RICAPITOLAZIONI LATINO (FINO A TACITO) - MANCANO 2
Alberto, Lorenzo, Virginia
INTELLETTUALI E POTERE (parte I)
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Ettore, Filippo G., Filippo M., Sara
INTELLETTUALI E POTERE (parte II)
La nostra carrellata procede quindi in
ordine cronologico, e prende le mosse dal momento in cui Claudio è nominato
imperatore di Roma il 24 gennaio del 41 d.C., dopo l’assassinio di Caligola,
suo nipote e figlio del fratello Germanico. Claudio è descritto dalle cronache
(malevole) del tempo goffo, malaticcio e inetto, ma una volta giunto al
potere tradisce le aspettative pessimistiche che si possono riconnettere a
simili tratti: consolida il principato e rafforza i poteri del principe
rispetto al senato, riorganizza l’apparato statale, istituendo uffici che
affida a competenti e fedeli liberti. Seneca, già predisposto a una carriera
politica e ottimo retore, tanto da suscitare le invidie di Caligola che nel suo
breve e sanguinario periodo di regno aveva fatto in tempo a condannarlo a
morte, cade in disgrazia anche presso Claudio, che lo condanna all'esilio,
complice la moglie Messalina. L’esilio,
trascorso in Corsica, guadagna a Claudio,
da parte di Seneca, un incancellabile risentimento, che si esprime tra l’altro con la stesura dell’Apokolokyntosis.
Di là dalla componente vendicativa, si tratta di uno scritto violentemente
derisorio nei confronti di Claudio. Il titolo significa letteralmente deificazione
di uno zuccone, nel quale ultimo si riconosce ovviamente l’imperatore, al
quale verrebbero, per così dire al cospetto degli dei, conferiti e
proclamati gli attributi della stupidità e della vanagloria. L’opera è una
satira menippea, con alternanza di versi e prosa, e nel contenuto passa da temi
importanti ad altri scherzosi ed esilaranti, alternando lo stile linguistico
colloquiale a quello più raffinato e persino tragico, al limite tuttavia
della resa farsesca anche di quest’ultimo. La satira descrive la sorte di
Claudio defunto, destinato per tradizione all’apoteosi, e il
racconto inizia con la promessa di Seneca di riprodurre fedelmente i fatti
accaduti dopo la morte dell’imperatore, cosa ovviamente impossibile, ma utile
nell’intento di rendere esilarante ciò che viene cantato immediatamente dopo.
Claudio sta discutendo di allargare la cittadinanza romana ai provinciali, e
proprio in quell’istante gli viene tagliato il filo della vita dalle
Parche, come indotte dall’intento di interrompere al più presto il suo
inutile flusso di pensieri. Il racconto consiste in una continua
denigrazione di Claudio, reso macchiettistico nei suoi modi di fare, di
parlare e di essere in generale di fronte agli dei, agli imperatori passati e a
tutte le anime all’inferno, che votano per comminargli una pena creativa. Claudio sarà
condannato a giocare eternamente a dadi con un bussolotto bucato per fargli
provare la peggior frustrazione possibile. Una sorta di rivisitazione
della pena inflitta alle Danaidi, per quanto riguarda la questione
dell’inutilità totale dell’atto iterato.
Con l’avvento al potere di Nerone (54 d.C.), a Seneca si dischiude la
possibilità di coronare un sogno appartenuto ad altri filosofi prima di
lui, Platone in primo luogo: quello di contribuire a governare secondo
principii filosofici. Già prima della morte di Claudio,
infatti, era stato convocato a corte, per volontà di Agrippina,
come istitutore di colui che, malgrado la giovane età, è destinato in
breve a diventare il nuovo princeps. Per i primi cinque anni di
principato, ovvero fino a quando Nerone non attua la sua svolta autoritaria, il
filosofo stoico, al fianco della madre dell’imperatore Agrippina e del prefetto
del pretorio Burro, diviene il vero nucleo direttivo del principato. In tali
anni Seneca compone il De clementia, un trattato politico che
delinea la figura dell’optimus: un sovrano che, grazie alla sua
Virtù, usa i massimi poteri politici per i più nobili scopi. In tale opera
Nerone viene idealmente presentato come la nuova, e pura, stella nascente della
storia romana. Ma la natura del princeps era ben diversa da quella
decantata nel trattato del suo istitutore. Dopo aver eliminato sua madre
Agrippina, allontana da sé sia Seneca che Burro, così da porre fine alle loro
ingerenze e concentrare finalmente il potere
nelle sue mani, come in effetti la trasformazione operata da Augusto
consentiva. Da tale momento, Seneca si ritira dalla scena politica, sebbene
Nerone continui a nutrire ostilità nei suoi confronti. Il pretesto per
sbarazzarsi di lui arriva nel 65 d.C., quando il filosofo è accusato di partecipazione alla congiura dei
Pisoni e spinto al suicidio.
