FOCUS STUDENTI DANTE
Lorenzo e Virginia
DANTE PRECURSORE DELL’UMANESIMO
Nonostante Dante Alighieri (1265-1321) sia un poeta vissuto durante l’epoca medievale, nella sua opera La Divina Commedia sono rintracciabili caratteristiche che permettono di identificarlo come un precursore dell’umanesimo.
L’umanesimo è un movimento culturale che si sviluppa a partire dalla metà del XIV secolo e dura, sfumando nel rinascimento, fino alla metà del XV. Gli umanisti si dedicano alla riscoperta della cultura dell’antichità classica greca e romana e si accostano ai classici con la volontà di far rivivere, attraverso l’aemulatio, le virtù del mondo classico. Gli umanisti sognano l’optimum, il meglio, che consiste nel raggiungimento del vertice nell’arte che è stato toccato dagli autori classici, i quali rappresentano non solo un modello non solo stilistico e artistico ma anche morale; gli umanisti infatti sono persuasi che chi abbia raggiunto risultati sublimi dal punto di vista artistico, sia per necessità un soggetto che moralmente può essere assunto come modello, quindi compiono un’associazione tra saper pensare e scrivere bene ed essere boni viri.
Allo stesso modo Dante, che dissemina lungo tutta la Divina Commedia riferimenti ad autori classici, nel IV canto dell’Inferno, durante il quale l’agens e Virgilio si trovano nel limbo, rende onore a quattro grandi poeti dell’epoca classica: Omero, Orazio, Ovidio e Lucano, i quali salutano Virgilio, appena tornato. Essi vengono collocati in un luogo dell’inferno che a Dante appare come un castello simile a quelli citati nei romanzi cortesi e illuminato da un foco ch’emisperio di tenebre vincìa, unico punto di luce nel regno tenebroso, dove il sole tace. Dante ha riservato a questo quintetto di poeti, collocati nella categoria dei magnanimi, un angolo di paradiso nel limbo; e nei versi dal 72 al 103 l’auctor inserisce la parola onore e i suoi derivati ben sette volte, proprio a indicare che gli spiriti dei poeti citati costituiscono una sorta di lecta schola, sublime anticipazione di quelle che nasceranno in epoca umanistica.
Il IV canto si conclude con i versi la sesta compagnia in due si scema: per altra via mi mena il savio duca, fuor de la queta, ne l’aura che trema. E in parte ove non è che luca. Con il primo verso Dante vuole sottolineare che il gruppo è composto da sei poeti, e pertanto che anche lui ne fa parte. L’autoelezione rientra anch’essa nei canoni umanistici: a un certo punto della formazione, compiuta attraverso modelli, si raggiunge con piena consapevolezza il livello rappresentato dai propri maestri.
L’umanesimo di Dante si manifesta così: non si limita a cercare di riportare in vita la cultura classica, ma nell’angolo di luce che ha creato nel limbo in onore dei magnanimi si fa proclamare poeta dai poeti classici, avvicinando sé stesso al mondo delle humanae litterae, fino all’estremo dell’identificazione. Quanto poi alla pratica vera e propria, nella Divina Commedia possiamo notare ripetutamente quanto agisca l’aemulatio di Ovidio, maestro delle Metamorfosi, che continua a guidare la sua penna nonostante sia rimasto nel limbo e il quale viene sfruttato da Dante per le invenzioni metamorfiche, da quelle che riguardano i mostri guardiani dei cerchi dell’Inferno a quelle per le quali si caratterizzano i canti XXIV e XXV della medesima cantica.
Dunque Dante può essere identificato come un precursore dell’umanesimo per molteplici motivi, il primo dei quali risale certo al fatto che la stesura della Divina Commedia sia stata preceduta da un accurato studio delle letterature classiche, rintracciabile nei riferimenti ai poeti nel IV canto e nelle figure che appartengono all’epoca classica, come Minosse, mitico re di Creta degradato da Dante a guardiano dell’Inferno, o Pluto, dio della ricchezza per i greci, posto dall’auctor a guardia degli avari e dei prodighi; anche a Dante possiamo perciò riferire l’affermazione che racchiude uno dei principali moniti dell’epoca umanista, rem tene, verba sequentur (possiedi la materia e la parole verranno di conseguenza), proprio come la Divina Commedia manifesta espressamente in ogni suo verso.
In Dante è presente inoltre l’armonizzazione della religione cristiana con alcune visioni laiche, compresa nel percorso di ricerca filosofico umanista, come si può notare nel VII canto «Maestro mio, or mi dimostra che gente è questa, e se tutti fuor cherci questi chercuti a la sinistra nostra». Ed elli a me: «Tutti quanti fuor guerci sì de la mente in la vita primaia, che con misura nullo spendio ferci. Assai la voce lor chiaro l’abbaia quando vegnono a’ due punti del cerchio dove colpa contraria li dispaia. Questi fuor cherci, che non han coperchio piloso al capo, e papi e cardinali, in cui usa avarizia il suo soperchio». Dante manifesta, anche ma non soltanto, per via di queste ardite condanne della casta sacerdotale cristiana, un’indipendenza di pensiero che l’umanesimo, soprattutto attraverso i filosofi neoplatonici, coltiverà assiduamente.
