DISPENSA MANZONI e LINK PER LETTERE
Vita e opere per punti
· Nato
a Milano nel 1785, dal conte Pietro e da Giulia Beccaria (figlia di Cesare,
autore del trattato Dei delitti e delle pene) che presto si
separano, trascorre fanciullezza e adolescenza in collegi religiosi, maturando
una forte avversione nei riguardi dell’educazione formale e dei contenuti
culturali trasmessi in questi contesti caratterizzati da ristrettezza
ideologica.
· Nel
1805 la svolta esistenziale: va a vivere a Parigi presso la madre, che dopo la
separazione dal marito aveva iniziato a convivere con Carlo Imbonati, morto
qualche mese prima. A Parigi Manzoni, oltre a riconoscere nella madre, fino a
quel momento scarsamente frequentata, un’anima affine con cui intratterrà fino
alla morte (di lei) un intenso scambio affettivo e intellettuale, frequenta gli
ambienti degli ideologi, intellettuali dell’ultima generazione
illuminista, tra cui Claude Fauriel, il cui pensiero liberale influenzerà molto
le visioni politiche e economiche presenti nei Promessi sposi.
· Sempre
a Parigi, insieme alla madre inizia un percorso di approfondimento di temi
religiosi e spirituali e entra in contatto con ecclesiastici di orientamento
giansenista (da Giansenio, XVI secolo, perseguitati dall’inquisizione; il loro monastero
di Port Royal viene distrutto nel 1712;
sono rigoristi sul piano morale, credono che l’uomo dopo il peccato originale
non si possa riscattare e sia necessaria la grazia, predestinata, come i
calvinisti) che promuoveranno quella che si definisce la sua conversione religiosa.
Di essa non sappiamo molto, se non che coinvolge Giulia, Alessandro e la
giovane moglie, inIzialmente calvinista, Enrichetta Blondel.
· Nel
1810 la famiglia torna a Milano (alla tenuta di Brusuglio), dove Manzoni
abbandona completamente l’ispirazione classicista della giovinezza e si dedica
agli Inni sacri (1812-1815), di orientamento romantico per
l’ispirazione storica e religiosa.
· Rispetto
agli eventi storici di quegli anni, Manzoni si mantiene in disparte, pur
manifestando sentimenti patriottici e unitari nella sua produzione artistica.
Ferve la sua attività letteraria: scrive le odi Marzo 1821 (pubblicata
però nel 1848) e Il cinque maggio, le due prime redazioni dei Promessi
sposi, le Osservazioni sulla morale cattolica, il Discorso
sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, le due
tragedie Il conte di Carmagnola e Adelchi, oltre a
saggi sulle unità drammatiche e sul romanticismo.
· Con
l’edizione del 1827 dei Promessi sposi si conclude il periodo
più creativo di Manzoni che in seguito si dedica per lo più alla
riscrittura del romanzo storico, da lui ritenuto l’unica forma di
espressione vera e morale possibile in arte. Circondato di
ammirazione per le sue opere, viene eletto senatore del Regno d’Italia, vota a
favore dello spostamento della capitale da Torino a Firenze e poi a Roma, di
cui nel 1872 accetta la cittadinanza onoraria. Muore a Milano nel 1873, con
funerale di Stato e presenza del principe ereditario Umberto.
Come
Leopardi, anche Manzoni vive a cavallo tra due epoche e non solo fra due
secoli: neoclassicismo, illuminismo e romanticismo sono anche per lui, che al
secondo contribuisce sia in termini di discussioni sia di elaborazione di
modelli, altrettanti stili compositivi, sensibilità e visioni del mondo da
attraversare e di cui servirsi nelle diverse fasi del suo percorso umano e di
scrittore. Dalla biografia e bibliografia sommaria si coglie infatti come, dopo
giovanili esperienze neoclassiche e dopo una fase di forte ripudio della
religione confessionale, Manzoni si accosti allo studio della religione
cattolica, compiendo al contempo un percorso interiore che lo conduce, oltre
che alla cosiddetta conversione familiare,
a concepire la maggior parte delle opere della sua maturità: dagli Inni Sacri alle Osservazioni
sulla morale cattolica, alle due tragedie e ai Promessi sposi nelle varie riscritture. Ad accomunare queste produzioni letterarie, che spaziano dalla
poesia alla saggistica al romanzo, può essere indicata la volontà da parte sua
di elaborare una visione del mondo che affondi le sue radici nella storia, da
intendersi in particolare come cultura e
tradizione italiane conciliate con un universale, certo anche
storicizzabile, identificato dallo scrittore
nella religione cattolica. Questo può
spiegare, tra l’altro, come mai I
promessi sposi siano stati prescelti come testo di narrativa curricolare
nella scuola italiana, a partire dall’Unità d’Italia, nel 1871: possono
prestarsi a una lettura appiattita sull’unico livello della trasmissione di
valori patriottici e religiosi di stampo genericamente liberale, utili a
promuovere obbedienza e subordinazione ai poteri costituiti, a accettare senza
soprassalti ribellistici tanto quello che accade per vie naturali quanto gli
eventi, pur luttuosi e ingiusti, determinati dagli esseri umani. Preciso che si
tratta di un appiattimento, e che ben altro si può ottenere da uno studio
mediamente approfondito del romanzo di Manzoni, ma è indubbio che già solo la
formula restrittiva con cui lo si è descritto per decenni, definendolo il romanzo della provvidenza (cristiana,
ovviamente), ne fa un monumento alla religione che più ha influenzato la nostra
cultura nazionale e, fino a un certo punto, anche le scelte di politica
scolastica pubblica.
