DI HYBRIS E DI MORTE SECUNDA (anche audio)

Audio 1 (fino a Canto XV)

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Audio 2

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DI HYBRIS, DI MORTE SECUNDA E D’IMPOSSIBILE OBLIO

(dal II e  XXVI dell’Inferno al XV, XVI, XVII del Paradiso)

Non si può evitare di fare i conti con l’hybris. Di certo è una delle forze più dirompenti che agiscano sulla scena del mito, il quale si è cimentato variamente nel creare situazioni in cui  semidei e  esseri umani, caratterizzati da orgoglio delle proprie  origini,  presunzione delle proprie ineguagliabili prerogative, tracotanza negli atti inimitabili, si trovassero a cimentarsi con lei e per lei. Tutti invasati dall'hybris come fosse un  furor creatore,  tutti eternati per via di questo furor, che li sprona a ribellarsi all'ordine costituito, quello divino principalmente (dato che l'umano ne è solo cattiva imitazione) e incuranti delle inevitabili conseguenze. Prometeo, per cominciare. Colui che pensa primanomen est omen (il nome contiene in sé un presagio), decide che gli dei non devono tenere per sé uno strumento utile come il fuoco. Lo ruba e lo regala alle sue creature, gli esseri umani che ha plasmato per ordine di Zeus. Creatura complessa, Prometeo, ambigua creazione mitica, nella quale ben si condensa lo spirito originario dell'hybris. Che è soprattutto rivolta, e poi anche affermazione orgogliosa di alternative possibili a quelle stabilite. Prometeo si rivolta al disegno di eliminazione del genere umano e lo protegge. Il fuoco deve essergli concesso. Il dono però gli costa carissimo: Zeus lo condanna per l'eternità (alla rupe e al Tartaro), mentre a lui resta il nobile marchio di trickster e un'intera progenie di imitatori, gli spiriti prometeici di ogni tempo. Peggior sorte tocca ad altri pervasi dal soffio dell'hybris. Dipende sempre da chi li elegge protagonisti di proprie storie. Se è un tragico del V secolo a. C, dopo Eschilo,  Sofocle per esempio, allora la sua hybris è ancora diversa. Si declina anch'essa in forma altruistica (Edipo, perché è di lui che stiamo parlando, libera i Tebani dalla mostruosa Sfinge), ma poi prende una piega per così dire personale: Edipo vuole evitare il proprio destino, il cerchio di ferro del fato, di fronte al quale persino gli dei devono arretrare d'un passo. E così, nel tentativo di riscrivere di suo pugno la propria storia, nonché in quello, analogamente ribelle, di conoscere se stesso come avrebbe potuto essere se non fosse stato come invece è, si perde del tutto. L'accecamento fatale è quello che gli dei hanno predisposto in ossequio ai disegni del destino. Non sia mai, uomo, che tu gli sfugga. L'elenco delle vittime di hybris è lungo, e non è l'argomento di oggi. Perché Dante Alighieri, con e nella sua Divina commedia ha sfidato l'hybris. La faccenda è spinosa, lo capisco. Aiuta il fatto di poter usare due lingue, per quanto imparentate, che generano sottili distinzioni. Il Dante che conosciamo meglio noi, l'auctor/agens che ha passeggiato nell'inferno, su poltiglie e sabbioni arroventati, ha cavalcato il mostro Gerione, è volato chissà come fino alla porta del purgatorio e infine  attraverso le sfere rotanti è approdato all'empireo nel gran mare dell'essere, quel Dante avventuroso e sommo è un Ulisse redivivo, ma soprattutto un Ulisse che non può naufragare, perché colui dal quale dipende la sanzione per qualsiasi hybris sta dalla sua parte. Ecco perché Dante può permettersi di sfidare l'hybris, di compartecipare di due nature, per così dire, quella dell'Auctor-Dio-che sfida se stesso e quella dell’umano che, quando si comporta presuntuosamente, cade nel pozzo profondo, nel gorgo fatale e rischia di non tornare mai più su. L’agens è umano,  e quando l’hybris lo possiede, si guarda allo specchio e vede la faccia di Ulisse, al quale dedica non per nulla un intero canto, dove allora torniamo anche noi  per ricordare un folle volo, nel corso del quale l’hybris ha realizzato fino in fondo il suo compito omicida, di sollevare in alto qualcuno e di farlo poi sprofondare per sempre, nell’oscurità della morte secunda.

