LEZIONE 4 OTTOBRE - DANTE LAVORO DI GRUPPO SUL XXV CANTO

Alla luce del paragrafo della dispensa dedicato al XXV, si è proceduto  a un lavoro di gruppo i cui risultati sono pubblicati di seguito, con indicazioni per correggere.

Testo Dante  1-18

Parafrasi  

Commento  

Al fine de le sue parole il ladro 
le mani alzò con amendue le fiche, 
gridando: "Togli, Dio, ch’a te le squadro!".3 
 
Da indi in qua mi fuor le serpi amiche, 
perch’una li s’avvolse allora al collo, 
come dicesse ’Non vo’ che più diche’;6 
 
e un’altra a le braccia, e rilegollo, 
ribadendo sé stessa sì dinanzi, 
che non potea con esse dare un crollo.9 
 
Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi 
d'incenerarti sì che più non duri, 
poi che 'n mal fare il seme tuo avanzi?12 
 
Per tutt’i cerchi de lo ’nferno scuri 
non vidi spirto in Dio tanto superbo, 
non quel che cadde a Tebe giù da’ muri.15 
 
El si fuggì che non parlò più verbo; 
e io vidi un centauro pien di rabbia 
venir chiamando: "Ov’è, ov’è l’acerbo?". 

Alla fine del suo discorso il ladro alzò entrambe le mani e con entrambe fece il gesto delle fiche gridando: “tieni Dio, sono per te”. Da questo momento le serpi mi furono amiche, una si avvolse al suo collo come a significare che non parlasse più, un’altra alle braccia e di nuovo lo legò annodando testa e coda davanti in modo che il dannato non potesse fare alcun movimento con le braccia. 

Ahi Pistoia, Pistoia perché non decidi di incenerirti in modo da sparire per sempre, poiché sei più malvagio dei tuoi progenitori. 

Per tutti i gironi bui dell’inferno non ho visto anima così superba contro Dio, nemmeno colui che cade dalle mura di Tebe. Egli sparì e non proferì più parola, ed io vidi sopraggiungere un Centauro pieno di rabbia gridando “Dov’è, dov’è quell’empio?” 

Il XXV canto inizia come continuazione di quello precedente, con Vanni Fucci che fa un gesto volgare riferendolo proprio a Dio, così per punizione gli si legarono attorno due serpi che gli impedirono ogni movimento. Dante allora risponde a lui insultando Pistoia, dicendo che dovrebbe incenerirsi visto che è la città natale del ladro. Dante poi vede arrivare il centauro che furioso sta cercando l’acerbo (Vanni Fucci). Visto il significato diverso che ha la parola acerbo per noi, bisogna rendere con empio e soffermarsi sulla scelta di acerbo. Inoltre è importante rilevare che intervenga proprio un centauro.

 

TESTO DANTE 19-39

PARAFRASI 

COMMENTO 

Maremma non cred’io che tante n’abbia,  

quante bisce elli avea su per la groppa  

infin ove comincia nostra labbia.                                

 

Sovra le spalle, dietro da la coppa,  

con l’ali aperte li giacea un draco;  

e quello affuoca qualunque s’intoppa.                           

 

Lo mio maestro disse: «Questi è Caco,  

che sotto ’l sasso di monte Aventino  

di sangue fece spesse volte laco.                                   

 

Non va co’ suoi fratei per un cammino,  

per lo furto che frodolente fece  

del grande armento ch’elli ebbe a vicino;                      

 

onde cessar le sue opere biece sotto la mazza d’Ercule, che forse gliene diè cento, e non sentì le diece». 

 

Mentre che sì parlava, ed el trascorse  

e tre spiriti venner sotto noi, de’ quali né io né ’l duca mio s’accorse,                       

 

se non quando gridar: «Chi siete voi?»;  

per che nostra novella si ristette,  

e intendemmo pur ad essi poi. 

Io non credo che la Maremma abbia tante bisce, quante lui ne aveva sulla groppa, proprio dove inizia il nostro aspetto. 

 

Sulle spalle, dietro la nuca, era appoggiato un drago con le ali spiegate, che sputava fuoco a chiunque imbattesse.  

 

Il mio maestro disse: “Egli è Caco, che spesso fece sotto la grotta dell'Aventino un lago di sangue. 

 

Non è tra i suoi fratelli per un comportamento; il furto fraudolento del grande branco che aveva vicino; 

 

Pose fine alle sue azioni malvagie la mazza di Ercole, che lo colpì forse cento volte, ma già non sentì più la decima”. 