Dopo il fallimento del progetto, alla fin
fine utopistico, di Seneca, si situa il caso di un rapporto per così dire
equilibrato con il potere: quello di Quintiliano. Il magister per
eccellenza del I secolod. C. nasce tra il 30 e il 40 d. C. nell’odierna
Calahorra, in Spagna, ma non si è certi invece della data di morte,
probabilmente avvenuta poco dopo la fine della dinastia Flavia. Studia a
Roma e si forma come avvocato, ma poi sceglie di insegnare retorica, dal 70 al
90 circa, diventando uno tra i primi professori finanziati dallo Stato per
iniziativa di Vespasiano. Vespasiano regna per circa dieci anni (dal 69 al 79)
e coltiva in particolar modo un interesse per la cultura, promuovendo quindi le
lettere e le arti in tutte le sue forme. Tuttavia, lo scopo nemmeno troppo
velato dell'imperatore è quello di mantenere e di rinsaldare il potere,
reprimendo manifestazioni di pensiero che possano fornire strumenti
all’opposizione politica.
Vespasiano, in qualità di generale e
imperatore, scrive Commentarii delle imprese militari, alla maniera
cesariana, presentandosi come il restauratore della concordia, della pace
e della prosperità. Nel campo culturale, si deve a lui
l’apertura di una nuova biblioteca nel Foro della Pace e l'avvio della
costruzione dell’Anfiteatro Flavio. Inoltre, per primo introduce appunto un sistema
di cattedre pubbliche, in un contesto in cui l’istruzione è affidata all'iniziativa
privata. Stipendia pertanto, a spese dello Stato, retori (tra cui, appunto,
Quintiliano) greci e latini, ma anche poeti, artisti e attori.
Da un lato, l'avviamento di
un’istruzione pubblica promuove gli studi, ma dall’altro si traduce in una
stretta dipendenza degli insegnanti nei confronti del potere politico. La
scuola di retorica diventa il luogo in
cui si formano i funzionari imperiali. L’obiettivo imperiale si rivela essere
puramente strategico: fornire ai principi collaboratori ed esecutori preparati
e fedeli, in modo da favorire la diffusione di una cultura unitaria nei diversi
territori sottoposti al dominio di Roma.
Quintiliano, attraverso il suo trattato
Institutio oratoria, si propone di delineare la formazione dell'oratore a
partire dalla giovinezza, affrontando tutti gli aspetti teorici e pratici della
scienza retorica e dell'oratoria. In linea con Cicerone, coltiva una concezione
della retorica come scienza, che non mira solo a fornire competenze tecniche,
ma anche a formare, insieme con il perfetto oratore, il cittadino e l'uomo
moralmente esemplare. Quintiliano sostiene che solo chi padroneggia l'arte
dell'eloquenza può trattare adeguatamente argomenti filosofici ed enfatizza
l'importanza di una formazione globale approfondita e coerente. In particolare,
egli esprime questo concetto col motto, divenuto celebre, non multa, sed multum, che significa non molte cose, ma molto,
per sottolineare come la cultura di un individuo dipenda più dalla qualità
piuttosto che dalla quantità di cose che apprende.