Il canto XXVI dell’Inferno succede a quello delle metamorfosi sublimi dei ladri, in cui Dante gareggia arditamente (variante minore di hybris rivaleggiare con un sommo poeta precedente) con Ovidio.  Il luogo è la bolgia dei fraudolenti, ottava dell’VIII cerchio, consiglieri che mirano a ingannare, distorcendo la nobile funzione dell’intelletto deputata a elargire consigli, in una  direzione maligna e malevola. Il meccanismo della distorsione dei doni divini sembra essere uno di quelli prevalenti nell’edificio concettuale che presiede all’ordine infernale. Il canto ha inizio con una violenta invettiva contro Firenze, che determina ramificate intertestualità, di cui elenco le più appariscenti:  in direzione del VI canto della medesima cantica, con il fiorentino Ciacco che delinea laconico la terribile condizione morale della città; del X con le recriminazioni di Farinata sul comportamento dei fiorentini nei confronti della sua famiglia; e in direzione del Paradiso fino ai canti centrali dedicati all’investitura poetica di Cacciaguida. Il paesaggio è quello al solito smisurato dell’incredibile pozzo infernale: dal basso l’agens vede salire delle fiamme, che da principio danno luogo a una similitudine persino piacevole: l’effetto è quello di una campagna smisurata che si riempie di lucciole sotto lo sguardo stupito del contadino. Queste lucciole, però sono in realtà fiamme, nelle quali ardono per l’eternità, nascoste appunto in esse, anime che hanno praticato quest’arte dell’occultamento, la fraudolenza, a danno di altri. Fra tutte una attira l’attenzione dell’agens¸ per una peculiarità: è biforcuta, si divide in due, sembra contenere non una ma due anime. Viene subito confermato da Virgilio che così è, e che si tratta di Ulisse e Diomede. Nessuno più adatto di lui, che ne scrisse, per riconoscerli in quella bolgia in cui tutto concorrerebbe a impedire la vista. Tralascio altri dettagli, per arrivare al punto che mi interessa: la fiamma biforcuta, a un richiamo di Virgilio (che tiene a essere il tramite del contatto, sottolineando il fatto di rivolgersi loro in veste di poeta), si avvicina e parla: uno solo dei due corni della fiamma, come li definisce l’auctor,  ossia appunto Ulisse, risponde e inizia a raccontare una storia memorabile, una storia che non era stata ancora scritta da nessuno su di lui, personaggio sul quale avevano esercitato la propria fantasia così tanti poeti. La storia di Ulisse è un non detto ancora che trova finalmente il luogo deputato per prendere la via dell’aria e della memoria: non era ancora stato detto da nessuno che Ulisse, a Itaca, non era tornato per sempre, ma solo per un po’. Il non detto che ora si fa strada grazie all’autore della Divina commedia, tessitore di sogni quant’altri mai, è quello di un viaggiatore inappagato che non può permettersi di stare quieto davanti a un focolare, lasciandosi incanutire. Perciò a un certo punto riparte. Con un manipolo di compagni, quelli che sono rimasti, e parte per una nuova avventura. Anzi, parte per l’Avventura, quella per la quale vale la pena esistere: superare i confini, varcare il limes del noto per incedere nell’ignoto. Il viaggio dell’Ulisse di Dante, il protagonista della storia inaudita, vuole compiersi oltre le colonne d’Ercole e, ecco l’hybris che si manifesta, mostrare quello che gli dei hanno stabilito che gli esseri umani non possano conoscere mai. Il momento del superamento del limes è segnato dal celebre discorso, l’orazion picciola  con l’ancor più  celebre terzina che suona Considerate la vostra semenza, fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza, che convince i compagni vecchi e tardi di Ulisse a seguirlo in quest’ultimo azzardo, non a caso definito da lui stesso un folle volo, conducendo la rotta della nave nel grande mare mai solcato da alcuno. Virgilio gli aveva chiesto di dire dove fosse morto, e Ulisse onora la domanda, con un sobrio eppur patetico resoconto di ciò che avviene una volta che, superate le colonne d’Ercole e viaggiato ancora un poco, avvistano un luogo che non dovevano vedere, l’isola del purgatorio, un luogo metafisico, un altro luogo, la cui vista genera gioia,  Noi ci allegrammo, recita il testo, pronta a convertirsi in pianto: un turbine travolge la nave, che sprofonda in un gorgo con la poppa verso il basso, andando a precipitare, immaginiamo, direttamente all’inferno.
Da questo gorgo promana nuovo non detto: non parla più Ulisse, tanto meno  Diomede, né viene spiegato quale sia stato il peccato (sulla fraudolenza solo il fugace accenno all’inganno del cavallo), ma lui riceve la punizione delle punizioni, sembra di capire, per il fatto di aver voluto superare un confine stabilito: vedere la dimensione metafisica senza permesso, prima di essere morti, è una violazione che merita la morte secunda. L’hybris, si è detto,  non risparmia nessuno.