 

Mentre stavamo parlando, e lui passò via, tre spiriti giunsero sotto di noi, dei quali io il mio maestro ci accorgemmo. 

 

finché non gridarono:Chi siete?”; così interrompemmo il nostro discorso, e ci rivolgemmo a loro. 

Nella settima e ottava terzina, l’auctor inizia a descrivere la figura di un centauro, che porta sulle spalle un'incredibile massa di serpenti, imparagonabile anche a quella presente nella regione toscana della Maremma, che ai tempi di Dante era dominata dalla malaria e piena di rettili velenosi, e un drago che erutta fuoco contro chiunque incontri.  

Nelle tre terzine successive, Virgilio spiega all’agens che si tratta di Caco, figlio di Vulcano. Secondo la mitologia, egli commise diversi omicidi in una grotta dell’Aventino e fu ucciso a colpi di clava da Ercole, a cui aveva rubato del bestiame. A differenza dei suoi fratelli centauri, che sono sulle rive del Flegetonte perché violenti, Caco è punito per il furto, per questo motivo si trova tra i ladri nella settima bolgia.  

Nella dodicesima e tredicesima terzina, mentre Virgilio parla e Caco si allontana, tre dannati si avvicinano ai due senza attirare la loro attenzione, se non quando sentono uno dei tre chiedere loro a gran voce chi siano. I due tacciono, li osservano e Dante non li riconosce. 


Testo versi 40-57 

Parafrasi 

Commento 

Io non li conoscea; ma ei seguette, 

come suol seguitar per alcun caso, 

che l’un nomar un altro convenette, 

 

dicendo: «Cianfa dove fia rimaso?»; 

per ch’io, acciò che ’l duca stesse attento, 

mi puosi ’l dito su dal mento al naso. 

 

Se tu se’ or, lettore, a creder lento 

ciò ch’io dirò, non sarà maraviglia, 

ché io che ’l vidi, a pena il mi consento.  

 

 

Com’io tenea levate in lor le ciglia,  

e un serpente con sei piè si lancia  

dinanzi a l’uno, e tutto a lui s’appiglia.  

 

Co’ piè di mezzo li avvinse la pancia,  

e con li anterior le braccia prese;  

poi li addentò e l’una e l’altra guancia; 

 

 

li diretani a le cosce distese, 

 e miseli la coda tra ’mbedue 

e dietro per le ren la ritese. 

 

Io non li conoscevo, ma successe come è solito accadere casualmente, che uno dovesse nominare un altro,  

 

dicendo:”Cianfa dove sarà rimasto?”; perciò io, affinché Virgilio stesse attento, mi posi in dito davanti al naso. 

 

Se tu ora, lettore, sei esitante a credere a ciò che dirò, non ci sarà meraviglia, in quanto anche io credo appena a quello che vidi 

 

Mentre io tenevo a loro rivolti gli occhi, ecco un serpente con sei piedi lanciarsi verso uno e aggrapparsi tutto a lui. 

 

Con i piedi in mezzo gli circondò con forza la pancia e con le anteriori prese le braccia; poi gli addentò entrambe le guance; 

 

distese le zampe posteriori sulle cosce e mise la coda in mezzo, e distese indietro le gambe, lungo la schiena passando su per i reni. 

Dante e Virgilio vengono interrotti da tre dannati, che Dante non riconosce, finché uno non si chiede dove sia Cianfa, un ladro fiorentino di bestiame. Perciò Dante richiama l’attenzione di Virgilio e gli fa segno col dito di non parlare. Qui l'autor fa un’apostrofe al lettore, avvertendolo che quello che sta per raccontare è talmente innaturale da renderlo difficile da credere pure a lui. Ha quindi  inizio la prima metamorfosi, il cui protagonista è Agnello Brunelleschi, un ladro fiorentino. Inizia con un serpente a sei zampe che si attacca al dannato, gli abbraccia con forza la pancia con le zampe in mezzo, gli prende le braccia con le anteriori e gli morde entrambe le guance. Poi, distende le gambe posteriori sulle cosce dello spirito e gliele gira, distendendole lungo la schiena, passando per i reni.  

