INTERROGAZIONI DEL 1° MARZO - OVIDIO CICERONE - programma dettagliato

 OVIDIO

  • Riporto da post precedenti i materiali testuali che occorre studiare per l'interrogazione. Ritengo scontato che sappiate rispondere a domande o proporre collegamenti con la vita e le opere di Ovidio. 
  • Dovrete portare i lavori assegnati per mercoledì 22, SCRITTI A MANO su foglio protocollo: la traduzione su modello (che dovrete saper riprodurre a voce, rispondendo a domande di analisi morfosintattica) dei versi 636-646, il commento con citazioni (dei versi 619-646) e il focus (3 lavori).

Il finale del I libro - traduzione

Da lei [si tratta di Io, protagonista dell'episodio immediatamente precedente a questo] si crede che, fecondata dal grande Giove, sia nato Èpafo, che in diverse città ha santuari insieme alla madre. Pari a lui per fierezza ed anni era Fetonte, il figlio del Sole; e un giorno che questi, orgoglioso d'avere Febo come padre, si vantava d'essergli superiore, il nipote d'Inaco [Epafo, appunto] non lo tollerò: «Sciocco,» gli disse, «in tutto tu credi a tua madre e vai superbo di un padre immaginario». Avvampò Fetonte, e pieno di vergogna represse l'ira, riferendo alla madre, Clìmene, quella calunnia; disse: «E a tuo maggior dolore, madre mia, io che sono così impulsivo, così fiero, m'imposi di tacere: non sopporto che qualcuno abbia potuto insultarmi così, senza che potessi ribattere! Ma tu, se è vero che discendo da stirpe celeste, dammi prova di questi natali illustri e rivendicami al cielo». Disse e intorno al collo della madre cinse le braccia, scongiurandola, per il suo e il capo di Mèrope, per le nozze delle sorelle, di dargli testimonianza del suo vero padre. Non si sa se spinta dalle preghiere di Fetonte o più dall'ira per l'accusa rivoltale, Clìmene levò al cielo entrambe le braccia e fissando la luce del Sole: «Per questo fulgore splendido di raggi abbaglianti,» disse, «che ci vede e ci ascolta, io ti giuro, figliolo, che tu sei nato da questo Sole che contempli e che regola la vita in terra. Se ciò che dico è menzogna, mai più mi consenta di guardarlo e sia questa luce l'ultima per i miei occhi! Del resto non ti sarà fatica trovare la casa paterna: la terra in cui risiede confina con la nostra, là dove sorge. Se questo hai in animo, va' e chiedi a lui stesso». Balza lieto Fetonte alle parole della madre e, tutto preso dall'idea del cielo, lascia la terra dei suoi Etiopi, attraversa l'India che si stende sotto la vampa del sole, e di slancio arriva dove sorge il padre.

SINTESI DEL II LIBRO

Fetonte ottiene da suo padre, il Sole, di poter guidare il suo carro lungo la volta celeste, ma non riesce a indirizzare i cavalli per la via consueta, provocando gravi danni all’universo, finché Giove non lo colpisce con il fulmine e lo fa precipitare nell’Eridano. – Le sorelle di Fetonte, le Eliadi, sono trasformate per il dolore in pioppi. – Cicno mutato in cigno per la perdita dell’amato Fetonte. – La ninfa Callisto, compagna di Diana, sedotta da Giove è mutata in orsa e poi in costellazione celeste. – Il corvo da bianco diventa nero. – La figlia di Coroneo mutata in cornacchia, Nictìmene in gufo, Ociroe in cavalla. – Batto, per aver ingannato Mercurio, è trasformato in roccia. – Aglauro, figlia di Cecrope, è mutata in statua da Mercurio. – Ratto di Europa per opera di Giove. 