Ora che abbiamo lasciato spalancare sotto di noi l’abisso fatale che accoglie l’imbarcazione di Ulisse e compagni, affrontiamo la spinosa questione che Dante lascia tra le righe, ed è appunto il non detto che stiamo seguendo ora. Chi è l’Ulisse che parla dalle terzine di questo canto XXVI? Rispondo senza esitazione: è un altro nome di Dante, è Dante medesimo. C’è un’altra intertestualità che aiuta ad arrivare a questa risposta: la parola folle che risuonava nel  II canto, verso 35, temo che la venuta non sia folle¸ quando Dante esprime a Virgilio apparso per convincerlo a farsi guidare da lui in una parte dell’aldilà, i suoi dubbi sulla liceità di questo viaggio. Ebbene, Ulisse è il folle, trasponendo direttamente a lui l’aggettivo, che ha compiuto l’azzardo, la sfida, nei confronti del divino. Dante non a caso in questo canto tace quasi sempre, ascolta per lo più la voce di un suo alter ego che non ebbe la sorte sua: quella di ottenere autorizzazione, imprimatur, giustificazione, avallo, da parte di un ente superiore, Dio che gli ha parlato e l’ha soccorso attraverso Beatrice nella selva oscura. Il non detto, che a questo punto inizia a rendersi udibile, è il viaggio stesso, come si sta compiendo attraverso la lettura, e come si è già compiuto nella memoria di Dante, l’Autore, che poi è anche l’inventore della storia di Ulisse che ora stiamo decifrando. Detto e non detto, nell’ottica di colui che si è inventato tutto.

 Il secondo filo che stiamo tenendo in mano è però anche quello della sfida all’hybris intentata da Dante. Se l’agens è persuaso di essere aiutato da Virgilio in inferno e purgatorio, come lo sarà da Beatrice e poi infine da Bernardo in paradiso, l’auctor che sta scrivendo di tutto questo, del sogno o visione che qualcuno (Qualcuno) gli ha (spera) concesso, fatica a lungo a convincersi di non star commettendo un atto punibile con la morte secunda. Un ancestrale timore di un deus absconditus che a un certo punto interviene a folgorare il tracotante aleggia persino nell’empireo, dove ora ci spostiamo. Proprio al centro della cantica Paradiso si colloca la cosiddetta triade di Cacciaguida. Sono i canti XV, XVI e XVII, nei quali Dante decide di togliersi una volta per tutte il dubbio che pur sempre lo attanaglia, fin dai primi passi in inferno dopo l’apparizione pur salvifica del fioco maestro Virgilio.