Ci sono dunque due elementi innaturali descritti da Dante. Il primo è il serpente, creatura inventata e inserita da Dante già nel canto precedente e nato dalla testa di Medusa. Il secondo elemento è la metamorfosi, evento del tutto innaturale e impossibile da credere, come i dannati trasformati in piante nella selva dei suicidi. non mettere la questione nei termini di credere

 


TESTO 57-75

PARAFRASI 

COMMENTO  

Ellera abbarbicata mai non fue 

ad alber sì, come l’orribil fiera 

per l’altrui membra avviticchiò le sue. 60 

Poi s’appiccar, come di calda cera 

fossero stati, e mischiar lor colore, 

né l’un né l’altro già parea quel ch’era: 63 

come procede innanzi da l’ardore, 

per lo papiro suso, un color bruno 

che non è nero ancora e ’l bianco more. 66 

Li altri due ’l riguardavano, e ciascuno 

gridava: «Omè, Agnel, come ti muti! 

Vedi che già non se’ né due né uno». 69 

 

Già eran li due capi un divenuti, 

quando n’apparver due figure miste 

in una faccia, ov’eran due perduti. 72 

 

Fersi le braccia due di quattro liste; 

le cosce con le gambe e ’l ventre e ’l casso 

divenner membra che non fuor mai viste. 75 

 

L’edera non fu mai avvinghiata all’albero come l’orribile bestia avvolse le membra del dannato. 

 

 Poi si fusero, come se fossero stati di cera calda, e si mescolarono i loro colori e nessuno dei due sembrava quello di prima.  

 

Come accade nel momento in cui si brucia una carta bianca producendo del fumo grigio, il bianco muore.  

 

Gli altri due lo guardavano e gridavano: “Ahimè Agnello, come muti! Non sei più un solo individuo e nemmeno due”.  

 

Le due teste si erano già unite in una, quando ci apparvero le due figure mescolate in un unico volto nel quale due esseri si erano persi.  

 

Le quattro braccia diventarono due, le cosce, le gambe e il ventre divennero membra mai viste.  

  

 

Nei versi dal 57 al 75 vengono descritti gli effetti della metamorfosi subita dal dannato.  

Le membra del serpente si avvolgono con quelle dell’anima e l’unione viene trattata attraverso curiose metafore. Ad esempio quella che mette sullo stesso piano la fusione tra i due corpi che non lascia segni della forma precedente ma porta un miscuglio mai visto alla carta bianca che quando brucia diventa fumo grigio senza lasciare traccia del colore iniziale.  

 



Testo 76-93

Parafrasi

Commento

Ogne primaio aspetto ivi era casso:
due e nessun l’imagine perversa
parea; e tal sen gio con lento passo.78

Come 'l ramarro sotto la gran fersa
dei dì canicular, cangiando sepe,
folgore par se la via attraversa,
81

sì pareva, venendo verso l’epe
de li altri due, un serpentello acceso,
livido e nero come gran di pepe;
84

e quella parte onde prima è preso
nostro alimento, a l’un di lor trafisse;
poi cadde giuso innanzi lui disteso.
87

Lo trafitto ’l mirò, ma nulla disse;
anzi, co’ piè fermati, sbadigliava
pur come sonno o febbre l’assalisse.
90

Elli ’l serpente e quei lui riguardava;
l’un per la piaga e l’altro per la bocca
fummavan forte, e ’l fummo si scontrava.


Ogni aspetto originale che possedevano era scomparso: quell’essere pareva un po’ l’uno un po’ l’altro ma nessuno dei due in particolare e così se ne va camminando lentamente. Come il ramarro sotto le alte temperature dei giorni più caldi dell’anno, muovendosi da una siepe all’altra sembra un fulmine quando attraversa la strada, così appariva un serpentello iroso, livido e nero come un granello di pepe che veniva verso il ventre degli altri due, ed esso azzannò una delle due anime in quella parte del corpo da dove assumiamo il nostro primo nutrimento, l’ombelico; poi il serpente cadde a terra disteso davanti a lui. Il dannato, morso, lo osservò senza dire nulla; anzi, tenendo i piedi fermi sbadigliava come se fosse colpito dal sonno o dalla febbre. Il peccatore guardava il rettile e quello lui; entrambi emettevano fumo, il dannato dalla ferita sul ventre e il serpente dalla bocca, e il loro fumo si mescolava.