Fetonte alla reggia del Sole (traduzione)

La reggia del Sole si levava su alte colonne, splendente per il luccichio dell’oro e per il piropo dal colore del fuoco; il suo alto frontone era coperto di candido avorio, mentre sulle due ante della porta brillava il rilucente argento. Il lavoro artistico era superiore alla ricchezza della materia; infatti, Vulcano vi aveva intarsiato i mari che cingono le terre e il globo terrestre e il cielo che si stende su di esso. Nelle onde si vedono gli dèi marini, il Tritone che suona la sua conchiglia e Proteo multiforme e Egéone che stringe con le sue braccia 10 le smisurate terga di una balena e Doride e le figlie, una parte delle quali par che nuoti mentre un’altra che se ne stia su uno scoglio ad asciugarsi i capelli verdi; altre ancora trasportate dai pesci; non uguale la sembianza per tutte, tuttavia non diversa, come è proprio di un gruppo di sorelle. La terraferma mostra uomini e città e selve e fiere, fiumi e ninfe, 15 nonché tutte le divinità rurali. Su tutto ciò fu raffigurato il cielo splendente e sei costellazioni sul battente di destra e altrettante su quello di sinistra.

La fine della pazza corsa e la morte di Fetonte (traduzione)

Ma l'onnipotente Giove, chiamati come  testimoni gli dei e lo stesso che aveva concesso il carro, per dire che se non fosse intervenuto tutto quanto sarebbe stato distrutto, raggiunge la sommità del cielo, da cui suole mandare nubi sulla terra, far prorompere i tuoni e scagliare folgori. Ma lì non trova nubi e nemmeno piogge, allora si mette a tuonare e calibra un fulmine da mandare contro l'auriga e contemporaneamente lo priva del carro e della vita, fuoco che sbaraglia fuoco. I cavalli imbizzariscono, s'impennano, si liberano dal giogo , strappano e abbandonano le briglie. I morsi cadono nel vuoto, cade l'asse divelto dal timone, a pezzi le ruote e i relitti del cocchio sparsi ovunque. Quanto a Fetonte, capelli in fiamme, precipita attraverso l'aria come una stella cadente può sembrare staccarsi dalla volta celeste, anche se così non è. E ad accoglierlo lontano dalla sua patria, nell'altro emisfero, il Po offre lavacro al suo volto ustionato. Le Naiadi dell'Esperia accolgono in una fossa il corpo bruciato e incidono sulla pietra questi versi: giace qui Fetonte, auriga del carro paterno, che se non fu capace di governarlo osò tanto, tuttavia, e ne morì. Quanto al padre, preda di dolore infinito, si coprì il volto e, se solo riusciamo a crederci, narrano che sia trascorso un giorno intero senza luce del sole: solo gli incendi illuminavano, (come accade che una catastrofe serva a qualcosa). Climene, data espressione a tutto quel che si dice in disgrazie del genere, disperata e folle, dilaniandosi il petto, percorre il globo alla ricerca del cadavere, poi dello scheletro, e trova le ossa sepolte in terra straniera, si getta a terra, bagna di lacrime il nome del figlio inciso su pietra e gli offre il petto che lo  nutrì. 

LIBRO VI: FILOMELA E PROCNE

Nel libro VI delle Metamorfosi di Ovidio si trova il mito di Procne, Tereo e Filomela, i cui temi conduttori sono tradimento e vendetta.  Dopo una sintesi della vicenda nel suo insieme, riporto la parte conclusiva dell'episodio, vv. 571-674,   nella traduzione di G. Paduano (Zanichelli) e il testo ovidiano relativo al massacro di Iti da parte di Procne e Filomela.

Procne, figlia di Pandione re di Atene, sposa Tereo, re di Tracia. Procne ha nostalgia di sua sorella Filomela, e prega il marito di andare a prenderla ad Atene. Ma Tereo si innamora della cognata e la violenta; poi per assicurarsi il suo silenzio le taglia la lingua. A un anno di distanza dall'evento,  Filomela è prigioniera ed è stata resa muta. Escogita allora una trovata:   ricama su una tela  la violenza che ha subito. Un’ancella consegna la tela a Procne, che vi legge quanto è accaduto, come in un libro. Allora Procne si reca alla capanna dove è custodita Filomela e la porta via con sé. Le due sorelle sono pronte alla vendetta, e l’arrivo di Iti imprime la svolta decisiva alla vicenda. È molto patetica l’uccisione del bambino che rivolge a Procne l’appellativo di madre e tende le braccia verso di lei. Procne non ha nessuna esitazione e non distoglie nemmeno lo sguardo. Poi è Filomela a colpire. Le carni di Iti vengono imbandite a Tereo, che mangia da solo, senza servi né amici. Dopo la terribile rivelazione, Tereo si lancia all’inseguimento delle due donne, e tutti e tre vengono trasformati in uccelli. Secondo la tradizione greca, Procne diventa l’usignolo che lamenta l’uccisione del figlio Iti, mentre Filomela si trasforma nella rondine che con la lingua tagliata può emettere soltanto un balbettio. Nella letteratura latina tuttavia è il contrario: Filomela è l’usignolo e Procne la rondine. Secondo una versione più antica ma meno diffusa, Tereo si trasforma in falco proprio nel momento in cui si scaglia contro le due sorelle per ucciderle con la spada. Qui invece si trasforma in un’upupa. 

