LAVORO DI GRUPPO DEL 12 OTTOBRE COMPLETO
SINTESI CB
1.
I
miti sono rappresentazioni archetipiche, ma anche proiezioni a un livello alto (divino,
metafisico) di ciò che è visibile e terreno.
Secondo il poeta greco Esiodo, attivo nell'VIII-VII secolo a. C. e autore del
poema cosmologico Le Opere e i giorni, elementi fisici come
montagne e fiumi hanno una sorta di doppio cosmico, nel quale
evidentemente si manifesta una perfezione. Sempre a Esiodo si deve la prima
rievocazione di una stirpe di esseri umani dell'età dell'oro, ai
quali diedero vita gli dei nell'era di Crono: creature semidivine in quanto
ignare di dolori e fatiche, lavoro e vecchiaia, alle quali la natura offriva
spontaneamente ogni frutto. Questa umanità originaria era pacifica e amata
dagli dei, ma presto iniziò a declinare. Il declino ha diverse espressioni: la
stirpe argentea, per via della sua empietà e bellicosità, viene sterminata da
Zeus, quella bronzea è così violenta da arrivare all'autodistruzione; sembra
costituire un'eccezione la stirpe degli eroi, che però si distruggono
reciprocamente guerreggiando e passano all'isola dei beati, mentre il culmine
dell'abiezione coincide con la stirpe ferrea, che vive in un mondo in cui
Aidos, il Pudore, e Nemesis, la Giustizia, sono scomparsi.
2.
Nel Politico, dialogo
platonico del 366 a. C., il mito è modificato: si susseguono due cicli, l'uno
ascendente, coincidente con l'età dell'oro, l'altro discendente. Nel primo una
divinità superiore e altre minori si prendono cura degli esseri umani divisi in
greggi. L'età dell'oro platonica ha quindi una veste pastorale, il suo eden
originario somiglia a un comunismo utopico, in cui la condivisione dei
beni e l'assenza di necessità di lavorare consentono di dedicarsi a occupazioni
come conversare e filosofare.
3.
Negli Annales di
Ennio, III-II secolo a. C., il mito si romanizza: Crono è Saturno, e con
quest'ultimo coincide un periodo felice della storia italica,
la Saturnia Tellus coincidente con il Lazio, in cui (dal verbo lateo/latere)
si sarebbe nascosto Saturno inseguito da Giove.
4.
Cicerone,
che traduce nel I secolo a. C. Arato da Soli (poeta del IV-III secolo, autore
dei Fenomeni), rappresenta le varie età come altrettante
degenerazioni di una medesima stirpe. Di qui il fatto che l'età dell'oro
diventi una sorta di categoria morale: gli uomini aurei, ad
esempio, scelgono di vivere modestamente anche se hanno a disposizione
tantissimi beni.
5.
Ancora
nel I secolo a. C. e in ambito latino si può rintracciare la versione di
Lucrezio del mito, nel V libro del suo poema De rerum natura. Il
poeta romano non idealizza lo stato di natura, dato che gli uomini primitivi
conducono un'esistenza allo stato ferino, che li mette in difficoltà rispetto a
una natura nient'affatto benigna e a un mondo in cui prevale la legge del più
forte. Gli esseri primitivi, però, sono comunque aurei nel
senso di non essere afflitti dalla brama insaziabile di beni caratteristica dei
tempi coevi al poeta. Anche in Lucrezio è quindi presente l'idea di
un'innocenza originaria, di uno stato di natura che non è ancora rovinato dalla
cultura ma è innocente.
6.
La
prospettiva virgiliana è ancora differente, perché da antropologica diventa
escatologica. In particolare nella IV Ecloga delle Georgiche, il
poeta celebra la nascita del figlio di Asinio Pollione, suo amico e protettore,
nei termini del segno di un ritorno dell'età dell'oro. Vengono evocati
l'oracolo cumano, il regno di Saturno, tutti segni della nuova era che si va
preparando. Nell'Eneide, poema scritto successivamente, Virgilio fa
risalire a Ottaviano Augusto il merito di aver restaturato l'età
di Saturno, salvando il Lazio dalle guerre civili che lo
stavano devastando. La visione diventa quini, con lui, decisamente politica: sotèr, di
derivazione greca, e pater patriae, latina, si saldano e
diventano un mito attivo dal medioevo, al rinascimento, all'età moderna, in cui
si radica anche il pensiero utopistico. La visione virgiliana a un certo punto
ospita l'avvento necessario del labor improbus: la sua valenza
negativa, ovvero il fatto che sia espressione di una perdita da
parte dell'umanità (i benefici di una tellus che offre
spontaneamente i suoi frutti), è mitigata dalla circostanza (cantata da
Virgilio) che dalla sua necesità provengano le artes, ossia un
raffinamento delle capacità umane.