Dante nel XXV canto si trova nelle Malebolgie, tra i ladri in particolare tra i quali incontra Vanni Fucci il quale, dopo aver bestemmiato Dio, viene punito. Successivamente incontra 3 ladri di Firenze. Un rettile dotato di 6 zampe ne assale uno e si fonde con lui formando insieme al dannato un singolo essere. Questa creatura aveva delle fattezze sia del ladro sia del rettile ma nell’insieme non assomigliava più a uno o l’altro. Ad un altro invece un serpente infuriato lo azzanna dritto nell’ombelico per poi ricadere a terra. I due si fissano e dalla ferita e dalle narici della serpe inizia ad uscire del fumo.






 

Versi 93-108

Versione in prosa  

Commento 

Taccia Lucano omaidov’e’ tocca  

del misero Sabello e di Nasidio 

e attenda a udir quel ch’or si scocca.  

Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio,  

ché se quello in serpente e quella in fonte  

converte poetando, io non lo ’nvidio 

ché due nature mai a fronte a fronte  

non trasmutò sì ch’amendue le forme  

a cambiar lor matera fosser pronte.  

Insieme si rispuosero a tai norme,  

che ’l serpente la coda in forca fesse,  

e ’l feruto ristrinse insieme l’orme 

Le gambe con le cosce seco stesse  

s’appiccar sì, che ’n poco la giuntura  

non facea segno alcun che si paresse.                      

Faccia silenzio Lucano a questo punto nel passo in cui racconta di Nassidio e del triste Sabello, e si appresti ad ascoltare il mio racconto. 

Faccia silenzio anche Ovidio riguardo Cadmo e Aretusa, perché se egli racconta in poesia le metamorfosi di Cadmo in serpente e di Aretusa in fonte io non provo invidia; perché non riprodusse mai la metamorfosi reciproca di due nature, in modo che ambedue le diverse essenze fossero in grado di scambiare i loro corpi.  

Si trasformarono contemporaneamente, secondo le seguenti regole, per cui il serpente biforcò la coda e il dannato ferito riunificò i piedi: le gambe e le cosce si unirono fra di loro a tal punto che in poco tempo la giuntura non mostrava nessun segno visibile. 

Il XXV canto è quello dedicato ai ladri, la cui pena del contrappasso li sottopone a metamorfosi continue e variate, che fondono i corpi umani con quelli dei serpenti 

Nei versi dal 94 al 108 l’auctor sfida apertamente Lucano e Ovidio, i quali, il primo nel racconto della morte di Nassidio e Sabello tra atroci sofferenze e il secondo con la trasformazione di Cadmo, presentano entrambi riferimenti ai serpenti nelle loro opere.  

Dante si serve di Ovidio attraverso tutta la Divina Commedia; e in questo canto, dal verso 99 al 102 fronteggia il suo maestro, dichiarando che non solo non lo invidia, ma che lui, Dante auctor, attraverso la sua penna, vita a una metamorfosi alla pari della quale quelle concepite da Ovidio non sono mai arrivate 


TESTO DANTE  109-123

 

Togliea la coda fessa la figura  

che si perdeva là, e la sua pelle 

 si facea molle, e quella di là dura. 

Io vidi intrar le braccia per l'ascelle 

e i due più de la fiera, ch'eran corti, 

tanto allungar quanto accorciavan quelle. 

Poscia li piè di retro, insieme attorti, 

diventaron lo membro che l'uom cela, 

e ‘l misero del suo n'avea due porti. 

Mentre che 'I fummo l'uno e l'altro vela  

di color novo, e genera '1 pel suso  

per l'una parte e da l'altra il dipela, 

Pun si levò e l'altro cadde giuso, 

 non torcendo però le lucerne empie, 

 sotto le quai ciascun cambiava muso. 

PARAFRASI  

 

Il serpente divise la coda in due, una rimase separata dal corpo, con la pelle che diventò morbida, mentre l’altra (la parte attaccata al corpo) diventò dura.  Io vidi le braccia ritrarsi dentro alle ascelle e le corte zampe del serpente allungarsi tanto quanto quelle che si accorciavano. Poi le zampe posteriori si attorcigliarono tra di loro fino a formare il membro maschile solitamente non visibile, che terminava con due piedi. Mentre il fumo ricoprì i loro corpi di un colore diverso e fece nascere la peluria ad uno e all’altro la tolse, il serpente si alzò in piedi mentre l’altro cadde a terra, senza però smettere di guardarsi con quegli occhi sotto i quali ognuno mutava un nuovo volto.  