Come Filomela capì d’essere entrata nella casa nefanda, inorridì e impallidì in tutto il volto:  Procne, trovato un posto per togliersi l’arredo sacro, svelò il volto pudico dell’infelice sorella   e cercò d’abbracciarla, ma Filomela non riusciva ad alzare gli occhi sulla sorella che le sembrava d’avere tradita; col volto chino a terra, voleva giurare e chiamare a testimoni gli dei che il suo disonore era stato forzato; usò la mano al posto della voce, ma Procne,   ardente d’ira incontenibile, fece cessare il pianto della sorella dicendo: “Non con le lacrime, col ferro bisogna agire, o se c’è qualcosa di peggio. Io sono pronta, sorella, a qualunque delitto, a dare fuoco con le fiaccole al palazzo reale,   e gettare in mezzo alle fiamme il colpevole Tereo, o a strappargli la lingua, gli occhi, gli organi che ti hanno tolto l’onore, o a cacciar via la sua sporca anima con mille ferite; qualunque sia il fatto a cui sono pronta, è qualcosa di grande. Cosa, non lo so ancora ”. E mentre Procne   così diceva, Iti le venne incontro. Da lui capì che cosa poteva fare e, guardandolo con occhi feroci, gli disse: “Quanto somigli a tuo padre!”, e niente più, ma, ribollendo di tacita collera, preparava un atroce delitto. Quando il figlio corse da lei e le diede   il suo saluto e le cinse il collo con le piccole braccia, e la baciò insieme ad altre moine infantili, la madre fu commossa e la sua ira si infranse: gli occhi le si riempirono di lacrime involontarie. Ma quando sentì la mente vacillarle sotto l’eccesso   della pietà, stornò gli occhi da lui verso la sorella e, guardando ora l’uno ora l’altra: “Perché, disse, l’uno può commuovere con i suoi vezzi, e l’altra è muta, con la lingua strappata? Perché l’uno mi chiama mamma e l’altra non può chiamarmi sorella? Considera, figlia di Pandione, chi hai sposato: non tralignare con un marito come Tereo, la pietà è un delitto! ”. E senza indugiare trascina via Iti come una tigre del Gange trascina una cerva lattante per i boschi , e quando furono giunti a una stanza segreta, Procne colpì con la spada il bambino che le tendeva le mani   e chiamava “Mamma!”, vedendo già il suo destino, e l’abbracciava. Lo ferì dove il petto confina col fianco e non distolse gli occhi; a lui un colpo solo bastava per morire, ma Filomela lo colpì anche alla gola, e dilaniarono le membra ancora vive che avevano   un po’ di respiro. Una parte bollì nei crateri di bronzo, una parte cigolò sugli spiedi; la casa gronda di sangue. A questa mensa Procne invita l’ignaro Tereo, fingendo che fosse un rito attico, a cui soltanto il marito può stare, e con questo allontanò servi ed amici.   Tereo, sedendo in alto sul trono degli avi, mangia e introduce nel ventre le proprie viscere; tanta è la sua cecità che grida: “Chiamate Iti!”. Ma Procne non può dissimulare la sua gioia crudele e, volendo essere messaggera della sua strage,   dice: “L’hai dentro quello che chiedi”. Tereo si guarda attorno, chiede dov’è, e mentre chiede e torna a chiamare, Filomela, com’era, con i capelli bagnati dalla folle strage, balzò fuori e gettò in faccia al padre la testa insanguinata di Iti; più che in ogni altro momento avrebbe voluto   parlare e attestare la gioia con parole adeguate. Con un grido immenso Tereo respinse la tavola, invocò dallo Stige le serpi sorelle e voleva, se avesse potuto, aprirsi il petto ed espellere l’orribile cena, rigettare le viscere.   Chiama se stesso miserabile tomba del figlio, poi con la spada sguainata insegue le figlie di Pandione. Si sarebbe pensato che avevano ali, e le avevano infatti: l’una fuggì nel bosco, l’altra sotto il tetto; dal loro petto non è scomparsa   l’impronta della strage: le penne sono macchiate di sangue. E anche lui, così rapido per il dolore e la volontà di vendetta, diventò l’uccello che ha in cima una cresta, un becco spropositato al posto della lunga spada: il suo nome è upupa, e il suo aspetto è guerriero.

