rossa di Slavoj Žižek

Nelle ultime settimane l'opinione pubblica occidentale è stata ossessionata dalla domanda: «Cosa passa per la testa di Vladimir Putin?» Gli esperti occidentali si chiedono se le persone che lo circondano stanno dicendo tutta la verità. È malato o sta impazzendo? Lo stiamo spingendo in un angolo dove non vedrà altra via d'uscita se non quella di accelerare il conflitto verso una guerra totale?

Dobbiamo smetterla con questa ossessione della linea rossa, con questa incessante ricerca del giusto equilibrio tra il sostegno all'Ucraina e l'evitare la guerra totale. La «linea rossa» non è un dato oggettivo: Vladimir Putin stesso la smentisce continuamente e noi, con le nostre reazioni alle azioni della Russia, contribuiamo a che lo faccia. Una domanda tipo quella che chiede se «la condivisione dell'intelligence statunitense con l'Ucraina ha superato il limite?» ci fa perdere di vista la questione principale: è stata la Russia a superare il limite, attaccando l'Ucraina.  Pertanto, anziché considerare noi stessi come se fossimo il gruppo che reagisce solo a Vladimir Putin - ritenuto un imperscrutabile genio del male - dovremmo rivolgere lo sguardo verso noi stessi: che parte vogliamo avere noi - il «libero Occidente» - in tutto questo? Bisogna analizzare l'ambiguità del nostro sostegno all'Ucraina con la stessa spietatezza con cui analizziamo la posizione della Russia. Dobbiamo andare oltre i due pesi e le due misure, che oggi stiamo applicando a quelle che sono le fondamenta stesse del liberalismo europeo. Ricordiamo come, nella tradizione liberale occidentale, la colonizzazione sia stata giustificata nei termini dei diritti dei lavoratori. John Locke, grande filosofo illuminista e difensore dei diritti umani, giustificò la conquista dei territori dei nativi americani da parte dei colonizzatori bianchi, facendo uso di un'argomentazione contro l'eccessiva proprietà privata, che suona stranamente come di sinistra. La premessa di quel ragionamento, era che un individuo dovrebbe avere il diritto di possedere solo la porzione di terra che sarà in grado di utilizzare in modo produttivo, e non le grandi estensioni di terra che poi non sarà in grado di utilizzare (e che quindi affitterà ad altri). In Nord America, secondo Locke, i nativi utilizzavano vaste porzioni di terra per lo più solo per la caccia, e quindi i coloni bianchi che volevano utilizzarle per l'agricoltura intensiva avevano tutto il diritto di prenderle a beneficio dell'umanità.

Nell'attuale crisi ucraina, entrambe le parti presentano le loro azioni come qualcosa di semplicemente necessario: l'Occidente doveva aiutare l'Ucraina a rimanere libera e indipendente; la Russia era costretta a intervenire militarmente per garantire la propria sicurezza. L'esempio più recente, è stata la dichiarazione del ministro degli Esteri russo secondo cui, se la Finlandia entrerà nella NATO, la Russia sarà «costretta ad adottare misure di ritorsione». No, essa non sarà «costretta», così come la Russia non è stata «costretta» ad attaccare l'Ucraina. Questa decisione appare come una «costrizione» solo se si accetta l'insieme dei presupposti ideologici e politici che stanno alla base della politica russa.
Tutti questi presupposti andrebbero analizzati più da vicino, senza alcun tabù. Spesso si sente dire che bisogna tracciare una linea netta di separazione tra la politica di Vladimir Putin e la grande cultura russa, ma questa linea di separazione è assai più labile e fragile di quanto possa sembrare. Dobbiamo respingere con decisione l'idea che, dopo anni di pazienti tentativi di risolvere la crisi ucraina attraverso i negoziati, la Russia sarebbe stata infine costretta ad attaccare l'Ucraina - non si è mai costretti ad attaccare e annientare un intero Paese. Le radici sono più profonde; sono disposto a dire che sono addirittura propriamente metafisiche. Anatoli Chubais, il padre degli oligarchi russi (è stato lui ad aver orchestrato, nel 1922, la rapida privatizzazione in Russia) ha dichiarato nel 2004: «Negli ultimi tre mesi ho riletto tutti i libri di Dostoevskij. E provo un odio quasi fisico per quell'uomo. È certamente geniale, ma la sua idea dei russi, visti come un popolo speciale e sacro, il suo culto della sofferenza e le false scelte che propone mi fanno venire voglia di farlo a brandelli». Per quanto non ami Chubais per la sua politica, credo che su Dostoevskij abbia ragione, visto che è stato lui ad aver dato l'espressione "più profonda" a ciò che contrappone Europa e Russia: individualismo contro spirito collettivo, edonismo materialista contro spirito di sacrificio.