 

DAL XV AL XVII

 Il canto XV si apre con una similitudine musicale, poiché il cielo di Marte, al quale Beatrice e Dante sono ascesi nel XIV, è particolarmente caratterizzato in questo senso. Marte nel Convivio è associato alla musica anche perché, essendo lo mezzo di tutti i cieli mobili, la sua perfetta centralità significa proporzione perfetta delle parti tra loro e col tutto, perfetta armonia.

Benigna volontade in che si liqua

sempre l’amor che drittamente spira,

come cupidità fa ne la iniqua, 3

silenzio puose a quella dolce lira,

e fece quïetar le sante corde

che la destra del cielo allenta e tira. 6

Come saranno a’ giusti preghi sorde

quelle sustanze che, per darmi voglia

ch’io le pregassi, a tacer fur concorde? 9

 

Vi si legge che la volontà di fare il bene, in cui si manifesta sempre l’amore che è ispirato a Dio, come la cupidigia dei beni terreni si risolve in male, fece tacere quell’accordo di voci che la mano di Dio armonizza. Come potrebbero essere sorde alle giuste preghiere quelle anime che, per indurmi a domandare, furono unanimi nel tacere? Merita l’inferno, conclude la riflessione l’auctor, chi per amore delle cose terrene si priva dell’Amore di Dio che informa così di sé il paradiso. Si apre quindi una similitudine con le cosiddette stelle cadenti, che attraversano d’un lampo il cielo estivo, paragonate al movimento d’una luce al quale ora assiste l’agens: è un’anima di quelle disposte a formare la croce (di cui ci ha detto  nel canto precedente) che si muove lungo gli assi (da destra al centro e da lì verso il basso), suscitando la stessa percezione visiva di una fiamma dietro a una lastra di alabastro (la similitudine di cui sopra si raddoppia).