Peragit dum talia Procne,

ad matrem veniebat Itys; quid possit, ab illo                             620

admonita est oculisque tuens inmitibus 'a! quam

es similis patri!' dixit nec plura locuta

triste parat facinus tacitaque exaestuat ira.

Ut tamen accessit natus matrique salutem

attulit et parvis adduxit colla lacertis                                         625

mixtaque blanditiis puerilibus oscula iunxit,

mota quidem est genetrix, infractaque constitit ira

invitique oculi lacrimis maduere coactis;

sed simul ex nimia mentem pietate labare

sensit, ab hoc iterum est ad vultus versa sororis                        630

inque vicem spectans ambos 'cur admovet' inquit

'alter blanditias, rapta silet altera lingua?

quam vocat hic matrem, cur non vocat illa sororem?

cui sis nupta, vide, Pandione nata, marito!

degeneras! scelus est pietas in coniuge Tereo.'                         635

Nec mora, traxit Ityn, veluti Gangetica cervae

lactentem fetum per silvas tigris opacas,

utque domus altae partem tenuere remotam,

tendentemque manus et iam sua fata videntem

et 'mater! mater!' clamantem et colla petentem                         640

ense ferit Procne, lateri qua pectus adhaeret,

nec vultum vertit. Satis illi ad fata vel unum

vulnus erat: iugulum ferro Philomela resolvit,

vivaque adhuc animaeque aliquid retinentia membra

dilaniant. Pars inde cavis exsultat aenis,                                   645

pars veribus stridunt; manant penetralia tabo.

TRADUZIONE DI CB

Mentre Procne parla così, arriva Iti. Ed è lui a ispirarla, mentre lo guarda con occhi implacabili: quanto è simile al padre! Non si perde in parole, la collera è muta, e lei prepara l'azione nefanda. Eppure, tuttavia, il saluto del bambino, che con le sue piccole braccia, con i baci e le movenze infantili l'accoglie, infrange la corazza della madre, induce al pianto, loro malgrado,  i suoi occhi. Ma non appena si rese conto di essere sopraffatta dalla pena, guardò la sorella, e poi l'uno di nuovo e poi l'altra, ed esclamò "perché lui può blandirmi coi suoi vezzi, mentre lei, dalla lingua mozzata, può solo tacere? E lui mi chiama madre, mentre lei non può dirmi sorella? Pensa a chi hai sposato, figlia di Pandione! Non lasciarti fuorviare: con un marito come Tereo, la pietà è delittuosa. 

----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------CICERONE

  • Gli appunti della lezione, di cui riporto nuovamente sotto la sintesi per punti
  • La mia rielaborazione da Treccani
SINTESI PER PUNTI DELLA LEZIONE INTRODUTTIVA SU CICERONE

  • Cicerone fu un uomo che si sentì chiamato a svolgere compiti altissimi e che diede ampia testimonianza di questo attraverso la scrittura.
  •  Due le linee direttive esistenziali: azione politica e azione culturale (negotium e otium)

• La società del suo tempo è travagliata da tensioni politiche tanto gravi da sfociare in guerra civile (Cesare, Pompeo, Cicerone salvatore della patria).

• Homo novus, privo di nobili ascendenze, scelse quale avo spirituale Scipione Emiliano e il suo circolo di illuminati (definizione del patriottismo romano e elaborazione di un progetto culturale comune inteso a supportare l’ascesa politica di Roma e la sua crescita imperialistica).

• Filoellenico eppure conservatore, ammiratore soprattutto dei Greci d’un tempo e non, com’egli stesso precisava, degli scaltri “grecuncoli” moderni.

