SECONDO LAVORO DI GRUPPO: VIRGILIO (MATERIALI DA RIORDINARE)
Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet
nunc Parthenope; cecini pascua, rura, duces.
70 a. C. Andes, Brindisi 19 a. C. La vita degli esseri umani si può riassumere in tanti modi, ma l'incrocio di luoghi e di date è la forma più comune, la più originaria, quella degli epitaffi che la pietà dei sopravvissuti induce a lasciare come omaggio alla memoria. I luoghi sono importanti tanto quanto le date: sono impronte che ci determinano, variabili del destino, dalle quali nessuno può prescindere e che, nel caso di vite che si vogliono ricordare perché vissute da persone che hanno lasciato messaggi nel tempo, si possono manifestare come alimenti costanti, talora determinanti, dell'ispirazione artistica. Di Andes, luogo di nascita di Virgilio nel 70 a. C., sappiamo che all'epoca faceva parte della Gallia Cisalpina, o Gallia Citeriore (confini: Alpi a ponente e settentrione, Adige a levante, Rubicone a sud; conquistata dai Romani a cavallo tra III e II secolo a.C.) e che si situava a qualche chilometro da Mantova: è poi la testimonianza di Dante (Divina commedia, Purgatorio, XVIII, 83 "E quell’ombra gentil per cui si noma/Pietola più che villa mantoana,/del mio carcar diposta avea la soma") ad avere avallato nei secoli l'identificazione del piccolo centro cisalpino con la tutt'oggi esistente Pietole.
La pianura Padana, dunque, con i suoi vapori e le sue distese di campi bruni, gli alberi che si ergono solitari o sono disposti in filari più o meno regolari, le strade che conducono da qualche parte e quelle che sembrano esistere a tempo determinato, per consentire il passaggio dei contadini con i loro mezzi di lavoro, ma non per sempre. Qualcosa della pianura che appartenne all'esperienza di Virgilio si può palesare ancora oggi, a chi voglia compiere l'esperienza di una passeggiata in quei luoghi, ma sono soprattutto alcune opere virgiliane a dircene, a trasmetterci il sentimento di quel paesaggio, con quanto di realistico e immaginativo concorre alla sua fissazione nel tempo e alla sua trasmissione. Quanto a Brindisi, si trova a essere il luogo della morte di Virgilio per una casualità: il poeta, di ritorno da un viaggio in Grecia, si ammalò già sulla nave e, appena sbarcato, trovò ricovero in un palazzo di Augusto nella città pugliese dove morì dopo pochi giorni, chiedendo insistentemente ai due amici che lo assistevano di dare alle fiamme l' Eneide. Insoddisfatto del risultato, pungolato da un desiderio di perfezione, non voleva che uno scritto che riteneva di non essere ancora riuscito a completare diventasse il suo monumento. Capitolò. Narrano le cronache, che fu per un baratto: Ottaviano gli promise che, in cambio della pubblicazione, avrebbe liberato tutti i suoi schiavi. Non dico altro, perché anche solo il pensiero gli fa onore.