Nel trattato Institutio oratoria,
Quintiliano affronta i cambiamenti storico-culturali del suo tempo,
focalizzandosi, in particolare, su un problema: la trasformata funzione
dell'oratore nella società civile. Egli analizza la decadenza dell'eloquenza,
attribuendone la causa a fattori tecnici, come la mancanza di buoni insegnanti
o l’eccessivo numero di orazioni su argomenti irreali o di taglio
esclusivamente morale, come la variazione del gusto e dello stile della
società. Quintiliano delinea la figura dell’oratore perfetto, ma ne parla come
se nulla fosse cambiato dall’età repubblicana, ovvero senza tener conto della
scarsa importanza assegnata tanto al Senato quanto al popolo in
fatto di processi decisionali durante il regno della dinastia Flavia. Egli
raccomanda all’oratore moderazione, disciplina e senso della misura,
individuando gli oratori eccellenti in coloro che collaborano
strettamente con i principi.
Se Quintiliano non mette minimamente in
dubbio l’opportunità di istituire una serena collaborazione fra intellettuali e
potere, lo sguardo di Tacito è sicuramente tormentato da dubbi e, forse, da una
nostalgia di fondo nei confronti del passato repubblicano.
Di Publio Cornelio Tacito non è noto né
l'anno di nascita né la patria di provenienza e neanche molte altre
informazioni riguardanti la sua vita. Poiché di condizione sociale elevata, è
destinato a intraprendere il cursus honorum, col fine di rivestire importanti cariche. Infatti, nell’88, sotto
l’imperatore Domiziano, egli raggiunge la pretura e, successivamente, nel 97,
sotto Nerva, ricopre il consolato. L’ultimo dato noto della sua carriera
politica e della sua vita è il proconsolato della provincia d’Asia, attorno al
112. Risulta complesso identificare quale sia esattamente la visione ideologica
di Tacito (relativamente al cambiamento istituzionale da repubblica a
principato), poiché sembra insoddisfatto della direzione autoritaria assunta
dal potere politico di certi imperatori. Nei suoi scritti emerge chiaramente il
disagio che egli prova nel ricoprire incarichi, che gli conferiscono potere,
datogli da imperatori dei quali non ha stima, come Domiziano.
Nel suo primo scritto, intitolato De
vita Iulii Agricolae, pubblicato tra la fine del 97 e l'inizio del 98, Tacito
propone diversi temi, uno dei quali è proprio il regime dell’ultimo imperatore
Flavio, caratterizzato da eventi come la
soppressione della libertas, la messa al bando dei filosofi, il
controllo poliziesco sulle persone, così come sulle loro parole, e il
soffocamento di ogni nobile attività letteraria e culturale. Si torna a vivere
solamente con la morte del tiranno e la salita al trono di Nerva, il quale ha
saputo unire principato e libertà. In questa biografia encomiastica scrive,
inoltre, di una delle vittime innocenti di Domiziano: Agricola, suo suocero,
che si vocifera (sono i rumores) sia stato avvelenato all’imperatore
stesso.
Anche nel Dialogus de oratoribus
(Dialogo sugli oratori), probabilmente composto nel 102 e dedicato al tema
della decadenza dell’oratoria, l’autore fa riferimento alla dinastia Flavia:
Curiazio Materno, senatore e oratore, afferma che la causa più profonda e vera
del declino dell’eloquenza è la perdita della libertà politica, stimolata in
epoca repubblicana e totalmente assente durante il dominio della dinastia in
questione.
Tacito fa trapelare il suo atteggiamento
ostile nei confronti degli imperatori anche nelle sue più grandi opere
storiche: le Historiae, scritte per prime, raccontano gli eventi
avvenuti tra il 69 e il 96, e gli Annales, redatti successivamente,
risalgono fino al periodo della dinastia giulio-claudia, dalla morte di Augusto
nel 14 d. C. alla morte di Nerone nel 68. In particolare, all’interno degli Annales,
Tacito inizia dedicando una concisa sezione ad Augusto, per poi narrare, nei
primi sei libri, del principato di Tiberio e del suo processo di trasformazione
in tiranno. Nell’undicesimo e dodicesimo libro, l’autore racconta del regno di
Claudio (47-54), imperatore debole e incapace, rispetto al quale ciò che
maggiormente spicca sono le travagliate vicende familiari più che gli atti di
governo, seppur numerosi e positivi. Nei
libri dal tredicesimo al sedicesimo Tacito si sofferma sul principato di Nerone
(54-68) e sul progressivo svelarsi della sua natura malvagia, fino alla
degenerazione in tiranno e ad una serie terribile di delitti, tra cui quello
della madre Agrippina.