7.
Il
quadro dell'età dell'oro offerto da Ovidio nelle Metamorfosi è
quello di un'esistenza in armonia con la natura e senza cultura. Assenti
costruzioni, lavoro, leggi e spontanea l'armonia complessiva. La natura
favorisce finché non ha inizio il regno di Giove: argento, bronzo, ferro si
susseguono in un crescendo di degenerazione di cui la navigazione e la
proprietà privata sono i segni più evidenti.
8.
Il
mito dell'età dell'oro conosce elaborazioni in ambito filosofico pitagorico,
platonico e stoico. Seneca, nel I secolo d. C., connette il periodo aureo con
una condizione di complessiva armonia con la natura e tra esseri umani, una
specie di comunismo originario. Beati ma non saggi né sapienti, questi esseri
umani primitivi non scelgono di non errare in quando non sanno errare (di qui
il fatto che Seneca non li consideri un modello). Auspicabile, per il filosofo
del periodo neroniano, il raggiungimento di una novella età dell'oro in
cui sia il saggio a indicare la via della vera felicità.
9.
In
ambito biblico, nel libro dell'Emmanuele 11, 6-8, il profeta Isaia dipinge
un'epoca in cui regni l'armonia totale fra gli esseri, un'assenza totale di
conflitti e morti inflitte, anche solo per ragioni di sopravvivenza (il
vitello e il leoncino pascoleranno insieme, si legge, e un
fanciullo li guiderà). Con la nascita e la diffusione del cristianesimo i
classici sono letti in chiave figurale e questo comporta che l'età dell'oro
venga assimilata a quella edenica, interrotta dal peccato originale che dà inizio
alla degenerazione degli umani, culminante col fiorire del politeismo.
SINTESI 2 GRUPPI
SINTESI
1
IL MITO DELL’ETÀ DELL’ORO
Il mito dell’età dell’oro
identifica la realtà come imitazione del modello divino e, secondo Platone, si
divide in due cicli: uno ascendente, guidato dalle divinità che proteggevano
l’umanità, e uno discendente causato dalla disobbedienza degli uomini e dalle
punizioni conseguenti da parte degli dei. Esiodo (VIII-VII secolo a.C.), scrive
per primo riguardo l’età dell’oro, dal regno di Crono all’avvento di Zeus: gli
dei immortali crearono una stirpe aurea mortale, gli uomini, che vivevano nel
benessere, con terre fertili e abbondanza di frutti, in assenza di pene e
fatiche. Successivamente seguì una fase di declino nella quale nacquero altre
stirpi annientate da Zeus, come la stirpe bronzea, autodistruttiva; la stirpe
degli eroi, annientati dai conflitti; infine la stirpe ferrea che vive in un
mondo privo di pudore e giustizia.
Platone delinea un’età
dell’oro sotto specie pastorale: la vita era organizzata secondo una forma di
comunismo utopico, nella quale gli uomini vivevano in armonia tra loro, con gli
dei, con la natura e non avevano necessità di lavorare. In questa sorta di
paradiso terrestre, sottratto alla necessità del lavoro, l’uomo era libero di
dedicarsi alla sapienza e all’amore.
Nella visione di Arato di
Soli (IV-III sec. a.C.) e Cicerone, suo traduttore nel I secolo a.C,, si
esprime la vita attraverso tappe, identificate nelle varie età, che danno luogo
a un processo degenerativo della stirpe umana: essa, in origine, nonostante la profusione
di beni a disposizione, preferiva vivere
secondo una semplice e modesta filosofia di vita. In Arato, dunque, l’età dell’oro ha una connotazione morale,
evidenziata da Cicerone nella sua traduzione latina. Inotlre, se nella visione
di Esiodo il progressivo declino è definito dal susseguirsi di varie stirpi, in Arato il passaggio del tempo
è scandito in varie età in cui la
medesima e unica stirpe degenera.