• Profondamente influenzato dalla dottrina dell’Accademico Filone di Larissa, interiorizzò l’idea che fosse necessario ascoltare tutti i punti di vista in un dibattito prima di formulare una tesi.

• Poiché asseriva l’impossibilità di conoscere alcunché di certo, deplorava ogni forma di dogmatismo e ribadiva la provvisorietà di qualsiasi conclusione.

• Eclettico e non sistematico, importanza della discussione e dell’energia logica della tesi: nei suoi scritti utilizza la prassi retorica di dibattere entrambi gli aspetti di una questione, secondo i precetti di Aristotele.

• Biasimando i valori di tipo utilitaristico, Cicerone nota con sarcasmo che, se per gli Ateniesi avere sulla testa un tetto a tenuta d’acqua era sicuramente più importante che possedere statue eburnee di Atena. Preferirebbe essere Fidia anziché un carpentiere esperto.

• Nel Somnium Scipionis, scritto in un momento in cui la sua figura di statista era in declino, mette in bocca a Scipione l’Africano la rivelazione che nel cielo ci sia un posto riservato ai benefattori della patria, includendo fra questi non solo gli uomini d’azione ma anche, particolare degno di rilievo per un Romano, coloro che hanno consacrato il loro ingegno ad attività intellettuali.

• Per l’edificazione di quello che concepiva come “uomo completo” propose uno schema di istruzione liberale che non aveva precedenti, politior humanitas, essendo il termine humanus centrale in tutta la sua elaborazione intellettuale.

• In campo filosofico era un moralista con una certa tensione per la trascendenza, ovviamente attratto principalmente dallo stoicismo (conobbe Posidonio e Diodoto).

• Appassionato bibliofilo, possedeva anche un senso storico eccezionale.

• Talora Cicerone venne comunque a patti coi propri principii: in politica era incapace di comprendere i punti di vista degli avversari e dogmatico nel formulare i propri.