Seppur la delineazione del profilo
ideologico di Tacito resti complicata, data la cautela con cui lo storico si
conduce rispetto agli imperatori sotto i quali si trova a operare, da Domiziano
a Traiano, è possibile sostenere che non sia esattamente un intellettuale
allineato come Quintiliano: si può infatti ipotizzare che proprio il fatto
di aver condotto la sua indagine storica a ritroso (dagli imperatori più vicini
alla sua contemporaneità ai più lontani) sia espressione di una critica
radicata e sostanziale a un tipo di organizzazione statale, quella imperiale,
che per sua natura non si concilia con la libertas alla quale pur sempre
aspirano gli spiriti critici e, per ciò stesso, liberi. Ne consegue che l'opera
forse più utile a comprendere cosa suggerisca di fare, in campo politico,
Tacito agli intellettuali e alle classi dirigenti di età imperiale, sia proprio
la monografia dedicata al suocero Agricola: interpretare egregiamente la
funzione del vir probus (già esaltato nel periodo repubblicano da
Cicerone), per fare in modo che, a dispetto degli imperatori più autocratici e
dispotici, la cosa pubblica (pur sempre res publica) non ne patisca
troppo.
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Andrea T., Federico, Francesco
DOMINATORI E DOMINATI NELLA REAPPRESENTAZIONE STORICA
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Carlotta, Eleonora, Martina
LA DINASTIA GIULIO-CLAUDIA
La dinastia Giulio-Claudia, il cui nome deriva dalla famiglia alla quale appartenevano i primi cinque imperatori romani, per discendenza o adozione, ha inizio nel 27 a.C. con Augusto, seguito da Tiberio, Caligola, Claudio e infine da Nerone, con la cui morte nel 68 d.C. appunto la dinastia si estingue.
Grazie ad Augusto, Roma effettua il passaggio definitivo dalla forma istituzione repubblicana al principato: a promuoverlo e accompagnarlo sono riforme di tipo economico, militare, amministrativo, giuridico e culturale. Augusto non trascura nessun mezzo per conquistare il consenso pubblico e affermare la natura assoluta del suo potere, come dimostra il fatto che conferisca al suo amico, potente e ricco cavaliere, Mecenate la libertà di organizzare un vero e proprio circolo letterario imperiale, finalizzato alla promozione dell’ideologia del principato e del programma augusteo. Il Circolo di Mecenate rappresenta dunque un esempio di come Augusto, non sempre ben imitato dagli altri imperatori appartenenti alla dinastia, persegua il progetto di alimentare il proprio potere anche attraverso opere composte da autori che, esaltando le imprese di Roma e dei suoi fondatori, evidenzino come egli agisca in continuità col luminoso passato, restaurando il fasto dell'antica Roma. In cambio di tale propaganda, in armonia con quella che sarebbe diventata nel tempo l'eredità del mecenatismo, gli autori ottengono dal loro ricco protettore riconoscimenti e privilegi.
Alla morte di Augusto nel 14 d.C. l’impero necessita di un nuovo princeps, che funga tra l'altro da mediatore tra le diverse forze sociali, in particolare l'esercito, il senato e il popolo. In mancanza di eredi diretti, prevale il ricorso all'adozione, e pertanto sale al potere all’età di 56 anni il figlio adottivo Tiberio. Quest’ultimo appartiene a una famiglia dell’aristocrazia senatoria piuttosto conservatrice, che lo spinge ad attuare una politica di moderazione e di appoggio del senato, possibile grazie al mantenimento delle magistrature e degli incarichi caratteristici del cursus honorum repubblicano. Morto il nipote Germanico, in circostanze non del tutto chiare, Tiberio diventa sempre più diffidente e condanna numerosi nemici politici con processi per lesa maestà, e il crescente timore di congiure lo spinge a ritirarsi a Capri nel 27 d.C., lasciando il potere nelle mani del prefetto del pretorio Seiano, della cui oscura presenza dovrà successivamente liberarsi. Alla sua morte, avvenuta dieci anni dopo, sale al potere Caligola il quale, distaccandosi subito dalle linee politiche precedenti, compresa quella di Ottaviano Augusto, cerca di imporre una monarchia assoluta di stampo orientale, pretendendo culto divino per sé e i suoi famigliari. Egli, a causa dei suoi comportamenti tirannici, instaura un clima di terrore, motivo per cui vengono organizzate diverse congiure per destituirlo, fino a quando nel 41 d.C. alcuni pretoriani riescono ad ucciderlo.