Altre rappresentazioni dell’età dell’ora
risalgono a Teocrito, che nel III secolo a. C., in uno dei suoi idilli,
attribuisce all’età dell’oro caratteri erotici; negli Annali di Ennio (III, II secolo a.C.),
invece, l’età dell’oro diventa un
periodo della storia italica, mentre Crono viene identificato con la divinità
italica denominata Saturno.
Lucrezio, nel I secolo a.
C., nel V libro del suo De rerum natura, non conferisce agli
uomini primitivi un’origine divina. Non c’è nella sua rappresentazione una
idealizzazione dello stato di natura, poiché l’umanità vive immersa nella
solitudine all’interno di una natura non più benigna, ma ostile. L’essere umano
vive in uno stato di innocenza originaria, che precede i mali della società
(ovvero dell’organizzazione sociale), facendolo vivere in una condizione di
“smemorata felicità”.
Con Virgilio, la leggenda e
il modello dell’utopia politica vengono proiettati nel futuro, in una
prospettiva escatologica. In particolare ciò avviene nella IV
ecloga delle sue Georgiche, dove il
poeta celebrala nascita di un puer
come segno vivente del ritorno, della restaurazione, dell’età dell’oro.
Virgilio riprende il mito anche nell’Eneide, nel quale il regno di Saturno
viene identificato con l’età dell’oro e, in ottemperanza al motivo
encomiastico, attribuisce ad Augusto il
merito di aver rinnovato tale regno. Ottaviano Augusto infatti riporterà
l’aureo secolo nel Lazio (da latus
= esteso, ampio, pianeggiante), nelle terre che un tempo erano governate da
Saturno. Si propone così uno dei più
diffusi modelli dell’utopia politica, in base alla quale nel futuro si
riprodurrà la felicità della condizione primigenia. Quanto alla concezione del
lavoro, obbedendo anche in questo caso a necessità di strategia culturale,
nelle Georgiche, descrive l’avvento del labor
improbus
come segno del passaggio dal regno di
Saturno a quello di Giove. Prima di Giove, regnavano la
ricchezza, l’abbondanza e l’assenza di fatica; i campi erano illimitati e la
terra donava liberamente i prodotti. Dunque non esisteva la concezione di
lavoro, che entra a far parte della civiltà, addirittura la promuove, con l’avvento di Giove. Egli rese la natura
avversa all’uomo, in modo tale che quest’ultimo vincesse la fatica attraverso
l’applicazione delle proprie abilità. Il lavoro perciò fece fruttare gli sforzi
dell’umanità dando vita, ad esempio, alle arti. La visione, quindi,
inizialmente posta in termini negativi, diventa via via positiva, proprio per
veicolare l’entusiasmo di una prevista rinascita, il ritorno di una nuova età dell’oro,
ovviamente promossa da Ottaviano Augusto. A Virgilio si contrappone, nello
stesso periodo, il pessimismo di Orazio,
che preannuncia viveversa, preda di una nostalgia repubblicana, il decadimento della società romana.
Ovidio riprende nelle Metamorfosi il mito dell’età aurea dal
medesimo punto di vista di Lucrezio: insiste
sull’assenza di lavoro, guerre e fatiche, sul fatto che l’umanità non abbia bisogno di essere
protetta, perché vive tranquilla e libera; quanto alla natura, assume tratti
edenici. Anche secondo Ovidio, con
l’arrivo di Giove inizia la decadenza, ricostruibile in tre fasi: quella dell’argento, del bronzo e del
ferro. Iniziano quindi le fatiche agricole, fino all’arrivo dell’età del ferro,
nella quale si tocca il punto più basso della degenerazione. Le cause di essa
sono ad esempio la navigazione, la proprietà privata e la costruzione delle
armi, complici dei peggiori delitti.