Risulta certamente pertinente, a quest’ultimo proposito, ricordare il ruolo che dovevano avere i dotti e i sapienti all’interno della società ideale per gli umanisti. Questi avrebbero dovuto mettersi al servizio del bene collettivo; ciò avviene affettivamente ad esempio con lo studio della filologia, strumento utilizzato per combattere le verità stabilite da autorictates e per dare spazio al pensiero critico.
Dunque, a maggior ragione, si può rintracciare in Dante qualcosa di affine a tale indipendenza intellettuale, che emerge nel suo discostarsi dall’autorità della chiesa, precocemente istituzionalizzatasi; il poeta si permette di prendere le distanze da essa e di criticarne il principio di autorità. È doveroso e proficuo ricordare che Dante durante le dispute tra guelfi e ghibellini a Firenze si era schierato dalla parte dei Guelfi Bianchi, in lotta per l’indipendenza della città dall’autorità papale, che pure non mettevano totalmente in dubbio come invece facevano i ghibellini.
Pertanto possiamo sostenere che il poema in sé sia espressione di un allontanamento dalle dottrine cristiane del tempo: la visione della chiesa medioevale era impositiva e autoritaria, presentando Dio come un giudice al di sopra di tutto, irraggiungibile dall’uomo. Durante il periodo umanistico, grazie all’avvento della docta religio, il rapporto con il divino si configura invece come un percorso incentrato sull’essere umano, che concepisce un Dio molto più accessibile. Lo stesso già vale per Dante, che compie, offrendo tra l’altro un modello, un percorso che lo vede protagonista in carne ed ossa: entra nell’inferno come uomo e non come anima, fino ad arrivare al divino, in Paradiso. Una sfida certamente non di poco conto nei confronti della chiesa, se si pensa che a guidarlo non sia una figura autorizzata dalla chiesa, ma addirittura un pagano come Virgilio.
Tra i personaggi che vengono citati al termine del canto spicca in effetti anche Platone (quivi vid’io Socrate e Platone), ripreso proprio durante l’umanesimo con la dottrina del neoplatonismo. Proprio all’interno del pensiero platonico è trattata la capacità che appartiene agli esseri umani, unita ad una grande forza di volontà, di accedere al divino.
Tornando al tema delle critiche morali mosse alla chiesa, la corruzione del clero e le falsità dottrinali predicate da molti per ingannare chi possedeva pochi mezzi di informazione e rendere la religione uno strumento di sopraffazione vengono prese di mira dal poeta che ricorda in questa sua operazione l’umanista Lorenzo Valla. Questi si occupa di dimostrare la falsità storica di un documento che attesta la donazione della giurisdizione sull’Impero romano d’Occidente dall’Imperatore Costantino a favore di Papa Silvestro I, una falsità che però ha prodotto effetti più che reali. Come lui, Dante si dimostra un precursore dell’ideale umanistico di rendere libero il pensiero dalle auctoritates ma anche da sé stesso quando non sfrutti al massimo il suo medesimo potenziale. Equivale ad un progresso della sententia terenziana homo sum, humani nihil mihi alienum puto, volta non solo a riconoscere a tutti gli esseri umani la caratteristica di umano, ma a lasciare spazio a un possibile progresso consentito da libertà e autonomia. Così Dante si duole nel vedere tutti i dannati relegati nel limbo, spesso senza aver commesso nessun peccato, e dimostra in varie occasioni di non riuscire a trattenere la pietas sfidando le leggi del divino:
Gran duol mi prese al cor quando lo ’ntesi, però che gente di molto valore conobbi che ’n quel limbo eran sospesi.
E io, che del color mi fui accorto, dissi: «Come verrò, se tu paventi che suoli al mio dubbiare esser conforto?». Ed elli a me: «L’angoscia de le genti che son qua giù, nel viso mi dipigne quella pietà che tu per tema senti.
Nel momento dell’incontro con i poeti, Dante ha una conversazione con i cinque spiriti magni, che lascia alla libera immaginazione al lettore, ricorrendo alla figura retorica dell’ellissi: così andammo infino a la lumera, parlando cose che ’l tacere è bello, sì com’era ’l parlar colà dov’era. Un’eco, a ben vedere, di uno dei motti dell’umanesimo che riprende quanto elaborato dal circolo degli scipioni, ossia vir bonus dicendi peritus (uomo di valore ed esperto nell’arte della parola): ci sono luoghi in cui il parlare, ovviamente quello che sanno praticare solo i periti in quest’arte, è una forma di coltivazione dello spirito le cui ricadute, a voler concludere con una ripresa del sogno umanista, possono andare a vantaggio dell’intera collettività.
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