Sale così al potere l’imperatore Claudio. Il suo principato è uno dei più positivi della prima età imperiale, almeno stando alla storiografia di parte senatoria che ha tramandato l’operato di questi imperatori, avendo come obiettivo l’equilibrio tra le diverse forze sociali e rispettando la tradizione. Il princeps si impegna nella costruzione di molte opere pubbliche e nell’espansione territoriale. Nel 54 d.C. Claudio muore improvvisamente, forse avvelenato dalla quarta moglie Agrippina, il cui figlio Nerone sale al trono all’età di diciassette anni, governando inizialmente sotto la guida della madre, del prefetto del pretorio Burro e del filosofo Seneca. In seguito il governo del nuovo princeps assume connotati di assolutismo dispotico: uccide tutti i suoi stretti collaboratori, compresa la madre e Afranio Burro (successivamente verrà anche la volta di Seneca, che inizialmente viene solo allontanato dalla corte), e numerosi nemici politici. Inoltre, dopo esser stato accusato di aver scatenato un vastissimo incendio a Roma nel 64 d.C. per costruire una sfarzosa residenza, la domus aurea, Nerone indice una persecuzione contro i cristiani, con lo scopo di scagionarsi dalle accuse e farle ricadere su questi. Si verificano poi numerose rivolte per destituire Nerone, che lo portano a diventare un nemico pubblico dell'impero, tant’è che, ormai abbandonato da tutti, decide di suicidarsi nel 68 d.C.
Gli imperatori della dinastia Giulio-Claudia cercano di proseguire la tradizione, risalente già all’età repubblicana per quanto riguarda le classi dirigenti, di dedicarsi alla letteratura, scrivendo orazioni, lettere e opere autobiografiche, ma di queste nessuna ci è pervenuta.
L’apprezzamento personale nei riguardi della cultura è quasi sempre coniugato con un utilizzo strumentale di essa, o meglio dell’arte in generale, volto a supportare e promuovere contemporaneamente l’istituto imperiale e la propria persona. Quella forma di intesa fra potere e letteratura che Ottaviano Augusto aveva prodotto per la prima volta, incentivando la nascita del circolo di Mecenate, si trasforma in una vera e propria tecnica di propaganda o in un’organizzazione del consenso, per cui accade con certi imperatori (per esempio Tiberio) che a essere riconosciuti e pubblicati siano solo gli scrittori che non esprimono alcun dissenso verso l’impero come istituzione o verso l’imperatore in carica. Già in età repubblicana era evidente la stretta dipendenza dei letterati da personaggi politici molto influenti. In età imperiale, con l’accentramento della gestione del potere nelle mani dell’imperatore, il controllo della vita intellettuale da parte dei principes diventa ancora più diligente e meticoloso. I primi passi verso uno sbilanciamento nel senso dell’autorità sovrana del rapporto tra intellettuali e principe si compiono proprio quando viene a mancare Mecenate, che con il suo circolo aveva portato avanti una grande opera di mediazione tra i due. Alla sua morte, negli ultimi anni del principato augusteo, si iniziano infatti a percepire segni di disagio nei rapporti tra letterati e imperatori, come avviene ad esempio con Fedro. Egli nasce in Macedonia alla fine del I secolo a.C., da bambino viene portato a Roma come schiavo, e successivamente liberato da Augusto, il quale gli concede di istruirsi presso la sua corte, mantenendolo così sotto il suo controllo anche quando inizia a comporre. Nelle sue favole, attraverso l’utilizzo di figure retoriche come l’allegoria, Fedro tenta di manifestare il proprio malcontento nei confronti della società, e in particolare di coloro che, proprio come faceva il princeps, detenendo tutto il potere nelle loro mani, si arrogavano il diritto di renderlo soverchiante, stabilendo cosa fosse giusto e cosa no, decretando così morti e ingiustizie nei confronti di coloro che invece erano costretti a subirne le conseguenze. Tra i suoi versi, finalizzati a divertire e istruire senza sfociare in critiche aperte e troppo incisive, traspare dunque il disaccordo con le condizioni politiche e sociali dell’epoca in cui vive, poiché nessuno si preoccupa di tutelare ogni classe sociale, proprio come nelle favole accade che risulti dalla dinamica delle relazioni fra gli animali prevaricatori (i lupi) e le loro vittime designate (gli agnelli).