Nell’ambito della filosofia
stoica, Seneca riconosce nella felicità l’assenza di avarizia e il rapporto
armonico con la natura, ma sostiene al contempo che l’innocenza del male
precluda agli uomini la vera saggezza. Dunque spetterà all’età dell’oro stoica
coniugare l’innocenza e la consapevolezza.
In ambito cristiano, l’età
dell’oro coincide con la permanenza dell’uomo nell’Eden, e la decadenza è
innescata dal peccato originale, da qualche interprete dei primi secoli
identificato con la visione politeistica. Per tornare all’età dell’oro, secondo
i cristiani, bisogna quindi attenersi al culto pio e rispettoso di un unico
dio. La connessione tra il mito aureo e il mito terrestre è infine resa
esplicita da Dante negli ultimi canti del Purgatorio,
in occasione del raggiungimento da parte dell’agens di questo luogo mitico,
che la topografia istituita dal poeta colloca sulla sommita del monte
purgatorio.
SINTESI 2
Il mito dell’età dell’oro afferma che ogni
cosa che esiste sulla terra corrisponde a un modello divino. La prima
rievocazione della stirpe dell’oro, durante il regno di Crono, è stata scritta
da Esiodo: gli dei immortali fecero una stirpe di uomini mortali. Questi non
provavano dolore e possedevano beni di ogni tipo e la natura offriva loro
nutrimento in abbondanza. A questa stirpe si aggiungono quella bronzea, quella degli
eroi e la stirpe ferrea, la peggiore poiché viveva senza pudore e senza
giustizia. Platone nel Politico riassume il mito in due cicli: uno ascendente,
dove a governare è il divino, e uno discendente abbandonato a se stesso.
All’età dell’oro corrisponde il ciclo ascendente dove gli uomini sulla Terra
vivono in greggi divisi per specie, ognuno guidato da un essere soprannaturale
di natura divina. Gli esseri viventi non si combattevano, non c’era
un'organizzazione sociale tra gli uomini e non era necessario coltivare, poiché
la natura produceva in modo autosufficiente alimenti in abbondanza. Platone
descrive quindi l’età dell’oro come un mondo guidato da pastori dove gli uomini
godevano di una libertà assoluta e vivevano in concordia con il divino e l’ambiente
naturale che li circondava. Questa prosperità favorisce loro la possibilità di
conversare e di filosofare.
Cicerone (I secolo a. C.), con Arato di
Soli (IV-III a.C.) le cui opere il retore romano traduce dal greco, concepiscono
le varie epoche come tappe di un processo degenerativo della stessa stirpe.
Inoltre Arato concepisce l’età dell’oro in una prospettiva morale (in chiave di
degenerazione morale, precisamente), ripresa anche da Cicerone nella sua
traduzione latina. In un frammento in particolare si legge
aurei malebant tenui
contenti vivere cultu dalla quale si evince l’obbiettivo di raggiungere una
semplice filosofia di vita per la quale mantenevano un tenore di vita modesto.
Il poeta latino delle origini (III-II
secolo a. C.) Ennio, negli Annales,
un poema epico in 18 libri che narrano gli avvenimenti della storia di Roma e
del Lazio a partire dall’arrivo di Enea, romanizza il mito. Crono si identifica
in Saturno, dalla cui leggenda deriva il nome di Lazio (dal latino latere, nascondere) e l’età dell’oro
diviene un’epoca della storia italica. Lucrezio (I sec. a. C.), nel suo De rerum natura, un poema
epico-filosofico nel quale mette in poesia la visione epicurea, ove descrive l’età
originaria degli umani, non procede a un’idealizzazione della natura, che infatti
non è benigna. Inoltre, gli uomini primitivi conducono una vita caraterizzata
da difficoltà di ogni genere, motivate
anche dal fatto di essere particolarmente indifesi, soprattutto alla nascita e
per lungo tempo, rispetto a altri animali: da qui deriva il fatto che gli essere
primitivi siano guidati da impulsi utilitaristici. Appagati delle semplici cose
che offre la natura, vivono senza agricoltura, coltivando un rapporto sobrio e
armonico con la natura.