Il Virgilio morente è stato evocato, nel tempo, con straordinaria e allucinata inventiva, dallo scrittore tedesco Hermann Broch, che nel 1945, chiuso in una cella delle prigioni naziste da cui pensava non sarebbe mai uscito, scrisse un romanzo dal titolo La morte di Virgilio, di cui riporto l'incipit:
Il Virgilio morente è stato evocato, nel tempo, con straordinaria e allucinata inventiva, dallo scrittore tedesco Hermann Broch, che nel 1945, chiuso in una cella delle prigioni naziste da cui pensava non sarebbe mai uscito, scrisse un romanzo dal titolo La morte di Virgilio, di cui riporto l'incipit:
Oppresso dal mal di mare, che minacciando costantemente di insorgere lo teneva in continua tensione, per tutto il giorno non aveva osato muoversi, per quanto ora, anche se legato al giaciglio che gli avevano eretto in mezzo alla nave, egli avvertisse se stesso o più precisamente il suo corpo e la vita del suo corpo che già da molti anni a stento riusciva a riconoscere come sua propria, come una sola cieca ricerca e un solo assaporar la memoria di quel sollievo che, improvvisamente, come in un fiotto, gli aveva percorso le membra, allorché la nave aveva raggiunto il tratto di mare più calmo vicino alla costa; e questa fluente, quieta ed acquietante stanchezza lo avrebbe forse colmato di una felicità addirittura perfetta se, nonostante l'aria salubre e corroborante del mare, non fosse ritornato il tormento della tosse, lo spossamento della febbre d'ogni sera, l'affanno di ogni sera. Così giaceva, lui, il poeta dell'Eneide, lui, Publio Virgilio Marone, giaceva con diminuita coscienza, quasi umiliato per la sua impotenza, quasi esasperato per il suo destino, fissando la ricurva, perlacea conchiglia del cielo: ma perché aveva ceduto alle pressioni di Augusto? Perché aveva lasciato Atene? svanita era ormai la speranza e il sacro e ridente cielo di Omero potesse, propizio, favorire il compimento dell'Eneide, svanita ogni speranza di quella vita immensamente nuova che sarebbe dovuta seguire, una vita distaccata dall'arte, libera dalla poesia, rivolta al pensiero e alla scienza nella città di Platone, svanita la speranza di poter mai riporre il piede sulla terra di Ionia, svanita, ahimè, svanita la speranza di poter essere partecipe del miracolo della conoscenza, di poter risanare nella conoscenza. Perché vi aveva rinunciato? Di sua volontà? No! era stato come un comando delle ineluttabili forze della vita, delle ineluttabili forze del destino, che mai compiutamente dileguano.
La morte di Virgilio ricorre in questo mio discorso iniziale. Ma non deve risultare un'idea oscura. Al contrario, si tratta di un'idea luminosa, che brilla d'una luce incendiaria. Virgilio infatti voleva le fiamme per la sua opera. Non ne era soddisfatto e avrebbe voluto che scomparisse. Si esprime, in questa intenzione distruttiva, una volontà di potenza, una tensione perfezionista. Il poeta avrebbe voluto che il mondo conoscesse la sua opera perfetta, non un poema che riteneva incompiuto e del quale non era completamente soddisfatto.
Paradossi dell'arte: Virgilio è diventato, a dispetto di questa insoddisfazione personale, l'icona della perfezione classica. La sua Eneide non è un poema ma il poema. Quello con il quale il mondo latino, tra le altre cose, è riuscito a mettersi sullo stesso piano di quello greco, col suo Omero redivivo, con la sua epopea del mos, con la sua glorificazione del epos. Ma non solo per il mondo latino Virgilio è stato il classico. Anche per il Medioevo, per l'Umanesimo, per il Rinascimento. E anche per noi. Perché Virgilio è riuscito a dare alla sua opera un'ispirazione universale, che tuttora, se siamo intenzionati a metterci in ascolto profondo, possiamo percepire. Lo scopo fondamentale del mio percorso attraverso l'opera virgiliana sarà questo. Farvi sentire la voce universale del poeta che Dante scelse come propria guida. Di più, come maestro, di più come amico di là dagli abissi che il tempo sa scavare. Virgilio amico maestro e portatore di luce. La fiamma che avrebbe voluto cancellasse il poema da lui concepito è una luce inestinguibile di cui, tra gli altri, Dante a distanza di secoli percepì la potenza. E per questo lo scelse come propria guida nell'inferno e nel purgatorio, tessendo la storia di un'amicizia meravigliosa in grado di vincere, appunto, l'insidia del tempo.
Ora, dopo questa introduzione soprattutto suggestiva, passo in rassegna l'opera di Virgilio, per prepararvi a contenuti dell'Eneide che conosceremo attraverso la lettura.