Le favole di Fedro mostrano quindi come i programmi augustei di collaborazione fra artisti e imperatori non siano andati a buon fine, di là dai confini del periodo iniziale. Nonostante ciò, sotto il princeps Fedro riesce comunque a esprimere la sua vena quasi indisturbato, lamentandosi per la prima volta, invece, di Seiano, ministro di Tiberio, che reputa le sue opere inadatte al clima imperiale. Infatti sotto il nuovo imperatore iniziano a manifestarsi le prime dure repressioni nei confronti degli intellettuali, le cui opere sono spesso di carattere filorepubblicano e contenenti allusioni antitiranniche. Anche Caligola utilizza la forza per censurare opere non in linea con il suo programma, condannando poeti all’esilio e talvolta, addirittura, al rogo. Non risulta invece che sotto l’imperatore Claudio ci siano state persecuzioni nei confronti degli scrittori, dato che l'esilio in Corsica al quale è condannato Seneca non risulta ascrivibile a ragioni connesse con la sua attività di scrittore.
Sotto l’imperatore Nerone, invece, si assiste a una fioritura letteraria: egli è molto appassionato delle lettere e si impegna a promuoverle insieme alle arti. Nerone stesso nutre una forte passione per poesia, musica e teatro e organizza iniziative volte all’ellenizzazione della cultura e del costume, come l’istituzione di nuovi ludi che, oltre alle gare sportive, comprendono anche concorsi di musica, canto, eloquenza e poesia, ai quali peraltro egli partecipa. Tutte queste opere per la promozione della poesia e delle arti favoriscono la ripresa delle lettere che caratterizza il suo principato anche in funzione celebrativa e propagandistica. D'altronde, il profilo iniziale di Nerone è quello di un innovatore: infatti, dai primi anni del suo principato, è sempre affiancato da Seneca, che la madre Agrippina aveva richiamato a Roma dopo che questi era stato esiliato in Corsica da Claudio, come precettore per suo figlio. Seneca procede animato dall'intento di educare un sovrano giusto e buono, in grado di governare una monarchia illuminata, come scrive nel De clementia, il suo trattato di filosofia politica he è al contempo un programma di governo. Risulta però stridente, con questo progetto, la sua decisione di rimanere a fianco di Nerone anche a seguito del matricidio compiuto e di preservare la sua immagine pubblica, dal momento che si situa in contrasto con il suo desiderio originario di fare di lui un sovrano esemplare.
A distanza di circa cinquant’anni dalla morte di Nerone, e quindi dalla fine della dinastia Giulio-Claudia, Tacito compone e pubblica gli Annales, un’opera in cui ricostruisce il periodo che va dal 14 d.C. al 68 d.C., ripercorrendo all'inizio brevemente la storia della romanità dalla monarchia, passando per la res publica e arrivando appunto al principato. L’autore nell’opera critica aspramente gli storici che, con adulazioni intessute di falsità, ricercavano l’appoggio degli imperatori. Negli Annales, i vari imperatori sono il centro della narrazione e Tacito riserva a ognuno un pesante giudizio di condanna, alcuni per essersi trasformati in tiranni viziosi e crudeli, altri in quanto degni di essere ricordati solo per le travagliate vicende familiari. Lo storico, considerato il più significativo testimone della storia del principato del I secolo, rappresenta dunque una fonte preziosa per la comprensione degli eventi del periodo, in quanto le sue opere riflettono molto precisamente, non di rado drammaticamente, il clima politico e sociale durante la dinastia.