Con Virgilio il mito si proietta nel
futuro, trasformandosi in un auspicio. Nella quarta egloga delle Georgiche, la nascita del figlio di Asinio Pollione (amico
e protettore di Virgilio) rappresenta il preannuncio di un ritorno dell’età
dell’oro, ripreso anche nell’Eneide
attraverso la figura del dio latino Saturno, corrispettivo di Crono. Virgilio
attribuisce a Ottaviano Augusto il merito di aver rinnovato il regno di
Saturno, interpretazione che diventerà oggetto di propaganda imperiale per procedere
a una restaurazione dei principi del mos maiorum. Tale prospettiva virgiliana,
è diventata nel tempo uno dei principali modelli dell’utopia politica. Inoltre nelle
Georgiche Virgilio descrive il
passaggio dal regno di Saturno al regno di Giove come transizione da una
situazione nella quale la natura offre da sè i propri prodotti, senza nessun
tipo di intervento dell’uomo, a una in cui invece è necessario ingegnarsi per
promuovere la nascita dei mestieri
specializzati, le artes. Quello che
quindi in prima battuta appare come un peggioramento
di condizione, si trasforma in un vantaggio per l’evoluzione umana. Orazio è uno dei più importanti poeti
augustei, oltre a Virgilio, che trattano il mito aureo. Il suo epodo XVI è scritto negli stessi anni in
cui viene scritta l’egloga di Virgilio. Le visioni contrapposte delle due opere
suggeriscono che l’una sia la risposta all’altra: all’ottimismo di Virgilio che
profetizza una nuova età dell’oro si contrappone infatti il pessimismo del
repubblicano deluso Orazio, che preannuncia l’imbarbarimento della romanità. Quanto a Ovidi, nelle Metamorfosi riprende una concezione dell’età dell’oro simile a
quella di Platone, in base alla quale gli uomini vivevano in piena serenità
cullati nell’ozio dalla natura. Con l’avvento di Giove, inizia quello che sarà
il decadimento di un lungo fiorente periodo. Si susseguono le tre fasi dell’argento,
del bronzo e del ferro: arrivano il caldo e il freddo, incominciano le fatiche
agricole ed emerge la necessità di costruirsi un’abitazione. L’età del ferro è
quella in cui si arriva alla maggior degenerazione: l’avidità consolida la
proprietà privata e si iniziano a forgiare armi per compiere i peggiori
crimini.
Seneca, nel I secolo d. C., ci fornisce
una visione stoica del mito. La felicità apparteneva all’epoca aurea, una sorta
di comunismo originario, in cui gli uomini non conoscevano quello che i
cristiani definiscono peccato (per Seneca vizio,
passione), anche se non per scelta, ma per ignoranza. Seneca per questo
puntava a conciliare innocenza e consapevolezza per raggiungere una felicità
più completa. Una prospettiva che viene condivisa anche dal cristianesimo nei
secoli a venire. Evidente a questo proposito l’analogia fra la vita nell’Eden e quella dell’età dell’oro, entrambe
destinate a finire per via di una serie di errori umani o di una progressiva
tensione verso la negatività. Una variante specifica di questa negatività si
ritrova nel commentatore paleocristiano Lattanzio (III secolo d. C.) che nei suoi testi equipara il cristianesimo
all’antico Regno di Saturno, in quanto culto di un unico Dio, seguito da un
regno di Giove dominato dal politeismo, ovvero dall’errore.
COMMENTO alla selezione di vv. 89-112
gruppo 4
Nel primo periodo è presente un'introduzione all’argomento principale, l'età dell’oro, introdotta attraverso Aurea prima sata est aetas (la prima età ad essere stata generata fu quella dell’oro).