«O sanguis meus, o superinfusa gratïa Deï,

 sicut tibi cui bis unquam celi ianüa reclusa?». 30

Viene evocato così il personaggio di Anchise, sollecito a venire incontro al figlio Enea nei campi Elisi (vv. 25-27): la fugace citazione virgiliana, in lingua originale,  svolge evidentemente la funzione di preparare al clima di un incontro di Dante con la propria ascendenza, complice tra l’altro proprio colui che, per le due cantiche precedenti, ha svolto una funzione paterna nei suoi riguardi “O sangue mio, in cui la grazia divina è copiosamente infusa, a chi mai come a te è stata dischiusa due volte la porta del cielo?” L’anima dice cose talmente profonde ed esoteriche che l’agens non le comprende: non si tratta di una scelta di chi sta parlando, ma di un effetto reso necessario dagli argomenti che superano la capacità di comprensione della mente umana. Le prime parole comprensibili dell’anima suonano come un inno di ringraziamento al signore trinitario. Dopo aver notato che Dante, convinto che l’anima legga in Dio e in lui, non gli domanda perché egli paia più gaudioso di altre anime di vederlo lì, conferma che tutte le anime in effetti contemplano lo specchio divino dove vedono qualsiasi pensiero prima ancora che sia del tutto concepito, ma esorta Dante a proferire la domanda a voce alta, a far risuonare nell’aria il suo desiderio di sapere. Dante, esprime all’anima (vivo topazio) il desiderio di conoscere il suo nome. L’incipit della risposta suona come una citazione di Matteo, III, Hic est filius meus dilectus in quo mihi complacui, intrecciata con una metafora arborea, da cui risulta che Dante sia la fronda di un albero (con sottintesa similitudine con l’albero genealogico) di cui l’anima che parla è la radice. Prima di dire il proprio nome (al verso 135), inizia una lunga digressione attraverso la quale dipinge vita e costumi di Firenze alla propria epoca, ovvero prima dell’incresciosa degenerazione che la rese quell’infernale città dove “giusti son due, e non vi sono intesi” (v. 73 del VI Inferno, parole di Ciacco alla domanda di Dante se sia rimasto qualche giusto nella Firenze del suo tempo). Inizia riferendosi al proprio figlio e bisavolo di Dante (lui, quindi, è un trisavolo), che è in purgatorio e per il quale l’agens può pregare. La Firenze pacifica, onesta, regolata secondo il campanile del borgo. Il poeta inanella ben 9 negazioni (le cosiddette comparationes per contrarium) attraverso le quali si può veder emergere appunto la negatività della Firenze contemporanea, dov’è vero tutto quello che non lo era nell’antica. Figure esemplari, frugalità e semplicità di costumi: Bellincion Berti, della famiglia dei Ravignani, era un ragguardevole personaggio della Firenze del Duecento, sobrio e costumato. Le donne della Firenze del Duecento erano contente di filare la lana, erano sicure di morire nella propria terra e di non essere lasciate sole dai mariti. In quella Firenze, non esistono donne corrotte come Cianghella, figlia di Arrigo della Tosa vissuta disonestamente e morta nel 1330, e uomini disonesti e faziosi come Lapo Salterello. Finalmente si presenta: venne battezzato come Cacciaguida nel battistero fiorentino, ebbe due fratelli, sposò una donna della valle padana da cui derivò il cognome della famiglia (nel senso che il cognome della moglie venne trasmesso come nome al primo figlio, Alighiero, e rimase poi come nome di famiglia). Nel 1147 seguì l’imperatore Corrado III di Svevia nella seconda crociata in Terrasanta (durata fino al 1149 e guidata da Corrado e da Luigi VII di Francia), dove morì. Cacciaguida è dunque il trisavolo, crociato, di Dante, vissuto quasi due secoli prima di lui. La sua condizione celeste è quella di trovarsi fra gli spiriti combattenti per la fede, e anche sotto questo profilo la scelta di assegnare a lui il compito di fugare per sempre il sospetto di hybris risulta espressione di un simbolismo non solo esteriore: occorre credere molto in Dio (e in se stessi) per portare a termine un progetto così grandioso come il poema che stiamo leggendo. Il momento fatale della triade di Cacciaguida si svolge interamente nel canto XVII, al quale dunque ora riservo una più puntuale analisi. Inizia con un omaggio a Ovidio, attraverso l’evocazione di un mito da lui trattato nel I libro delle Matamorfosi: la tragica storia di una paternità che culmina con l’esemplare punizione del figlio, condannato a morte, e non è certo un caso, per hybris. Protagonisti del dramma sono il Sole (Apollo) e  Fetonte, semidio, nel cui animo qualcuno (l’amico Epafo, durante un diverbio)  insinua il sospetto di non essere davvero figlio di Apollo. L’evento mitico fugacemente evocato predispone all’intendimento dello stato d’animo dell’agens che istituisce un’analogia fra le parole pungenti di Epafo all’amico Fetonte e le profezie post factum ascoltate in inferno. Vuole sapere se fossero vere. Niente di meglio di  un’analessi (ai versi 19-23), può riportare all’indietro fino al purgatorio e all’inferno, per rievocare le profezie post factum che hanno scosso l’agens, benché “tetragono” ossia cubico (termine aristotelico che designa la saldezza morale, giunto a Dante attraverso Tommaso d’Aquino) ai colpi della sorte.

19 Mentre ch’io era a Virgilio coniunto

su per lo monte che l’anime cura,

e descendendo nel mondo defunto,

 

22 ditte mi fuor di mia vita futura

parole gravi, avvegna ch’io mi senta

ben tetragono ai colpi di ventura.

 

25 per che la vollia mia seria contenta

d‘intender qual fortuna mi s’appressa:

chè saetta previsa vien più lenta.

 

28 Così diss’io a quella luce stessa,

che pria m’avea parlato; e, come volle

Beatrice, fu la mia vollia confessa.