Il
taglio che intendo dare alla nostra ripresa di Manzoni porta a una trattazione
solo collaterale del romanzo, delle tragedie e delle altre opere in versi.
Voglio infatti occuparmi esclusivamente di Manzoni in quanto teorico del romanticismo
e partecipe di fitti scambi di vedute fra strenui sostenitori del classicismo e
combattenti sul fronte della rivoluzione romantica. La ragione di questa scelta
risale alla necessità di sfruttare Manzoni per transitare in direzione della
letteratura europea, dato che nel passaggio dalla prima alla seconda metà
dell’Ottocento il tipico e atavico provincialismo italiano, che affonda le sue
radici nel classicismo più oltranzista, viene finalmente superato, con esiti
molto positivi che si riveleranno ampiamente nelle opere degli scapigliati, in
Pascoli, D’Annunzio, Verga, Pirandello ovvero, più in generale, in tutte le
correnti figlie della rivoluzione
romantica che si manifestano appunto nella seconda metà del secolo.
Per cominciare occorre un inquadramento nozionistico: nel gennaio
del 1816, sulla “Biblioteca italiana” il letterato
classicista Pietro Giordani, già a noi noto come amico di Leopardi,
pubblica la traduzione di un lungo
articolo, presentato in forma di lettera, dal titolo Sulla maniera e la utilità delle traduzioni, firmato da Madame de
Staël, intellettuale francese di origini svizzere. Nelle intenzioni
dell’autrice, la lettera era un invito rivolto ai letterati italiani affinché
si dedicassero a leggere, appunto traducendole, opere dei contemporanei
europei. L’autrice, che ammette di ammirare profondamente l’arte classica,
suggerisce che tuttavia fossilizzarsi nell’ispirazione esclusiva in quella
direzione, può rendere ripetitiva e poco creativa la vena poetica. Viceversa,
tradurre i moderni potrebbe fornire
nuova materia anche ai poeti italiani. Il primo a replicare alla scrittrice
francese è lo stesso Giordani, convinto classicista proprio come il giovane
Leopardi, ma nello stesso anno compare anche un’altra lettera, destinata a diventare
il manifesto del romanticismo nostrano: si tratta della Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo, di Giovanni
Berchet, in cui l’autore consiglia al
figlio di seguire i dettami della nuova letteratura romantica, definita poesia
dei vivi e contrapposta alla poesia
dei morti, quella di stampo neoclassico, salvo poi fingere di aver scherzato, come
suggerisce lo stile semiserio
dichiarato nel titolo, e esibire quindi una ritrattazione, in cui l’arte
classica è nuovamente esaltata. In questo quadro sommariamente evocato, da cui
si comprende tuttavia che in Italia ormai il dibattito è aperto, si inserisce
l’intervento di Manzoni con la sua
Lettera al marchese D'Azeglio sul Romanticismo. Il marchese aveva pubblicato, sulla rivista "L'amico
d'Italia", uno degli Inni di
Manzoni, precisamente La Pentecoste. Pur
elogiando l'autore, avanzava sostanziali
riserve sulla possibile durata delle istanze compositive, stilistiche
soprattutto, del movimento romantico. La risposta manzoniana risale al 1823, e la lettera sarà oggetto di
pubblicazione, non voluta dall’autore, nel 1846, mentre l’edizione del 1870,
quella che leggiamo oggi, compare col suo consenso. Il resto di questo capitolo
è quindi dedicato a una sintesi dei contenuti concettuali della
lettera-manifesto di Manzoni. Come ci si può attendere da una rivoluzione¸ sia pure letteraria, il
romanticismo si delinea secondo Manzoni per via di contrasti e di opposizioni:
la prima riguarda il patrimonio mitologico, fonte quasi esclusiva di immagini
per i poeti dell’Arcadia neoclassica; la seconda il principio cardine del classicismo,
ovvero l’imitazione, che comprende anche il ricorso a canoni, primi fra tutti
quelli desunti arbitrariamente dalla Poetica
di Aristotele, ovvero le unità di tempo e di luogo imposte alle opere tragiche.