Paradossi dell'arte: Virgilio è diventato, a dispetto di questa insoddisfazione personale, l'icona della perfezione classica. La sua Eneide non è un poema ma il poema. Quello con il quale il mondo latino, tra le altre cose, è riuscito a mettersi sullo stesso piano di quello greco, col suo Omero redivivo, con la sua epopea del mos, con la sua glorificazione del epos. Ma non solo per il mondo latino Virgilio è stato il classico. Anche per il Medioevo, per l'Umanesimo, per il Rinascimento. E anche per noi. Perché Virgilio è riuscito a dare alla sua opera un'ispirazione universale, che tuttora, se siamo intenzionati a metterci in ascolto profondo, possiamo percepire. Lo scopo fondamentale del mio percorso attraverso l'opera virgiliana sarà questo. Farvi sentire la voce universale del poeta che Dante scelse come propria guida. Di più, come maestro, di più come amico di là dagli abissi che il tempo sa scavare. Virgilio amico maestro e portatore di luce. La fiamma che avrebbe voluto cancellasse il poema da lui concepito è una luce inestinguibile di cui, tra gli altri, Dante a distanza di secoli percepì la potenza. E per questo lo scelse come propria guida nell'inferno e nel purgatorio, tessendo la storia di un'amicizia meravigliosa in grado di vincere, appunto, l'insidia del tempo.
Ora, dopo questa introduzione soprattutto suggestiva, passo in rassegna l'opera di Virgilio, per prepararvi a contenuti dell'Eneide che conosceremo attraverso la lettura.
l Iniziamo dal concetto di classico: esso è equilibrio e armonia, occhio rivolto alla forma e al contenuto senza soluzione di continuità, come fossero fatti della stessa sostanza e non potessero andare disgiunti. Il classico è l'apollineo, che nasce dalla luce, ma non teme le tenebre, è innamorato della compostezza ma sa che anche lei è debitrice nei confronti del caos.
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· Il primo testo di Virgilio, che pratica il classico fin dai suoi primi esordi letterari, sono le Bucoliche, composte di sicuro fra il 42 e il 39 a. C. (frequenti i riferimenti alle confische di territori a favore dei veterani della vittoria di Filippi del 42). Subito dopo la pubblicazione delle Bucoliche Virgilio entra nel circolo di Mecenate. Inizia quindi a scrivere le Georgiche, a cui lavora a lungo, completandole nel 29 (ad Atella, in Campania, Ottaviano reduce dalla battaglia di Azio si fa leggere il poema da Virgilio).
· Da quel momento il poeta si dedica alla scrittura dell’Eneide, pubblicata dopo la morte di Virgilio, per volontà di Augusto, che ordina a Vario Rufo di curarne l’edizione.
· Bucolica carmina, sono parole di origine greca che significano canti dei bovari. Il modello è Teocrito, poeta alessandrino siciliano del III secolo, inventore del genere idillico.
· Virgilio trasforma Teocrito accentuando gli elementi di stilizzazione e idealizzazione della resa del paesaggio. Nel contempo introduce anche elementi realistici (la Storia, in particolare i sanguinosi eventi delle guerre civili).
· La I e la IX ecloga, in effetti, sembrano proprio riflettere il dramma delle espropriazioni, nonché un’esperienza autobiografica vissuta da Virgilio.
· Nella IV ecloga, come annuncia l’esordio (paulo maiora canamus) il poeta si solleva oltre la sfera pastorale per cantare un grande evento (una gara interpretativa in merito alla IV ecloga ha riguardato, nei secoli, l’identificazione del puer misterioso che il poeta qui evoca). Probabilmente essa è l’espressione di una poesia visionaria, pervasa di spirito oracolare e tradotta in un linguaggio vagamente oscuro. L'idea dominante nelle Bucoliche si può riassumere nel concetto della Fors che omnia versat, la sorte che ha in sua balìa tutto. Una concezione pessimistica che l'orizzonte ideologico della Georgiche modifica.