 

31 Non per ambage, in che la gente folle

     Già s’invescava, pria che fusse anciso

     L’Agnel d’Iddio che le peccata tolle;

 

34 ma con chiare parole, e con preciso8

     latin rispuose quello amor paterno,

     chiuso e parvente nel suo chiaro riso:

 

 

In un soprassalto di spirito pratico, così la mette l’agens, tiene a conoscere il destino, dato che i colpi previsti vengono più lenti  nel senso che ci si può preparare a sostenerli (si tratta proprio di un detto proverbiale corrente in epoca medievale). Cacciaguida questa volta  non si perde in ambigue parole (la gente folle cui allude a un certo punto  sono i pagani che, prima della venuta di Cristo, si affidavano ai responsi tortuosi e ambigui della Sibilla Cumana; inviscarsi è verbo venatorio, che allude al cadere nella trappola del vischio, come gli uccelli). I versi 37 e seguenti rappresentano una sorta di preambolo dottrinale sui paradossi della predestinazione: evidente, nell’immagine della nave che scende per il torrente e non è condizionata, nel suo discendere verso il mare, da chi la guardi, un rimando intertestuale a Paradiso, III, 85-87 (quando Piccarda spiega che la loro volontà di beati è perfettamente in consonanza con la volontà divina, che è quel mare al qual tutto si move ciò ch’ella cria o che natura face). L’immagine poi è sinestetica: da Dio, che prima è un quaderno (vista), poi un  organo (inteso come strumento musicale, implicando quindi l’udito) arriva la musica del futuro di Dante. Dalla Fedra di Seneca e dal testo ovidiano proviene poi  l’evocazione dell’ingiusto esilio di Ippolito da Atene (noverca è sostantivo generato da novus). Nella terzina 49-51 torna il tema della chiesa corrotta, ovvero in particolare di Bonifacio VIII. Cacciaguida quindi procede con quella che possiamo considerare la profezia delle profezie[1], con la quale si compie l’investitura poetica di Dante e, una volta per tutte, l’hybris, o meglio, la sua inevitabile punizione, viene scongiurata.

 

37 La contingenzia, che fuor del quaderno

     de la vostra materia non si stende,

     tutta è dipinta nel cospetto eterno.

 

40 Necessità però quinde non prende,

     se non come dal viso in che si specchia

     nave, che per torrente giù discende.

 

43 Da indi, siccome viene ad orecchia

     dolce armonia d’organo, mi viene

     a vista ’l tempo che ti s’apparecchia.

 

46 Qual si partì Ipolito d’Atene

     per la spietata e perfida noverca;

     tal di Firenze partir ti convene.

 

49 Questo si vuole, e questo già si cerca,

     e tosto verrà fatto a chi ciò pensa

     Laddove Cristo tutto si commerca.

 

52 La colpa seguirà la parte offensa

     in grido, come suol; ma la vendetta

     fi’ testimonio al ver, che ella dispensa.

 

55 Tu lascerai ogni cosa diletta

     più caramente; e questo è quello strale,

     vhe l’arco de l’esilio pria saetta.

 

58 Tu proverai siccome sa di sale

     lo pane altrui, e com’è duro calle

     lo scender e salir per l’altrui scale.

 

61 E quel, che più ti graverà le spalle,

     serà la compagnia malvagia e scempia,

     co la qual caderai in questa valle,

 

64 che tutta ingrata, tutta matta et empia

     si farà contra te; ma poco appresso

     ella, non tu, n’ avrà rossa la tempia.

 

67 Di sua bestialità il suo processo

     farà la prova, sicch’a te fi’ bello

     averti fatto parte per te stesso.

 

70 Lo primo tuo refugio e ’l primo ostello

     serà la cortesia del gran Lombardo,

     che in su la Scala porta il santo uccello.

 

73 Ch’avrà in te sì benigno riguardo,

     che del fare e del chieder tra voi due

     pria sarà quel, che tra li altri è più tardo.

                                               [...]

94 Poi iunse: Fillio, queste son le chiose

     di quel che ti fu detto: ecco le insidie,

     che dentro a pochi giri sono ascose.

 

[...]

 

106 Ben veggio, padre mio, siccome sprona

     lo tempo verso me, per colpo darmi

     tal, ch’è più grave a chi più s’abbandona;

 

109 Però di providenzia è buon ch’io m’armi,

     sì che, se ’l loco m’è tolto più caro,

     io non perdesse li altri per mie carmi.