Conclusa questa pars destruens,
Manzoni passa a considerare come si debbano orientare gli scrittori della nuova
corrente e concepisce alcune linee di pensiero destinate a loro volta a
trasformarsi in nuovi canoni di scrittura. Propongo la formulazione più
didascalica di questa parte del contenuto della lunga lettera: gli scrittori
romantici devono scegliere il vero come oggetto, l’utile come scopo e
l’interessante come mezzo. In altri termini, la letteratura deve attenersi alla
verità, avere uno scopo morale e educativo e servirsi della piacevolezza (nelle
forme, nella scelta d’una trama accattivante) per tenere accesa l’attenzione
dei lettori e corrispondere a uno dei motivi originari per cui è nata l’arte,
promuovere il piacere. Si tratta di un programma che risente della formazione
illuministica di Manzoni: il richiamo al vero, che poi è essenzialmente quello storico, ad esempio, in contrasto con
l’ispirazione mitologica della poesia neoclassica, si armonizza perfettamente
con lo storicismo prevalente nel periodo della rivoluzione francese; anche la
vocazione utilitaristica è un cavallo di battaglia di molti scrittori
illuministi, dall’avo di Manzoni Cesare Beccaria, autore del celebre saggio Dei delitti e delle pene, a Parini con
le sue Odi civili che contengono
denunce d’ispirazione persino ecologica ante litteram. Da notare, anche, il
fatto che risuoni in questa sintesi dei principî dell’arte romantica un rimando
al classicissimo Orazio e alla sua Ars
poetica, nota anche come Epistola ai
Pisoni, in cui in piena epoca augustea ricorda ai contemporanei come una
forma d’arte che aspiri a essere armonica
e perfetta deve miscere utile dulci, mescolare l’utile al dilettevole, ovvero
esattamente quanto suggerisce Manzoni agli scrittori del suo periodo e, ovviamente,
a sé stesso. In
perfetta coerenza con queste concezioni espresse nella comunicazione con
D’Azeglio, I Promessi sposi,
nonché la scelta della forma romanzo, rispondono all’esigenza di rendere la
letteratura vera, interessante e utile (ossia morale). Lo scrittore si pone
come un maestro, intenzionato a comunicare notizie storiche, ideali politici,
principi morali, compresa l’eredità illuminista, in una veste stilistica che
risulti interessante e moralmente costruttiva. Di qui il fatto che i personaggi
del romanzo siano tratteggiati come tipi psicologici unici, calati in un
contesto reale e storico. Nel romanzo, inoltre, Manzoni cerca di evitare il più
possibile la trasfigurazione della realtà, la sua manipolazione, attenendosi
appunto alla verità a scapito della
componente romanzesca, quella più
accattivante, che però poteva nuocere al vero. Da questo sono derivati i
profondi cambiamenti apportati alla configurazione della vicenda nel passaggio
dalla prima edizione, ancora intitolata Fermo
e Lucia e risalente agli anni Venti, all’ultima, del 1840. La revisione del
romanzo è una vera e propria riscrittura: oltre a eliminare intere parti del
medesimo (riducendo, per esempio, la storia della monaca di Monza e
racchiudendone una parte nell’ellissi racchiusa nell’espressione la sventurata rispose...), procede a
un mutamento linguistico cospicuo,
assumendo come lingua letteraria, il fiorentino parlato dalle persone colte,
ossia una lingua viva, non imbalsamata da una tradizione ormai logora ovvero,
ritornando al punto della polemica di partenza, quella del classicismo.
M.ME DE STAEL:
https://it.wikisource.org/wiki/Sulla_maniera_e_la_utilit%C3%A0_delle_Traduzioni
A. MANZONI:
https://it.wikisource.org/wiki/Lettera_sul_romanticismo_a_Cesare_D%27Azeglio
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