· Il titolo Georgica (Canti sulla vita dei campi) rimanda alla tradizione della poesia didascalica ellenistica, il cui padre è Esiodo, poeta del VII secolo a. C. autore delle Opere e i giorni, cui Virgilio si ispira esplicitamente.
· Sono un poema didascalico in 4 libri, ognuno dedicato a un particolare aspetto della vita dei campi: coltivazione dei campi il I, arboricoltura il II, allevamento del bestiame il III, apicoltura il IV.
· I libri hanno un’autonomia tematica, ma sono anche collegati fra loro; inoltre ognuno è introdotto da un proemio e contiene digressioni conclusive di estensione regolare: un’ottantina di versi dedicati nel I libro (463-514) alle guerre civili, nel II alla lode della vita agreste, nel III alla peste di animali nel Norico, nel IV alla storia di Aristeo e delle sue api.
· Il I e il III libro presentano quindi un forte richiamo interno (guerre civili-peste), mentre il secondo e il quarto offrono visioni rasserenanti (e in questo senso anch’essi si richiamano l’un l’altro).
· Lucrezio è oggetto sia di riprese sia di distanziamenti da parte di Virgilio. Nel II libro, per esempio, Virgilio fa una sorta di “professione” di distanziamento dall’epicureismo “giovanile”: rivaluta la pietas dell’uomo dei campi, che non può accettare l’antiprovvidenzialismo epicureo e affida alla benedizione degli dei della campagna i frutti della propria fatica.
· Se da un lato l’opera ha questi contenuti che si possono ritenere fortemente collegati con uno spirito dell’epoca, alla cui fondazione peraltro di sicuro anche Virgilio concorre, da un altro valica i confini del transitorio. […] Labor omnia vicit/ improbus et duris urgens in rebus egestas (145-146, I), ossia "La fatica, incessante, ha trionfato su tutto, e il bisogno pressante nelle difficoltà”.
· A questo proposito, ovvero nell''ottica di una rivalutazione del lavoro, Virgilio espone la sua personale visione in merito alla fine dell’età dell’oro, che sarebbe stata voluta da Giove per stimolare, attraverso la fatica, l’ingegno umano. Però, lucrezianamente, sottolinea che è l’egestas a urgere, ossia il bisogno a premere nelle difficoltà in modo tale da spingere l’uomo alla scoperta delle varie artes. Tuttavia, a differenza di Lucrezio che attribuisce all’uomo primitivo un’esistenza ferina (De rerum natura, V, 925-1010) Virgilio colloca all’inizio della storia umana la mitica età dell’oro, inserendo come motivo determinante della perdita della medesima, l’intervento di Giove mosso dall’intento di promuovere un passaggio evolutivo nell’uomo.
· Virgilio combina l’idea lucreziana di progresso connesso con la spinta dell’egestas con quella provvidenziale stoica. Così riesce a compendiare esaltazione del labor e rappresentazione realistica della vita contadina.
· Un modello di laboriosità sono le api. Come Giove ha introdotto il labor per scuotere gli uomini dal torpore dell’età dell’oro, così ha dotato le api di una perfetta organizzazione e spontanea attitudine al lavoro.
· Amor habendi, il giusto trasporto verso ciò di cui si ha bisogno. La volontà delle api di mettere da parte in tempi di abbondanza ciò di cui si potrebbe avere bisogno in futuro.
Alla fine del II libro delle Georgiche Virgilio introduce il tema del confronto fra la vita cittadina e la vita di campagna: la vita contadina, condotta all’insegna del labor e della temperanza, è contrapposta agli eccessi destabilizzanti della città, segnata da lusso, avidità, violenza. Il makarismòs dei contadini, la loro felicità, contrapposto alla città in cui dominano corruzione, superbia e arroganza dei potenti, eccesso di abiti, tessuti, suppellettili, profumi.
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