_________________________________________________________________________________ Giuseppe, Matteo, Tommaso
LA DECADENZA DELL’ORATORIA
Quello della decadenza dell'oratoria è un tema presente negli scritti del I secolo d. C., in stretta connessione con le trasformazioni culturali e sociali in atto in concomitanza con il passaggio, avvenuto e irreversibile, dalla repubblica al principato. A principato già avviato, quando ormai la dinastia giulio-claudia si sta esprimendo attraverso imperatori come Tiberio, Caligola e Claudio, prima di chiudersi con Nerone, Seneca, noto per i suoi trattati filosofici e morali, affronta il tema dell'oratoria Nelle Epistulae ad Lucilium, intento ad esortare alla pratica quotidiana della filosofia il suo amico, inserisce il tema di cui stiamo trattando. In particolare nella lettera 114 della sua raccolta, l’autore avvia la discussione col tipico stratagemma letterario della domanda indiretta:
Mi chiedi per quali motivi un genere corrotto di eloquenza si è prodotto in certe epoche […] e perché in un certo momento hanno trovato favore pensieri arditi fino all’inverosimile e in altri sono stati apprezzati motti brevi e oscuri che suggeriscono più che non esprimano. (trad. di G. Monti). Il filosofo, per rispondere, avvia una lunga riflessione dal tono moraleggiante sul cambiamento collettivo dei mores. L’incidenza che questi esercitano direttamente sulle capacità linguistiche di una generazione intera rappresenta il fulcro dell’argomentazione, tutta volta ad avvertire di tenersi a debita distanza dai vizi dell’anima. Tale il parlare degli uomini quale la loro vita. Ora, come c’è una somiglianza tra gli atti… di un individuo, così capita che il linguaggio di un’epoca sia lo specchio dei costumi, quando un popolo ha perso ogni ritegno e si è abbandonato ai piaceri. È un indice di corruzione il linguaggio affettato quando lo si riscontra non in una o due persone, ma è generalmente accettato e gradito. Non è possibile che nell’intelletto non si riflettano le caratteristiche dell’anima. (trad. di. G. Monti)
Insomma, Seneca rileva che l'oratoria autentica dovrebbe essere finalizzata alla comunicazione efficace e alla persuasione, ma nota con disapprovazione come la retorica abbia perso il suo scopo originario. Così, l'eccessiva ornamentazione e l'uso di figure retoriche avrebbero reso l'oratoria un esercizio di vanità, piuttosto che uno strumento nobile, finalizzato al miglioramento della società. L'arte retorica, che in origine doveva essere un mezzo per promuovere la virtù e la giustizia, si è trasformata anche in un'abilità utilizzata per manipolare e ingannare. Seneca esprime preoccupazione per il modo in cui gli oratori manipolano le emozioni del pubblico senza un vero fondamento etico, contribuendo così alla corruzione della società. Il filosofo stoico nota anche la prevalenza di un'applicazione superficiale della retorica, dove l'arte della persuasione è del tutto divaricata dalla profondità del pensiero. La mancanza di una solida base filosofica e la ricerca di effetti spettacolari hanno portato a un impoverimento dell'oratoria.