Aetas è il soggetto sia della principale che della coordinata per asindeto i cui rispettivi predicati verbali sono “sata est” e “colebat” (rispettivamente è stata generata e rispettava). Viene evidenziata l’assenza, durante questa epoca, di un giustiziere, “vindice nullo”, un ablativo assoluto, poiché solo con l’avvento di Zeus agli uomini verranno imposte delle leggi di matrice divina. Gli esseri umani nell’età aurea non necessitano di un garante dell’ordine universale, perché spontaneamente vivono in armonia. Infatti, come si legge nel periodo successivo, conducono le loro vite senza ricorrere a leggi sociali, non avendo bisogno di provare timore a causa di una pena per comportarsi
rettamente. I due periodi successivi sono introdotti dallo stesso avverbio, nōndūm (non ancora), per sottolineare come in quell’epoca, e soltanto in quella, la mano dell’uomo non avesse ancora modificato gli equilibri naturali. Viene riportato l’esempio degli alberi, che non venivano ancora tagliati per essere lavorati in altre zone. Riguardo agli esseri umani, questi non conoscevano altri territori oltre ai propri e le loro città non erano ancora fortificate e protette da soldati. Anche la terra non veniva ancora lavorata e coltivata, ma produceva i suoi frutti spontaneamente. L’agricoltura, praticata dagli uomini nelle epoche successive, viene vista come un’attività aggressiva, volta allo sfruttamento dei campi e al danneggiamento della natura, al punto che quest’ultima viene considerata “saūcĭă vōmĕrĭbūs” (ferita dall’aratro). Negli ultimi periodi l’autore sottolinea come questa natura nel suo insieme, finché intatta e incontaminata, facesse vivere l’uomo in una condizione costante di beatitudine e assenza di turbamento, tanto da essere identificata come un’eterna primavera (Vēr ĕrăt aētērnūm). Un’età in cui tutti vivevano beati e in pieno accordo con la natura ovvero una forma di vita perfetta che viene fatta coincidere con la felicità materiale. Le cause di tale associazione sono da rintracciarsi anche nell’etimologia di felicità, risalente al termine greco fetus (nascita), con riferimento al fatto che si trattasse di un’epoca originaria.
GRUPPO 3
In questi versi delle Metamorfosi Ovidio ci conduce attraverso l’età dell’oro, culla dell’eudaimonia e della felicitas. Questa selezione di versi si apre con l’aurea aetas (età d’oro), in cui associa l’aggettivo della prima classe aurea al sostantivo femminile della terza declinazione aetas, che secondo Ovidio è la prima, anche questo attributo associato a aetas, appartenente alla prima classe degli aggettivi, sata est (fu generata), perfetto passivo alla terza persona dal verbo sero della III coniugazione, tra le cui traduzioni sul dizionario si trovano anche i verbi generare e seminare,
con un rimando alla natura come se anch’essa fosse stata generata dal deus demiurgico e la
melior natura, che nel verso XXI pongono fine ai contrasti tra gli elementi per poi dedicarsi a dare
forma all’orbem (mondo).
Nei versi successivi Ovidio evidenzia la sensazione di sicurezza che è intrinseca all’età dell’oro, durante la quale nec verba minantia fixo aere legebantur e gli uomini erant sine vindice tuti (nessuno leggeva minacce affisse in tavolette di bronzo ed erano tutti sicuri senza essere protetti), nei quali versi l’idea di negazione è resa dalla congiunzione copulativa negativa nec associata al verbo lego espresso alla terza persona plurale del tempo imperfetto passivo associato al soggetto verba, sostantivo neutro plurale al nominativo, accompagnato dall’aggettivo minantia della seconda classe. L’idea di sicurezza è resa dalla preposizione sine associata a vindice che deriva dal sostantivo vindex della terza declinazione, a indicare che gli uomini si sentivano tuti, aggettivo della prima classe che significa protetti, anche senza un difensore. Questi versi, insieme a mollia securae peragebant otia gentes (praticavano i popoli in pace la dolcezza di vivere), mettono in risalto l’affinità con la visione epicurea, già presente nella concezione della creazione del mondo, che individua la vera felicità nel piacere catastematico, ovvero nell’assenza di dolore e di turbamento.
Gli ultimi versi, descrivono come la terra, intatta, indicata con l’aggettivo immunis della seconda classe, nec ullis saucia vomeribus (e non piagata ancora dal vomere), producesse tutto da sé, regalando una sensazione di gratitudine agli uomini, contentique cibis nullo cogente creatis (contenti
dei cibi prodotti senza sfruttarla), verso formato da contenti, caso nominativo plurale dell’aggettivo della prima classe contentus, dal sostantivo della seconda declinazione cibus al caso ablativo che indica un complemento di causa, associato all’aggettivo participio perfetto derivante dal verbo creo e dal costrutto ablativo assoluto nullo cogente.
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