DA TRECCANI, Vita e opere di Cicerone rivisto e con tagli

Cicerone è originario di Arpino, in Sabina, dove nasce nel 106 a. C. da  agiata famiglia equestre. A Roma riceve un’istruzione adeguata al suo status: maestri di diritto i due Scevola, l'augure e il pontefice, di  filosofia l'accademico Filone di Larissa e lo stoico Diodoto, di eloquenza Apollonio Molone di Rodi. Il primo impegno forense risale all'81 a. C., mentre entra nell'attività politica nell'80 con la difesa di Sesto Roscio Amerino: l’orazione s’intitola Pro Roscio Amerino, e il suo patrocinato è accusato di parricidio per un intrigo a sfondo politico che faceva capo a Crisogono, liberto di Silla. Dopo la vittoria in foro, Cicerone, forse temendo una vendetta da parte di quest’ultimo, compie  un viaggio in Grecia e in Asia. Al suo ritorno ha inizio la sua carriera politica, con un incarico di questore (primo gradino del cursus honorum)  per la Sicilia occidentale, nel 75. I Siciliani sono talmente soddisfatti di lui, che lo scelgono come loro patrono nella causa intentata contro Verre, protetto da amicizie potenti dell’oligarchia romana. Cicerone conduce un’inchiesta nei confronti di Verre, i cui risultati sono esposti nelle orazioni, accorpate e  intitolate Actio I in Verrem e Actio II in Verrem: gli basta tuttavia pronunciare solo l’Actio I per indurre  Verre a recarsi volontariamente in esilio. Edile curule nel 69, pretore nel 66, sostiene la legge che conferisce a Pompeo il comando (Pro lege Manilia o De imperio Cnei Pompei) della guerra contro Mitridate, perché, sebbene incostituzionale, risponde alle necessità del momento. Il 63 è l’anno del consolato: Cicerone si oppone alla legge agraria di Servilio Rullo, difendendo Gaio Rabirio, sventa  prima il tentativo di Catilina di giungere al potere per vie legali, per poi reprimere quello di conseguirlo con la violenza. La congiura, nella quale sono sicuramente implicati personaggi come Crasso e Cesare, è scoperta e soffocata nel sangue, anche per via di metodi illegali. Gli eventi lo conducono quindi a avvicinarsi, tra i conservatori, in particolare  a Pompeo. Inviso a Cesare,  questi si sbarazza di lui provocandone l'esilio nel 58 con la rogatio di Clodio (atto illegale in quanto retroattivo), perché Cicerone  aveva fatto giustiziare dei cittadini romani senza regolare processo, durante il consolato e sempre in relazione agli eventi della congiura di Catilina. Resta in esilio un anno, tornando a Roma in un periodo di gravi torbidi, causati in particolare dalle squadre contrapposte di Milone e di Clodio, acerrimo nemico dell’oratore. La posizione di Cicerone, in questo periodo, si può riassumere così: suggerisce agli ottimati di non favorire un avvicinamento di Pompeo a Cesare, come si può evincere dal De haruspicum responso, ma è costretto a assecondare invece le intenzioni dei triunviri, come risulta dall’orazione De provinciis consularibus. Allontanatosi dalla vita politca, nell’otium scrive il  De oratore e il De republica. Dopo l'uccisione di Clodio e il conseguente processo contro Milone, Cicerone non può, per lo spiegamento di forze operato da Pompeo, pronunziare in difesa di lui l'orazione che pubblica più tardi. Nel 51 è inviato come  proconsole in Cilicia, dove per un piccolo successo militare è proclamato imperator.  Per quanto riguarda la guerra civile ormai imminente,  Cicerone  si adopera vanamente per scongiurarla, e dopo lungo tergiversare si schiera dalla parte di Pompeo; dopo Farsalo (nel 48) si riaccosta a Cesare, accettandone la vittoria, e tributando persino qualche elogio al dittatore (nel Brutus e nel Pro Marcello). È un periodo particolarmente tormentato della sua vita:  alle angustie politiche si aggiungono quelle familiari, ovvero nel 47 il divorzio da Terenzia, nel 45 la morte della figlia Tullia, e poco dopo il divorzio dalla seconda moglie, la giovane Publilia. Cicerone cerca rifugio negli studî (sono di questo tempo le principali sue opere filosofiche). Poi, ucciso Cesare alle idi di marzo del 44 e aggravatasi in Roma la situazione pur dopo la riconquistata libertà,  abbandona la città dove torna alla fine di agosto. Contro Antonio, che mostra di voler succedere a Cesare, scaglia le 14 Filippiche, organizza la lotta di una parte degli ottimati contro di lui,  e sostiene perfino Ottaviano. Formatosi però il secondo  triumvirato,  Cicerone viene lasciato  da Ottaviano alla vendetta di Antonio, diventando il primo dei proscritti: nel 43 i sicarî di Antonio lo raggiungono nelle vicinanze della sua villa di Formia: mozzatagli la testa e le mani, le espongono, per volontà del mandante,  appese ai  rostra del foro.

Opere

Orazioni: le orazioni giunte a noi sono 58, mentre abbiamo notizie di altre 48 con frammenti di 17 di esse. Si tratta sia di orazioni forensi, ovvero di difesa di persone, sia politiche o commiste di entrambe le caratteristiche.

Opere di oratoria: il trattato De inventione (o Rhetorici libri), in due libri, composto nell'82-81 era un completo trattato di  retorica, ma Cicerone nel comporlo si fermò alla prima parte, la cosiddetta inventio, alla quale dovevano seguire dispositio, elocutio, memoria, pronuntiatio. Il De oratore, in 3 libri, dialogo fra gli oratori Antonio, Crasso, Scevola, Cesare Strabone, che tratta, in modo originale, della scienza o dottrina necessaria all'oratore, dell'invenzione e della disposizione, e dello stile. Il Brutus, del 46, contiene la storia dell'eloquenza romana.,  l’Orator, sempre del 46, presenta un ritratto dell'oratore perfetto.

Lettere: la corrispondenza di Cicerone comprende 864 lettere (di cui 90 indirizzate a lui) in 4 raccolte: Epistulae, dette Ad familiares, in 16 libri, dal 62 al 43; Ad Atticum, dal 68 al 44, in 16 libri; sono le più utili a documentare  i retroscena della politica e della società romana del suo tempo; Ad Quintum fratrem, in 3 libri, dal 60 al 54 (29 lettere): Ad Brutum, in 2 libri, del 43. Le lettere ad Attico furono pubblicate da Attico stesso nel 33, le altre dopo la morte di Cicerone forse dal liberto Tirone.