 

112 Giù per lo mondo senza fine amaro,

     e per lo monte, del cui bel cacume

     li occhi de la mia donna mi levaro,

 

115 e poscia per lo Ciel di lume in lume

     Ò io appreso quel che, s’io ridico,

     a molti fi’ sapor di forte agrume.

 

118 E s’io al vero sono intimo amico,

     Temo di perder viver tra coloro,

     che questo tempo chiameranno antico.

 

121 La luce, in che ridea lo mio tesoro,

     ch’io trovai lì, si fe prima corusca,

     quale a raggio del Sol lo specchio d’oro;

 

124 indi rispuose: coscienzia fusca

     o de la propria o de l’altrui vergogna,

     Pur sentirà la tua parola brusca.

 

127 Ma non di men, rimossa ogni menzogna,

     Tutta tua vision fa manifesta,

     E lassa pur grattar dov’è la rogna:

 

130 chè se la voce tua sarà molesta

     Nel primo gusto, vital notrimento

     Lasserà poi, quando sarà digesta.

 

133 Questo tuo grido farà come ’l vento,

     che ’n più alte torri più percuote;

     e ciò non fa d’onor poco argomento.

 

136 Però ti son mostrate in queste ruote,

     nel monte e nella valle dolorosa

     pur l’anime che son di fama note:

 

139 che l’animo di quel, ch’ode, non posa,

     nè ferma fede per esemplo, ch’àia

     la sua radice incognita et ascosa,

142 nè per altro argomento che non paia.

 

L’eloquio forbito di Cacciaguida filtra il tragico e l’amaro degli anni d’esilio che l’auctor sta vivendo: trova così spazio l’elogio di Cangrande Della Scala, splendido e munifico ospite, provvisto dell’arte rara di prevenire ogni richiesta e immaginarne in sovrappiù, e persino la compensazione di una crescita morale dell’esiliato che si trova a far parte per se stesso e a prendere le distanze da chi,  di sua bestialità [...] avrà rossa la tempia, ovvero tutti i fuoriusciti fiorentini. Infine, la richiesta che attendevamo per scongiurare l’hybris: ai versi 110-111, esplicita il timore di perdere, oltre al  loco [...] più caro, ossia Firenze, anche  li altri [luoghi] per miei carmi. Con altri si riferisce quindi a possibili ulteriori bandi, ma è soprattutto il timore di  perder viver tra coloro,  che questo tempo chiameranno antico a spingerlo a insistere con il trisavolo perché autorizzi tutte le sue rivelazioni. Si capisce, allora, quale possa essere la specifica forma di punizione prevista per l’hybris nel suo caso, quale insomma sia l’incubo  del Dante auctor che si sfida in quanto Dio della creazione: perder viver nel futuro, presso i posteri, essere dimenticato da noi che leggiamo, smettere di esistere davvero per sempre. Senza timore di commettere sacrilegio, sostengo che la morte secunda per un poeta è senz’altro l’oblio dei suoi versi. Per questo Cacciaguida deve ancora aggiungere qualcosa di definitivo, ovvero che questa poesia è addirittura un     grido, che  farà come ’l vento,     che ’n più alte torri più percuote;     e ciò non fa d’onor poco argomento. Solo con queste parole definitive, che equiparano la poesia al soffio divino, che unde vult spirat (ossia spira da dove vuole, come si legge sempre nel Vangelo di Giovanni) il poeta si sente finalmente pacificato con se stesso e, per chiudere il nostro cerchio, con quell’immagine allo specchio di Ulisse che sprofonda nel gorgo infernale. Quella di Dante auctor/agens, ora ne siamo sicuri anche noi, è un’allegrezza che non diventerà pianto, ma potrà  risuonare come un riso perfetto per tutto l’empireo, ovvero per sempre.

 

 

 



[1] Nell’ordine le profezie post factum sono le seguenti: 1) Inferno, X, FARINATA 2) Inferno, XV BRUNETTO 3) Inferno, XXIV VANNI FUCCI 4) Purgatorio, VIII CURRADO 5) Purgatorio, XII, ODERISI



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