COMMENTO 

 

In queste terzine, viene descritta la metamorfosi del serpente che si taglia la coda: ad una parte si accorciano le braccia e al serpente si allungano le zampe. I due corpi assumono, a questo punto, sembianze diverse, il primo è ricoperto di peluria, il secondo no. Alla fine prevalse il serpente che si alzò in piedi e osservò l’altro cadere, mentre i volti di entrambi cambiano. E’ interessante la scena finale in cui i due corpi, ormai divisi, si osservano l’un l’altro con atteggiamento di sfida.  

 

 

 


vv. 123-138  Quel ch’era dritto, il trasse ver’ le tempie, e di troppa matera ch’in là venne uscir li orecchi de le gote scempie; 126 ciò che non corse in dietro e si ritenne di quel soverchio, fé naso a la faccia e le labbra ingrossò quanto convenne. 129 Quel che giacea, il muso innanzi caccia, e li orecchi ritira per la testa come face le corna la lumaccia; 132 e la lingua, ch’avea unita e presta prima a parlar, si fende, e la forcuta ne l’altro si richiude; e ’l fummo resta. 135 L’anima ch’era fiera divenuta, suffolando si fugge per la valle , e l’altro dietro a lui parlando sputa PARAFRASI Quello che era in piedi, ritirò il muso verso le tempie, e la materia in eccesso formò due orecchie sulle guance divise; ciò che non si ritirò formò naso in quella faccia e ingrossò le labbra tanto quando era necessario. Quello che era a terra sporse in avanti il muso e ritirò le orecchie nella testa, come la lumaca ritira le corna;e la lingua che prima aveva predisposto a parlare si divise in due, mentre quella biforcuta dell’altro si chiuse; il fumo cessò. L'anima diventata serpente fuggì via per la valle sibilando, mentre l’altro seguendolo gli parlava sputando. COMMENTO A seguito della metamorfosi in mostro del ladro e del serpente a sei piedi, nel canto si verifica un successivo attacco da parte di un serpentello verso gli altri due ladri, i quali vengono da esso colpiti al ventre. Qui ha poi inizio una dettagliata descrizione della trasformazione da dannato a serpente e viceversa. In particolare l’essere in piedi ritrae il muso verso le tempie e fa uscire ai lati le orecchie, formando poi naso e labbra; quello a terra invece sporge in avanti il muso, ritrae le orecchie e divide in due la lingua, mentre quella dell’altro si unisce.

 versi 139-151 Testo                                 Parafrasi                                                     Commento
 Poscia li volse le novelle spalle, e disse a l’altro: «I’ vo’ che Buoso corra, com’ho fatt’io, carpon per questo calle». Così vid’io la settima zavorra mutare e trasmutare; e qui mi scusi la novità se fior la penna abborra. E avvegna che li occhi miei confusi fossero alquanto e l’animo smagato, non poter quei fuggirsi tanto chiusi, ch’i’ non scorgessi ben Puccio Sciancato; ed era quel che sol, di tre compagni che venner prima, non era mutato; l’altr’era quel che tu, Gaville, piagni. Dopo gli voltò le spalle appena createsi, e disse all’altro: “voglio che Buoso corra, come ho fatto io, a carponi per questa strada". Quindi io vidi i rozzi dannati del settimo cerchio mutare e trasmutare; e qui mi scuso se la novità rende la mia scrittura più abbozzata e complessa. E nonostante i miei occhi fossero confusi e il mio animo smarrito, quelli, per quanto di soppiatto, non poterono fuggire senza che io riconoscessi Puccio lo Sciancato. Ed egli era l’unico dei tre compagni di prima, che non fosse mutato; l’altro era colui che tu, Gaville, piangi. In questo settimo cerchio l’agens si trova in una fossa piena di mostruosi serpenti. Lo scenario è ritenibile innaturale e spaventoso pure per essere una parte dell’Inferno. Si vedono delle creature attaccarsi ai corpi dei dannati e iniziare a mutare e trasmutare (vv 143) in essi e con essi. Un mostro ed una persona diventano un tutt'uno, in un groviglio insensato ed inspiegabile. Nei versi dal 142 al 144, l’auctor arriva addirittura a specificare quanto l’indescrivibile orrore che sta accadendo davanti a lui sia addirittura complicato da mettere a parole, motivo per il quale si scusa per la mancanza di precisione che la sua scrittura possa aver assunto.

Commenti

Post popolari in questo blog

IL SORRISO - RIASSUNTO MODELLO (CIRCA 200 PAROLE)

LA CARRIOLA DI PIRANDELLO: RIASSUNTO E COMMENTO

DOMANDE E RISPOSTE ODISSEA VOSTRE (corretto)