Opere filosofiche: ad eccezione del De officiis sono tutte in forma dialogica. Cicerone  rivela una sostanziale adesione al platonismo e allo  stoicismo e un chiaro rifiuto dell'epicureismo. Nella prima di esse, il De republica (iniziata nel 54 e, dopo varî rimaneggiamenti, compiuta nel 51), C. si occupa dello Stato e della migliore forma di governo. Le dottrine platoniche e aristoteliche, che ne forniscono lo spunto, vengono rielaborate in funzione della situazione di fatto e della realtà romane e si risolvono nella concezione che la forma mista di governo (monarchia, oligarchia e democrazia) sia la migliore. Il 6° libro dell'opera, il cosiddetto Somnium Scipionis, che espone la dottrina dell’immortalità dell’anima, ha avuto enorme fortuna. Al De republica seguì il De legibus, che ora si tende a considerare come l'ultima opera di Cicerone, composta verso la fine del 44, a illustrare l'estrema difesa della legalità contro Antonio. Ancora nel 45 C. passò all'approfondimento del problema etico nei 5 libri del De finibus bonorum et malorum. Sulla fine del 45, mentre attendeva al Timaeus, libera traduzione dell'omonimo dialogo platonico, di cui ci sono giunti frammenti con l'introduzione, si volse a comporre le Tusculanae disputationes,  5 libri di dialoghi nei quali, fondendo insieme posizioni socratiche, platoniche e stoiche, tratta del problema della felicità, e il De natura deorum, in tre libri. Al principio del 44 compose il Cato Maior de senectute; dopo la morte di Cesare pubblica il De divinatione, in 2 libri, dialogo fra Cicerone e il fratello Quinto sulla mantica, nel quale Cicerone finisce con il sostenere  la tesi della duplicità della religione, ufficiale e popolare da un lato, interiore e colta, dall'altro; poco tempo dopo sempre nel 44, scrisse il De fato dedicato  Aulo Irzio, pervenutoci incompleto, complementare, come il dialogo precedente, al De natura deorum, nel quale si dibatte la questione del contrasto fra destino e libero arbitrio. Ancora del 44 è l'operetta Laelius de amicitia. L'ultima opera filosofica di Cicerone, e la più famosa, è il De officiis, trattato di forma espositiva indirizzato al figlio, intorno ai doveri morali.

Altre opere:  nel 45, morta la figlia Tullia, compone il De consolatione, di cui sono rimasti pochi frammenti, poi l'Hortensius (in memoria del grande oratore Q. Ortensio Ortalo), per noi perduto, specie d'introduzione ed esortazione allo studio della filosofia, la cui lettura volse sant'Agostino (che lo scrive nelle sue Confessiones) alla filosofia.

          Come filosofo Cicerone non è originale: precisamente è un eclettico, che, applicando il criterio logico degli Accademici, la verisimiglianza o probabilità (e probabile gli sembra tutto ciò che ha conferma nel senso comune o consenso delle genti, spiegato con la presenza in tutti gli uomini di nozioni innate), sceglie e riunisce temi e concetti della filosofia greca. Ma in questo eclettismo, determinato sempre meglio nel suo significato positivo della ricerca delle fonti greche di Cicerone, consiste la grandezza della sua opera: si tratta precisamente di un’assimilazione della cultura greca, che continuava un indirizzo già avviato nel circolo di Scipione Emiliano nel II secolo a.C., ma si cimentava a quel punto in un campo pressoché nuovo (unico antecedente notevole il De rerum natura di Lucrezio), per il quale occorreva creare perfino il mezzo di espressione, ovvero appunto il linguaggio filosofico.

          Lo stile di Cicerone, particolarmente quello delle orazioni e dei trattati (le lettere sono soprattutto per noi moderni un  esempio del sermo familiaris latino), divenne ben presto esemplare; sicché a Quintiliano, nella seconda metà del I secolo d. C.,  sembrava riprovevole l'ardire di Seneca che volutamente s'era allontanato dai  canoni ciceroniani di simmetria e sonorità; molti tra gli autori cristiani (Girolamo sopra tutti) modellarono la loro prosa sull'esempio ciceroniano, che influì poi per questo tramite sulle artes dictandi del Medioevo. Anche maggiore l'influsso di Cicerone sullo stile degli umanisti.

 

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