Ora, la Russia rappresenta la sua invasione come se essa fosse un nuovo passo nella lotta per la decolonizzazione, contro la globalizzazione occidentale. In un testo pubblicato proprio questo mese, Dimitri Medvedev, ex presidente della Russia, e ora vice segretario del Consiglio di sicurezza della Federazione Russa, ha scritto che «il pianeta sta aspettando il crollo dell'idea di un mondo incentrato sull'America e l'emergere di nuove alleanze internazionali basate su dei criteri pragmatici» (ovviamente, «criteri pragmatici» significa ignorare i diritti umani). Perciò dovremmo tracciare anche delle linee rosse, ma dobbiamo farlo in modo da rendere evidente la nostra solidarietà con il terzo mondo. Medvedev prevede che, a causa della guerra, «in alcuni Stati, ci potrebbero essere problemi di carestia dovuti alla crisi alimentare»; una dichiarazione che testimonia un sorprendente cinismo. Nel maggio del 2022, a Odessa ci sono circa 25 milioni di tonnellate di grano che stanno lentamente marcendo, sulle navi o nei silos, e questo perché il porto è bloccato dalla marina russa. Il Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite (WFP) ha ammonito a proposito del fatto che milioni di persone «andranno verso la fame, se non verranno riaperti i porti dell'Ucraina meridionale, che sono statichiusi a causa della guerra», ha spiegato il Newsweek. Ora, l'Europa promette di aiutare l'Ucraina a trasportare il grano, sia su rotaia che su strada, ma è chiaro che questo non sarà sufficiente. È necessario un ulteriore passo: una chiara richiesta di apertura del porto per le esportazioni di grano, che includa l'invio di navi militari sul posto. Non per l'Ucraina, ma a causa della fame di centinaia di milioni di persone in Africa e in Asia. È qui che dev'essere tracciata la linea rossa.

Il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ha recentemente dichiarato: «Immaginate se [la guerra in Ucraina] stesse accadendo in Africa, o in Medio Oriente. Immaginate se l'Ucraina fosse la Palestina. Immaginate se al posto della Russia ci fossero gli Stati Uniti». Come c'era da aspettarselo, il paragone tra il conflitto in Ucraina e la situazione dei palestinesi «ha offeso molti israeliani che ritengono che non vi siano analogie», ha osservato Newsweek. «Per esempio, molti sottolineano il fatto che l'Ucraina è un Paese democratico e sovrano, ma non considerano la Palestina uno Stato». Certo, la Palestina non è uno Stato, ma proprio perché Israele nega il suo diritto di essere uno Stato; proprio come la Russia nega all'Ucraina il diritto a essere uno Stato sovrano. Per quanto io ritenga ripugnanti le osservazioni di Lavrov, a volte egli manipola abilmente la verità. Certo, è vero, l'Occidente liberale è ipocrita, in quanto applica i suoi elevati standard in maniera selettiva. Ma qui l'ipocrisia significa che si violano gli stessi standard che si proclamano, e in questo modo ci si apre alla critica immanente: quando noi critichiamo l'Occidente liberale, usiamo i suoi stessi criteri. Quello che la Russia sta offrendo, invece, è un mondo senza ipocrisia: questo a partire dal fatto che non ha standard etici globali, praticando perciò solo un pragmatico «rispetto» delle differenze.

Abbiamo visto chiaramente cosa questo significa quando, dopo aver dominato l'Afghanistan, i Talebani hanno immediatamente stretto un accordo con la Cina. La Cina accetta il nuovo Afghanistan, mentre allo stesso tempo i Talebani ignorano ciò che la Cina fa con gli Uiguri: ecco, in nuce, la nuova globalizzazione propugnata dalla Russia. E l'unico modo che abbiamo per difendere ciò che vale la pena salvare della nostra tradizione liberale, è insistere spietatamente sulla sua universalità. Mentre, invece, nel momento in cui applichiamo due pesi e due misure, non siamo meno «pragmatici» della Russia  Slavoj Žižek - 25/5/2022 - Originariamente pubblicato su "The Guardian".

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Sulla decisione in merito all'aborto della Corte Costituzionale statunitense

https://ilmanifesto.it/preciado-la-rivoluzione-e-cosi-forte-che-la-corte-suprema-prova-a-fermarla-con-le-unghie/




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