Allo stesso periodo risale anche la versione della decadenza proposta da Petronio nel suo originale affresco della società romana proposto nel Satyricon, condotto lungo la linea narrativa delle avventure e delle peripezie di un viaggio compiuto da Encolpio, in compagnia del giovane Gìtone, di cui è innamorato, in Italia centro-meridionale. L’opera, inizialmente molto estesa, ci è giunta frammentata, ed è proprio al primo frammento che risale un’accesa discussione tra Encolpio e Agamennone, un retore, nel merito della decadenza dell’eloquenza. Encolpio rappresenta l’accusa e individua nei declamatores (maestri di eloquenza) e nelle scuole in cui essi insegnano le cause della decadenza. Questa è causata dall’allontanamento dalla realtà dei temi trattati e dai maestri che hanno svuotato la parola di ogni valore civile. Agamennone rappresentante la difesa, sostenendo che i maestri debbano invogliare gli studenti per poter continuare a fare il loro mestiere, sicché la loro colpa non è quella di creare il cattivo gusto, ma di essere incapaci di contrastarlo. I responsabili della decadenza sono i genitori, che solamente per ambizione personale, costringono i figli immaturi e senza un graduale percorso di studi ad affrontare la complessa realtà del Foro. Petronio non si espone, e quindi non siamo sicuri di saper individuare la sua posizione in merito, ma è probabile che con il suo consueto distacco ironico prenda le distanze sia da chi ha posizioni estremamente dogmatiche, sia da chi riveste di serietà austera l’insincerità e la meschinità morale.
Di poco posteriore agli spettatori della drammatica parabola neroniana, Quintiliano, che vive nella più felice epoca dei Flavi, riguardo alla mutata funzione dell’oratore imposta il problema in termini di corruzione e sostiene che le ragioni della decadenza dell'eloquenza possano essere ricondotte a fattori sia di natura tecnica, come la mancanza di insegnanti competenti, l’eccessiva enfasi nelle scuole su esercitazioni retoriche dedicate a argomenti irreali e distanti dalla vita quotidiana, sia di natura morale, sostenendo che la degenerazione dei costumi si accompagni necessariamente al declino del gusto e dello stile. Egli indica in Cicerone il culmine dell'oratoria romana e il modello insuperato, a cui si deve tornare per porre rimedio alla situazione presente. Rende quindi una questione formale, quella che si pone anche come una circostanza connessa con la contingenza politica: ai tempi di Cicerone la res publica aveva ancora necessità di dibattiti e di confronti da sostenere con l’ars rhetorica, mentre all’epoca dei Flavi, consolidatosi l’assetto imperiale, il confronto politico non è più necessario. Quello che la libertas comportava, e che la licentia ha reso impossibile da mantenere, non può più essere garantito: il libero scambio di idee, utilmente supportato da un ars rhetorica in cui forma e contenuto procedono unitamente con l’unico fine di rendere migliore la societas.
Tra le opere di Tacito figura un Dialogus de oratoribus che non è sempre stato attribuito a lui, ma che la critica ultimamente sostiene possa corrispondere con l’ideologia che gli riconosciamo da altri scritti. Si tratta appunto di un dialogo alla maniera ciceroniana. in cui si tratta il tema della decadenza dell’oratoria, sia in termini tecnici sia ideologico-politici. I due interlocutori iniziali sono noti avvocati romani, ovvero Marco Apro e Giulio Secondo, e a loro si aggiunge Curiazio Materno, che va a far loro visita e infine si unisce ai tre anche Vipstano Messalla. Apro ha una visione originale e innovativa riguardo alla decadenza dell’oratoria, che egli non vede in questi termini negativi, ma come piuttosto un'evoluzione naturale e necessaria: nella loro epoca lo stile prevalente per comunicare è differente da quello adottato da Cicerone, che non necessariamente deve essere ritenuto insuperato. Messalla, che interviene come secondo, sostiene che le cause siano da ricercare nella formazione dei giovani, affidata in un primo momento ai genitori e poi alla scuola, ritenuta scadente. Materno interviene come ultimo proponendo una spiegazione politica, che sembra corrispondere di più alle opinioni di Tacito medesimo. Durante la repubblica, l’oratoria era necessaria, in Senato e nel Foro. per convincere la popolazione, ma con l’avvento dell'imperatore si verifica una perdita di libertà politica. Non necessariamente si tratta di una decadenza ma di un cambiamento reso necessario dalla deriva della libertas trasformatasi in licentia. Per evitare la rovina già sperimentata con le guerre civili del I secolo a.C. è opportuno lasciare che le decisioni siano prese da un princeps, augurandosi ovviamente che sia sul serio l’optimus.
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